"Notizia è tutto ciò che i giornalisti ritengono tale". Dunque proviamo: "giornalista è chiunque faccia il giornalista'. E fin qui, tutti d'accordo. Ma cosa vuol dire fare il giornalista? Essere pagati da un editore per una prestazione giornalistica, come redattori dipendenti della società che edita la testata o come free lance. È così? No. L'ordinamento giuridico italiano non concede nulla alla logica. Tra il dire e il fare, qui, c'è di mezzo l'Ordine dei giornalisti. Unico caso in Europa (con qualche analogia per la verità con il Portogallo, per ragioni storiche che vedremo più avanti), per esercitare la professione giornalistica in Italia è necessario essere iscritti all'Ordine dei giornalisti. Prima ancora, per diventare giornalisti professionisti, bisogna svolgere 18 mesi di praticantato presso una redazione e superare poi un esame a Roma. Altrimenti, se non si svolge in modo esclusivo la professione giornalistica ma si collabora - in modo continuativo e retribuito - con una testata, si diventa giornalisti pubblicisti. L'abuso del titolo di giornalista al di fuori dei confini e delle condizioni stabilite dall'Ordine in Italia è addirittura un reato.
Deontologia di Stato?
Che funzione ha l'Ordine dei giornalisti? Principalmente, si occupa del rispetto della deontologia professionale. Il Consiglio nazionale dell'Ordine ha poteri disciplinari e sanzionatori nei confronti di tutti gli iscritti. Le violazioni deontologiche possono essere punite con un richiamo formale ma anche con la sospensione e nei casi più gravi con la radiazione dall'albo. Il che, naturalmente, comporta qualche problema per chi vive di questo mestiere. È tuttavia abbastanza evidente che la deontologia, in un mestiere che tratta sostanzialmente di opinioni, sia materia piuttosto difficile da stimare e canonizzare in un codice. D'altra parte se i giornalisti, nell'esercizio della loro professione, commettono un reato, per questo c'è la magistratura e i tribunali. Se non si tratta di un reato, ma solo di una scelta editoriale contestabile da parte di un redattore o di un comportamento criticabile dal punto di vista etico, per questo ci sono i lettori e il direttore responsabile, che faranno da giudici. E saranno giudici molto più temibili per un giornalista che non un consigliere dell'Ordine. Un direttore può licenziare un giornalista che si sia reso colpevole di un comportamento scorretto. E i lettori possono abbandonare un giornale che non rispecchi più i loro valori.
Lasciamo al mercato l'esame dei professionisti
L'Ordine garantisce la qualità del lavoro giornalistico? Uno standard di base della categoria? Assolutamente no. L'esame di Stato per l'accesso alla professione segue criteri anonimi e puramente astratti. Una prova scritta (tra l'altro, con la macchina da scrivere) composta da un elaborato su un tema generico (esteri: la guerra in Libano, esponga il candidato etc., moda: il ritorno dei pantaloni a zampa d'elefante, esponga il candidato etc.) più un riassunto, più dei quiz di cultura (diritto, storia del giornalismo, leggi sulla professione, contratto nazionale). Una prova del genere non ha nulla a che vedere con il mestiere di scrivere un articolo (e tanto meno con quello di chi lavora in una TV o in una radio). A tutto ciò segue una seconda prova, orale.
Il superamento dell'esame dell'Ordine certifica la conoscenza di una serie di nozioni che i commissari (cioè giornalisti, o ex-giornalisti), o meglio quei commissari scelti per quella particolare sessione d'esame, ritengono indispensabili sapere per entrare nell'albo. Tutto qui. Qualità necessarie? Nessuna. La selezione qualitativa dei giornalisti, semmai, la fanno gli editori e soprattutto i direttori dei giornali che hanno tutto l'interesse ad avere un giornalista capace rispetto ad uno lento, che sia praticante, professionista, pubblicista o niente di tutto ciò. Per giunta, nella commissione esaminatrice è presente un magistrato che può fare domande al candidato giornalista. Perché un magistrato deve giudicare l'idoneità di un giornalista?
Molto probabilmente, sembrerebbe curioso se le parti fossero invertite e nella commissione d'esame per entrare in magistratura sedesse anche un giornalista.
Diversamente dalle altre categorie professionali, come i medici, gli ingegneri, i notai, gli avvocati, in cui l'appartenenza all'Ordine prova una conoscenza di base senza la quale non si può esercitare la professione, l'appartenenza all'Ordine dei giornalisti non prova nulla. L'Ordine, però, ha il potere - solo in Italia - di decidere chi diventa giornalista e chi no.
Dentro tutti
Aggiungiamo che l'Ordine dei giornalisti ha notevoli problemi di cassa. Questo ha spinto negli ultimi anni ad allargare abbondantemente le maglie per far entrare nuovi "contribuenti" nell'albo. Così, grazie alla legge 150/2000, anche chi lavora in un ufficio stampa ("giornalista redattore degli uffici stampa nella pubblica amministrazione") ha avuto la possibilità di accedere alla professione, pur svolgendo un lavoro che con la professione giornalistica vera e propria ha poco a che vedere. Il risultato, paradossale, è che in Italia l'anomalia europea dell'Ordine professionale produce una categoria in cui c'è di tutto. Altrove invece, dove non esiste l'Ordine, i giornalisti sono solo coloro che fanno i giornalisti. Punto e basta. Più semplice, e forse anche più onesto.
Altra anomalia italiana, l'esistenza dei pubblicisti. La presenza dell'Ordine non è di per sé garanzia di una definizione chiara del profilo professionale. I pubblicisti, secondo quanto prescrive la legge istitutiva dell'Ordine, dovrebbero attenersi in linea teorica all'elaborazione di uno scritto destinato alla pubblicazione, mentre il "giornalista professionista" si occuperebbe anche di attività di editing che vanno dall'impaginazione, alla titolazione e alla cura della grafica. In realtà nella pratica nelle redazioni questa distinzione perde di significato. La categoria dei pubblicisti però è quella più numerosa e rappresenta quindi una leva essenziale per dare senso e linfa vitale all'Ordine dei giornalisti. Che ricambia i pubblicisti con l'omaggio del famoso tesserino.
Il Cnel:”liberalizzare la professione”
Piuttosto superfluo, se non inutile, costoso, che ce ne facciamo dunque dell'Ordine dei giornalisti? Il Cnel nel '93 ha studiato la questione nel "Libro bianco sulle professioni in Europa'. Dal lavoro degli esperti del Consiglio nazionale del lavoro emerge chiaramente che l'Ordine dei giornalisti, così come è concepito dalla legge italiana, costituisce una barriera oggettiva alla professione e anche al lavoro degli altri cittadini in Italia. "È necessaria una riforma che abbia il suo punto focale nel rispetto della pluralità delle voci che abitano il territorio italiano - si legge nel Libro bianco. Punto fondamentale di una riforma proiettata verso il futuro e tale da valorizzare in primo luogo le potenzialità delle nuove generazioni è la riforma dell'accesso. È venuto il momento di una coraggiosa liberalizzazione, che apra la strada della professione a chiunque acquisisca la preparazione necessaria e dimostri con un esame di Stato - com'è stato in passato e come deve continuare ad essere - la capacità di svolgere l'attività giornalistica in senso professionale. È auspicabile che in futuro sarà giornalista chi ne ha la preparazione ed eserciterà questa professione chi avrà la capacità di operare sul mercato". L'Ordine dei giornalisti è un limite ai giornalisti stranieri che, in Italia, non possono per esempio diventare direttori di un giornale se non iscritti all'albo italiano. Mentre per esempio - altra peculiarità italiana - un politico può essere direttore di un giornale anche se non è giornalista. La questione fu oggetto nel 2002 di un'interrogazione al Parlamento europeo del radicale Benedetto Della Vedova, dopo che l'Ordine dei giornalisti aveva negato la possibilità al giornalista francese Claude Marie Jeancolas di diventare direttore delle riviste italiane "Gente Casa' e "Spazio Casa", edite da Hachette-Rusconi, perché non iscritto né all'albo dei professionisti né a quello dei pubblicisti italiani.
Le scuole
Le scuole di giornalismo non sono una realtà solo in Italia. Ma in Italia hanno un funzione speciale, che concede all'Ordine ulteriori poteri. Perché solo qui le scuole sono equiparate al periodo di praticantato svolto in una redazione, merce altrimenti rarissima. A partire dal 1990, il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti ha riconosciuto l'ammissione agli esami di idoneità professionale e quindi l'accesso alla professione anche a chi abbia svolto il praticantato in pubblicazioni edite da scuole convenzionate e riconosciute dall'Ordine dei Giornalisti. Oggi le scuole riconosciute in Italia sono diciannove in tutto il territorio nazionale di cui quattro a Milano, una ad Urbino, una a Bologna, una a Perugia, tre a Roma, una a Palermo, una a Napoli, una a Sassari, una a Torino, una a Padova, una a Potenza, una a Bari, una in Toscana e una a Salerno. Alcune gestite
direttamente dall'Ordine, come l'Ifg di Milano, altre dalle Università. Le lauree specialistiche non valgono come praticantato e dunque, ai fini della professione, non servono a nulla.
Ora, è difficile pensare che due anni sui banchi di una scuola equivalgono al lavoro in una redazione. Le scuole di giornalismo in Italia finiscono col creare più illusioni che posti di lavoro, ma certo assicurano un lavoro a giornalisti e consulenze di professionisti che nelle scuole insegnano.
Basta e avanza il sindacato
L'Ordine garantisce il rispetto del contratto nazionale di lavoro nelle aziende? No, per questo c'è il sindacato, come in tutti gli altri paesi europei in cui invece non c'è traccia di un Ordine o dove addirittura l'attività giornalistica non è considerata una professione alla stregua delle altre.
Liberalizzare il mestiere di giornalista in Italia non può che partire dunque da una profonda riforma dell'accesso alla professione. Il tema dell'abolizione dell'Ordine fu oggetto di un referendum promosso dai Radicali nel 1997 e bocciato per mancanza del quorum (i sì furono però il 65,5%). Ma non sorprende che una questione che riguarda solo una categoria appassioni poco gli elettori. Sull'idea invece, specie negli ultimi tempi, sembrano convergere esponenti politici altrimenti lontani tra loro, come Massimo D'Alema (giornalista professionista) e Gianfranco Fini (giornalista professionista). Recentemente, Daniele Capezzone e Michele De Lucia hanno presentato una proposta di legge tesa a superare 1) Ordine,
supportata da un appello sottoscritto da numerosi giornalisti, tra cui i direttori de Il Giornale Maurizio Belpietro, Italia Oggi Franco Bechis, Radio Radicale Massimo Bordin, Liberazione Piero Sansonetti.
L'albo dei giornalisti: idea di Benito Mussolini
L'Ordine dei giornalisti nasce nel 1963 con la legge "Gonella". Ma l'Ordine dei giornalisti viene "inventato" per la prima volta dal fascismo, nel 1925, con l'art. 7 della legge sull'organizzazione dell'attività giornalistica nell'ambito dell'ordinamento corporativo che prevede appunto l'istituzione di un Ordine dei Giornalisti (mai diventato operativo durante il regime di Mussolini). Il regio decreto del '28 istituisce l'Albo professionale dei giornalisti presso ogni sindacato regionale fascista dei giornalisti. Il regio decreto rimane sostanzialmente in vigore fino al 1965 quando diventa operativa la nuova legge professionale. Già nel '28 si prevedeva che l'Albo dei giornalisti fosse suddiviso in tre distinti elenchi: i professionisti (cioè coloro che da almeno 18 mesi esercitavano esclusivamente la professione giornalistica), i praticanti (coloro che pur esercitando esclusivamente la professione non avevano raggiunto l'anzianità di 18 mesi o i 21 anni di età) e i pubblicisti (coloro che esercitavano, oltre all'attività retribuita di giornalista, anche altre attività o altre professioni). Qualcosa di molto simile all'ordinamento attuale.
Benito Mussolini era giornalista (fu direttore dell'Avanti e poi del Popolo d'Italia) ed era consapevole dell'importanza del loro contributo alla edificazione dello stato totalitario. Quando istituì il sindacato fascista dei giornalisti gratificò la categoria con privilegi, premi e garanzie contrattuali uniche nel mondo del lavoro. I giornalisti godevano di un mese di ferie l'anno quando la norma era di una settimana per tutte le altre categorie. Non erano stabiliti minimi di stipendio ma il licenziamento di un giornalista costava all'editore una liquidazione straordinaria di sei mesi dello stipendio per il redattore ordinario, nove mesi per il redattore capo, dodici mesi per il direttore o il vicedirettore. Esattamente come oggi. L'odierno Ordine dei giornalisti è una delle tante cose sopravvissute al fascismo. L'iscrizione all'albo dei giornalisti richiedeva "sicuri requisiti culturali, morali e patriottici, permette selezione severa e disciplina, garantisce l'esclusiva professionale". Visto così, l'Ordine dei giornalisti come garante della deontologia non è poi tanto rassicurante.
Come funziona altrove
Nel resto d'Europa la professione è governata da logiche prevalentemente associativo-sindacali, anche se non mancano iniziative di regolazione professionale con il concorso di autorità pubbliche. In Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Regno Unito il giornalismo non è considerata una professione. In Belgio, Francia, Norvegia, Portogallo è attività professionalizzata ma l'abilitazione è affidata alle organizzazioni sindacali, in alcuni casi attraverso commissioni miste in cui sono presenti gli editori (Belgio e Francia) o solo i giornalisti (Norvegia, Portogallo). In Austria, il titolo abilitante è rilasciato da una Commissione mista editori-giornalisti con il visto del Ministero degli Interni. Nella stragrande maggioranza di questi Paesi esistono scuole e facoltà di giornalismo, la cui frequenza non è però obbligatoria per svolgere l'attività giornalistica e non equivale al periodo svolto in una redazione per fare la pratica necessaria all'abilitazione (quando è richiesta). Rispetto all'Italia, nel resto d'Europa dunque il giornalismo non è considerato una libera professione alla stregua dell'avvocatura, della medicina, dell'ingegneria.
In Francia l'attività giornalistica è regolamentata da norme di legge, con il rilascio di un documento di identificazione da parte di una commissione statale. Non esiste un Ordine professionale; per esercitare il lavoro di giornalista non viene richiesto un titolo di studio specifico, mentre è necessario aver svolto un periodo di praticantato di almeno due anni. L'art. 762-1 del codice del lavoro francese dà la definizione legale del giornalista. "Giornalista è colui che ha per professione principale, abituale e retribuita, l'esercizio della sua professione in una o più pubblicazioni, quotidiane e periodiche o in una o più agenzie di stampa e da cui ricava la sua entrata principale". In conclusione l'esercizio della professione giornalistica in Francia è libero.
In Germania non è presente alcuna forma di regolazione della professione da parte dello Stato, né forme di protezione del titolo professionale di giornalista. Chiunque può titolarsi giornalista e può svolgere attività giornalistica professionalmente. Non è richiesto dalla legge alcun titolo di studio né generale né specifico. Le assunzioni dei giornalisti sono lasciate agli editori. Tutti i cittadini stranieri, appartenenti alla Unione europea o meno, purché esplichino attività redazionale per due anni, possono essere riconosciuti giornalisti professionisti ed iscritti al sindacato. I criteri di idoneità per lo svolgimento di un lavoro a carattere giornalistico vengono quindi definiti sostanzialmente dagli editori delle varie testate.
Anche nel Regno Unito e in Irlanda la professione giornalistica non è sottoposta ad un controllo normativo di natura pubblica, mentre esistono associazioni private di categoria. Queste associazioni hanno una identità organizzativa complessiva a metà strada tra il sindacato e il club. Di fatto non è previsto un vincolo di adesione ad un'organizzazione specifica per l'esercizio della professione giornalistica, anche se le varie strutture associative mettono in atto specifiche iniziative di promozione e di tirocinio per i propri i scritti.
In Olanda c'è un sindacato unico che raccoglie al proprio interno sia giornalisti dipendenti che free lance, figure tra le quali non sussistono distinzioni particolari in termini di tutela dell'attività. Non esiste un Ordine professionale né una normativa di regolazione dell'attività o del titolo. Esistono accademie di giornalismo, la cui formazione non ha comunque un valore certificatorio in termini professionali.
In Belgio e in Lussemburgo per diventare giornalisti non serve un titolo di studio specifico, solo un praticantato di due anni in una redazione. L'attribuzione del titolo di giornalista dopo questo periodo viene svolta da una Commissione statale. Non esiste un Ordine dei giornalisti.
In Danimarca i giornalisti sono rappresentati da un'organizzazione privata, la Federazione della stampa, che provvede alla tenuta dell'albo. Per diventare giornalisti in Danimarca serve una laurea specifica (4 anni) e poi il superamento di un esame universitario.
In Spagna esiste un organismo privato cui sono iscritti la maggior parte dei giornalisti ed è la "Federazione de la Prensa". Per essere iscritti alla Federazione occorre la laurea in giornalismo. La durata del corso di laurea è di cinque anni; ottenuto il titolo l'iscrizione è consequenziale. Qualora si abbia altra laurea che non sia quella di giornalismo, per essere iscritti occorrono due anni di pratica. Non vi sono esami per l'iscrizione né dopo la laurea, né dopo due anni di pratica. L'Ordine dei giornalisti è stato però recentemente istituito con legge in Catalogna ed è in corso di istituzione nella regione Basca, Navarra, Andalusia, Galizia e Canarie (tutte regioni a statuto autonomo). Ma il quadro complessivo in cui si inseriscono queste forme nascenti di regolamentazione pubblica è quello di una professione esercitata ampiamente secondo modalità svincolate da meccanismi di controllo normativo esplicito.
Il Portogallo è il Paese che si avvicina più all'Italia rispetto all'ordinamento dell'attività giornalistica. Anche in Portogallo la nascita dell'Ordine risale al sistema corporativo instaurato da un regime antiliberale. La corporazione Stampa-Arti Grafiche e Tipografi, cioè dei giornalisti, nasce con dittatore Antonio Salazar e l'inquadramento statale-corporativo di tutte le categorie. Fino al 1974, epilogo della dittatura portoghese, la corporazione faceva parte del Ministero delle Corporazioni. Era obbligatorio essere iscritti alla Corporazione per esercitare la professione. Nel 1974 fu abolito il sistema corporativo. Nel 1979 fu regolato con legge lo statuto professionale dei giornalisti. È possibile esprimere liberamente il proprio pensiero attraverso la stampa, ma non esercitare l'attività giornalistica in forma professionale.
Conclusione
In sostanza si vede chiaramente che nel resto d'Europa (degli Stati Uniti non ne parliamo neppure) l'attività giornalistica è concepita secondo logiche di mercato, associativo-sindacali e organizzative proprie delle aziende editoriali in cui viene svolto il lavoro vero e proprio. Da una parte gli editori dall'altra i giornalisti (tutelati da uno o più sindacati). Lo Stato interviene in rari casi, partecipando alle commissioni che abilitano i giornalisti alla professione. In altri casi, come in Gran Bretagna o in Germania, lo Stato non c'entra affatto.
Potrebbero avere ragione gli "abolizionisti" se l’ Ordine, come pare, non riuscirà ad adeguarsi alle moderne forme di associazionismo presenti nei paesi più evoluti d'Europa. D'altra parte non si vede come possa sussistere un Ordine che è in aperto contrasto con gli indirizzi prevalenti in Europa circa la modalità della professione giornalistica. Né va dimenticato che l'opinione pubblica ha scarsa fiducia nella categoria dei giornalisti, che l'Ordine, recepito come un organismo che tutela i loro interessi corporativi, è un elemento che aumenta la diffidenza.
La proposta dell'Istituto Bruno Leoni è che l'Italia segua il modello più avanzato europeo e apra l'esercizio della professione a tutti coloro che la esercitano di fatto. Il lungo dibattito sulla riforma dell'Ordine, dibattito che non è arrivato a nulla, dimostra l'impossibilità di riformarlo. O forse nasconde proprio la volontà di non volerne fare un'altra cosa, per mantenere posizioni di rendita e di potere di pochi. E questa, di per sé, sarebbe già una buona ragione per lasciarselo alle spalle.
Da IBL Focus n° 32 – 16 agosto 2006
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