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Information is not an optional, but is one of the essential conditions of humanity’s existence. The struggle for survival, biological and social, is a struggle to obtain information. |
L’ informazione non è un connotato facoltativo, ma una delle condizioni essenziali per l’esistenza dell’umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per l’informazione. |
Digitale e Sostenibilità. Sono queste le due parole chiave che, nel momento cruciale che sta attraversando l’Italia e la sua economia in particolare, assumono rilievo per condurre il Paese fuori dalle secche della crisi per il Covid 19 e rendere stabile la crescita, che per il momento si limita ad un rimbalzo dopo il crollo causato dalla pandemia.
La ripresa deve essere dunque sostenuta e rafforzata con interventi che vedano combinate la digitalizzazione della finanza e la sostenibilità.
Del tema si è parlato al convegno “La trasformazione digitale per un’economia sostenibile” organizzato dalla CFX Quantum e dall’Università Guglielmo Marconi di Roma, con la collaborazione di AM Advisor e Stefano Santori Training, tenuto mercoledì 1 dicembre nell’Aula Magna dell’Università, dove sono intervenuti qualificati esperti, imprenditori ed operatori del settore della finanza.
Nel corso del convegno si è argomentato come il PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, debba essere per l’economia il motore dello sviluppo sostenibile e digitale, così come indicato dall’UE.
Occorre infatti mettere mano, finalmente, alla digitalizzazione dei sistemi, dalla Pubblica Amministrazione al settore finanziario, tenendo presente, allo stesso tempo, l’aspetto della sostenibilità.
Le nuove sfide per la ripresa e lo sviluppo devono inoltre confrontarsi con i criteri ESG, Environmental Social and Governance, per investire e produrre rispettando il clima , l’ambiente ed il sociale.
I lavori del convegno si sono articolati in tre sessioni: la prima su ‘Trasformazione digitale e finanza’; la seconda su ‘Sostenibilità della finanza e dell’economia nel mercato attuale’ e la terza che ha visto il confronto tra rappresentanti delle Istituzioni italiane su ‘Il ruolo delle Isituzioni per la sostenibilità dell’economia digitale’.
È stato inoltre dato spazio e rilievo nel convegno alla presentazione dei progetti italiani per la trasformazione digitale e la sostenibilità, che assecondano la trasformazione digitale in Italia, dando impulso ad un presente sviluppo digitale e sostenibile, rispettando il clima, l’ambiente ed il sociale.
Progetti quali ad esempio quello di ReBo (Recyclable Bottle) che è una bottiglia intelligente che ha nel tappo un microchip collegato allo smartphone tramite una app, che incentiva a bere acqua e, ad ogni ricarica di liquido, traccia il risparmio di plastica e finanzia la raccolta di una bottiglia di plastica per ogni bottiglia assunta; oppure quello di Green Stone che è una pavimentazione con piastrelle di porcellana completamente green perché ricavata da scarti di lavorazione; o ancora quello di ESG Portal, è una società che sta mettendo a disposizione delle aziende italiane una certificazione del rispetto dei criteri ESG, Environmental Social and Governance: o infine quello di Enav, l’Ente nazionale di assistenza al volo, che si avvale di tecnologie all’avanguardia per razionalizzare le rotte aeree, che diventeranno più brevi, consentendo rilevanti risparmi di carburante.
Al convegno hanno partecipato inoltre società di finanza decentralizzata, specializzate nell’utilizzo della blockchain per fornire certificazioni, garanzie, risparmio e investimenti, che vengono forniti in forma digitale senza intermediari.
Dai lavori del convegno è emerso che il Paese ha progetti e proposte per la trasformazione digitale, così come auspicato dall’Unione Europea con l’obiettivo di rilanciare l’economia e permettere lo sviluppo digitale e rafforzare la sostenibilità, così come indicato nel PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e prescritto dall’UE.
Di particolare rilievo l’intervento del senatore Adolfo Urso che ha affermato che la transizione al digitale riguarda anche e soprattutto il mondo della Finanza, come emerge dalla stessa attività del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) e dalle cronache di questi giorni sugli hacheraggi e sulle criptovalute. Lo stesso Urso ha concluso augurandosi che l’Italia possa rivendicare la sede della nascente Autorità antiriciclaggio europea, visto che il nostro paese ha tutti i titoli per farlo contribuendo così a migliorare la performance europea in tema di sicurezza.
Sempre sul mondo della finanza digitale è intervenuto Marco Mottana, fondatore della neo bank 01 Quantum, che ha raccontato la genesi e lo sviluppo del suo progetto, che ha come finalità quello di aiutare utenti privati e aziende ad avvicinarsi al mondo della finanza digitale offrendo soluzioni di qualità, efficienti ed innovative, in particolare nel mondo dei sistemi di pagamenti (come ad esempio il lancio di una carta prepagata che integri in un unico sistema integrato la disponibilità di tutti i sistemi di pagamento attualmente disponibili sul mercato). Tali sistemi si fondano su un’infrastruttura blockchain che garantisce anche sicurezza, correttezza e trasparenza delle transazioni.
Di rilievo anche l’intervento del Generale della Guardia di Finanza, Giovanni Padula, che ha sottolineato come sia necessario realizzare un adeguamento normativo tempestivo rispetto al mutevole scenario del mondo finanziario sempre più interessato dall’evoluzione digitale (ad esempio con l’adozione nei pagamenti delle cripto valute), che eviti il rischio di sottovalutare l’opacità intrinseca e le reali minacce/ potenzialità degli attuali sistemi digitali finanziari.
Infine è intervenuto anche Alessandro Toschi, CEO di AM ADVISOR, società di consulenza strategica focalizzata nel management consulting e specializzata in ambito FinTech e Corporate Finance (una delle prime in Italia ad operare nella Finanza Decentralizzata, il che vuol dire criptovalute, blockchain). Toschi ha spiegato inoltre il modello di consulenza di AM Advisor, volto alla creazione di valore per i propri clienti, aiutandoli a crescere attraverso una costante innovazione dei propri servizi, per rispondere alle evoluzioni del mercato e alle pressioni competitive, progettando e implementando soluzioni personalizzate nel mondo della finanza digitale. Lo stesso Toschi ha illustrato nel corso del suo intervento anche il proprio ruolo di board manager e advisor in ESG Portal (del cui progetto abbiamo già parlato), una start up che certifica i requisiti di sostenibilità di aziende grandi e piccole.
Al convegno sono intervenuti tra gli altri, inoltre l’on. Davide Zanichelli, creatore del gruppo interparlamentare ‘Criptovalute e blockchain’, la presidentessa dell’Enav Francesca Isgrò, Mario Scino del Ministero Sviluppo, Maria Siclari dell’Ispra, gli imprenditori Giuseppe Notarnicola, vicepresidente esecutivo STMicroelectronics, Fabio Ruffini Head Investor Relations Inwit, Karim Sghaier manager Serendipity Capital LTD, Marco Mottana CEO Cfx LTD, Alessandro Toschi Board member ESG Portal e i vertici dell’Università G. Marconi Alessio Acomanni, Nicola Formichella e Marcello Condemi.
Per chi fosse interessato e volesse ascoltare l’intero svolgimento dell’interessante convegno riportiamo qui di seguito il link della sua registrazione.
https://www.youtube.com/watch?v=zRO-rFMJKpg&t=9981sù
Stiamo assistendo alla Rivelazione del vero volto del potere e dell'indottrinamento coatto nei confronti del popolo.
...cerchiamo di renderci conto della completa manipolazione mediatica, molto più grande di quello che possiamo immaginare...ogni fattore è calcolato da intelligenze artificiali, ogni nostro pensiero, ogni bene vero. Il cellulare ed il computer vi riportano in collegamento che state già cercando, anche un attimo prima. Ora immaginate un progetto di tutto ciò elaborato in alta tecnologia telematica…. L'inganno appare chiaro soprattutto a chi segue la medicina olistica, metamedicina o altri rami della ricerca verso le Verità sottili, Reali, uniche terapie di autentica guarigione, ma soppresse ed infangate da ordine dei medici, colossi farmaceutici… ed il discorso si allargherebbe a ben altro, osservando che i sentieri del luminoso Sapere interiore, sono da sempre sminuiti e allontanati. Pochi ancora sono grado di divulgare ciò che in corso, ma devono farlo ora affinché la Luce alla fine trionfi. Essere tramiti e divulgare permette ad altri di vederla, e non rimanere schiavi delle tenebre.
In questo momento centinaia di canali si stanno aprendo come in un effetto domino, e riescono a percepire quello che prima era impermeabile, e sentono il peso e la gioia di ciò.
E come cambiare pelle all'improvviso, e noi non forziamo questi canali...semplicemente li rispettiamo e li proteggiamo, nel pieno rispetto del loro aprirsi, a volte a fronte di un laborioso risveglio interiore.
Come un gioco a domino, entro settimane o mesi non importa, l'inganno sarà finalmente svelato.
Già si intravede ciò che era nascosto ed i tentativi di mantenere il declino di una rete malvagia, ormai in disfacimento. E gli angeli messaggeri, fiaccole di luce, sono sempre presenti nell’ordine supremo del Multiverso: il più elevato messaggio spirituale di Verità è già ora a disposizione di tutti, la GSTVB , Organismo Monetario Extraterritoriale appartenente al circuito aggregato monetario "M1".
La GSTVB (VEDI SITO) ha prodotto attraverso l'accettazione contrattuale del Contratto Unilaterale (prot. gstvb-002-2018 del 09 ottobre 2018) la possibilità per tutti i cittadini e gli individui autodeterminati nel territorio della penisola italiana e delle isole appartenenti alla stessa, di creare denaro scritturale denominato in euro fiat.
La procedura (GST© Virtual Bank) per la creazione di moneta scritturale da parte degli individui nasce dalla regolamentazione della stessa in base al contratto unilaterale (prot. gstvb-002-2018), avendo come fondamento, oltre che il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, anche la buona fede e la diligenza del buon padre di famiglia (ndc).
La GSTVB ha inviato in tre sanatorie, fra il dicembre 2019 ed il gennaio 2020, un totale sufficientemente calibrato per estinguere il debito pubblico italiano e l’estinzione di debiti o finanziamenti di tutti i cittadini italiani, contratti entro il 2019.
La GST© Virtual Bank, in seguito all'invio dei fondi per il saldo del debito pubblico dello Stato Italiano, ovvero Republic of Italy, registrazione SEC FOREIGN GOVERNMENT, CIK#: 0000052782 SIC: 8888 (record n.gstvb-ba001-2020 del 13 marzo 2020), essendo divenuta creditrice unica, senza protesto, ha dichiarato il 30 agosto 2020 il COMMISSARIAMENTO dello Stato Italiano, del Governo Italiano, della Repubblica Italiana, della Republic of Italy FOREIGN GOVERNMENT, CIK#: 0000052782 SIC: 8888 e di ogni e qualsiasi ente ed organo ad essi collegato.
Il documento, reperibile nel sito GSTVB (www. https://www.gstvirtualbank.it/ ), viene confermato senza protesto alcuno dall'UCC di WASHINGTON il 30 settembre 2020.
Non hai pagato le tasse o cartelle esattoriali? Nel prossimo breve futuro ci penserà il Fisco, tramite la Green Tax che avrà gli stessi poteri del Green pass. Così sullo smartphone se si accenderà una luce rossa non si potrà andare da nessuna parte, neanche al lavoro fino a che non si sarà pagato il debito con il Fisco.
Fantascienza, fantapolitica? No, questo è il progetto che terrebbe in mente il governo, per cui tutti dovranno pagare subito multe, cartelle esattoriali, ed altri debiti con il Fisco.
E, quindi, quando il falso virus sarà debellato il Green pass si trasformerà in Green Tax. Altro che ganasce fiscali o di ipoteca sulle seconde case sopra il tetto di 20 mila euro, o vendite all’asta dell’immobile sopra la soglia dei 120 mila euro.
Ecco perchè si si insiste tanto sulla vaccinazione anti-Covid. Perchè tutti siano schedati e rintracciabili. Altro che virus!
E se il vaccino provoca ogni giorno morti di giovani ed anziani e disabilità di ogni genere, chissenefrega. Il fine giustifica i mezzi (hanno studiato bene il Machiavelli).
Infatti, il vaccino sperimentale non è stato obbligatorio, proprio perchè ci sarebbero state richieste di rimborsi allo Stato, che si sarebbe dissanguato. Ma il finto Covid ha avuto anche lo scopo di eliminare tanti anziani per alleggerire l’Inps dal pagamento delle pensioni.
Ed ecco perchè non si è voluto dare ascolto alle cure in casa e protocolli seri stilati da tanti medici, non quelli che appaiono in tv.
Si dovevano prima vaccinare tutti, per raggiungere altri scopi.
Così si spiega anche il silenzio di tv e giornali, a parte alcuni casi, sulle controindicazioni dei vaccini, oltre che la mancanza di un protocollo di Stato sulle cure.
L’importante era “marchiare” il gregge, cioè le pecore.
clicca sulla locandina per il video
TESTO DELLA NUOVA CARTA FONDAMANTALE
proposta dal dottor Matteucci
Il pianeta Terra è attualmente ostaggio di quella parte umanità che è dotato di umanità, ottenere il 90% delle ricchezze e con quel poterericatta e sottomette la maggioranza del genere umano, impedendo agli individui di la propria intelligenza ed intelligenza.
L'umanità rappresenta solo lo 0,01% della vita terrestre, ma ha già sterminato l'83% delle altre specie.
L'essere umano ha totalmente perso la propria credibilità agli occhi di ogni sistema di vita equilibrato ed efficiente.
È necessario agire in fretta per capovolgere l'esito di questo conflitto.
Abbiamo da diversi anni le tecnologie per farlo e ora abbiamo anche l'idea giusta.
Proviamo ad immaginare un mondo nel quale l'individuo valga tanto quanto sia ritenuto valente dalla collettività. Cioè a dire, per quanto la sua persona rappresenti in sé, per ciò che sa essere, prima ancora che per ciò che sa dare.
In un mondo sì fatto sarebbe necessario, ma anche apprezzamento sufficiente, un misuratore di qualità del singolo. Un tale misuratore, per essere credibile, deve tenere conto, ad ampio spettro, della reazione integrale che ciascuno manifesta (dell'epidermide alle sinapsi), sia nella parte razionale che emozionale, in presenza di un altro comportamento umano.
Tale misurazione reattiva deve poter essere rappresentata in termini di REPUTAZIONE che il singolo guadagna o perde ogni volta che interagisce con gli altri e deve potersi quantificare in valori algebrici.
Il valore che risulta da tale quantificazione deve potersi computare in termini di RICCHEZZA SPENDIBILE da parte del soggetto stesso.
Cioè a dire che la credibilità, la reputazione di ciascun individuo è, di per sé, moneta di scambio.
In questo mondo, imperniato sulla credibilità, finalmente, e non più sul credito, vi è sempre spazio per le individuali, anzi esse potranno esprimere la più ampia ed inimmaginabile varietà e qualità.
Infatti, in assenza di denaro pagato e prestato da privati interessati solo ad alimentare la schiavitù da debito pubblico e individuale, l'unica ricchezza spendibile sarà la CREDIBILITÀ del singolo registrato e computata nel profilo beni dello stesso e pagare per servizi.
Cioè: una azione o una omissione che faccia aumentare la reputazione di Tizio di un coefficiente pari a 10 si tradurrà in un immediato incremento del patrimonio virtuale dello stesso pari a 10 REPUTCOIN.
Si può immaginare che il ReputCOIN subito oscillazioni di cambio nel rapporto che il singolo può avere con diverse collettività.
Poiché in un contesto economico basato sul ReputCOIN i beni materiali non hanno qualunque funzione di scambio, bensì solo di trasformazione e consumo, chi ha bisogno di consumare meno è più ricco di chi ha maggiore bisogno delle cose materiali, poiché la sua credibilità, agli occhi dell'intero sistema vivente, sarà più sostenibile e si tradurrà in un patrimonio personale più ricco di ReputCOIN.
Anche come e dove si spendono i ReputCOIN deve avere rilevanza al fine di sottovalutare la capacità del titolare di ReputCOIN di spendere la propria credibilità a favore di soggetti non meno meritevoli.
In assenza di denaro e di debiti, non è immaginabile qualunque forma di prevaricazione di un individuo su un altro, poiché essa stessa provocherebbe di sé la perdita di ricchezza in capo al responsabile.
Non può esservi altro modo, per aumentare il proprio potere di acquisto, se non quello di guadagnare più stima possibile da parte degli altri membri del collettivo.
In un modello economico, sociale e politico di tal fatta, non hanno ragione di esistere le banche come ogni altra struttura lesiva degli equilibri di Natura e limitativa per la libera e creativa espressione della parte migliore di ciascuno.
Infatti, è pensabile che una reputazione fondata sulla sottrazione arbitraria di altrui (quale è anche ogni bene presente in natura) possa guadagnare CREDIBILITÀ anziché perderla integralmente su un piano globale.
È così fatto lo scacco matto ai dominatori abusivi della Terra.
È sufficiente attiva la tecnologia utile e anteporre, ad ogni norma locale, una NORMA SUPREMA, di facile comprensione per tutti, che metta al centro di tutto due semplici ma rivoluzionari concetti:
CREDIBILITÀ
e
ASSENZA DI POSSESSO.
Così ho immaginato la lettera di tale norma suprema:
NUOVA CARTA COSTITUZIONALE
La ricchezza di ogni individuo è proporzionale alla credibilità della quale gode fra i componenti della collettività di cui fa parte.
Tale credibilità deve essere computata, in termini algebrici, e riconosciuto quale effettivo valore patrimoniale spendibile.
Valori di credibilità superiori alla media danno diritto alla esenzione totale dai tributi.
Valori di credibilità eccezionale diritto diritto all'accesso a informazioni riservate ea rivestire cariche gestionali fino ai massimi livelli.
Le cose, tutte le cose, che siano frutto della trasformazione di qualunque elemento presente in natura devono considerarsi quale appropriazione di cosa altrui e, pertanto, illecita se non giustificata da ragione a confermare l'intangibilità degli equilibri di Madre Natura, unica e sola , vera, legittima proprietaria di sé stessa.
Il mezzo che consentirà i traffici commerciali è la moneta della dignità, della reputazione. Il ReputCOIN.
Ce la si può guadagnare con una battuta geniale in una festa fra amici e poterla valorizzare al cambio di infinita collettività diverse e vederla produrre nuova ricchezza, per il solo fatto di circolare.
STRUTTURA
PRIMA LEGGE DI CREDIBILITÀ
“Credibilità” è solo una parola, un codice inventato dall'essere umano per definire qualcosa. Come ogni parola.
Come ogni parola, anche la credibilità non ha ragion d'essere senza l'umanità stessa.
Perciò, come ogni altra parola, anche la credibilità può esistere, come concetto e come suono, solo se esiste una umanità in salute, capace di esprimerne il significato.
Ne consegue che la prima legge di credibilità deve subordinare ogni scelta umana al rispetto delle leggi che raggiungere alla specie umana di vivere in equilibrio con il proprio eco sistema: l'a lgoritmo deve tenere da conto l'impatto che ogni scelta (di azione o inazione) dell'uomo può produrre sull'ambiente, nel breve/medio/lungo periodo.
L'imperativo categorico è: attribuire un punteggio (positivo o negativo) ad ogni azione capace di influire (positivamente o negativamente) sugli equilibri del Pianeta Terra.
SECONDA LEGGE DI CREDIBILITÀ (o legge della DEVIANZA)
Non ogni comportamento (omissivo o commissivo), che porti con sé un punteggio negativo, secondo la prima legge di credibilità, nel breve e/o medio periodo, comporterà necessariamente un punteggio negativo anche nel lungo periodo.
Ad esempio, si può comprare una penna bic (fatta con derivati del petrolio dall'industria) per scrivere qualcosa che induca tutti a non produrre più penne inquinanti.
L'algoritmo deve poter adeguare un punteggio negativo (per l'acquisto della penna di plastica) all'esito positivo dell'effetto virtuoso del suo impiego concreto a favore della causa della Credibilità globale.
TERZA LEGGE DI CREDIBILITÀ (o credibilità INDIVIDUALE)
La credibilità di ogni individuo è individuale alla qualità del rispetto che è in grado di generare nel prossimo, inteso sia come individuo che come collettività di riferimento (micro e macro).
Cioè a dire che: ciascuno si deve poter dotare di strumenti, di registrazione specifica delle reazioni proprie ad ogni azione/inazione altrui, al fine di consentire all'algoritmo di tradurre una reazione personale in un giudizio positivo, negativo o neutro, circa la credibilità del soggetto in questione;
tale giudizio deve tradursi in un valore numerico da computare algebricamente nel patrimonio virtuale del soggetto sottoposto a valutazione, il quale crescerà o decrescerà in termini di ReputCoin (termine che definisce quindi il potere di acquisto di ciascuno).
QUARTA LEGGE DI CREDIBILITÀ (o legge di IMMATERIALITÀ)
Nessuna forma di mezzo di scambio materiale (denaro o permuta) è ammissibile.
Non può esistere alcun detentore né emittente di denaro.
Ogni bene e servizio può essere goduto solo in cambio di ReputCoin.
Nessuna moneta è ammessa al cambio col ReputCoin.
QUINTA LEGGE DI CREDIBILITÀ (o legge di GARANZIA)
Fatta salva la “PRIMA LEGGE DI CREDIBILITÀ”, nessun comportamento individuale può subire un giudizio etico precostituito: l'egoismo o l'altruismo, ad esempio, non sono di per sé giusti o sbagliati. Ogni condotta deve essere “quotata” dall'algoritmo interamente in funzione della reazione dal pianeta Terra e da chi percepisce la condotta stessa.
Ciò deve portare alla emersione della vera natura di ciascun individuo e della collettività di cui fa parte. Solo così potranno formarsi aggregazioni omogenee (per credibilità) e scoprirle giocarsi la credibilità, a livello planetario, negli algoritmi partitaca.
I valori fondanti di una collettività (ad esempio, il velo islamico o Hijab) verranno sottoposti al vaglio di credibilità di collettività diverse, cosicché lo stesso potere di acquisto (in termini di ReputCoin) di chi sostiene quei valori sarà quotato positivamente o negativamente, costringendo i valori meno sostenibili a scomparire dalla faccia della Terra.
Le armi e chi le saranno destinate a scomparire, in quanto portatori di valori non credibili, secondo la PRIMA LEGGE DI CREDIBILITÀ. Così come ogni altra condotta che non sostenga ed amplifica la piena e libera espressione di ogni individuo.
In un racconto contesto, non è ricco chi possiede di più, bensì chi fa l'uso più credibile di ciò che possiede; né è povero colui che non produce alcun bene materiale, se la sua inoperosità è comunque foriera di apprezzamento (per qualsivoglia ragione) da parte di alcuno. Ad esempio, il fannullone può essere quotato molto bene da chi è molto ricco di ReputCoin e trarne a sua volta ricchezza, a meno che la collettività sottragga punti ad entrambi.
L'obiettivo finale è quello di indurre ciascuno alla formazione ed espressione di una personalità non omologata a dogmi prefissati, bensì a soluzioni nuove a seconda delle novità che l'esistenza propone.
In questo modello, non sarà possibile avvantaggiarsi della povertà altrui per sottomettere altri a sé. Bensì, chiunque (Stati e/o persone) si attivi per portare libertà e ricchezza reputazionale ad altri (Stati e/o persone) si arricchirà di una sua volta di ReputCoin.
Caro Direttore, alcuni giornalisti mi hanno consigliato di chiederle di pubblicare questo post. La giuria saranno i lettori….: a causa del look down gli imprenditori hanno subito danni non meritati, come quello di pagare subito un bene senza poterlo utilizzare oppure subito lo sfratto con tutte le conseguenze che portano alla miseria. Lo stato avrebbe dovuto congelare i contratti ma non l’ha fatto. A voi il dibattito...
Le trasmetto la mia lettera a Confedilizia:” Salve sono una imprenditrice, vi racconto la mia situazione: nel febbraio 2019 mi ero impegnata a pagare 40 mila euro di buona uscita per rilevare l'attività + 70 mila euro per ristrutturare la location. L'attività in questione è un locale notturno, rimasto chiuso per decreto da marzo 2020.
Sentendo parlare in tv dell'epidemia ho deciso di non mettere a rischio la mia salute, quella dei miei collaboratori e quella dei cittadini …..Un immobile commerciale ha valore in base a molte caratteristiche, tra cui il passaggio del pubblico. Considerate che alle restrizioni adottate dal governo sulla possibilità di uscire di casa, all'obbligo di rientrare entro le 22.00 e la paura ad entrare in luoghi chiusi, si è aggiunto l'obbligo di dover tener chiusa l'attività. Nessuno potrà mai considerare di aprire una attività in questo periodo di pandemia impegnandosi con dei canoni, per tanto il valore commerciale delle mura è da considerare pari a zero.Oggi ci saranno le riaperture e dopo un anno e mezzo che non entra a casa un centesimo, mi trovo costretta a dover smontare una attività che già mostrato un discreto successo. giusto che il proprietario non percepisce i 35 mila euro in questo periodo, io ho risposto: le sembra giusto che per rispettare il regolamento imposto dal governo, non ho avuto la possibilità di dare proprietà ai 35 mila euro più 120 mila euro di entrate? Oggi la proprietà possiede ancora l'immobile ed io non posseggo più la mia attività, non per fallimento ma per mancanza di tutela nei confronti degli imprenditori che sono l'indotto economico, anche per i proprietari delle mura. Oggi lasciare l'immobile dove ho speso 70 mila euro soltanto per le migliorie e che rimarranno alla proprietà dell'immobile.In questo periodo di chiusura non ho ho un centesimo e non ho potuto pagare anche le ute casalinghe e l'affitto di casa; stiamo sopravvivendo con la liquidazione del mio compagno ( anche l'attività dove lavora lui ha dovuto chiudere). Ora quantifichiamo: la proprietà dell'immobile ci ha rimesso 35 mila euro. Io ce ne ho rimessi 40mila di buona uscita + 70mila euro di migliorie e ristrutturazione + 35 mila dei canoni di affitti + 120 mila euro circa di utile + il valore della mia impresa + lo smantellare + dover pagare un deposito per le attrezzature presenti …. finirò nel limbo dei disoccupati senza poter riuscire neanche a sanare il debito con il proprietario del mio appartamento in cui vivo. Una soluzione per evitare queste catastrofi sarebbe stato congelare per le proprietà e congelare i contratti commerciali, per poter ripartire e ridare un lancio all'economia. Oggi i quartieri hanno perso di micro imprese, senza considerare la situazione economica e personale di coloro che avevano impegnato i loro risparmi e la loro vita per quelle imprese. Non ci dovrebbero essere debiti per nessuno congelando i contratti e impedendo lo sfratto agli imprenditori, i quali non hanno fallito ma sono stati danneggiati per la mancanza di considerazione della categoria. Purtroppo hanno fatto risultare uniche vittime di questa circostanza mondiale solo chi ha proprietà immobiliari. Anche noi eravamo proprietari delle nostre imprese allora. Chi ci risarcisce del danno subito per aver rispettato i DPCM e per la condanna alla miseria ?" i quali non hanno fallito ma sono stati danneggiati per la mancanza di considerazione della categoria. Purtroppo hanno fatto risultare uniche vittime di questa circostanza mondiale solo chi ha proprietà immobiliari. Anche noi eravamo proprietari delle nostre imprese allora. Chi ci risarcisce del danno subito per aver rispettato i DPCM e per la condanna alla miseria ?" i quali non hanno fallito ma sono stati danneggiati per la mancanza di considerazione della categoria. Purtroppo hanno fatto risultare uniche vittime di questa circostanza mondiale solo chi ha proprietà immobiliari. Anche noi eravamo proprietari delle nostre imprese allora. Chi ci risarcisce del danno subito per aver rispettato i DPCM e per la condanna alla miseria?. Il comportamento nei nostri confronti equivale ad essere condannati a dover pagare una sanzione pari all'incasso di un anno e mezzo, lo sfratto equivale poi alla chiusura forzata, tutto per aver rispettato ii DPCM!"
Alessia Rossini
Quando i creditori internazionali del nostro Paese d’accordo tra loro, richiederanno simultaneamente dai mercati la restituzione del credito pubblico italiano, dove reperirà il governo i capitali che non possiede?
Ancora nel caos decisionale sull’accettazione o meno, del contributo europeo di ripresa, ossia del MES. Le decisioni conclusive del sì o del no stanno attualmente dividendo gli ottimisti del “momento fuggente” dai profeti delle conseguenze negative di fronte all’ inevitabile sindacato di controllo della Banca europea sulla destinazione di uso e sulla garanzia di restituzione del prestito.
Il reale pericolo di una recrudescenza del coronavirus non dovrà però, sorprenderci in una condizione di inadempienza circa la restituzione dei crediti ricevuti. Né d’altra parte, sarebbe logico fasciarsi la testa prima di romperla. E allora il rimedio? “Ubi malum, ibi remedium,” dicevano a Roma. Vediamo prima come stanno attualmente le cose.
C’ era una volta
L’Italia fa continuamente fronte alle risorse finanziarie che non possiede, attingendo mediante apposite aste soprattutto dall’ estero, il capitale per pagare gli interessi del debito pubblico. Dal momento però che le modalità della aggiudicazione d’ asta sono castiganti per gli interessi a cui si è volontariamente sottoposta, il primo rimedio è quello di interrompere la spirale perversa del dispositivo che incrementa con questi stessi interessi, il debito complessivo.
C’era una volta un vecchio film che si intitolava: “ Attenti a quei due “; titolo questo che a prescindere dalle idee politiche di ciascuno, richiama la disinvolta gestione dei due partiti attualmente al governo, troppo diversi per riuscire insieme ad operare in modo non contraddittorio.
Il guaio che si profila all’orizzonte dell’ Italia non è di carattere ideologico ma di reale pesante natura finanziaria. Tenuto conto però, che lo Stato siamo tutti noi, il capitale di cui il governo intende disporre soprattutto per impieghi senza ritorno, riguarderà alla fine le disponibilità economiche degli italiani.
La sfida del governo
Il progressivo indebitamento pubblico verso l’ estero che in specie in questo periodo viene accumulato dal governo quasi in senso di sfida verso chi la pensa al contrario, senza farci soverchie illusioni, dovrà essere restituito con i relativi interessi.
Dunque, messa da parte la pericolosa speranza di fare affidamento su elargizioni europee a fondo perduto, nella realtà dei fatti il Governo continuerà a ricorrere a pericolosi prestiti internazionali che aumenteranno sempre più anche la mole degli interessi da corrispondere periodicamente.
In queste condizioni la faticosa economia di valuta che i cittadini italiani per loro indole di risparmiatori hanno affidato alle casse delle banche, rischia sempre più di essere impegnata e impiegata per situazioni che come la Grecia insegna, potrebbero all’improvviso esplodere a fronte di una simultanea richiesta di restituzione da parte dei creditori esteri.
Il tempo critico
Il problema della potenziale insolvenza si verificherà quando alcuni Stati acquirenti presenteranno sul mercato massivamente i titoli italiani, facendo aumentare in modo critico il famigerato spread, così come è avvenuto allorquando Francia e Germania nel 2015, decisero di mettere in serissima crisi di governo italiano imponendogli di fatto, come poi avvenne, una diversa guida politica.
Si potrebbe continuare senza necessità di alcuna immaginazione ad elencare le possibili conseguenze per il nostro Paese se continuerà a indebitarsi ulteriormente per pagare i debiti esteri, vantando poi paradossalmente di aver saputo superare le resistenze dell’Europa, mentre il passivo nazionale sta avviandosi allegramente al superamento dei 2500 miliardi di euro.
Allo stato delle cose il debito pubblico è arrivato alle stelle e sempre più sarà difficile liberarsene se il sistema di indebitamento rimarrà il medesimo.
Ma qual è il sistema? Quello di ricorrere alle sovvenzioni internazionali attraverso un metodo aberrante.
Le aste internazionali
Entrando nel merito dell’indebitamento, vediamo come questo avviene.
Lo Stato non potendo onorare la restituzione ai creditori di quanto loro è dovuto, chiede ulteriori prestiti agli istituti finanziari, soprattutto esteri mediante aste per pagare almeno gli utili finora maturati.
Si tratta di circa 65 miliardi di euro di soli interessi che l’Italia corrisponde ogni anno ai creditori.
Consideriamo però che quasi la metà è destinata all’estero. Vediamo ora come avviene la distribuzione dei titoli in asta che, come detto, vengono offerti soprattutto per onorare il versamento degli interessi alle varie scadenze.
Supponiamo di vendere una certa quantità di titoli per una quindicina di miliardi. Anziché offrire agli acquirenti la base degli interessi che saranno corrisposti, accade il contrario. Infatti, è l’Italia che chiede ai creditori di fissare loro questo valore per i vari lotti in cui viene suddivisa la cifra complessiva.
Supponiamo ora che il primo lotto di qualche miliardo di euro venga giudicato al tasso dell’1,5% e che il secondo venga giudicato al 2,5% e così via fino all’ultimo acquistato al tasso del 4%.
L’Italia non paga a ognuno il suo, ma a tutti il valore di asta dell’ ultimo che è anche il più alto, incrementando a vantaggio anche degli acquirenti già soddisfatti, il debito pubblico nazionale.
La doppia speculazione
Trattando la questione dal punto di vista teorico, per venirne fuori viene ipotizzato da più parti che la prima cosa da considerare sarebbe quella di impedire questa sorta di doppia speculazione di coloro che si avvantaggiano ulteriormente per merito altrui.
La seconda sarebbe quella di rivolgersi agli stessi italiani che non amano investimenti rischiosi e che si fanno erodere dalle banche i propri risparmi a fronte di rendimenti inesistenti o addirittura negativi. Pertanto, in linea con questa tradizionale propensione al risparmio, come avveniva nel passato con i CTT e soprattutto con i BOT, sarebbero gli stessi italiani per il mantenimento del valore dei risparmi a sottoscrivere anche per un interesse minimo quelle stesse offerte di decine di miliardi che come detto prima, incrementano il baratro del nostro indebitamento oltre alla potenzialità dirompente della simultanea richiesta di restituzione da parte dei creditorii internazionali.
Il valore critico
Almeno in quota parte, i titoli che comportano a favore dei creditori esteri ogni anno 30 miliardi di euro di interessi e che sottraggono valuta dalle disponibilità del nostro Paese, rimarrebbero in ambito nazionale.
Le ragioni per le quali chi potrebbe non interviene per bloccare questa politica dell’ indebitamento ad oltranza, ognuno può immaginarle secondo i propri convincimenti.
Una cosa però è certa e che tutti noi dobbiamo convenire che quando l’indebitamento avrà raggiunto il valore critico, la contemporanea emissione sul mercato dei titoli acquistati dai nostri creditori internazionali metterà lo Stato in una posizione di insolvenza. In questo caso l’unica possibilità per il governo del momento che rimarrà con il cerino acceso in mano, sarà quello di attingere dai risparmi bancari dei cittadini ciò che serve, così come fece il governo Amato nell’81, oppure dichiarare il fallimento dello Stato con conseguenze ancora peggiori. Certo però che per quanto riguarda la tutela dei risparmi degli italiani, talvolta di una intera vita, la strada così mantenuta dal governo è proprio quella sbagliata.
Emendamenti, fughe in avanti, polemiche e cittadini a rischio truffe
Nessuna decisione sui temi ambientali viene presa con concordia e condivisione piena. Non solo sull’ambiente, evidentemente , ma nello specifico nel governo è una continua mediazione . C’è chi si professa ambientalista spinto , ma poi lascia che i provvedimenti abbiano efficacia annacquata, e chi va dicendo che l’Italia presto supererà gli altri Paesi europei nel green deal. Francamente non c’è da stare sereni.
Quello che sta accadendo intorno all’ecobonus per le ristrutturazioni edilizie con vantaggi fiscali al 110%, è lo specchio della divisione politica. Il provvedimento è sottoposto ad una serie di emendamenti, ma il decreto che lo contiene deve essere convertito in legge entro il 18 luglio. Nei fatti le prime agevolaIoni scatterebbero solo in autunno. Sulla carta, però, perché bisognerà poi aspettare ancora i decreti attuativi. Le regole in base alle quali l’Agenzia delle Entrate stabilirà come ottenere lo sconto. Il contentino sarebbe il riconoscimento del bonus dal 1 luglio di quest’anno anno.
Si può fare politica ambientale in questo modo? Coinvolgendo milioni di famiglie, imprese, installatori? Il panorama è talmente complicato che il Sicet, sindacato inquilini della CISL, ha invitato i cittadini a diffidare delle proposte tutto compreso che le ditte possono proporre a chi vuole riqualificare l’abitazione.
Ci sono rischi da evitare per non restare delusi da una scelta che il governo continua a presenta come rivoluzionaria. Si parla si ristrutturazioni a costo zero, ma il pacchetto “ sta generando nei cittadini un’idea distorta, ha detto il segretario generale del Sicet , Nino Falotico, poiché ischia di mettere in moto comportamenti azzardati e speculativi e in taluni casi dare lo spunto a delle vere e proprie truffe organizzate”.
Qualcosa di simile aveva detto anche l’Associazione consumatori e produttori di energie rinnovabili ,Aceper. “ Al cliente finale, ha spiegato la Presidente Veronica Pitea, suggeriamo di non affrettarsi a firmare contratti. È molto più opportuno affidare una diagnosi energetica della propria abitazione a uno studio di professionisti, per capire quali sono gli interventi più indicati per approfittare del beneficio fiscale una volta chiarita la situazione”. Data la situazione dell’iter parlamentare e le diatribe tra i partiti è opportuno non cadere in certe trappole.La possibilità , secondo il sindacato degli inquilini , è quella di aprire il varco alle scorribande degli speculatori, sempre in agguato quando c’è da fare soldi facili e approfittare delle difficoltà economiche di molte famiglie. Ancora più preoccupante , aggiungiamo, se c’è di mezzo lo Stato.
I decreti DPCM di Conte sugli aiuti economici per il Covid 19 sono stati recepiti in tempi record dalla Cassa di previdenza degli architetti e degli ingegneri (INARCASSA). La Cassa ha evaso la richiesta di denaro in 48 ore agli iscritti che ne hanno fatto domanda, sia per quanto concerne il versamento dei 600 euro mensili disposti dal Governo a favore dei professionisti, sia per quanto riguarda i prestiti fino a 25.000 euro a tasso d'interesse zero.
Ne hanno usufruito oltre 600.000 iscritti, su un totale di 800.000, e l’operazione è stata interamente condotta per via informatica. Un fatto che non ha precedenti nel nostro Paese, un vero e proprio miracolo. In pratica INARCASSA ha svolto le funzioni di una vera e propria banca verso i propri iscritti, ma senza frapporre ostacoli burocratici. In 48 ore, grazie all’ l'informatizzazione di cui la cassa è dotata si è potuto accogliere un’ enorme mole di pratiche in tempo reale e rispondere a tutti entro 48 ore dalla domanda.
La lodevole e meritevole operazione dovrebbe essere presa ad esempio dalle banche nostrane. La buona notizia, tra le poche di questi tempi, merita una segnalazione speciale.
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Tiberio Graziani |
Per Tiberio Graziani, direttore dell'Italian International Vision e Global Trends Institute for Analytical Studies, la decisione dell'Arabia Saudita di aumentare la produzione e quindi ridurre il prezzo del petrolio è a vantaggio degli Stati Uniti e rende il mercato del petrolio più caotico.
Roma - "Credo che la decisione unilaterale dell'Arabia Saudita di ridurre il prezzo del petrolio sia stata una manovra tattica diretta principalmente contro la Russia", ha detto Graziani e ha aggiunto: "Quando si tratta di qualsiasi tipo di fonte di energia, sia dal punto di vista dello sviluppo della tecnologia o dei miglioramenti delle infrastrutture o, come in questo caso, dal punto di vista del mercato o delle transazioni in questo, si agisce sempre consapevolmente o no, in un contesto geopolitico. Pertanto, la decisione dell'Arabia Saudita ha una chiara dimensione geopolitica. Il comportamento di Riyad potrebbe aiutare a contrastare i tentativi della Russia di aumentare i suoi sforzi in Medio Oriente e Nord Africa". Graziani ha spiegato: "Attualmente, il "colpo di testa" dell'Arabia Saudita avvantaggia gli Stati Uniti in quanto punisce la Russia e crea problemi indiretti per la Cina, il che significa che colpisce due paesi, Russia e Cina, con i quali l'amministrazione Trump ha dichiarato la guerra commerciale già da molto tempo. Il capo dell'istituto ha concluso che "a causa di questa decisione, il mercato petrolifero è diventato più caotico, rispetto a prima". E domenica scorsa i prezzi dei futures sul petrolio sono scesi di oltre il 20 percento, dopo che l'Arabia Saudita ha ridotto il prezzo ufficiale della vendita di greggio, dando il via alla guerra dei prezzi dopo che nei colloqui dell'OPEC con la Russia non si è riusciti a raggiungere un accordo sulla riduzione della produzione.
Il mercato del petrolio rimarrà probabilmente in ribasso nei prossimi mesi, dato che i tagli dell'Arabia Saudita avranno un effetto combinato con l'arresto della crescita economica globale causato dal coronavirus, che ha ridotto la domanda di oro nero. L'obiettivo dell'Opec e dell'Arabia Saudita sembra dunque essere uno e uno soltanto: togliere quote di mercato alla Russia scatenando una guerra dei prezzi la quale avrà ripercussioni sul mondo intero. Riad è pronta, scrive il Financial Times, ad annunciare mega sconti ai clienti dell'Europa nord-occidentale, un mercato chiave per gli ex alleati russi. Gli sconti in arrivo sono senza precedenti: oltre 8 dollari al barile rispetto a marzo. Ciò potrebbe comportare ripercussioni anche nella guerra commerciale tra Usa e Cina in quanto il petrolio è legato a molti settori dell'economia globale.
Milano, 9 settembre 2019 La Fondazione ISMU rende noto che, secondo gli ultimi dati della World Bank, durante il 2017, l’Italia ha ricevuto 9,8 milioni di dollari in rimesse dall’estero e – a sorpresa – ne ha inviate verso l’estero di meno: 9,3 milioni. È chiaro che non si tratti solamente di rimesse di migranti e che i dati includano anche gli italiani temporaneamente all’estero (e gli stranieri temporaneamente in Italia); è tuttavia interessante notare come dal punto di vista degli scambi monetari tramite le rimesse, per l’Italia si sia registrato un guadagno. Tale trend a vantaggio dell’Italia in realtà dura da un triennio: nel 2016 infatti furono contabilizzate in 9,5 milioni di dollari le rimesse percepite dall’Italia e in 9,2 milioni quelle inviate, nel 2015 rispettivamente in 9,6 e 9,4 milioni. Tale cambiamento è dovuto probabilmente sia a una minore disponibilità economica della popolazione immigrata a causa della crisi, sia al fatto che gli immigrati con maggiore anzianità migratoria hanno spostato il centro dei loro interessi, anche affettivi, dal Paese d’origine all’Italia, dove spendono e fanno investimenti economici. Inoltre non bisogna sottovalutare le maggiori recenti emigrazioni dall’Italia sia di italiani sia di stranieri con cittadinanza italiana, che hanno senz’altro contribuito ad aumentare il flusso di rimesse verso il territorio nazionale.
Figura 1. Rimesse dall’Italia e verso l’Italia in milioni di dollari. Anni 1980-2017
Fonte: elaborazioni ISMU su dati World Bank
Dal 2008 al 2017 in Italia il saldo netto delle rimesse rimane comunque negativo. Ma nonostante l’inversione di tendenza degli ultimi tre anni, in cui le rimesse ricevute hanno sempre superato quelle inviate per un totale di un milione di dollari, nell’ultimo decennio il saldo netto delle rimesse per l’Italia è stato comunque negativo per 30 milioni di dollari. Infatti nei sette anni precedenti ‒ 2008-2014 ‒ le uscite dall’Italia sono state sempre superiori alle entrate, per un totale di 31 milioni di dollari. Si segnala che la maggior quantità di rimesse realizzate dagli immigrati dall’Italia verso l’estero si è registrata tra il 2008 e il 2011.
L’Italia è al 15° posto nella classifica mondiale per rimesse percepite e al 17° per quelle inviate. Sempre secondo i più recenti dati della World Bank (2017), sebbene in termini assoluti l’Italia sia al 15° posto nel mondo per rimesse percepite e al 17° per rimesse inviate, in termini relativi scende al 133° posto per incidenza delle rimesse percepite sul totale del prodotto interno lordo (0,5%), mentre è al 104° per quelle inviate. In base ai dati del 2017 all’incirca un duecentesimo del prodotto interno lordo italiano viene oggi annualmente inviato all’estero. Chi “perde” di più secondo i dati del 2017, sotto il profilo delle rimesse inviate, sono invece il Lussemburgo (il 20,3%, ovvero più di un quinto del proprio prodotto interno lordo viene inviato all’estero dai migranti) e poi i tre Paesi del golfo persico: Oman (13,9%), Emirati Arabi Uniti (11,6%) e Kuwait (11,4%).
Chi guadagna invece di più dalle rimesse – prescindendo da alcuni Paesi più piccoli – sono l’Egitto (il cui 11,6% del pil deriva dalle rimesse dei migranti), l’Ucraina (11,4%), le Filippine (10,2%) e più a distanza il Pakistan (6,8%). Mentre in termini assoluti i Paesi da cui sono partite più rimesse nel 2017 sono stati ‒ nell’ordine ‒ Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Svizzera e Germania.
Tabella 1. Rimesse dall’Italia verso i Paesi con il maggior numero di residenti in Italia durante il 2017
Paese |
Rimesse annue totali (in milioni di dollari) |
Popolazione residente (media 1° gennaio - 31 dicembre) |
Media rimesse mensili procapite (in dollari) |
Nigeria |
558 |
97.301 |
478 |
Egitto |
305 |
116.139 |
219 |
Serbia |
91 |
39.814 |
190 |
Cina |
627 |
286.327 |
182 |
Senegal |
226 |
103.572 |
182 |
India |
326 |
151.611 |
179 |
Filippine |
352 |
167.159 |
175 |
Brasile |
92 |
46.716 |
164 |
Tunisia |
171 |
93.930 |
152 |
Ghana |
81 |
49.039 |
138 |
Sri Lanka |
165 |
106.438 |
129 |
Ecuador |
118 |
81.749 |
120 |
Marocco |
547 |
418.591 |
109 |
Perù |
127 |
98.245 |
108 |
Moldova |
171 |
133.738 |
107 |
Polonia |
118 |
96.395 |
102 |
Pakistan |
132 |
111.201 |
99 |
Kosovo |
46 |
40.858 |
94 |
Russia |
33 |
36.873 |
75 |
Bulgaria |
49 |
58.937 |
69 |
Ucraina |
172 |
235.701 |
61 |
Romania |
771 |
1.179.322 |
54 |
Bangladesh |
83 |
127.198 |
54 |
Albania |
267 |
444.436 |
50 |
Macedonia |
18 |
66.658 |
23 |
Altri Paesi |
3.609 |
867.555 |
347 |
Totale |
9.256 |
5.255.503 |
147 |
Fonte: elaborazioni ISMU su dati World Bank e Istat
La maggior parte delle rimesse che giunge in Italia arriva dagli Stati Uniti. In base alle stime della World Bank risulta che lo stato da cui partono più rimesse per l’Italia sono gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Francia e Canada. Per quanto riguarda le rimesse in uscita dall’Italia, i dati della World Bank pongono al primo posto a sorpresa la Francia davanti alla Romania e alla Cina, a cui seguono Nigeria e Marocco.
Rimesse dall’Italia verso l’estero: nel 2017 il primato va ai nigeriani. Nel 2017, tra i 25 Paesi con maggiore numero di residenti in Italia, al primo posto per invio di rimesse dall’Italia verso l’estero si colloca la Nigeria con il valore quasi inspiegabile – se non con il sommarsi di forti flussi finanziari a quelli di pure rimesse dei migranti – di ben 478 dollari medi mensili procapite, davanti all’Egitto (219), alla Serbia (190), alla Cina e al Senegal (182 entrambi); e con in coda Macedonia (23), Albania (50), Bangladesh e Romania (54), Ucraina (61), Bulgaria (69), Russia (75) e Kosovo (94).
Oltre all’inaspettato dato attribuibile ai nigeriani – e parzialmente anche a quello relativo agli egiziani –, stupisce il basso valore relativo ai cittadini ucraini, prevalentemente donne con obiettivi migratori fortemente legati al lavoro d’assistenza domiciliare e di risparmio e rimesse verso il Paese d’origine. Sicuramente in quest’ultimo caso l’invio delle rimesse avviene tramite canali informali, o sotto forma di beni, spesso inviati tramite pullman, furgoncini o corrieri che fanno la spola tra l’Italia e il Paese d’origine. Se il dato sui nigeriani è sicuramente fortemente incrementato da transazioni economiche[1], al contrario quello ucraino è sottostimato in assenza di contabilizzazione delle rimesse di tipo informale.
[1] Allo stesso modo è comprensibile l’elevato valore (347 dollari di rimesse medie procapite al mese) attribuito all’insieme delle nazionalità minori in Italia, composte anche da cittadini di Paesi a sviluppo avanzato le cui rimesse sono in realtà probabilmente spesso redditi d’impresa o finanziari.
Era il 2017 quando Trieste venne scelta per l’organizzazione di ESOF 2020, la più rilevante manifestazione europea focalizzata sul dibattito tra scienza, tecnologia, società e politica, che si svolgerà dal 5 al 9 luglio del prossimo anno, e renderà la città capitale europea della scienza.
ESOF 2020 sarà ospitata nel nuovo polo congressuale che sta sorgendo in Porto Vecchio per opera dell’impresa Monticolo&Foti, cui è stata recentemente affidata la realizzazione edile-impiantistica del compendio congressuale-espositivo.
La costruzione del Centro Congressi di Trieste sta procedendo con grande velocità. Ieri, 25 luglio, l’impresa costruttrice Monticolo&Foti ha posato la prima pietra del nuovo edificio che conterrà la sala da 2000 posti.
Come avevano già comunicato i vertici dell’azienda, Andrea Monticolo e Luca Foti, al sindaco Dipiazza in occasione della sua visita al cantiere, dopo aver eseguito le fondamenta si è iniziata la costruzione verso l’alto del nuovo edificio 28/BIS che sarà il cuore pulsante del complesso. Ad oggi sono stati posati 1.000 metri cubi di calcestruzzo e 60.000 chilogrammi di ferro. I tempi sono rispettati al minuto con l’arrivo dei primi elementi della struttura portante del fabbricato, si stima che l’operazione durerà fino alla metà del prossimo mese quando saranno ultimate anche le pareti di tamponamento. A fine agosto verranno consegnate e posate le travi alari, ognuna pezzo unico lungo 40 metri, la struttura sarà completata con la copertura entro il mese di settembre.
Il gruppo Monticolo&Foti, che impegna quaranta uomini al giorno nel cantiere, sta lavorando nel rispetto dei tempi imposti e con una programmazione di precisione che consente la prosecuzione ottimale nella costruzione degli impianti termoidraulici con la realizzazione dell’anello antincendio interno e tutte le dorsali idriche. A fine agosto sono previste anche le consegne delle macchine di condizionamento ad alta efficienza costruite ad hoc per il cantiere con recupero sia entalpico, ovvero recupero del calore e dell’umidità, sia termodinamico, cioè per il recupero delle temperature del gas refrigerante. Sempre all’interno degli edifici 27 e 28 sono stati costruiti gli impianti elettrici con posa delle dorsali principali con quasi 2 km di tubazioni e 2 km di canala portacavi e sono stati installati circa 2.000 staffaggi antisismici per il fissaggio degli impianti di cui sopra.
I principali eventi di ESOF 2020 si terranno nella straordinaria area di Porto Vecchio, il vecchio porto di Trieste che è stato per decenni il porto commerciale dell'Impero austro-ungarico e ora è un eccezionale patrimonio architettonico e industriale che il Comune di Trieste sta riqualificando con la collaborazione di uomini e imprese che lavorano per tale comune obiettivo.
Patrizia Grandis
Al posto dei minibot meglio la Lira, solo a circolazione interna e garantita dall'oro di Bankitalia, anche per prepararsi al braccio di ferro con la Ue, come vorrebbero Salvini e Di Maio. Dunque, questa potrebbe essere la ricetta alternativa.
Quindi, ristampare la Lira , ma solo ad uso interno, e garantita dall'oro di Bankitalia. Ma in alternativa si potrebbe vendere anche una parte dei lingotti che giacciono nel ventre della banca centrale , ed utilizzarlo per ciò che serve.
Ma non tutto è così semplice perché il metallo giallo di Bankitalia non appartiene allo Stato, ma alle banche ed assicurazioni che la controllano. Si tratta di un valore di circa 80 miliardi, prima era di 120, ma sembrerebbe che la parte mancante sia stata venduta.
Infatti, la Lega , tramite il parlamentare Borghi ha presentato tempo fa ( circa un anno) un ddl, che ancora giace in Parlamento,con il quale lo Stato si riapproprierebbe dell'oro dell'Istituto centrale.
Ma nel frattempo, 40 miliardi di oro sarebbero stati venduti per far cassa e per non lasciare le banche a bocca asciutta.
E già, perché questa liquidità, nel caso l'oro tornasse allo Stato, rimarrebbe nella Banca d'Italia, e cioè alle banche che la controllano.
Ma di tutto ciò non se ne fa cenno nelle grandi testate giornalistiche blasonate e neanche nei salotti buoni televisivi.
Ora speriamo che il lancio del sasso nello stagno da parte del nostro giornale faccia rinsavire qualcuno.
Infine, se si volesse allargare lo sguardo oltre, proponiamo una ricetta con cui lo Stato potrebbe recuperare ogni anno oltre 100 miliardi, senza sacrifici cruenti, denaro che potrebbe servire per la flat- tax ed altro, senza incorrere nelle ire della Ue.
Abolizione di tutte le detrazioni ( valore stimato di 100 miliardi di euro) escludendo solo quelle per i portatori di handicap. Dunque denaro fresco per ridurre le tasse a tutti.
Inoltre, si potrebbero riaprire le case chiuse ( gettito stimato di 8 miliardi all'anno). Poi cancellare il bonus di 80 euro voluto da Renzi ( valore 10 miliardi annui).
E per concludere lanciamo un macigno nello stagno. Il Giappone ha un rapporto debito-Pil di oltre il 250%, ed i mercati non interferiscono perché questo è solo interno, e gli interessi sono regolati dalla banca centrale. Ed allora qualcuno ne discute?
Nonostante le proteste del ministro degli esteri libanese Gebral Bassil, che recentemente ha accusato il governo di Tel Aviv di violare per circa 860 km le acque territoriali del Libano, verrà costruito il gasdotto più lungo e profondo della storia (1900 km di lunghezza).
Tale gasdotto che collegherà lo stato di Israele con l’Italia, passando per Cipro e la Grecia, è un progetto per buona parte finanziato dall’Unione Europea tramite l’ European Energy Program for Recovery. La società che ha preso in gestione tale costruzione è la Igi Poseidon, società di diritto greco che si trova sotto l’egida dell’italiana Edison s.p.a. .
L ‘ Eastmed che dovrà ultimarsi entro il 2025, costerà ai 4 paesi all’incirca 7 miliardi di euro, 2 miliardi in mezzo in più rispetto al Tap (Trans Adriatic Pipeline), gasdotto che partendo dall’Azerbaijan dovrebbe avere l’Italia come suo terminale. Il nostro paese produce solo l’8% del gas naturale che consuma , dipendendo enormemente da paesi terzi, in particolar modo dalla Russia (40 %) ed Algeria (25 %).
L’Unione Europea grazie a tali progetti sta cercando in ogni modo di diversificare l’approvvigionamento di gas, considerando che è il più grande importatore del mondo di fonti energetiche. E’ evidente che questi gasdotti rappresentano delle pedine che vengono mosse nello scacchiere geopolitico Euroasiatico, in una partita tra diversificati ed imprevedibili attori.
Venerdì 15 marzo 2019, alle ore 16.00 presso l’Auditorium di Via Rieti,a Roma, è stato presentato e distribuito al pubblico il rapporto Europa dei talenti promosso dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” e realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS.
Nella ricerca viene analizzato il fenomeno, sempre più rilevante, delle migrazioni qualificate, di cui vengono prese in esame le potenzialità e gli aspetti critici.
In un’Europa che progressivamente invecchia in assenza di immigrazione, la forza lavoro diminuirà di 17,5 milioni nel prossimo decennio, in larga misura in Italia, e già oggi si riscontrano 3,8 milioni di posti vacanti a causa delle carenze in settori chiave come le scienze, la tecnologia, l’ingegneria e la sanità, mentre gli attuali 12 milioni disoccupati per oltre la metà hanno un basso livello di competenze.
Entro il 2020, per esempio, si determinerà la mancanza di 756mila figure altamente qualificate nelle telecomunicazioni e di circa 1 milione nel settore sanitario tra dottori, infermieri, dentisti, ostetriche e farmacisti.
Risulta urgente un maggiore approfondimento di questa problematica, anche perché secondo la Commissione Europea l’immigrazione altamente qualificata può assicurare fino a 6 miliardi di euro di vantaggio economico annuale. Eppure, il mercato del lavoro UE stenta ad utilizzare a pieno il talento degli stessi immigrati già presenti e poco funzionale risulta lo strumento della Carta blu UE, che nel 2017 ha contato appena 24.305 rilasci (di cui solo 301 in Italia).
All’inizio del 2017 sono 16,9 milioni i cittadini comunitari attivi in un altro Stato membro, oltre a 2 milioni di frontalieri (sia lavoratori che studenti). Tra di essi, 3,6 milioni sono lavoratori mediamente qualificati e quasi 3 milioni altamente qualificati (numero quasi triplicato rispetto al 2004). Un terzo è inserito in settori altamente qualificati, come la sanitò (11,0%), le attività professionali, scientifiche e tecniche (12,0%) e l’istruzione (10,6%).
In ogni caso, l’aumento delle occupazioni non o poco qualificate tra gli altamente qualificati comunitari attesta un processo di crescente sottoutilizzo (brain waste) di questi giovani migranti, connesso con le difficoltà economiche che coinvolgono quasi un’intera generazione, alle prese con la disoccupazione diffusa, la crescente instabilità lavorativa, un costo della vita relativamente più alto rispetto al salario. Del resto, è significativo che i due terzi degli studenti internazionali non-UE, una volta laureati, preferiscono insediarsi in un paese non europeo.
In Italia la situazione è ancora meno soddisfacente per il basso tasso di occupazione (10 punti percentuali e 3,8 milioni di occupati in meno rispetto alla media UE-15). Notevoli sono le carenze in alcuni comparti ad alta qualificazione (sanità, istruzione e pubblica amministrazione). In particolare, dei 2.423.000 occupati stranieri rilevati dall’Istat nel 2017, quasi 2 su 3 (62,8%) svolgono professioni non qualificate o operaie e solo 1 su 14 (7,2%) fa lavori qualificati, risultando più spesso sovraistruiti (nel 35,5% dei casi gli immigrati svolgono mansioni al di sotto del loro livello di formazione). Continuano tuttora a essere limitati gli spazi offerti ai lavoratori qualificati non comunitari (5.000 nel 2017).
“L’Italia – commenta il prof. De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” – soffre l’assenza di una strategia in grado di attrarre lavoratori qualificati nei comparti strategici, dove i ridotti investimenti bloccano l’impiego sia di nuove leve italiane sia di quelle in arrivo dall’estero, facendo del paese un tipico caso di spreco di talenti, di cui fanno le spese i giovani, sia autoctoni sia immigrati”.
Non a caso, secondo l’Ocse, l’Italia è l’ottavo paese del mondo per numero di emigrati. L’Aire attesta che nel 2017 gli italiani residenti all’estero (oltre 5.114.000, di cui quasi 2.657.000 per espatrio) sono in aumento. I cancellati alle anagrafi sono stati 114.000 nel 2017 (120.000 secondo le prime stime dell’Istat per il 2018), da maggiorare per un coefficiente di 2,5/3 volte se, come ha fatto Idos, si tiene conto delle registrazioni effettuate nei paesi europei di arrivo. Si tratterebbe, insomma, dello stesso livello di espatri degli anni ’60, con la differenza che ora a lasciare l’Italia sono molti laureati: erano appena 3.500 nel 2002 e sono diventati 28.000 nel 2017, per un totale di 193.000 laureati e 258.000 diplomati in sedici anni.
Proiettando queste incidenze sulla stima degli italiani effettivi che lasciano il paese, si può affermare che nella fase attuale l’Italia ha perso nel 2017 tra i 90mila e i 108mila connazionali altamente qualificati e che tra il 2002 e il 2017 sono stati circa mezzo milione i laureati che sono andati a cercare fortuna all’estero, di cui almeno un terzo non è più rimpatriato.
“Un paese come l’Italia – osserva Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS – che invecchia rapidamente e che continua a perdere competitività, con una economia in recessione, dovrebbe avere il coraggio di aprire i propri sistemi economici, produttivi e di ricerca ai giovani talenti, sia italiani sia stranieri, prima che essi optino per l’abbandono del paese. La dominante retorica della ‘chiusura’ non solo rivela la chiusura mentale di chi la alimenta, ma autocondanna il paese a un futuro sempre più asfittico e infecondo”.
I dipendenti della sede INPS Monteverde di Roma dal 7 gennaio sono in agitazione, le assemblee sono quotidiane e i dipendenti e le sigle sindacali rivendicano la centralità della funzione del servizio pubblico dell’ente. Per gli utenti la fila avanti alla sede per il disbrigo delle pratiche inizia alle sei del mattino, scene apocalittiche. Inevitabili le conseguenze sul servizio al pubblico, in particolare agli sportelli. Pratiche che vengono evase dopo mesi e mesi, addirittura anni, con tutto ciò che ne consegue per il disagio, non solo morale, ma anche economico (310.000 abitanti circa). La sede (53 dipendenti in totale) è al collasso e nulla viene fatto dalla dirigenza dell’ente per sopperire a questo grave disagio che da tempo viene segnalato e denunciato.
La situazione per una sede considerata di frontiera non è più sopportabile. Sia per i dipendenti che per l’utenza. Inevitabile il corto circuito tra la domanda di prestazioni da parte di una utenza quantitativamente e qualitativamente rilevante e la scarsità dei dipendenti. Lo stato di agitazione continuerà finché non ci saranno cambiamenti concreti da parte dell’istituto. Per il momento l’unico cambiamento certo è “quota cento” e “ reddito di cittadinanza” che vedranno, come se non bastasse, l’esodo di alcuni dipendenti, per cui l’organico diminuirà di almeno 10 unità, scendendo da 53 a 43 circa. A tutto ciò va aggiunto il decurtamento dello stipendio ai medesimi dipendenti da circa due anni per non raggiungere i risultati prefissi dalla dirigenza. La miscela è esplosiva. Nel loro comunicato la RSU lavoratrici e lavoratori INPS della Sede di Roma Monteverde sottolineano che la richiesta è assolutamente superiore rispetto alla risposta che si è pronti a dare e che “la dignità non ha prezzo“.
Terrorismo fiscale. Occhio alle cartelle già emesse in passato ed al macero, ma rinviate come se ancora valide.
Nella manovra di bilancio è inserita anche la rottamazione totale per le cartelle esattoriali sotto i 1.000 euro ( ciascuna) per il periodo 2.000-2.017, per cui tutte quelle emesse ed inviate al contribuente, nel periodo in questione, dovrebbero essere annullate automaticamente.
Ma , stranamente, il Fisco continua a rinviarle, anche se dovrebbero essere state annullate.
Dunque, il Fisco prova a chiedere ciò che non è lecito richiedere, con manovre “ truffaldine”, mentre invece dovrebbe richieder solo il rimanente, dopo la rottamazione automatica.
E così accade che il Fisco prova ad abbattere la sua ascia affilata sui cittadini ignari o disinformati.
Ma per qualsiasi eventuale impugnativa, di cui non ce ne sarebbe neanche bisogno, occorre comunque aver conservato le cartelle che sono già state inviate in precedenza, a dimostrazione che queste sarebbero state dovute essere inviate al macero.
E già, perché se le cartelle già inviate in precedenza non sono state conservate ( ed è ciò su cui il Fisco ci prova), come si fa a dimostrare che queste sono già state recapitate negli anni passati?
Per cui il Fisco ci prova, alla chetichella, ad incassare ciò che non dovrebbe.
D'altronde, Renzi quando ancora governava spavaldamente annunciò che Equitalia sarebbe stata chiusa.
Defunta per accorparla, invece, all'Agenzia delle Entrate, ben più temibile, perché può entrare nei conti correnti e sequestrarli, mentre Equitalia non poteva.
E coloro che non hanno disponibilità per poter pagare neanche il rimanente delle cartelle non estinte, e che possono essere perseguibili, cosa debbono fare per potersi difendere?
E così al Fisco si può fare un bel marameo, per non essere schiacciati dal non senso.
Per concludere, sul tema estorsioni, un'altra chicca. Al Verano, il cimitero di Roma, se si possiede una tomba, e si è superata la soglia dei posti previsti, anche dopo la rottamazione delle ossa degli avi in cassette, occorre sborsare all'Ama 3.000 euro per un nuovo ingresso. Ormai siamo alla pura follia fiscale. Qualcuno intende porvi rimedio?
Dulcis in fundo. Presto faranno pagare la bolletta della spazzatura accorpata a quella dell'elettricità. Così, oltre alla Tv pubblica, se non si paga la tariffa della spazzatura ti staccano la corrente elettrica. E che vuoi di più dalla vita? Forse un amaro per digerire il tutto? Naturalmente a pagamento.
A volte anche il Presidente Usa è vittima dei suoi stessi uomini di vertice la cui nomina non può essere revocata senza conseguenze peggiori dello stesso male
Con il “senno del poi” - Se Trump avesse avuto la possibilità di licenziare Powell già da due mesi a questa parte l’avrebbe sicuramente fatto; non manca a lui infatti, la coerenza delle sue decisioni, quantunque siano sempre oggetto di decisa opposizione da parte dei suoi avversari politici.
Per il licenziamento di Powell ci sono delle obiezioni di carattere finanziario che effettivamente ricadono per fatti concludenti sulla Federal Reserve a causa della eccessiva tempestività di voler considerare consolidata la ripresa dell’economia Usa. È stato infatti con una certa disinvoltura che Powell ha aumentato il costo del denaro, pur essendo questo ancora sotto la linea ottimale di un’inflazione del 2%.
L’economia americana è indebitata fino al collo, ossia, molto di più di quanto normalmente si creda. Infatti il suo debito pubblico ha raggiunto la astronomica cifra di 21.500 miliardi di dollari. È vero che l’economia Usa è la prima del mondo ma il valore assoluto dei debiti può essere simbolicamente rappresentato come l’ altezza delle onde del mare che prescinde dalla profondità sottostante. Ciò in quanto 21.500 miliardi di dollari rappresentano per chiunque e per ogni tipo di transazione il medesimo valore a prescindere dal creditore o dal debitore.
Quando nei mesi precedenti la Fed aveva portato il costo del denaro a 2,25 %, già allora i mercati avevano dato un importante segno di non gradimento. E adesso a maggior ragione, prima di uscire completamente dalla crisi finanziaria che sta ancora mordendo i polpacci, necessitava maggiore cautela ossia, maggiore consolidamento dell’economia non solo americana, per azzardare un ulteriore incremento dei tassi di sconto.
Non era la prima volta - Già allora Trump aveva ammonito il Presidente della Federal Reserve con considerazioni di opportunità, di non alzare il tasso di sconto. Tanto che, vista e considerata la prevedibile regressione di borsa già dall’ottobre scorso, malgrado il tentativo di dissuasione di Trump, tutti i mercati hanno manifestato un significativo segno di nervosismo, dando inizio ad un evidente arretramento dei valori investiti.
Il fatto che adesso in modo del tutto immemore, lo stesso Powell abbia elevato ancora il costo del denaro da 2,25 a 2,50 e che la stessa Fed dichiari che il tasso di crescita americano per il 2018 e per il 2019 si attesterà ad un valore inferiore a quanto preventivato, sembra piuttosto una conseguenza logica di aver peggiorato la situazione.
Oltre a questo va anche aggiunto che mentre Trump ammonisce Pawell di non leggere soltanto i numeri ma di porre attenzione ai mercati, quest’ultimo ha preannunciato che la Fed avrebbe ulteriormente incrementato il costo del denaro nel corso del 2019 quando il tasso neutrale potrebbe benissimo attestarsi al 2,75%. Valeva la pena allora di tanto scompiglio?
Si è trattato di una serie di prese di posizione che hanno causato, senza alcun dubbio, una catastrofe sulle aspettative di borsa e sull’economia americana, tanto da essere arrivata al record assoluto del calo di venerdì scorso crollando ai minimi di un anno e mezzo fa. E tutto ciò malgrado le raccomandazioni del Segretario del Tesoro Usa, Mnuchin, ai vertici delle maggiori banche americane di contenere le inevitabili conseguenze dei mercati.
Non possiamo meravigliarci pertanto, se ora Trump afferma con la sua nota determinazione che la Federal Reserve è divenuto l'unico problema della economia americana. Ma se questo è il teorema, allora il suo corollario è che il problema rappresentato è il Presidente Powell.
L’ aspettativa decisionale - C’è un impedimento però fondamentale che lo stesso Presidente Trump non sta sottovalutando, circa il rimedio a cui egli intenderebbe ricorrere per risalire in questo particolare periodo politicamente turbolento, soprattutto per gli eventi internazionali. La decisione che Trump anche molto plausibilmente, preferirebbe adottare nell’immediato per por fine a questa forte decrescita dei mercati, è quella della rimozione di Powell dalla Federal Reserve.
L’altra possibilità è che Trump, ormai circondato dal largo fronte interno ed esterno che in questi ultimi tempi egli stesso ha accresciuto senza troppi scrupoli, decida di tenersi almeno per qualche mese ancora Powell. Ciò avverrebbe probabilmente, in attesa di tempi migliori, pur con la trepidazione che nel 2019 quest’ ultimo continui, come ha preannunciato, ad aumentare i tassi di sconto.
Il paradosso della situazione - Per Trump il dilemma che pertanto si prospetta lo pone in ……amletico dubbio sul da farsi: se infatti, decidesse di mettere in soffitta l’uomo che lui stesso ha nominato, ovvero, Powell, potrebbe generarsi sulle borse mondiali una ulteriore e ancor più grave perdita per la esplicita dipendenza finanziaria della Federal Reserve dalla politica governativa di Trump.
È vero che nei giorni prossimi dovremmo aspettarci in borsa l’immancabile impennata del cosiddetto rimbalzo tecnico. Ma il rimbalzo tecnico non significa inversione del trend.
Il punto più importante della imparzialità della politica monetaria americana da quella del governo federale, rappresenta il concetto fondamentale sul quale la borsa mondiale ha finora confidato. Se invece venisse provato con il licenziamento di Powell, la dipendenza della leadership della stessa Federal Reserve dalla Casa Bianca, avverrebbe una reazione nel mondo finanziario di non facile previsione.
In effetti, la condizione che Powell ha determinato all’ economia americana ricorda per analogia il comandante di una nave che per il fatto stesso di essere deposto per incapacità, implicherebbe la preliminare accusa di ammutinamento dei protagonisti e poi tutto il resto. Solo che nei mercati finanziari non ci sono processi, dopo quanto avviene: “…………chi ha avuto, ha avuto, ha avuto; chi ha dato, ha dato, ha dato…….”.
La non facile previsione sopra accennata, non significa che il risultato del licenziamento sia necessariamente catastrofico, in quanto potrebbe essere anche quasi indolore, ma com’è noto in borsa l’indecisione e le attese negative sono più rovinose della stessa peggiore realtà dei fatti.
A questo punto non è facile capire che cosa avverrebbe, in quanto la forza risolutiva dei problemi che lo stesso Presidente affronta quasi quotidianamente, supera le previsioni della classica diplomazia consolidata, tanto che le stesse possibili risposte ai vari problemi che si prospettano, contengono la medesima indeterminazione dei fatti che ne sono causa.
Ma perseverare …….. - Lasciar pertanto scivolare l’economia lungo la china discendente della regressione, dopo la pioggia di miliardi immessi sui mercati con il Quantitative Easing (QE) per la politica dei tassi di sconto, sarebbe una contraddizione; considerato infatti, l’enorme debito pubblico degli Stati Uniti d’America, potrebbe trattarsi forse di un male peggiore di un drastico provvedimento preso a tempo reale.
Alberto Zei
Ascoltare e leggere le notizie del Rapporto Italiani nel mondo 2018 è un po’ come guardarsi dal di fuori.
Dal di fuori nel senso dello spazio perché si parla di italiani all’estero. È un guardarsi con i loro occhi. Sono 5,1 milioni gli iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) nel 2018.
Si trovano soprattutto in Europa e in Centro e Sud America. In particolare in ordine di grandezza sono in Argentina, Germania, Svizzera, Brasile, Francia.
Ma è un guardarsi dal di fuori anche nel senso del tempo, in un confronto col passato. Sono ancora soprattutto i meridionali ad emigrare, il 49,5%, seguito dal 34,9% dei settentrionali e solo il 15,6% degli italiani del Centro.
Un 48,1% di donne contro il 51,9 di uomini. Il 55,3% è single, il 37,0% sposato, il 2,5% divorziato o vedovo.
Forse il dato che più che un’idea, sembra voler dare un vero e proprio giudizio su ciò che siamo, come viviamo e dove andiamo, è quello delle classi di età. Il 15,0% ha meno di 18 anni, il 22,2% ha tra i 18 e i 34 anni, il 23,4% ha tra i 35 e i 49 anni, il 19,1% ha tra i 50 e i 64 anni, il 20,3% ha più di 65 anni. Se è più comprensibile che siano i giovani i più disposti ad emigrare per costruirsi un futuro con prospettive migliori, con una volontà e un entusiasmo ancora freschi, è quel 40,0% circa, che ha tra i 50 e oltre 65 anni, che spiazza.
Allora si cerca conforto nelle motivazioni e soprattutto quelle delle fasce d’età più sconcertanti. Gli over 50 sono soprattutto disoccupati e con alta e diffusa precarietà. Nelle fasce alte di età un’altra motivazione è il ricongiungimento con figli e nipoti all’estero. Questa volontà/necessità di ricostruzione/ricostituzione della famiglia è testimoniata anche dal successo del ristorante di cucina italiana a Londra, La mia mamma. Sono le mamme dei figli migranti che li vanno a trovare, si fermano per tre mesi e fanno da chef al ristorante con pari alternanza di menù a seconda delle regioni d’origine.
Sono definiti migranti di rimbalzo coloro che rientrati in Italia alla fine dell’attività lavorativa, la lasciano nuovamente perché rimasti vedovi e/o per ricongiungersi con i figli rimasti all’estero.
Infine i migranti previdenziali, cioè coloro che, pensionati, si trasferiscono all’estero dove la vita ha un minor costo, ma offre anche una qualità più alta, soprattutto a livello sanitario. Le mete più richieste sono Marocco, Thailandia, Spagna, Portogallo, Tunisia, Santo Domingo, Cuba, Romania.
Se lo sguardo sembra non essere dei più ottimisti e benevoli, tanto più se si considerano le difficoltà, cioè che non sempre la migrazione va a buon fine, è proprio guardando alle fasce di età, che si può tirare qualche considerazione positiva.
L’età avanzata dei migranti testimonia l’allungamento della vita, ma anche una più longeva mentalità positiva che continua a guardare e a cercare il meglio, anche se altrove.
L’informazione è un bene comune, soprattutto quando è precisa, documentata e comprensibile a tutti. Sono queste le caratteristiche fondamentali dei lavori editoriali del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (CNMS). L’ultimo dossier – relativo ai dati del 2017 – riguarda “la crescita del potere delle multinazionali”. Non è una novità assoluta, poiché si tratta dell’ottava edizione. Ma è proprio la costanza del periodico aggiornamento dei dati, che consente un confronto con la situazione di 10 e di 20 anni fa. In questo modo è possibile cogliere i cambiamenti in atto a livello globale e l’evoluzione delle multinazionali nei diversi settori.
Gli autori del dossier (scaricabile con tutti i materiali allegati qui), coordinati da Francesco Gesualdi, utilizzano molti numeri e poche parole: ogni analisi o commento fa sempre riferimento a dati e a percentuali. Le cifre messe in fila e in risalto sono la vera traccia da seguire per il lettore attento, che vuole capire come funziona l’economia mondiale globalizzata.
Il primo elemento che colpisce è l’evoluzione dal 1996 al 2017 del numero di dipendenti, del fatturato e dell’utile delle 200 più rilevanti multinazionali. Gli addetti sono raddoppiati: da 18 milioni nel 1996 sono diventati 41 milioni nel 2017. I ricavi annui sono triplicati: da 6.900 a 19.600 miliardi di dollari. I profitti annui sono quadruplicati: da 254 a 1.189 miliardi di dollari. Prima il guadagno, poi la produzione e infine il lavoro: questo è il risultato effettivo del sistema capitalistico che le multinazionali rappresentano più di ogni altro soggetto economico.
La società con il profitto più consistente è Apple (11° posto in classifica assoluta), che ha prodotto un utile di oltre 48 miliardi di dollari con un fatturato di 229 miliardi. Ma tra le prime 50 multinazionali è Industrial & Commercial Bank of China ad ottenere la miglior percentuale (28%) nel rapporto tra profitti (42 miliardi) e ricavi (153 miliardi).
Ogni multinazionale ha una sede capofila, un perno centrale da cui dipendono le filiali sparse per il mondo. Tra le prime 200 ne possiamo trovare 60 negli USA, 42 in Cina e 21 in Giappone. In Europa: 13 in Francia, 12 in Germania e 8 nel Regno Unito. L’Italia è al 12 posto della classifica con 3 multinazionali: Assicurazioni Generali, Enel e Eni (rispettivamente al 59°, 83° e 89° posto). Questi tre colossi italiani dell’economia complessivamente danno occupazione a 167mila persone, fatturano 265 miliardi all’anno con un utile di oltre 10 miliardi di dollari.
Suddividendo le multinazionali per categorie di attività, si scopre che nel settore delle costruzioni ci sono 6 società nelle prime 200: tutte con sede in Cina. Nel commercio e nei trasporti 11 tra le prime 12 sono negli USA. Il settore in cui le multinazionali producono maggiori ricavi è quello finanziario: 4.129 miliardi, circa un quarto del totale. A seguire il commercio e trasporti (3.648 miliardi) e al terzo posto le società del petrolio e gas (3.036 miliardi). Pertanto oltre la metà del fatturato delle multinazionali è in questi tre ambiti.
Al primo posto assoluto troviamo la Wal-Mart Stores, che da sola incassa oltre 500 miliardi di dollari, che corrispondono agli introiti pubblici dell’intera Spagna. È impressionante constatare che la Toyota Motor incassa di più dello stato della Turchia e la Volkswagen più del Belgio. La tabella che mette a confronto le entrate pubbliche degli stati con i ricavi privati delle multinazionali mostra con evidenza di quanto potere dispongano oggi queste ultime.
Il dossier presenta anche due importanti approfondimenti: sulla Cina e sulle multinazionali che vendono armamenti. Se prendiamo le prime 10 imprese coinvolte nell’industria bellica, possiamo rilevare che 6 sono cinesi e 3 americane. E per concludere c’è un focus sulle multinazionali dell’economia digitale. Tra le prime 20, ben 17 hanno la sede legale in un paradiso fiscale (Delaware o Isole Cayman). La globalizzazione va bene per le vendite, mentre per i pagamenti è utile rifugiarsi in qualche angolo del mondo: contraddizioni di un capitalismo ipocrita, che i dossier del Centro Nuovo Modello di Sviluppo mettono a nudo.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
Campagna pubblicitaria di Poste Italiane sui giornali, per evitare che si indaghi sui lati oscuri della società.
Dunque, da un po di tempo Poste Italiane sta effettuando una campagna pubblicitaria a tappeto sui prodotti finanziari, a partire dai finanziamenti da concedere ( prestiti e mutui), che però effettua attraverso alcune banche di supporto logistico, perché Poste non è una banca e non potrebbe concedere direttamente prestiti. Ma, aggirando l'ostacolo si prende belle commissioni dalle banche. Ed i finanziamenti, naturalmente, dovrebbero risultare più onerosi.
Ma la storia non finisce qui.
Poste Spa, infatti, sta anche sponsorizzando buoni e libretti di risparmio, che secondo la società dovrebbero crescere nel tempo, non spiegandone, però, le motivazioni. Pubblicità ingannevole?
All'Antitrust il giudizio.
Così, per saperne di più occorre recarsi in un ufficio postale.
Apriti cielo. Ha inizio il percorso ad ostacoli del burocratese.
Facciamo un esempio chiarificatore. Ci si reca all'ufficio postale di Roma centro, Via Virgilio, nel cuore di Prati. Il numeretto per accedere nella stanza dedicata ai servizi finanziari non c'é. Si chiede ad un impiegato. Mettersi in fila. Ma quale fila, dal momento che tanta gente è seduta?
Così , quando si apre la porta, si chiede se si può essere ricevuti, ma la risposta è che occorre prenotarsi. Ma dove sta scritto? Da nessuna parte. Come? Non viene detto.
Si chiede se l'ufficio è anche preposto al rilascio della Postepay. No. C'é lo sportello di riferimento. Quale? Sezione prelievi e versamenti.
Bene, si prende il numeretto, ma davanti ci sono 12 persone. Meglio fare una bella passeggiata di almeno un ora.
Si torna, e finalmente scatta il numero magico, ma...
Per ottenere la carta Postepay è come essere di fronte alla Gestapo. Trenta minuti per il rilascio della tessera, nove firme a singhiozzo, 10 euro per il contratto e 5 per l'apertura della pratica.
Poi, entro un anno occorrerà effettuare un versamento di 10 euro, per i tre anni successivi, e prima della scadenza occorrerà telefonare al call center per richiedere a casa la nuova carta, oppure sarà necessario recarsi all'ufficio postale. Si chiede, qual'è il massimale di una possibile ricarica? Nessuna risposta. E' scritto tutto sul documento che rilasciamo. Amen.Quindi, si chiede ancora: “ Ma il denaro versato sulla Postepay è sequestrabile da Equitalia?”. “ Certo che si, questa è una banca”.
Demenza totale. Poste Italiane non è una banca. E allora? L'ignoranza regna sovrana, alla faccia degli inserti pubblicitari del nulla.
E siamo A Roma centro. Figuriamoci cosa può accadere nelle piccole città o paesini.
E dulcis in fundo. In Italia sparisce sempre più posta, mentre spuntano anche portalettere “abusivi”. Ma di ciò nelle pubblicità non vi è traccia.
Nel 2017 multe record da parte del Garante delle Comunicazioni per 900 mila euro per mancata consegna di lettere, bollette, comunicazioni bancarie, ecc.
Ecco perché tanta pubblicità. Silenzio totale sulla stampa, eccettuata qualche oasi nel deserto.
Elettricità: occhio alle finte società che intendono carpire solo vostre informazioni: ecco perché.
Dunque, se si è cambiata utenza, in fretta, perché l'ente erogatore di energia elettrica e gas, ha richiesto un maxi conguaglio, inviato dopo un anno ( e se non si paga entro 15 giorni staccano l'elettricità) immotivato, in quanto i contatori sono online, accade che si è costretti a pagare, a meno che non si cambi velocemente il gestore , e sempre che non si abbiano i pagamenti effettuati tramite banca.
Per cui il vecchio gestore cercherà in tutti i modi di provare a recuperare il credito, di cui però non ha diritto.
Ma perché la richiesta di un conguaglio non dovuto? Perché il gestore, all'inizio invia bollette accattivanti, per far si che il nuovo cliente non scappi subito, ben sapendo che le bollette sono presunte e non reali, perché non sono stati letti i consumi online. Cosa c'è dietro? Vediamo:
facciamo un esempio concreto: l'Acea, a Roma, su circa 3 milioni di utenze ne controlla online solo 1,5 milioni, cioè la metà, perché i calcolatori della società non sono sufficienti a sopportare tutto il carico dei dati. E così accade che , dopo un anno, quando si va a leggere il contatore in casa dell'utente, arriva la batosta del conguaglio.
La prima cosa da fare , quando giunge la richiesta, cambiare subito società di gestione, entro 15 giorni, in modo tale che l''elettricità non potrà essere più staccata. Poi , inviare lettera raccomandata, in cui si spiega che non si pagherà un bel nulla, in quanto il contatore è gestito online, e quindi la colpa del conguaglio è solo da attribuire all'ente erogante.
Ma capita anche che alcuni enti di elettricità, per non dover emettere, poi, conguagli, si premuniscano, facendo pagare bollette più salate, da subito.
Infatti molte società di gestione dell'elettricità, sono agganciate all'ultimo chilometro con società terze , come per esempio Acea su Roma, che non invia le reali letture mensili dei consumi. Così accade, che alla fine sarà la società a pagare il conguaglio all'utente.
Solo, che, però, si aggiunge un'altra losca manovra, perché sul conguaglio dovuto all'utente, si rimborsa solo la parte del consumo di elettricità, che incide per un terzo sul valore della bolletta.
E dato che la normativa approvata dal governo Renzi ( ma guarda caso),prevede che la richiesta di conguaglio inevasa possa essere richiesta alla nuova società dell'utente, pena il distacco dell'energia elettrica,ecco giungere fantomatiche telefonate da parte di società demoscopiche, con l'intento di capire quale sia il nuovo gestore dell'utente.
Dunque, se vi dovesse capitare, attaccare subito il telefono , senza dare alcun ragguaglio. Dietro le richieste di dati ci sono avvocati cacciatori di teste, per il recupero dei conguagli inevasi.
Insomma, un losco labirinto in cui sarebbe il caso che sia l'Antitrust che le associazioni dei consumatori mettessero il naso.
Un video di qualche tempo fa che vi aiuterà a capire chi è Paolo Savona e perché sul suo nome si sta scatenando un braccio di ferro tra il Presidente della Repubblica (e le istituzioni internazionali di cui Mattarella si fa portavoce) e l'asse M5S Lega.
Il governo Gentiloni regala alla Francia tratti di mare delle coste di Liguria,toscana e Sardegna con il recente accordo di Caen in seguito ad una precedente trattativa con lo stesso Gentiloni all'epoca ministro degli esteri del “meraviglioso” governo Renzi.
Con questo regalo, non ratificato dal nostro parlamento, la Francia ha già modificato le acque territoriali della Corsica da 12 a 40 miglia mentre nella parte Nord occidentale della Sardegna addirittura fino a 200 miglia.
Alcuni pescherecci italiani sono già stati fermati dalla guardia costiera francese.
Il tratto di mare interessato è tra i più pescosi d’ Italia.
Sardi e liguri sono furiosi ed anche noi dobbiamo esserlo, anche per un altro motivo.
Infatti in questo spazio regalato alla Francia c'è una mega riserva di gas da 1,4 trilioni di metri cubi di gas e 0,42 miliardi di barili di petrolio.
Non è dato sapere cosa abbiamo avuto in cambio dal nostro "amico"Macron.
I francesi,non essendo stato ratificato l'accordo dal parlamento italiano hanno proceduto all’ occupazione tramite un decreto europeo.
L’Italia ha tempo fino al 29 marzo per fare ricorso tramite il nostro governo.
Praticamente abbiamo subito una onta che, a nostro avviso, è da considerarsi alto tradimento da parte del governo e di quelle istituzioni che dovrebbero tutelare l'integrita' territoriale.
Nuove norme e sanzioni per chi guida con il cellulare
Nel mese di Maggio verranno attivati, a Roma, in modo sporadico, i "rilevatori tutor" in tangenziale in entrambe le direzioni. Funzionano in due modi, o come tutor o come e veri propri velox istantanei. Entreranno in via definitiva dal mese di Luglio.
Chi passerà nella corsia d'emergenza, verrà comunque fotografato.
Dunque, fare attenzione.
A partire da martedì 27 Marzo entrerà in vigore il nuovo codice della strada.
Chiunque verrà sorpreso alla guida del veicolo, anche se è fermo ai semafori o agli stop, con il cellulare o altri apparecchi similari
la sanzione è la seguente: ritiro immediato della patente e una multa da 180 euro fino a 680. Quindi stare molto attenti, organizzarsi con il viva voce e se si indossano gli auricolari ricordarsi che un orecchio deve restare libero.
Il fatto di avere il telefono in mano e parlare attraverso il vivavoce dello stesso, comporta ugualmente la sanzione. A cui andra' aggiunta quella per guida con una sola mano da €161 e 5 punti in meno sulla patente di guida.
Un'inchiesta dell’associazione consumatori, su 50 punti vendita, rileva che tutti gli operatori tendono a non comunicare i costi reali delle offerte agli utenti. Troppi servizi aggiuntivi, già attivati sulla sim al omento della sottoscrizione del contratto. Altroconsumo denuncia gli operatori Tim, Wind 3, Vodafone all’Agcom e all’Antitrust.
Gli operatori mobili tendono a nascondere il costo reale delle offerte telefoniche agli utenti. Non comunicano loro, infatti, al momento della sottoscrizione, i costi di alcuni servizi pre-attivati nelle sim: per a segreteria telefonica, il “ti ho cercato”; i costi di attivazione, quelli per rinnovare il proprio piano tariffario, il canone mensile per l'antivirus e tanti altri.
È quanto risulta da una inchiesta di Altroconsumo in 50 punti vendita in 5 città - Milano, Torino, Bologna, Roma e Napoli, da cui l’associazione dei consumatori ha sporto denuncia ad Agcom e Antitrust contro i quattro principali operatori. “Emerge la scarsa trasparenza di tutti gli operatori, Tim, Wind 3, Fastweb, Vodafone. Anche se alcuni nascondono più costi di altri”, dice a Repubblica.it Ivo Tarantino, responsabile relazioni esterne dell’associazione consumatori.
“L’utente attiva una offerta e non viene informato dei costi totali, che scopre solo dopo aver visto la bolletta. Dovrebbe invece saperli subito, per poter eventualmente disabilitare quelli che non gli servono”. E’ il caso certo della segreteria telefonia, resa obsoleta da Whatsapp. “Ne risultano aggravi i costo di alcuni euro al mese, almeno”.
L'INCHIESTA
Per ciascun gestore, Altroconsumo ha visitato dieci punti vendita, due in ogni città dell'inchiesta (per Wind 3 sono sia i punti Wind sia quelli 3). Un rappresentante dell’associazione ha fatto finta di voler cambiare operatore. Il profilo di offerta preso in considerazione: 500 minuti di chiamate, pochissimi sms (meno di cinque al mese, per il resto Whatsapp) e un giga per navigare.Nemmeno un addetto alle vendite su due (48%) ha voluto sapere il profilo, né ha chiesto quale fosse la tariffa in uso. “Il 32% delle offerte consigliate conteneva minuti illimitati, cosa assolutamente inutile per il profilo e che avrebbe fatto lievitare il costo fisso mensile fino a 15 euro. Anche per quanto riguarda internet si punta in alto: il 36%
ha proposto tariffe con più di 10 giga mensili”, spiega l’associazione.
“Nei punti vendita ci sono stati pochi sforzi per adeguare la proposta alle esigenze del cliente, tanti per occultare i costi dei servizi attivati preventivamente sulle sim, lasciando l'utente alla propria esperienza e al proprio credito residuo. Sono i costi extra soglia, quelli su cui gli addetti preferiscono glissare più frequentemente. I negozi che non li menzionano, neanche quando si fa riferimento a possibili spese aggiuntive, sono quasi tutti: 48 su 50”.
IL DETTAGLIO DEI COSTI
“Anche se tutti nascondono costi, ci sono alcuni che hanno meno voci nascoste”, dice Tarantino. “Dalla nostra inchiesta risulta che Fastweb è quello con meno costi nascosti”. Risulta che il 10 per cento ei negozi ha taciuto del costo di attivazione (5 euro), mentre tutti non hanno detto all’utente dei costi extrasoglia. Questi per altro sono puntualmente taciuti da quasi tutti i negozi di tutti gli operatori (il 100 per cento per Wind 3, l’80 per cento per Vodafone, il 90 per cento per Tim). Nel caso di Wind, tutti i negozi hanno detto del costo di attivazione (3 euro), ma tutti hanno nascosto anche il costo del piano tariffario (50 cent a settimana) e del recesso anticipato (16 euro), mentre il 70 e l’80 per cento di loro (rispettivamente) ha taciuto il costo dell’sms “chiamami” (19 cent a settimana) e della segreteria telefonica (12 cent al minuto). Per 3 Italia l’80 per cento ha nascosto il costo della segreteria (20 cent a chiamata), il 70 per cento quello del costo dell’sms “ti ho cercato” (1,50 euro al mese di utilizzo effettivo), il 50 per cento il costo di recesso anticipato (46 euro) e il 10 per cento il costo di attivazione (3 euro).
Nel caso di Tim, tutti i negozi hanno detto di quest’ultimo (5 euro), mentre la metà ha nascosto il costo di base Prime GO (49 cent a settimana, anche questo disattivabile). L’80 e il 90 per cento ha nascosto rispettivamente i costi del Lo sai e chiama ora (1,90 euro al mese) della segreteria telefonica (1,50 euro a chiamata). Per Vodafone: tutti hanno nascosto il costo del recesso anticipato (26-45 euro), del controllo del credito (19 cent al minuto con 20 cent di scatto alla risposta), il 90 per cento quello della segreteria (1,50 euro al giorno di effettivo utilizzo). L’80 per cento il costo di “chiamami” (12 cent al giorno di utilizzo) e dell’extrasoglia. Il 70 per cento il costo dell’antivirus (1 euro al mese) e dell’opzione per il piano tariffario (49 cent a settimana). Meglio va per quello di attivazione (5 euro), celato solo dal 10 per cento dei negozi.
L’inchiesta di Altroconsumo rivela ancora una volta – come per il caso del passaggio alle tariffe a 28 giorni – che gli operatori stanno cercando modi indiretti e poco visibili per aumentare il costo delle tariffe. E così recuperare ricavi dopo la stagione di grossi sconti, che hanno portato i canoni italiani a livelli tra i più bassi in Europa. Cioè, molto bassi almeno per gli utenti esperti che sanno di dover disattivare i servizi nascosti.
Immobiliare Bankitalia. Fatta la legge trovato l’inganno. Ecco come.
Una normativa della BCE stabilisce che le banche centrali europee non possano più possedere beni immobili, esclusi quelli usati per i loro uffici.
Così, alla chetichella, Bankitalia nel 2014 ha ceduto i suoi immobili, in prevalenza nel centro-sud, di cui 187 di pregio solo a Roma,alla Sidief Spa, interamente partecipata, che ha nel suo “ventre” 9.000 immobili.
Però gli alloggi trasferiti alla Sidief dovranno seguire, guarda caso, le modalità disciplinate da uno specifico regolamento di Bankitalia.
Ne deriva che gli immobili possono essere assegnati esclusivamente al personale in servizio o in quiescenza, e solo a seguito di una gara, gestita, naturalmente, da Bankitalia, con criteri e garanzie proprie del procedimento amministrativo, ai sensi della legge L.241/90 e successive modifiche ed integrazioni.
Alla gara è riservata la partecipazione ai dipendenti e pensionati che non siano proprietari di unità immobiliari ad uso abitativo ubicate nel comune nel quale si trovano gli alloggi offerti o nei comuni confinanti.
Nella definizione dei canoni di locazione da applicare, la banca centrale ha assunto quale criterio economico oggettivo quello definito negli accordi territoriali conclusi, a livello locale, dalle organizzazioni sindacali rappresentative dei proprietari degli inquilini.
Peccato, però, che i patti territoriali siano applicati al livello minimo su palazzi di pregio, nelle zone più belle di Roma, ed in altre città, mentre le tabelle pubblicate si riferiscono solo a quegli immobili affittati a terzi e non a quelli “ scontati” per i dipendenti.
Nel 2004-2005 Bankitalia ha aumentato i canoni, che erano a livello ridicolo, e poi ha iniziato, e solo per i terzi, ad applicare un canone più vicino al mercato.
Così i Vip della banca pagano un affitto pari a circa la metà del valore di mercato e tra i terzi sono stati considerati anche i loro figli.
Le pratiche di sfratto per chi non si fosse adeguato ai nuovi canoni sono iniziate a scoppio ritardato, dopo un decennio. Conclusione: nessuno se ne è andato, e tutti hanno continuato a pagare il dovuto precedente, cioè secondo il vecchio canone di affitto mentre la Sidief ogni 6 mesi invia una nuova richiesta, con tanto di missiva, per non perdere il diritto, e nulla cambia.
Tassi bancari alla “sbarra”e novità sui crediti insoluti ed altro. La storia degli ultimi anni è lastricata dai tassi usurai, cioè dagli interessi illegittimi applicati da numerosissime banche e finanziarie che hanno superato la soglia consentita da Bankitalia, e quindi divenuti usurai.
Tantissime le sentenze contro l’illegittimo comportamento del credito.
L’ultima della serie è la condanna di Unicredit, Intesa S. Paolo e Bnl, per 11milioni di euro sancita dall’Antitrust per l’addebito sugli interessi debitori raccolti in modo illegittimo.
Dall’istruttoria dell’Antitrust emerge che le tre banche hanno adottato condotte aggressive, in violazione del codice del Consumo, aventi ad oggetto la pratica dell’anatocismo bancario ( calcolo degli interessi sugli interessi a debito nei confronti dei consumatori).
Il totale del mercato del credito illegale “ a strozzo”, durante la recessione , tra mafia e banche , ha raggiunto un giro di affari di 24 miliardi di euro, ed ha coinvolto circa 200mila imprenditori e professionisti del nostro Paese, un dato decisamente in aumento rispetto ai 20 miliardi stimati nel 2011, anche se, però, le denunce sono rimaste al palo.
Tra le svariate anomalie del sistema bancario e finanziario c’è da segnalare anche la stranezza del forte divario esistente tra i tassi sui mutui ( con garanzia ipotecaria) e quelli agganciati al quinto della pensione, che superano abbondantemente il doppio, collocandosi vicino all’8% , oltre che con gli interessi stornati anticipatamente dalla cifra da erogare , il che non giustifica assolutamente il tutto, mentre Bankitalia rimane silente, come anche il mondo della politica.
E per fare un esempio concreto su questa tipologia di malefatte bancarie e delle finanziarie ( la maggior parte di emanazione bancaria) citiamo Bnl Finance , come esempio ( ma le altre sono sulla stessa linea), che propone un’offerta di credito, sostenendo che è “ particolarmente vantaggiosa”, con scadenza 31/1/2018, e dedicata ai pensionati, con un Taeg fisso all’8,11% ed il Tan fisso al 7,51%, durata 60 mesi ( 5 anni).
Dunque, per un prestito di 15mila euro il reale credito erogato sarà di 12.382,53 euro, in quanto la banca si trattiene anticipatamente tutti gli interessi.
In tal modo se il creditore dovesse estinguere anticipatamente il prestito, gli interessi già incamerati non verranno restituiti.
Tra l’altro è bene ricordare che lo scoperto di c/c , che prima poteva essere concesso fino a 3 volte l’ammontare della pensione o dello stipendio, è stato ridotto solo a due mensilità, e ciò proprio per spingere maggiormente verso richieste di finanziamento.
Un’altra novità dell’ultima ora riguarda i crediti deteriorati. Ora una normativa stabilisce che le cessioni di questi insoluti possa essere messa all’asta, in modo tale da poter consentire alle banche maggiori recuperi rispetto alle cessioni di pacchetti alle bad bank.
La base di partenza per le aste prevede uno sconto del 70% per i piccoli crediti e del 50/60% per i grandi crediti.
Inoltre, c’è da segnalare il non funzionamento dei prestiti vitalizi per gli anziani, che sono dei veri e propri fantasma, anche se varati con legge, ma approvati solo da Unicredit, Intesa S.Paolo e Mps. Questa tipologia di prestiti, di fatto, non viene applicata neanche dalle tre banche di cui sopra.
Dulcis in fundo. Ora banche e finanziarie potranno mettere all’asta i beni immobili ipotecati, in caso di non pagamento delle rate sui mutui erogati, senza più dover passare per una sentenza del giudice, grazie a Renzi e soci, che hanno favorito come non mai, nella storia italica, il sistema bancario e finanziario, piuttosto che occuparsi dei poveri e del lavoro vero, e non di quello a termine ed occasionale.
Per la Russia il 2017 si chiude con un'inflazione insolitamente bassa. Dopo diversi anni di recessione e una ripresa lenta, l'industria russa ha ripreso la produzione superando le attese. Se l'occidente ha esteso e prolungato le sanzioni contro Mosca, ciò non è stato un colpo mortale per l'economia russa, anzi ne è sortito un effetto contrario.
Per la prima volta nella storia della Russia, la deflazione ha superato l'inflazione per ben due volte. Ad agosto 2017 i beni e i servizi sono diminuiti dello 0,5% , a settembre, dello 0,1%. Ciò significa che le imprese, non riuscendo a vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi, cercano di collocare questi a prezzi inferiori.
In tutte le regioni della Russa l'inflazione e' scesa sotto il 4%, solo nella regione della Yakutia c'e' stato un -4,9%, la crescita dei prezzi più bassi e' stata registrata nella regione dI Penza, -1%.
I prezzi alimentari sono aumentati dell 0,2% e i prodotti non alimentari dello 0,9%, ciò significa che la struttura dell'inflazione e' cambiata in modo significativo e l'aumento dei prezzi non ha avuto un contraccolpo pesante per il 30% dei russi, anche se non si tratta della maggioranza della popolazione, ma e' sempre un segnale positivo.
Anche per l'industria il 2017 e' stato super, un vero record per i prodotti russi: l’incremento della produzione si e' moltiplicato per due; negli ultimi due anni l'industria era rimasta ferma, alla fine di questo anno la produzione industriale ha raggiunto l'1,2%, il doppio del 2016.
Il 28 giugno 2017 la UE ha rinnovato le sanzioni economiche che rimarranno in vigore fino al 31 gennaio 2018, mentre ad agosto 2107 il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato un ''pacchetto'' di sanzioni che quasi sicuramente saranno operative ad inizio 2018.
Le sanzioni europee prevedono il divieto di ingresso di un certo numero di funzionari e imprenditori russi insieme a misure restrittive per progetti commerciali internazionali. Ciò vale anche per il settore bancario, viene negata la collaborazione con la Banca Commerciale Nazionale Russa e Tempbank. La parte ''comica'', si fa' per dire, e' che molti esponenti politici europei criticano questa decisione e molti si recano a Mosca per discutere di come toglierla. Questa storia delle sanzioni iniziarono a luglio del 2014 in risposta alla crisi Ucraina.
Stando alle dichiarazioni del presidente russo Vladimir Putin le sanzioni hanno colpito l'economia russa non tanto quanto il calo del prezzo del petrolio. La crescita dell'economia in Russia e' dovuto quindi al rialzo del prezzo dell'energia di cui la Russia ne è ricca e dei suoi vincoli esterni.
Per il 2018 Nikolai Kashcheev, direttore della ricerca e analisi di Promsvyazbank, ha spiegato che con alcune riforme l'economia e l'industria russa con tutta probabilità raggiungera' il 4-4,5% di crescita annuale entro il 2019. Sarà un buon obiettivo dopo questi anni all’insegna delle sanzioni e della recessione.
Un bell’evento per rimarcare ancora di più il filo diretto che lega l’interscambio commerciale tra Italia e Russia. Italyweek, la settimana dell’Italia, si è svolta a Mosca dal 5 dicembre al 12 dicembre nella sala interna del Manezh (maneggio degli Zar) a poche centinaia di metri dalle mura del Cremlino. Qui al Manezh, arte, moda, turismo, tecnologia, gastronomia e musica sono stati i pezzi forti esposti e presentati dal nostro paese ai moscoviti. Il turismo ha fatto la voce grossa della manifestazione, stand della Sardegna, Basilicata, Puglia, ed infine un workshop, hanno contribuito ancora di piu' all'affermazione del turismo russo in Italia. Del resto, il popolo russo ci ama e ci ammira e ciò si traduce anche in forti introiti economici, ogni anno migliaia e migliaia di russi frequentano le nostre spiagge e visitano le nostre città.
Anche per quanto riguarda la musica c'e' stata un'interessante presenza italiana, il professore di canto Alessandro Svab, ha presentato l'Accademia Lirica Santa Croce di Trieste, scuola internazionale di canto, portando con se' cantanti di eta' molto giovane, nell'intervista sul video sentiremo alcuni progetti della scuola portati e presentati in Russia. Anche per il pop, un grande successo con il cantante Thomas Grazioso, gia' conosciuto in altri concerti, ha cantato alcune delle sue canzoni e alcuni successi italiani famosi in Russia.
Gelati e pasticceria e' stata la parte gastronomica italiana, il gelato italiano e' molto amato dai turisti russi che si recano in Italia durante il periodo estivo, qui al Manezh era rappresentato da alcune ditte che lavorano in Russia, così pure Si sono affacciate ditte di cosmetica molto apprezzate dalle visitatrici dell'evento.
Il successo ottenuto in questa manifestazione e' dovuto anche alle solide radici europee e cristiane, ma soprattutto nei passati secoli i nostri artisti, scienziati, architetti e persino nostri militari hanno contribuito alla grandezza della Russia, basta fare una passeggiata per le strade del centro di San Pietroburgo o tra le mura del Kremlino a Mosca per rendersene conto.
Mentre di contro, ma positivamente, la storia della comunità russa in Italia affonda le proprie radici ben prima dei famosi eventi del 1917 con rapporti di reciproca stima e affetto. Non è un segreto, infatti, che l’Italia abbia sempre attirato i russi. Molti arrivarono per caso e si stabilirono a lungo, incapaci di lasciare l’ospitale Paese dell’arte e del buon clima. La figura di Gor'kij all'inizio del Novecento è molto popolare in Italia come scrittore di fama internazionale, tradotto in molte lingue; ma non è solo come scrittore che viene accolto, è un simbolo della lotta dell'intelligencija contro il potere zarista, è il rappresentante della coscienza rivoluzionaria russa, è un fuoriuscito politico. A Capri giunge accompagnato dalla sua compagna, la famosa attrice Marija Andreeva, e dal segretario Nikolaj Burenin il 2 novembre 1906 a bordo del piroscafo Mafalda e si stabilisce all'Hotel Quisisana.
Tatyana Andriyas, la bella e affascinante curatrice della mostra nell'intervista finale ha voluto ricordare che l'evento e' organizzato anche per incrementare l'interscambio commerciale e culturale tra i due paesi, noi la ringraziamo per l'ospitalita' e il lavoro svolto per la riuscita di questo evento e l'aspettiamo per il prossimo ITALY WEEK del 2018.
I furbetti delle società fornitrici di energia elettrica, Acea in testa. A Roma, Acea su due milioni ed 800 mila contatori online ne copre meno della metà , non funzionano , perché la società non riesce a decodificare tutti i dati che giungono a destinazione. Per cui, dopo, sono dolori perché giungono conguagli da horror, che non dovrebbero essere consentiti, proprio perché si hanno contatori online. Ed allora, per sopperire alla parte di non lettura online, Acea ha preso accordi con società terze, per la lettura, almeno annuale dei contatori non letti. Intanto, sia Acea, che le altre società fornitrici di energia intascano bei soldoni in più, basandosi sulle stime precedenti, ma rigorosamente aumentate, proprio per evitare conguagli sfavorevoli con l’utente. Chi interviene sulla questione? Magistratura, associazioni dei consumatori, Antitrust per l’energia? Ma neanche per sogno.
Come d’altronde accade anche per le chiamate telefoniche dai vari call center che propongono nuove offerte. Dunque, siamo nella terra di nessuno , dove ciascun utente deve cercare di arrangiarsi alla meglio. Ma su Acea c’è anche di peggio. La società, infatti, per la lettura dei contatori si affida a società terze, come Areti ed Easy Servizi , che però se le si chiamano non risponde nessuno. Ed è già un bel segnale di inefficienza totale. Accade infatti che venga lasciato un foglio prestampato in cui si indicano mese e data oltre che clienti da visitare per la lettura del contatore. Ma poi non viene nessuno, oltre che il foglio non reca il responsabile ne una firma. Per cui potrebbe anche essere un clone di chi si voglia. Poi, magari capita che il presunto addetto alla lettura venga il giorno dopo l’avviso. Tra l’altro il tecnico inviato dalle società terze di cui sopra percepisce un euro a lettura. Ora, ci si chiede, ma l’Acea a chi affida la lettura dei contatori ? A strozzini ?Oltre al fatto che non ci dovrebbe essere la lettura perché online. Ma il peggio non finisce mai. Suonano al citofono, ed un incaricato presunto della Areti dice che deve leggere il contatore. Si obietta che senza preavviso non si entra in casa. Il ragazzotto se ne va, con la coda tra le gambe. Si telefona all’Acea, dove dicono che senza preavviso non può entrare in casa nessuno. Si telefona alla Areti. Solo un disco ripetitivo fine a se stesso. Così non si può neanche controllare il nominativo dell’eventuale controllore. Dunque, siamo nella terra di nessuno, ed Acea fa finta di nulla.
Decolla l’utile Unicredit, ma a scapito della clientela. Infatti, l’amministratore delegato francese, Jean Pierre Mustier, ha portato a termine un aumento di capitale da 13 miliardi, ha ceduto alcuni asset non ritenuti necessari, mentre ha usato machete e bisturi per far ripartire la banca, e ciò a scapito soprattutto dei fedeli della banca. Ma non siamo in chiesa.
Dunque, nel terzo trimestre 2017 l’istituto di credito chiude con guadagni netti per 2,820 miliardi di euro, più che sestuplicati rispetto ai 447 milioni dello stesso periodo del 2016. Nei nove mesi di quest’anno l’utile netto è stato di 4,67 miliardi, contro l’1,16 mld dell’anno scorso. Il Cet 1 è atteso oltre il 13,5% a fine settembre di quest’anno. Poi, ci sono voci di corridoio che si rincorrono che vedrebbero Unicredit interessato alla Commerzbank, anche se c’è chi sostiene che la notizia sia una bufala. Ma le mozzarelle di bufala sono molto buone ed appetitose. Dunque, ci si chiede, a Mustier l’affare fa gola? Fatto è, comunque, che tra tagli di agenzie e ridimensionamento delle strutture, oltre che sforbiciate al personale, ed apertura degli sportelli cassa fino alle 13,30, a rimetterci è sicuramente il cliente, che ora si ritrova di fronte a code estenuanti agli sportelli. Poi c’è anche personale di cassa , che intanto l’orario lo deve rispettare, che non curante delle file attende i comodi di qualcuno che riempie moduli su moduli, senza averli compilati prima, e così uno sportello cassa rischia di rimanere bloccato per 45 minuti ed oltre, mentre la gente sbuffa, ma non protesta. E la clientela, come le pecore se ne sta silente nell’ovile, senza provare almeno a cambiare banca.
Poi c’è l’ufficio stampa, ben nutrito di personale, che è stato capace anche di trasmettere i dati del bilancio preventivo del terzo trimestre senza che il CdA li avesse approvati, ma non posiziona una riga su quali siano le reali sofferenze della banca, che secondo voci solitamente bene informate, si assesterebbero oltre i 60 miliardi. Così il Cda, in fretta e furia si è dovuto riunire la mattina del giorno dopo la diffusione della notizia del bilancio, per riparare i danni, ed approvare i dati. Ufficio stampa fantozziano? Una sforbiciata anche qui per diminuire i costi? Ma che vai a toccare i troppo spesso imbucati dai vertici precedenti della banca? Meglio prendersela con la clientela, sempre più disorientata e frastornata. Inoltre, non si sa quante siano le cause in atto per i tassi usurai applicati, e quale sia l’eventuale importo globale.
La realtà è che alla guida di Unicredit c’è un francese, messo lì, non a caso, da coloro che possiedono pacchetti sostanziosi di titoli, e che messi insieme controllano la banca, stranieri, che se ne fregano dei tagli del personale, di chiusura di agenzie ed altro. L’importante è che il titolo cresca di valore e che, altresì, l’utile cresca, mentre “ i bamboccioni italici” restano nel recinto.
Conclusione. Non è tutto oro ciò che luccica. A volte il troppo bagliore acceca. Infatti, se da una parte l’utile cresce, questo si trova a cozzare con una montagna di sofferenze, per cui una buona fetta del profitto rischia di essere stornata ad ammortamento. Per cui si potrebbe presupporre che l’utile da distribuire non sarà , poi, così eclatante.
Dalla Germania possibili spiragli per facilitare l’uscita dall’Euro di altri Paesi, Italia compresa. Infatti, nella possibile coalizione di governo che Angela Merkel starebbe preparando con Verdi ed i liberali della Fdp, si è già iniziato a ragionare anche sulla possibilità di modificare i trattati, in modo tale da poter consentire la fuoriuscita dall’Euro per chi lo desiderasse. Infatti, il leader del partito liberale Democratico tedesco ( Fdp) Christian Lindner, quale possibile candidato ministro della Finanza, in sostituzione di Wolfgang Schaeuble, è convinto che la Germania dovrebbe lavorare per favorire una revisione dei trattati che contempli l’eventuale uscita dall’euro di un membro dell’Eurozona. Ed a tal proposito ha rilevato: “ Penso che la cancelleria ed il ministero della Fdp, sarebbero ciascuno migliori rispetto ad un ministero nelle mani della Cdu “ di Angela Merkel.
Attualmente non sono previste modalità per recedere dalla moneta unica, salvo innescare il processo più generale di separazione dall’Unione Europea.
Lindner, poi, ha respinto l’idea di trasformare l’Esm (Fondo salva-stati) in un equivalente europeo del Fmi, in grado di poter fornire sostegno finanziario ai Paesi in crisi, chiarendo che “ In un’unione monetaria nella quale le regole sul deficit di Maastricht sono rispettate non c’è necessità di un fondo di salvataggio permanente”. Infine, si è detto scettico sulla possibilità di creare un fondo interbancario europeo a tutela dei depositi.
D’altronde l’Italia è da tempo in deflazione, il che significa che il debito rimane elevato e crescente, mentre gli stipendi non crescono, ed i consumi arrancano. Per fare un esempio, chi ha comprato una casa cinque anni fa ha scoperto che la sua abitazione vale oggi il 30% in meno, mentre il debito del mutuo rimane lo stesso. E di qui partono anche parte delle sofferenze bancarie.
Anche il titolare del più antico caseificio italiano, Roberto Brazzale, in una intervista a La Verità, sostiene che “ l’eurotedesco” soffoca le imprese e l’economia italiana, e propone di uscire al più presto dalla moneta unica, riappropiandoci della Lira.
L’ex ministro del Tesoro greco,Varoufakis, sostie che “ la UE non esiste, e che con l’euro l’Italia ha perso 20 anni”. L’ex ministro rileva che l’Italia prima dell’euro cresceva, ed era un Paese con un surplus della bilancia commerciale e di bilancio, cioè un Paese che esporta di più di quanto importa ed il governo incassa di più di quanto spende. Dunque, un’economia con due avanzi del genere dovrebbe prosperare e non stagnare.
Il Fisco bussa alla porta se i versamenti sul c/c postale o bancario non sono giustificati. Meglio tenere i soldi sotto la mattonella, se le somme incassate non sono giustificate, cioè soldi in nero.
Sotto la lente di ingrandimento del Fisco, quindi, non finiscono solo i bonifici ricevuti da altre persone, ma anche i versamenti sul conto non giustificati fatti dal correntista. E ciò vale per tutti ,non solo per imprenditori, ma anche per professionisti e privati. Lo ha chiarito, di recente, la Cassazione . In pratica, secondo la Corte, anche i lavoratori dipendenti così come gli esercenti un’attività d’impresa e i professionisti, devono poter spiegare all’Agenzia delle Entrate, in caso di controllo bancario, dove hanno preso i soldi poi versati sul conto se di essi non vi è prova o traccia nella dichiarazione dei redditi. La questione è di vitale importanza nella gestione del proprio conto corrente, perché finisce per attribuire una «presunzione di evasione fiscale» a favore del fisco, dalla quale è il contribuente a doversi difendere. M come vanno giustificati i versamenti sul conto ?
Per comprendere meglio la problematica riportiamo un esempio. Immaginiamo una persona che riceva da un’altra tre mila euro in contanti e li depositi sul proprio conto corrente. Si tratta del compenso che ha ricevuto per l’affitto di una casa vacanza nel mese di agosto. Dopo alcuni anni, l’Agenzia delle Entrate nota l’accredito sospetto sul conto del proprietario dell’appartamento; così gli chiede chiarimenti. Quest’ultimo, per difendersi, d’accordo con l’ex inquilino, sostiene che si tratta della restituzione di un prestito da lui fatto in precedenza. Ma l’Agenzia non gli crede, ritenendo piuttosto che, dietro il versamento, si nasconda un’evasione fiscale. Il contribuente ribatte: deve essere piuttosto il Fisco – secondo lui – a dover dimostrare l’esistenza del “nero” e non il cittadino a dare prova del contrario. Chi ha ragione?
In questo caso, è legittimo il comportamento dell’Agenzia delle Entrate che notifica l’accertamento fiscale sulla base del solo versamento sul conto non giustificato. E ciò perché le somme versate sul conto corrente del professionista, dell’imprenditore o del privato (lavoratore dipendente o meno) possono essere accertate dall’Agenzia delle entrate come redditi “in nero”, salvo che non si riesca a provare la provenienza dei fondi.
Ma il Fisco tiene sotto occhio anche i prelievi mensili. Così chi preleva cifre di un certo importo, per esempio oltre i 5.000 euro ,può essere chiamato per chiarire a cosa servono tali somme. E già perché ricordiamoci, tanto per fare un esempio, che ci sono tanti professionisti, dai medici agli avvocati, ai commercialisti, ed in generale chi opera nel privato, che si fa pagare una parte con bonifico, assegno o carta di credito, ed il resto in nero. E questo è un male tutto italiano, che però dipende soprattutto da tassazione fuori dal mondo , e dunque, dato che l’Italia è la patria nell’arte dell’arrangiarsi, ciascuno si arrangia come può. Poi, c’è la malavita, e questa i soldi li prende tutti in nero, dalla vendita di droghe al pizzo ed altro. Ma loro sanno come operare per ripulire il denaro sporco. Come? Facciamo un esempio: un signore mette all’asta un quadro od un gioiello di alto valore al prezzo di stima. Bene, all’asta non viene venduto niente. Così capita che il gestore delle aste chiami il venditore del bene e gli dica se lo vuole ceder ad una cifra inferiore, perché c’è un acquirente. Il signore accetta, e viene pagato in contanti. Ed il denaro è ripulito. Il quadro, ricevuto dagli antenati. Ed il gioco è fatto. Quando i beni verranno rivenduti, il denaro potrà anche essere accreditato in un conto.
Lorenzin nel mondo dei balocchi. Ideona, vuole aumentare la tassa sul fumo, di un cent a sigaretta, cioè 20 cent a pacchetto, oltre che rincarare anche gli altri generi di tabacchi. Quando vanno al governo persone incompetenti i risultati sono solo disastri. E non si capisce ancora chi siano i beoti italici che hanno votato Alfano e continueranno a votarlo, insieme alla Lorenzin , oltre che naturalmente il Pd. Sta di fatto che dopo una serie prolungata di misfatti attuati dalla ministra della Salute, Beatrice Lorenzin , ad iniziare dai tagli alla Sanità, ospedali in disarmo, di nuovi neanche a parlarne, guardia medica notturna chiusa , medici di base raggruppati, con orario fino alle 24, che non rispettano mai, farmaci per l’epatite C, solo se in fin di vita, e che non servono più a nulla, ecc, ora scatta la nuova idea geniale: “Un centesimo in più per ogni sigaretta da destinare alla Sanità ( 900 milioni di euro stimati).
Invece, per quanto riguarda la riapertura delle case chiuse, che potrebbero portare nelle casse dello Stato oltre 6 miliardi all’anno, come accade già da tempo in Germania, in Olanda, ecc, non ci si pensa proprio. Sta di fatto che le donnine allegre e sfruttate, non pagano tasse, e neanche chi le frequenta, mentre invece, stranamente, la Sanità va a puttane. D’altronde, nelle accise, sia di prodotti di tabacco, che di benzina, metano, ecc, pesano incentivi di tutti i tipi. E l’elenco è lunghissimo. Dentro c’è di tutto, persino i residuati bellici dell’Etiopia ed Eritrea, l’alluvione di Firenze, ecc. Mancano solo le guerre Puniche e siamo al completo. E così mentre le entrate dirette pesano per circa il 46-47% sulle tasche dei cittadini, le indirette toccano il 20-22%. Cioè , gli italiani pagano, alla fine, tasse vicine al 70% dei guadagni. Poi ci sono le varie bollette, luce, gas, acqua, telefono , ecc. Così , alla fine, chi ha uno stipendio certo rischia anche di dover mangiare a giorni alterni. Ed il governo Gentiloni, fotocopia di quello di Renzi, tra l’altro mai eletto dagli italiani, purtroppo sempre più pecoroni ( altro che Barcellona!!) sostiene che le tasse sono in discesa, ed anche l’occupazione, ed in ciò osannato quotidianamente dalle TV di Stato, che paghiamo noi, anche senza volerlo. Intanto, a Roma, la Raggi viene crocifissa per cavilli. Che dire? Italiani, svegliatevi dal torpore quotidiano, scendete in piazza, come a Barcellona, e soprattutto guardate le stelle in cielo, e se ne contate almeno cinque, avete già vinto.
L’autonomia italiana dell’energia non piace alle Sette Sorelle petrolifere (nome simbolo, ormai storicizzato) e/o a qualunque gruppo di potere energetico di tipo oligopolistico, per cui quando annusano un pericolo in grado di poterli disturbare intervengono sui Governi, per cercare di stoppare qualsiasi ricerca che li possa contrastare. L’ultimo tentativo di affossamento di una importante ricerca italiana, in sostituzione principalmente del petrolio, riguarda quella, in fase significativamente avanzata, del Dott. Francesco Celani, dell’INFN di Frascati. Tra l’altro Celani, con due altri Colleghi (uno Francese, l’altro Inglese), è stato due volte candidato al Nobel per la Pace per la metodologia operativa di realizzazione e diffusione delle informazioni negli esperimenti scientifici denominata LOS (Live Open Science): applicata sistematicamente per la prima volta ad esperimenti di tipo LENR. Si tratta della cosiddetta “fusione fredda” di storica memoria. Il nuovo e più attuale nome è LENR (Low Energy Nuclear Reactions) senza il costosissimo Palladio, dunque una vera rivoluzione che libererebbe tutti i Paesi dalla schiavitù del petrolio, che tra l’altro, è bene ricordarlo si esaurirà entro i prossimi 100 anni. Al Dottore, ma che ha anche insegnato in diverse Università, pur non essendo cattedratico, rivolgiamo alcune domande chiarificatrici sull’attuale situazione contro cui sta combattendo.
L’autonomia italiana da petrolio ed energia sicuramente non piace affatto alle “Sette Sorelle” del petrolio e/o similari gruppi di potere in ambito energetico, per cui quando annusano qualcosa che potrebbe disturbarli intervengono pesantemente sui vari Governi. L’ultimo caso di tentativo di affossamento è la sua importante ricerca, a livello particolarmente avanzato, sulla fusione fredda a basso costo. Quanti miliardi di euro all’anno potrebbe risparmiare l’Italia, se dovesse essere ulteriormente perfezionata ed applicata la sua tecnologia nella vita di tutti i giorni dei Cittadini Qualunque?
La risposta è più articolata poiché si avrebbe sia un risparmio immediato di tipo economico che un altro ritardato, ma forse ancor più importante, di tipo ecologico/ambientale in quanto dovrebbero essere significativamente ridotte le emissioni di gas a cosiddetto effetto serra, principalmente Anidride Carbonica (CO2), Metano (CH4) e numerosi idrocarburi fluorurati.
Ci risulta, come già anticipato in alcuni articoli di qualche tempo fa, che le abbiano bruciato, nel 2015, numerosissimi documenti tra cui le carte della sua ricerca. Ha fatto denuncia, e contro chi?
Purtroppo l’episodio di cui sono rimasto vittima, avvenuto nel Febbraio 2015, è di una gravità inaudita dal punto di vista della etica e morale scientifica. Ancor più se il crimine viene perpetrato all’interno di un’area scientifica, provvista di guardie armate, da parte di un Dipendente Ricercatore dell’Istituto con la sostanziale complicità della Dirigenza. La scoperta del crimine, cioè la distruzione sistematica di tutta la documentazione scientifica in mio possesso, a partire dal periodo della Laurea, è avvenuta ad Aprile 2015 in quanto la documentazione era custodita in un locale di “appoggio”, una sorta di magazzino ad uso personale, abbastanza distante dal Laboratorio principale in cui effettuo gli esperimenti. Tale locale di appoggio, identificato con il nome di “baracca La Monaca”, era da me utilizzata sia per depositare la strumentazione/attrezzatura/materiali di consumo di uso poco frequente che di tutta la documentazione “importante” (anche di carattere riservato di Interesse Nazionale) in quanto custodita in armadi metallici chiusi a chiave alcuni dei quali a prova di fuoco. Dopo la scrittura di varie lettere alla Direzione dei laboratori e chiedere chiarimenti/indagini, sono stato costretto a sporgere denuncia, per reati civili e penali, alla Caserma dei Carabinieri di Frascati, città in cui era stato commesso il reato. La denuncia è stata estesa anche alla Corte dei Conti per distruzione dolosa di “Beni dello Stato”.
Perché il Direttore dell’INFN di Frascati vorrebbe mandarla in pensione, e non farle finire la sua ricerca così importante per il Paese e l’intera umanità?
Forse sarebbe più corretto dire la “Dirigenza”, o meglio ancora una parte di essa. Il fatto del regolamento pensionistico attuale dei Ricercatori della Pubblica Amministrazione afferenti al MIUR, per alcuni aspetti è un “vulnus costituzionale” in quanto, pur con tipologie lavorative similari, i Professori Universitari hanno il limite superiore pensionistico a 70 anni mentre per i Ricercatori NON Universitari (ripeto entrambi appartenenti al MIUR), l’attuale limite é 66 anni e 7 mesi. Quindi io sono vittima dell’attuale regolamento poiché è prevista l’innalzamento, fino a 70 anni, anche per i Ricercatori non universitari che non abbiamo raggiunto i limiti inferiori contributivi. Io ho avuto la fortuna, poiché forse particolarmente “brillante”, di ottenere un posto di “Ruolo a tempo indeterminato” giovanissimo (a quanto mi dicono, sono stato il più giovane Ricercatore mai assunto da un Ente di Ricerca dopo il 1945). Comunque, se non avessi ottenuto la posizione stabile in Italia, avevo già superato le prove di ammissione per altre posizioni equivalenti all’Estero. Quindi, sono stato un “cervello in fuga” che non è fuggito. Di fatto, sono stato “punito” poiché ho avuto una posizione stabile dopo soli pochi mesi al conseguimento della Laurea in Fisica (Università. di Roma La Sapienza, votazione 110/110) con conseguenti versamenti contribuitivi di tipo pensionistico particolarmente elevati. Per concludere, la parte della Dirigenza a me avversa ha visto molto bene il fatto che io sia dovuto andare in pensione ponendo termine ad un tipo di lavoro a loro non gradito (per svariati motivi), anche se tale lavoro aveva , ed ha, i connotati dell’Interesse Nazionale, e non solo. A certi “personaggi” non interessa l’Interesse Nazionale o dell’Umanità ma unicamente il loro piccolo orticello da coltivare, con il pubblico denaro, senza intrusioni o critiche.
Quali i sospetti politici o di governi che non vogliono il parto di una ricerca così importante?
Il problema è complesso e quanto mai attuale. Nell’ipotesi, ottimistica, che la Nostra tipologia di Ricerca (in Italia e/o all’Estero) abbia successo in tempi non particolarmente lunghi, verrebbero danneggiati praticamente tutte le realtà economico/politico/industriali che si basano sul controllo della produzione energetica di tipo centralizzato. L’obiettivo finale delle ricerche LENR è la generazione di energia di tipo individuale/capillare, quindi produzione distribuita, per le necessità familiari (ciè 1-2 kW costanti, con l’immissione del surplus energetico in rete). Nella attuale società la disponibilità di energia elettrica è divenuta un bene primario irrinunciabile.
Lei si è appellato anche al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed al Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni perché la sua ricerca possa andare a buon fine. Se ogni tentativo dovesse fallire, cosa pensa di fare?
Se anche tale appello, che ritengo lecito da parte di qualunque Cittadino Italiano in regola con le leggi dello Stato, non dovesse dare i frutti sperati, prevedo di richiedere l’aiuto di alcune forze Politiche che, al momento, non mi sembrano essere legate ai cosiddetti “Poteri forti”, almeno in abito energetico.
L’Economico è stato il primo giornale a denunciare gli insabbiamenti della sua ricerca. Ora, anche LaVerità, probabilmente grazie anche a noi, nel silenzio più assordante dei media, ha tirato fuori le unghie. Come mai un caso come il suo che dovrebbe essere sulle prime pagine dei giornali ed in TV, invece, viene del tutto trascurato?
Indubbiamente il vostro simpatico giornale on line, anche per merito del Colonnello Alberto Zei a cui mi lega una lunga amicizia ed assonanza di intenti riguardo i drammatici problemi di inquinamento ambientale, ha avuto il merito di “smuovere le acque”. Sono felice di informarVi che anche la televisione web “Pandora TV” ha seguito il Vostro esempio. Tale televisione, unicamente on-line per limiti di budget, ha la caratteristica di una elevatissima indipendenza di giudizio e di seguire con particolare attenzione le problematiche energetiche, in tutte le loro sfaccettature. Inoltre, e non guasta, ha un bacino di utenti molto vasto: circa 1 milione. Sono fiducioso che altre realtà mediatiche si accoderanno, seguendo il Vostro esempio.
La Grande promessa di progresso illimitato è finita con il riferimento al dollaro: Prima del 1971 per tutti i mercati il dollaro era legato all'oro e le altre monete legate al dollaro. Gli Stati Uniti potevano battere valuta se avevano l'equivalente valore in lingotti d'oro nelle proprie casse. Questo era il pilastro degli accordi costruiti nel 1944 a BRETTON WOODS. poi accadde che l'America dovete affrontare impegni importanti, come la guerra in Corea, quella nel Vietnam, gli aiuti al terzo mondo, insomma con queste uscite fu costretta a stampare dollari più di quanto oro ci fosse a FORT KNOX:.Nixon nell'Agosto del 1971 comunicò unilateralmente di voler abolire la conversione del dollaro in oro. La decisione sui mercati internazionali ebbe l'effetto di una bomba atomica; il presidente degli Stati Uniti concluse il discorso dicendo:”Questa misura non ci procurerà amici tra gli speculatori internazionali”. Poteva ora battere moneta liberamente, senza più restrizioni, e l’America invase il mondo di dollari. Per un po’ fu scompiglio, poi però i mercati si riequilibrarono. La moneta sovrana stampata liberamente dallo stato creava benessere perché si potevano costruire scuole, strade, ospedali, senza badare al debito pubblico, perché in realtà il debito non era un debito dello stato, visto che era lo stesso governo ad averlo contratto: I cittadini potevano soltanto arricchire, il debito non era altro che un numero su un foglio conteggiato dalla Banca Centrale. Nessuno avrebbe chiesto di saldarlo, era soltanto un numero. Una cosa è certa; che i cittadini sono lo stato. Gli ospedali vengono costruiti per loro, i soldi che spendono dove vanno a finire? Ovviamente nelle tasche dei cittadini, arricchiscono gli imprenditori, gli operai, che poi con i soldi in tasca comprano beni, Auto, Mobili, case….: questo è il benessere. I tedeschi per primi hanno approfittato di questo vantaggio e sono diventati la prima potenza economica europea. Naturalmente la moneta sovrana ha messo alle corde gli speculatori finanziari rappresentati dalla elite dei miliardari. Ecco che, così, dagli stessi è stato inventato il debito pubblico e messa a punto la teoria dello Stato che deve prima incassare e poi spendere per i cittadini.
Se poi lo stato vuole essere anche virtuoso, deve spendere meno di quello che incassa e per spendere meno di ciò che entra deve operare tagli alle spese sociali e naturalmente aumentare le tasse. Questo il loro gioco perverso?.
E' tutto scritto sui dossier. Queste leggi economiche sono state imposte in tutte le università del mondo, ecco perché anche noi pensiamo che il debito pubblico sia un debito da assolvere da tutti noi con i sacrifici impostaci. Ma se la valuta fosse sovrana, cioè se lo stato fosse libero di stamparla, non ci sarebbe nessun debito pubblico. Il Giappone ha il 240% di debito pubblico rispetto al suo PIL. ma ha zero disoccupati e la sua economia, tra alti e bassi va a gonfie vele, gli Stati Uniti riuscirono ad uscire dalla crisi negli anni 70 in questo modo: Ci si chiederebbe allora che fine faccia l’inflazione ma,anche questa è una bufala. L'inflazione si combatte equilibrando l'emissione della moneta con i beni prodotti: L'inflazione è lo spauracchio che agitano gli economisti che fanno il gioco dei potentati bancari, il Bilderberg.
L'apoteosi della truffa si è compiuta un decennio fa. Per essere sicuri che gli stati non spendano più a debito, cioè a favore dei cittadini, il Bilderberg ha inventato il mezzo per togliere di mezzo le monete sovrane come la lira, il marco, il franco, la dracma ecc.... e per far ciò cosa hanno creato? hanno introdotto L'euro. L'euro è la truffa del secolo ai danni dei cittadini europei, l'ideale di un'Europa unita è un imbroglio madornale. Hanno voluto realizzare la moneta unica per sottomettere i popoli. Gli inglesi, da vecchi corsari, non ci sono cascati e hanno tenuto sempre come parametro la Sterlina.
Quando non c'è più la moneta sovrana, sostituita da una moneta unica come l'euro, gli stati spendendo contraggono debito: un debito con la Banca Centrale Europea. Così ci hanno incastrato e incarcerato. Quando non c'è più la moneta sovrana perché sostituita da una moneta unica gli stati si indebitano con la Banca Centrale, questa è la realtà. E' in questo modo che molti politici di ogni nazionalità hanno incastrato i loro popoli. Non avendo più sovranità monetaria, li hanno assoggettati all'euro.
Passiamo alle banche, a cosa servono? A cosa servono se danno danaro solo a coloro che già li hanno, negandoli a chi ne ha realmente bisogno? Utilizzano i risparmi dei correntisti senza dare interessi per agevolare i loro clienti privilegiati. Non danno nessun interesse ai correntisti, anzi gli fanno pagare loro anche i servizi per i loro depositi. Allucinante vergogna! E se vanno in sofferenza i cittadini pagano per loro. Strozzinaggio puro: prepotenti con i deboli e sudditi dei potenti, che sono poi coloro che non pagano i debiti e creano le sofferenze. VERGOGNA!
Denunce su abusi telefonici? Alla Polizia postale. I politici, infatti, sanno per primi che gli italiani sono un popolo di pecore ( oltre che, naturalmente, la Chiesa), per cui dopo essersi inventati le Antitrust ( organi di controllo su Tlc, acqua, gas elettricità, ecc), e dopo averle rinominate, nulla è cambiato . Per cui ciò che doveva trasparire, invece, traspare molto poco, mentre il cittadino rimane vessato, nonostante i costi di questi apparati faraonici, che invece servono ad occupare poltrone e poltroncine, della serie “ mi manda Picone”: Presidenti,consiglieri, collaboratori, dipendenti , più o meno qualificati, segretarie, uscieri, ecc, e tutti senza concorso. Apparati che costano , e che servono, dunque, soprattutto a mantenere gruppi di sottopotere. Premesso ciò, veniamo ai fatti, non tutti ,certamente, nella fattispecie ciò che capita nelle Tlc. Si è assillati da chiamate quotidiane da parte di vari call center di società telefoniche che vi propongono nuove proposte od offerte varie? Qualcuno dice che non interessano, ma di ingenui ce ne sono tanti, per cui , alla fine, nella rete ne cascano in molti. Ed entriamo nello specifico : chiamano, e questo è già un abuso, perché nessuno ha fornito loro il numero di telefono; ma c’è di peggio, perché chi chiama fornisce, quando va bene, solo il nominativo, senza un numero di matricola di riferimento , ne un numero di telefono di rintracciabilità. E comunque, anche se venissero forniti più dati, la telefonata è schermata “ sconosciuto”. Il che significa, che in una eventuale registrazione di pre-contratto, qualcuno si può appropriare dei dati dell’utente. Addirittura qualcuno si presenta sostenendo che il contratto con la compagnia telefonica è scaduto, e che occorre rinnovarlo, quando, la compagnia telefonica non è quella dell’utente. Tutto falso. Ed allora cosa può fare il cittadino per difendersi da tutte queste telefonate anonime ed indesiderate? Vediamo:
Il governo “ brucia” la ricerca pubblica (INFN) sull’energia, soprattutto i risultati eccellenti. Ecco come Sembra una storia di un regime dittatoriale quella della potente lobby della “ricerca” che da un lato, chiede sovvenzioni allo Stato, mentre dall’altro, pone e dispone nell’interesse multinazionale che al momento conviene, poiché il vertice da cui il gran burattinaio tira i fili delle marionette che si cibano delle risorse dei contribuenti, così intende.
L’articolo pubblicato giorni fa, sul L’ Economico a cura di Alberto Zei, mette in evidenza con dovizia di fatti e misfatti all’interno di enti di Stato come l’ INFN, del continuo boicottaggio nei confronti di scoperte di primaria importanza sulle nuove fonti di energia; boicottaggio arrivato fino a distruggere la documentazione e i dati comprovanti il lavoro effettuato all’interno dell’Istituto da parte del noto ricercatore Celani, per ritardare il progresso della storia a favore delle attuali fonti di energia ricavate dalle solite sostanze fossili che sotto vari nomi, stanno inquinando la nostra salute, prima ancora del mondo intero.
Si tratta infatti, del tentativo di impedire alla ricerca italiana di cogliere il risultato di un assiduo e intelligente lavoro all’interno dell’ INFN.
Mentre le altre nazioni proteggono le loro ricerche, il boicottaggio in Italia (a prescindere dai collegamenti internazionali) è avvenuta proprio per opera del Direttore dei Laboratori di Ricerca dello stesso INFN.
Qualcuno potrà anche affermare che una cosa del genere non può esistere, e che non vi sono prove concrete che ciò possa essere non solo avvenuto, ma neppure concepito.
Certamente se così fosse l’intera impalcatura di tutti gli eventi rappresentati in un quadro di questo genere, cadrebbero.
Se invece, fosse provato che la realtà dei fatti è proprio quella descritta nell’articolo in questione, allora si dovrebbe anche riesumare la denuncia penale che a suo tempo deve essere stata presentata alle Autorità giudiziarie. Infatti, sorge il sospetto che alcune cose non tornino. Al momento non è dato sapere chi è la persona che ha disposto la distruzione della documentazione di ricerca, mentre Celani stava salendo per la seconda volta i gradini che lo avrebbero portato sul podio del più alto riconoscimento del mondo.
Infatti, malgrado i due anni consecutivi 2014 e 2015, della candidatura al premio Nobel del nostro connazionale, i responsabili del INFN, non osando ulteriormente infierire, hanno semplicemente privato di ogni sovvenzione il suo laboratorio, pur disponendo delle risorse assegnate dallo Stato anche per questa attività. Ciò ha notevolmente rallentato la conclusione industriale dovendo egli prima ripetere gli esperimenti già eseguiti al fine di recuperare i risultati ottenuti distrutti.
A coronamento di tanto impegno INFN, il dottor Celani alle soglie del pensionamento sarà “finalmente” collocato in quiescenza, suo malgrado. Non potendosi ulteriormente opporre al congedo per concludere positivamente la scoperta con l’industrializzazione del metodo con il quale è possibile ottenere questa nuova fonte di energia. Sarà in tal modo liberato l’INFN dall’ingombrante presenza del nostro ricercatore e quindi dal pericolo che una delle più ambite scoperte del mondo venga portata a conclusione a danno dei potentati dell’energia delle fonti fossili.
Ma il governo come può accettare una situazione del genere? Già, l’esecutivo renziano che è andato a braccetto con le lobby finanziarie e bancarie mondiali. O quello di Gentiloni, fotocopia di ciò che rimane di Renzi. Per ora non resta che attendere le nuove elezioni, in cui il Pd naufragherà senza l’Arca di Noè. Affogheranno tutti. Intanto, per cercare di far luce su quanto sopra riportato, sarebbe il caso che qualche magistrato andasse a ficcare il naso sulla vicenda, tutt’altro che trasparente.
Minniti ora pensa a sequestrare le case sfitte da dare ai migranti, dal momento che i centri di accoglienza sono strapieni, e non si sa più dove mettere i dormienti in strada ( anche perché tra poco arriverà l’Inverno). Ormai l’Italia governata dal Pd mette a segno quasi quotidianamente un sopruso dietro l’altro. E’ di qualche giorno fa la notizia che i c/c bancari dormienti, cioè i soldi non ritirati dagli eredi ( che però le banche si sono ben guardate da cercare), per un ammontare di circa 2 miliardi di euro, sono finiti nelle tasche dello Stato, invece che agli eventuali diritto. E’ di ieri, invece, la notizia che è partita la schedatura delle vittime delle banche, in particolare di coloro che intendono ancora protestare sotto i palchi da cui parla Renzi. E già ci sono stati i primi allontanamenti durante i comizi, da parte delle forze dell’ordine, anziani compresi , che nei fallimenti delle varie banche, Etruria in testa, hanno perso tutti i risparmi di lavoro e sacrifici. E tornando alle case, ora il Viminale starebbe studiando un piano per requisire momentaneamente gli immobili pubblici e privati sfitti, soprattutto quelli privati, perché quelli pubblici rappresentano ben poca cosa.
Ed ecco, dunque, l’dea geniale. Dal momento che occorre far rispettare la legge, che vieta l’occupazione di case di privati, l’ostacolo verrebbe aggirato con la requisizione d’emergenza, che non consiste nell’esproprio della proprietà privata ( che verrebbe garantita secondo i dettami della Costituzione), ma solo di un sequestro momentaneo, giustificato appunto dall’emergenza, cioè da motivi di pubblica utilità. A riprova del piano, c’è la circolare del capo di gabinetto del ministro dell’Interno, Mario Marcone, ai prefetti, con cui intima un censimento degli edifici pubblici in disuso e delle case private sfitte, così da poter avviare entro tempi brevi una mappatura dei possibili alloggi disponibili, e ciò per poter garantire un tetto a tutti gli immigrati, probabilmente anche a quelli che ancora non si sa se abbiano diritto a rimanere in Italia. Il piano prevederebbe che si inizi dagli edifici pubblici in disuso, e che i Comuni in affanno finanziario, non hanno ristrutturato. E comunque, dal momento che gli edifici pubblici abbandonati sono pochi , si passerà subito dopo a quelli privati, che non si sa per quanto tempo verranno assegnati ne quali rimborsi potranno avere gli aventi diritto, cioè i proprietari, ne in base a quali criteri. La politica dell’accoglienza generalizzata è stata gestita, dai governi a guida Pd, al limite dell’incredibile, senza alcuna pianificazione , ma solo dando in pasto alle cooperative, spesso truffaldine, come la recente storia insegna, le centinaia di migranti sbarcati sul suolo italico. E pantalone, cioè tutti noi ne pagano le conseguenze, sia per l’invasione abnorme che in denaro .
La politica demenziale degli spot renziani su Tv pubbliche e non, oltre che dei soliti quotidiani fiancheggiatori ( la maggior parte) per cercare di attrarre consensi , finirà per inghiottirlo nelle sabbie mobili , mentre i programmi seri sono solo un’utopia. Tant’è che una costola del Pd ha già abbandonato il reuccio di finta sinistra. Hanno fatto bene? Forse no. Era meglio che restassero a combattere all’interno, invece di andare a cercarsi nicchie di consenso per il solito potere, più o meno individuale. Detto ciò rileviamo che ormai siamo alla frutta. Appunto, il pranzo se lo sono pappato altri. Intanto, invasione fuori controllo, tant’è che solo ora sembra che Renzi e Gentiloni si siano accorti del pericolo, per cui si è anche minacciato che le navi Onlus che non ottempereranno alle nuove norme varate di recente, non potranno attraccare nei porti italiani. Ma siamo ancora a minacce fantozziane , mentre l’Europa continua a bendarsi gli occhi, ed ogni tanto toglie le bende per un attimo, poi, tutto come prima. Purtroppo, la verità, è che troppi politici, soprattutto del Pd, continuano a far proliferare i loro interessi, fregandosene della povertà degli italiani, e mettendo ogni tanto un pannolino caldo, che non serve affatto a guarire. Ormai siamo giunti al limite, tant’è che gli immigrati che vengono presi e restano in Libia vengono trattati a calci nel sedere ( anche se ciò non è giusto) , mentre da noi si permettono di contestare tutto, dal cibo non di ottima qualità, alla mancanza di assegnazione di case, oltre che un sussidio dignitoso per chi non sa far nulla e nulla fuol fare. Mantenuti a vita? Ma come si fa ad essere profughi, quando si parte con bambini piccoli e donne in cinta. Questi figli o nascituri, sono di oggi, ancor prima delle guerre. Ed allora , la spiegazione è che figli e nascituri rappresentano il passaporto per gli sbarchi in Italia. Ora tutta questa storia, come altre mai risolte dovrà finire, e l’appuntamento sarà il giorno delle prossime elezioni, a parte quelle siciliane, che alla fine, invece di un possibile test, saranno solo un altro scudo dietro cui trincerarsi per dire che sono solo elezioni regionali, e che quindi non contano nulla a livello nazionale.
Intanto, i sondaggi di questi giorni danno vincente il M5S , a livello nazionale ,con il 28,1% contro il PD al 26,8%. Il pericolo viene dal centro-destra, che se unito sbaraglia tutti. Infatti, la Lega è al 13,6% contro FI al 13,2% e Fratelli d’Italia-An al 4,8%, ma sommati fanno il 31,6% . Il problema, dunque, sia per il M5S che per il Pd sarà quello di cercare alleanze, altrimenti c’è il serio rischio che Salvini e Berlusconi risalgano la corrente, per finire nel governo.
Piano Padoan per svendere i gioielli di Stato. Alternativa, patrimoniale forzosa su immobili e c/c bancari e postali. Dunque,dopo Renzi il banchiere ( è stato il governo che ha dato più regalie alle banche rispetto a tutti i precedenti), ora anche Gentiloni, seguendo la guida del maestro, si starebbe preparando ad effettuare altre regalie , ben più corpose, alle banche. Si tratta di un piano segreto che prevede la cessione alle più grandi banche internazionali di tutti i gioielli di famiglia rimasti ancora nelle mani pubbliche. Intanto, però, ancora non si sa a chi appartenga l’oro di Bankitalia (circa 120 miliardi di euro), se alle banche che la controllano o allo Stato. A cercare di dipanare la matassa ci ha provato anche il M5S, senza però portare a casa nessun risultato (sembrerebbe ci sia il segreto di Stato).Dunque il piano del governo, ancora a livello embrionale, prevede la cessione in blocco alle più grandi istituzioni bancarie internazionali delle partecipazioni statali rimaste, Eni, Enel, Poste, FS, Fincantieri, Leonardo (ex Finmeccanica) , Terna, Anas, Enav, ecc, il tutto a prezzi scontati (tra il 20-30% del valore), per cercare di ridurre il debito pubblico, che ormai ha raggiunto i 2.281 miliardi di euro (solo 30,6 miliardi da gennaio ad oggi) e che incide sul Pil per il 132%.
Il ministro dell’Economia avrebbe già contattato alcune tra le più grandi banche mondiali, come Goldman Sachs, Rotschild, Credit Suisse, Societè Generalè e l’italiana Mediobanca, per fare il punto della situazione. E per dar via le partecipate tutte insieme, si sarebbe pensato di creare una holding dove inserirle insieme. Per cui cedendo la holding , chi l’acquista prende tutto ed in un sol boccone, con tempi molto più celeri se invece le partecipate venissero vendute singolarmente, oltre che con un incasso corposo. Sicuramente il piano di riordino delle Ps ruoterà attorno alla Cdp ( Cassa depositi e prestiti, controllata dal ministero dell’Economia). L’altra strada , rimane anche quella di fare meno cassa e vendere singolarmente i beni di Stato, ed in tal caso lo sconto sarebbe molto limitato, ma anche l’incasso.
Ma all’orizzonte ci sarebbe anche di peggio, perché al Mef starebbero studiando , in alternativa alle cessioni delle Ps, una patrimoniale forzosa ( una tantum) su immobili ( aliquota al 10%), e su c/c bancari e postali ( aliquota del 15%) , per un ammontare stimato in 400 miliardi di euro, come già annunciato in un nostro articolo del 3/2/ 2017.
Il benchmark
Nel sistema bancario italiano vi sono circa 200 miliardi di sofferenze lorde (cioé prestiti che le banche non riescono più a recuperare dai loro debitori) a fronte delle quali le stesse banche hanno accantonato in bilancio perdite per il 55-60%. Dunque le sofferenze nette sono pari a circa 85 miliardi valutate al 40-45% del loro valore nominale. Ecco, quando a fine novembre 2015 Banca d’Italia ha disposto la risoluzione delle famose quattro banche, Pop Etruria, CariFerrara, CariChieti, Banca delle Marche, le sofferenze di questi istituti sono state svalutate fino al 18% del loro valore e questa percentuale ha fissato il punto di riferimento (benchmark) per le valutazioni di tutte le altre banche da parte di analisti finanziari e investitori. Di colpo, quindi, quegli 85 miliardi di sofferenze nette nel sistema sono diventati 40, con 45 miliardi che dalla sera alla mattina mancano all’appello e di conseguenza devono essere coperti con altrettante ricapitalizzazioni.
Il crollo di Borsa
Da quel momento in poi per chi ha investito sui titoli bancari di Piazza Affari si è aperta una fase di lunga agonia che oggi è ancora in corso. Le performance da fine novembre 2015 a martedì 29 novembre 2016 mostrano meglio di qualunque altra cosa la dimensione di questa debacle. Mps meno 89,2%, Carige meno 84,7%, Banco popolare meno 82%, Banca popolare di Milano meno 69%, Ubi Banca meno 67%, Unicredit meno 65%, Intesa Sanpaolo meno 38%. A queste si aggiungono Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza le cui azioni non sono quotate in Borsa ma a cui fanno capo diverse obbligazioni quotate che hanno subito forti perdite nonostante la rete di salvataggio predisposta tempestivamente dal fondo Atlante (un fondo partecipato dalle principali banche e assicurazioni italiane). Nel luglio scorso, con il varo del piano di ricapitalizzazione di Mps da 5 miliardi, e che prevede la cessione proprio al fondo Atlante di circa 28 miliardi di sofferenze, si è cerato di mettere un argine a questo diluvio fissando un nuovo benchmark. Il prezzo implicito a cui Atlante ha accettato di accollarsi tali sofferenze è pari a 28 centesimi, ma la situazione non è migliorata più di tanto poiché la soluzione finale per Mps è stata prolungata almeno fino all’esito del referendum costituzionale.
Le colpe dei banchieri
Occorre ammettere che nel corso del 2016 i banchieri italiani non hanno fatto molto per rassicurare i mercati finanziari, anzi hanno peggiorato la situazione. Prendiamo qualche caso concreto, partendo dalla fusione tra Bpm e Banco popolare, la prima operazione nata sulla scia del decreto governativo del gennaio 2015 che obbliga le banche popolari a trasformarsi in società per azioni entro la fine di quest’anno. La banca veronese guidata da Pier Francesco Saviotti ha in pancia una quantità di sofferenze non banale, con un Texas ratio (rapporto tra crediti deteriorati e patrimonio più accantonamenti) che a fine 2015 arrivava a 158, più elevato di Mps (147), mentre la Bpm è molto più virtuosa sotto questo profilo, essendo a quota 87. Prima di unirsi in matrimonio la Banca centrale europea ha dunque obbligato il Banco a lanciare un aumento di capitale da un miliardo, anche se si dice che la richiesta della Bce già allora era di 2 miliardi. Saviotti e la Banca d’Italia sono riusciti a contenere la ricapitalizzazione a 1 miliardo in seguito alla quale l’azionariato della nuova banca è stato suddiviso in 54% (soci del Banco), 46% (soci della Bpm). Ma il mercato ha fin da subito cominciato a scontare il fatto che la nuova banca ha bisogno di un altro aumento di capitale affossandone il corso dei titoli in Borsa (se ci si aspetta l’emissione di nuove azioni quelle esistenti varranno di meno). A essere arrabbiati sono soprattutto gli azionisti di Bpm che in presenza di un nuovo aumento di capitale si sentirebbero raggirati dall’amministratore delegato Giuseppe Castagna, che in sede di fusione avrebbe acconsentito a un rapporto di concambio tra le azioni delle due banche come se l’aumento di 1 miliardo fosse sufficiente. Essendo ormai una spa comandano gli azionisti e nel caso arrivasse un nuovo aumento di capitale per Bpm-Popolare è molto probabile che Castagna sarebbe costretto alle dimissioni.
Ma anche Victor Massiah, ad di Ubi Banca, ha molto da farsi perdonare. Nonostante la banca, con solide basi tra Bergamo e Brescia, abbia indici patrimoniali soddisfacenti, Massiah è riuscito a far trascinare Ubi nel gorgo della speculazione di Borsa associandola al salvataggio di Mps. Quando a giugno il Tesoro ha chiesto a Massiah e Castagna di unirsi per salvare il Monte, il banchiere di Bpm ha prontamente declinato l’invito mentre quello di Ubi ha creduto nel progetto a tre salvo poi comprendere l’impossibilità della sua realizzazione. Ma nel frattempo il mercato ha avuto buon gioco a buttare giù il titolo nel timore che Ubi volesse marciare da sola verso Siena. Poi, non contento di questa performance, Massiah ha risposto al nuovo appello di Bankitalia per evitare che le quattro banche salvate finissero nelle mani dei fondi avvoltoio per pochi euro. Così Ubi ha presentato un piano per accollarsele a prezzi vantaggiosi, ma anche così ha bisogno di un aumento di capitale da circa 500 milioni. E il titolo Ubi è andato giù ancora, reagendo a questa notizia.
Che dire poi di Unicredit. Per almeno un anno e mezzo, e cioè fino al giugno 2016, l’ex amministratore delegato Federico Ghizzoni non ha fatto altro che ripetere al mercato e alle autorità che la banca non aveva alcun bisogno di un aumento di capitale. Ma quando gli azionisti si sono infine decisi a dare il benservito a Ghizzoni affidandosi alle cure di Jean Pierre Mustier, il mercato ha scoperto che in realtà l’aumento di capitale ci vorrà e sarà anche molto ampio, nell’ordine di 8-12 miliardi. E come poteva reagire il titolo in Borsa a una notizia del genere, per di più associata al fatto che occorre svalutare pesantemente i 57 miliardi di sofferenze lorde che sono ancora in pancia a Unicredit? Male, ovviamente.
Se poi si aggiunge:
•che Veneto Banca e Popolare di Vicenza sono state salvate dal fondo Atlante in quanto non sarebbero riuscite a mandare in porto i rispettivi aumenti di capitale, ma che è molto probabile servano altre risorse fresche da iniettare in vista di una fusione tra i due istituti veneti.
•Che la Carige ha respinto un’offerta del fondo Apollo di acquisto di sofferenze e contestuale ricapitalizzazione poichè il principale azionista della banca, la famiglia Malacalza, non voleva farsi prendere per il collo e alla bisogna ha le risorse per far fronte a un aumento di capitale.
•E che il Monte dei Paschi, terza banca italiana in forte difficoltà, da almeno sei mesi è sulla graticola per un piano di rafforzamento del patrimonio da 5 miliardi che però deve passare per le forche caudine del referendum,
allora si può ben capire che i banchieri italiani e l’Abi possono anche gridare al mondo che il sistema bancario italiano è sano e che i fondi stranieri speculano sulle sofferenze italiane; ma è anche vero che nessuno di lorsignori, né Bankitalia né il governo, è stato in grado di porre un argine a questa deriva, mettendo in sicurezza almeno l’istituto più vulnerabile, cioé il Montepaschi. Hanno preferito trascinare la situazione e sperare in un ravvedimento del mercato, col risultato che la perdita di valore delle banche in Borsa nell’ultimo anno è stata di circa 60 miliardi, cifra di gran lunga più elevata delle centinaia di milioni che sarebbero serviti a promuovere un “bail in” controllato del Monte.
Il governo sta pensando di scaricare i prossimi terremotati che perderanno la propria abitazione. Come? Con una assicurazione obbligatoria sulla casa contro i terremoti. E per le frane o quant’altro? Ci si penserà strada facendo, anche se di strada da fare per questo esecutivo ne è rimasta ancora poca, per fortuna. La polizza, a quanto è dato capire, potrà essere detratta dalle tasse. La nuova normativa antisimica che si sta preparando prevede anche che in caso di vendita di un immobile non in regola con la legge ci saranno pesanti sanzioni economiche per chi ha venduto, mentre per le alte zone sismiche ( 1 e 2) il contratto di vendita sarà nullo. Tali misure andranno ad aggiungersi ai benefici fiscali già esistenti ed al così detto “sisma bonus”. La norma , però, per le abitazioni, alberghi ed immobili di pertinenza pubblica, dovrebbe entrare in vigore non prima di cinque anni dal suo varo, per dare il tempo di poter adeguare i fabbricati alla nuova legge, mentre per gli altri casi al di fuori di quelli sopra descritti, il periodo di adeguamento sarà di sette anni. Sarà compito del venditore di presentare , prima della firma della vendita, un attestato di conformità alla normativa sulla idoneità statica del fabbricato, con riferimento alla sismicità della zona. L’attestazione sulla staticità dell’immobile dovrà essere rilasciata da un tecnico specializzato, abilitato ad effettuare verifiche di stabilità. Il notaio, dopo aver controllato il rispetto degli obblighi, potrà stipulare l’atto di compra-vendita. A fronte dell’assicurazione obbligatoria il titolare del bene immobile potrà ottenere una detrazione dell’imposta lorda pari al 65% dei premi versati.
E sempre per rimanere sul tema della casa, il governo starebbe preparando un pacchetto di misure per una super sanatoria per le costruzioni abusive, in cui è previsto che chi abbattesse l’immobile per poi ricostruirlo con licenza regolare, verrebbe addirittura premiato per un quinquennio , senza pagare Tasi ed Imu. Inoltre , nel pacchetto di misure già pronte, a cui probabilmente occorrerà ancora dare qualche limata, prima del varo da parte del governo,ci dovrebbe essere anche la possibilità di detrarre le spese dalla dichiarazione dei redditi, per dare un altro aiuto alle spese sostenute per la ricostruzione dell’edificio. Ed a questo punto c’è da chiedersi cosa ne penseranno i terremotati veri, a cui lo Stato, non mantenendo le promesse fatte,ha inviato le cartelle esattoriali ? La legge attualmente in vigore prevede per gli abusi edilizi due vie: la demolizione o la confisca. Ed ora invece ci sono addirittura gli incentivi , nel totale disprezzo di chi,invece, ha sempre rispettato la legge. Il sospetto è che tutto sia nato per cercare di ottenere consensi alle prossime elezioni. Ormai siamo in un Paese dove l’illegalità diventa la regola, e la legalità è solo per i fessi che la rispettano.
13.07.2017. I soldi producono soldi, ovvero i ricchi diventano sempre più ricchi. Potrebbe essere questa la sintesi del report “Global Wealth 2017: Transforming the Client Experience” pubblicato dal Boston Consulting Group (BCG), una società di consulenza che ha stilato la 17esima edizione del documento sulla ricchezza finanziaria a livello globale.
L’analisi quantitativa conferma che la ricchezza finanziaria privata continua a crescere in tutto il mondo: a livello globale nel 2016 il valore totale di azioni, obbligazioni, depositi e conti bancari corrisponde alla cifra di 166.500 miliardi di dollari. Rispetto al 2015 si tratta di un incremento del 5,3%, mentre l’anno precedente l’aumento era stato del 4,4%. Secondo la proiezione del BCG nel 2021 si dovrebbe raggiungere la quota di 223.100 miliardi di dollari, con una crescita media annua del 6%.Come era facilmente prevedibile, il maggior aumento della ricchezza si rileva nell’area dell’Asia-Pacifico: nel 2016 l’incremento è stato del 9,5% (nell’anno precedente era stato addirittura del 12,3%), passando da 35 a 38,4 migliaia di miliardi di dollari.
Subito dopo c’è l’America Latina, che è salita da 5 a 5,4 migliaia di miliardi di dollari con un aumento dell’8,7% (nel 2015 +6,3%). Cresce di molto anche la ricchezza nell’area del Medio Oriente e dell’Africa, passando da 7,5 a 8,1 migliaia miliardi di dollari con un incremento dell’8,5% (nel 2015 era stato soltanto dell’1,9%).
L’area del Nord America (comprendente Stati Uniti, Canada e Messico) nel 2016 ha segnato un aumento del 4,5% (nel 2015 +2,0%), accumulando in assoluto la ricchezza maggiore: da 53 a 55,7 migliaia di miliardi di dollari. L’Europa orientale cresce del 4,7% (l’anno precedente +7,2%), passando da 3,4 a 3,6 migliaia di miliardi di dollari. In Europa occidentale la ricchezza è aumentata del 3,2% (nel 2015 +2,4%), salendo da 39,2 a 40,5 migliaia di miliardi di dollari. In coda alla classifica c’è il Giappone, che è cresciuto soltanto dell’1,1% (nel 2015 +1,8%), da 14,7 a 14,9 migliaia di miliardi di dollari.
Dal report del Boston Consulting Group emerge che nel mondo il numero di famiglie milionarie (cioè con una disponibilità mobiliare superiore al milione di dollari) è cresciuto in un anno del 7%, arrivando a circa 17,9 milioni. Si tratta di circa l’1% delle famiglie del pianeta, che detengono il 45% dell’ammontare finanziario totale dei privati.
Una quota rilevante della ricchezza delle famiglie milionarie si trova nei cosiddetti paradisi fiscali. La stima effettuata dagli esperti del BCG è di 10,3 migliaia di miliardi di dollari. Analizzando la geografia dei possessori dei conti offshore, prevale l’area asiatica (compreso il Giappone) con 2,9 migliaia di miliardi, seguita dall’Europa occidentale con 2,6 migliaia di miliardi. Consistente anche la presenza di Medio Oriente e Africa con 1,9 migliaia di miliardi e dell’America Latina con 1,5 migliaia di miliardi. Scarsa la propensione a depositare su questi conti, di norma poco trasparenti, da parte dei ricchi dell’Europa orientale e dell’America settentrionale, con 0,7 migliaia di miliardi per entrambe le zone.
Oltre alla provenienza è interessante verificare la destinazione dei capitali, cioè quali sono le località offshore più gettonate. Al primo posto svetta la classica Svizzera, dove ricchi cittadini stranieri hanno collocato 2,4 migliaia di miliardi di dollari (quasi un quarto del totale della ricchezza dei paradisi fiscali). Altri 2,4 migliaia di miliardi si trovano in paradisi fiscali irlandesi (Dublino) e britannici (comprese le isole del Canale). Seguono Singapore e Hong Kong, che insieme arrivano a 2,0 migliaia di miliardi. I paradisi fiscali di Panama e dei Caraibi totalizzano 1,3 migliaia di miliardi. Le località offshore degli USA custodiscono 0,9 migliaia di miliardi, mentre in Lussemburgo si stimano 0,4 migliaia di miliardi di dollari.
Dalla distribuzione territoriale dei milionari si vede che il 42,5% dei ricchi (7,6 milioni di famiglie) vive nell’America del Nord, mentre il 21,2% (3,8 milioni) sta in Asia come anche in Europa occidentale. Il 6,7% (1,2 milioni di famiglie) abita in Giappone, il 4,5% (0,8 milioni) in Medio Oriente e in Africa, il 2,8% (0,5 milioni) in America Latina e soltanto l’1,1% (0,2 milioni di famiglie) nell’Europa orientale.
Nel gruppo dei ricchi c’è quello dei ricchissimi, cioè le famiglie con un patrimonio finanziario superiore a 100 milioni di dollari: si tratta dell’8% del totale dei milionari, cioè quasi 150 mila famiglie nel mondo. È interessante notare che in percentuale la maggiore concentrazione di super ricchi è nell’Europa orientale con il 19%. Al contrario sono pochissimi in Giappone: soltanto 1 famiglia ricchissima su 100 famiglie ricche.
Osservando i dati dei ricchi suddivisi per nazioni, al primo posto ci sono le famiglie statunitensi, con oltre 7.085 migliaia di milionari. Al secondo posto la Cina con 2.124 migliaia di famiglie e al terzo il Giappone con 1.244. A seguire: Gran Bretagna con 821, Canada con 485, Germania con 473, Svizzera con 466, Francia con 439 e Taiwan con 370 mila famiglie milionarie.
L’Italia si colloca al decimo posto della classifica con 307 mila ricchi. Nelle mani dell’1,2% delle famiglie italiane si concentra così il 20,9% della ricchezza finanziaria, che in totale è di circa 4,5 migliaia di miliardi di dollari (che corrispondono al doppio del debito pubblico italiano). La stima del Boston Consulting Group è che nel 2021 le famiglie milionarie italiane raggiungeranno quota 433 mila, cioè l’1,6% del totale, mentre la ricchezza a disposizione salirà al 23,9%, superando 5 mila miliardi di dollari.
In conclusione, dal report del BCG emerge che la ricchezza globale è in crescita ad ogni latitudine e in particolare nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Questo dato è sicuramente positivo, ma è anche evidente che sta aumentando la disuguaglianza, poiché sta salendo la percentuale di risorse detenute da un ristretto numero di famiglie ricche e ricchissime. In fondo sono le due facce del sistema capitalistico, che produce ricchezza ma anche disuguaglianza. Non si tratta soltanto di una teoria: i dati corrispondono in realtà a persone in carne e ossa, che vivono da nababbi o che invece rischiano di morire di fame. Un problema enorme, che pone domande ineludibili al sistema finanziario globale e alle istituzioni mondiali.
Per gentile concessione della'agenzia di stampa Pressenza
Ancora sacche di disagio e difficoltà economiche per gli italiani, tanto che quasi la metà delle famiglie non riesce a far quadrare i conti e arrivare a fine mese. L'impasse emerge dal Rapporto Italia 2017 diffuso i dall'Eurispes. Secondo l'Istituto di Studi Politici Economici e Sociali, ben il 48,3% delle famiglie non riesce ad arrivare alla fine del mese e il 44,9% per arrivarvi sono costrette a utilizzare i propri risparmi, così solo una famiglia su quattro risparmia.
Le rate del mutuo per la casa sono un problema nel 28,5% dei casi, mentre per il 42,1% di chi è in affitto lo è pagare il canone. Il 25,6% delle famiglie ha inoltre difficoltà a far fronte alle spese mediche. Molti hanno dovuto mettere in atto strategie anti-crisi come tornare a casa dai enitori (13,8%), farsi aiutare da loro economicamente (32,6%) o nella cura dei figli per non dover pagare nidi privati o baby sitter (23%).
Un italiano su 4 si sente povero - Dai dati raccolti dall'Istituto, circa una persona su quattro afferma di sentirsi 'abbastanza' (21,2%) e 'molto' (3%) povero. L'identikit di chi denuncia la propria povertà disegnato dalla ricerca Eurispes mostra in primo piano il single (27,1%) o monogenitore(26,8%) che vive al Sud (33,6%) ed è cassaintegrato (60%) o in cerca dinuova occupazione (58,8%). La ricerca evidenzia inoltre che alla domanda 'Conosce direttamente persone che definirebbe povere?', il 34,6% degli italiani risponde 'alcune', il 20,1% risponde 'molte', il 33,2% risponde 'poche' e solo il 12,1% 'nessuna'. Nella povertà, segnala il rapporto, sisprofonda soprattutto a causa della perdita del lavoro (76,7%), ma anche aseguito di una separazione o un divorzio (50,6%), a causa di una malattiapropria o di un familiare (39,4%), della dipendenza dal gioco d'azzardo(38,7%) o della perdita di un componente della famiglia (38%).Sale potere acquisto ma tagli a cibo e medicine - Anche se la maggioranza delle persone (51,5%) sostiene di non aver perso il proprio potere d'acquisto, un dato in crescita rispetto al 46,8% dello scorso anno, allo stesso tempo per l'acquisto degli alimentari sale dell'1,7% la percentuale di consumatori che cambia marca di un prodotto se più conveniente e ben il 3,9% in più delle persone è costretto a tagliare le spese mediche. E nel corso dell'anno si è risparmiato sui pasti fuori casa (70,9%), l'estetista, il parrucchiere, gli articoli di profumeria (66,2%), i viaggi e le vacanze (68,6%). Sono rimasti pressoché stabili, evidenzia l'Istituto, i tagli sui regali (75,6%) e per il tempo libero (64,8%). Stabile anche il ricorso ai saldi (80,6%) mentre diminuisce la quota di risparmio che incide sulle nuove tecnologie (5 punti: dal 69,4% del 2016 al 64,4% del 2017). Si riduce, rileva ancora il report, il numero dei consumatori che per l'abbigliamento prediligono punti vendita più economici come grandi magazzini, mercatini e outlet (73,2%; -2,8%)".
SACE (Gruppo Cassa depositi e prestiti) e Banca Akros (Gruppo Banco BPM) hanno annunciato un importante accordo di collaborazione per sostenere la crescita internazionale delle eccellenze italiane del settore agroalimentare, mettendo a disposizione un pacchetto di soluzioni assicurativo-finanziarie per valorizzare i beni a magazzino e 150 milioni di euro di nuovelinee di credito da destinare a percorsi di sviluppo estero.
Grazie all'accordo – rivolto in particolare alle aziende di media dimensione (Mid-Cap) ed estendibile anche ad altri comparti di punta del Made in Italy (come quelli dei gioielli, delle pelli, del legno, della farmaceutica e della chimica) – le imprese interessate potranno accedere a condizioni vantaggiose a finanziamenti anche consortili, organizzati da Banca Akros e garantiti da SACE, per supportare investimenti per la crescita internazionale ed esigenze di capitale circolante; potranno noltre beneficiare degli strumenti assicurativo-finanziari sviluppati da SACE a protezione del business come le coperture contro i rischi di mancato pagamento dei crediti commerciali, i rischi tecnologici e di deterioramento del magazzino.
La prima operazione realizzata nell’ambito dell’accordo riguarda una realtà d’eccellenza del settore lattiero-caseario: Ambrosi Spa, azienda bresciana leader in Italia e all’estero nel segmento premium del mercato dei formaggi tradizionali italiani (tra cui Grana Padano DOP e Parmigiano Reggiano DOP), ha ottenuto, grazie alla collaborazione tra Banca Akros e SACE, un finanziamento in pool da 13 milioni di euro destinato a sostenere l’approvvigionamento delle materie prime, nonché lo sviluppo del magazzino prodotti finiti, per crescere ulteriormente nei mercati esteri, con particolare attenzione a quelli francese e statunitense.
L’operazione prevede anche la collaborazione del Consorzio per la Tutela del Grana Padano, sempre disponibile ad operare a favore del sistema e dei propri consorziati, e potrà, inoltre, sfruttare la nuova garanzia del Pegno Mobiliare non Possessorio recentemente introdotta dal legislatore e iscrivibile sul magazzino di prodotti DOP.
La Sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano, la n. 3831/01/16, ha decretato che, nel caso in cui Equitalia non esibisce la cartella di pagamento “originale” al contribuente che ne fa richiesta, il debito vero il Fisco decade.
La stessa Sentenza si è espressa a favore del contribuente, il quale, sosteneva come ““la mera riproduzione fotostatica delle presunte cartelle non assume alcun valore giuridico trattandosi di meri documenti di parte, non muniti di alcuna attestazione di autenticità proveniente da pubblico ufficiale, che non garantiscono alcuna prova certa in ordine alla loro corrispondenza all’originale”.
Nello specifico è accaduto che la contribuente era venuta a conoscenza delle cartelle emesse nei suoi confronti solo dopo aver chiesto a Equitalia un estratto di ruolo al fine di verificare i propri debiti col Fisco. Ebbene, dopo aver appreso la presenza di numerose cartelle a suo carico, la contribuente chiedeva di poter visionare gli atti esattoriali nonché le prove attestanti la corretta notifica; al rifiuto del concessionario di fornire tale documentazione (Equitalia si limitava a esibire solamente un estratto di ruolo, ossia un mero elenco dei debiti) la contribuente veniva costretta ad agire in giudizio per tutelare i propri diritti.
La Commissione Tributaria ha deciso che: “nonostante la richiesta da parte del contribuente sin dal ricorso introduttivo del giudizio di produzione degli originali (o valide copie) degli atti e della documentazione inerente la rituale notifica delle cartelle … la società Equitalia non ha prodotto anche in questa sede alcun originale relativo sia alle cartelle (non prodotte anche in mera fotocopia) che alla loro notificazione” (pagina 3 della sentenza).
Ovviamente in mancanza di prove e soprattutto circa l’esistenza degli atti e della loro regolare notifica, i Giudici non hanno potuto fare altro che constatare l’illegittima pretesa dal Fisco con conseguente annullamento del debito tributario.
Ricordiamo che vi sono state altre Sentenze in merito come: Sent. Tar Napoli n.3820/2015, Sent. Comm. Trib di Parma n.15/07/10 e n.40/01/10.
Finisce cosi il potere eccessivo di Equitalia.
Il colosso bancario britannico HSBC ritiene che l’economia mondiale sia in recessione, con il commercio globale in calo del 8,4 % da giugno 2014 a giugno 2015 e il Pil mondiale, espresso in dollari, in calo del 3,4 %. Il denaro fugge dai mercati emergenti a un ritmo sostenuto.
Inoltre, le grandi banche sono danneggiate da prestiti enormi che non verranno mai rimborsati e sembra sia in atto una contrazione importante del credito a livello globale.
Il Fondo monetario internazionale, le Nazioni Unite, la Bank of International Settlements di Basilea e Citibank avevano avvisato che una crisi economica sarebbe imminente, ma la maggior parte delle persone pensa che tutto andrà bene. Il livello di fiducia cieca nel sistema è stupefacente.
Le cifre attuali mostrano che l’economia mondiale non è mai stata così negativa dalla recessione del 2008. Il commercio mondiale è in calo, da giugno 2014 su un anno, di -8,4 %. Da un punto di vista tecnico siamo già in recessione. Il Pil mondiale espresso in dollari è negativo di 1.370 miliardi di dollari, o -3,4 %.
I maggiori problemi sono nei paesi emergenti, come si legge in un articolo del quotidiano britannico The Guardian :
Il terzo atto inizia in paesi meno capaci di concepire misure per bloccare il contagio finanziario e le cui banche sono più fragili. Durante la prossima crisi finanziaria, nelle economie emergenti come Turchia, Brasile, Malesia, Cina, l’aumento dei prezzi dei prodotti di base, già a livelli molto alti a causa del boom economico cinese (alimentato dal debito) sembra non volersi fermare. La Cina ha fabbricato più cemento in tre anni, dal 2010 al 2013, di quanto gli Stati Uniti abbiano prodotto nel 20esimo secolo. Questo non poteva continuare.”
Le banche cinesi sono il punto chiave : qualcuno dei grossi prestiti che hanno concesso non potrà mai essere rimborsato, in modo che oggi non possono prestare con la stessa facilità di prima, per mantenere il tasso di crescita, elevato ma illusorio. I prezzi delle materie prime sono crollati.
I soldi inondano le economie emergenti che però non dispongono di istituzioni finanziarie centrali per attuare piani di salvataggio. Eppure questi paesi rappresentano oltre la metà del Pil mondiale. Non sorprende che il Fondo monetario internazionale sia preoccupato.
Un recente articolo di CBNC è intitolato “La tormenta nelle economie dei paesi emergenti è la terza fase della crisi finanziaria?” La banca Goldman Sachs pensa sia vero e in una nota di settimana scorsa ha dichiarato :
I mercati emergenti non soffrono solamente della deriva dei mercati, si assiste a una nuova fase della crisi. L’incertezza aumenta circa la debolezza delle ricadute economiche dei mercati emergenti, mentre il calo delle materie prime e il potenziale aumento dei tassi d’interesse americani preoccupano.
Questa ondata sui mercati emergenti coincide con il crollo dei prezzi delle materie prime, che ha fatto seguito alla fase americana, segnata dagli effetti della crisi immobiliare e la fase europea, quando la crisi americana era dilagata sottoforma di problema del debito sovrano in Europa, ha indicato Goldman Sachs.
E’ noto che quando questo colosso bancario lancia l’allarme, di solito è già troppo tardi.
Fonte: The Economic Collapse.com
Nel 2017 si prevede un aumento del prodotto interno lordo (Pil) italiano pari allo 0,8% in termini reali, cui seguirebbe una crescita dello 0,9% nel 2018.
In entrambi gli anni, la domanda interna al netto delle scorte contribuirebbe in misura significativa alla crescita del Pil: 1,2 punti percentuali nel 2017 e 1,1 punti percentuali nel 2018; la domanda estera netta e la variazione delle scorte fornirebbero un contributo lievemente negativo.
Nel 2017 la spesa per consumi delle famiglie in termini reali è stimata in aumento dell'1,2%, alimentata dall'incremento del reddito disponibile e dal miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro. La crescita della spesa proseguirebbe ad un ritmo analogo nel 2018 (+1,1%).
Nell'anno in corso si prevede un rafforzamento degli investimenti (+2,0%) e una successiva accelerazione nel 2018 (+2,7%). Oltre che al miglioramento delle attese sulla crescita dell'economia e sulle condizioni del mercato del credito, gli investimenti beneficerebbero delle misure di politica fiscale a supporto delle imprese.
L'occupazione aumenterebbe nel 2017 (+0,9% in termini di unità di lavoro) congiuntamente a una riduzione del tasso di disoccupazione (11,5%). I miglioramenti sul mercato del lavoro proseguirebbero anche nel 2018 ma a ritmi più contenuti: le unità di lavoro sono previste in aumento dello 0,6% e la disoccupazione si attesterebbe all'11,3%.
Una ripresa più accentuata del processo di accumulazione del capitale potrebbe rappresentare un ulteriore stimolo alla crescita economica nel 2018. Tuttavia le incertezze legate al riaccendersi delle tensioni sui mercati finanziari potrebbero condizionare il percorso di crescita delineato. Le previsioni incorporano le misure descritte nel disegno di legge sul Bilancio di previsione dello Stato.
Secondo l’Indagine sulle Forze Lavoro di Eurostat, a fine 2015, escludendo il settore agricolo, i lavoratori autonomi stranieri nell’Ue-28 sono aumentati del 52,6% rispetto a dieci anni prima (e de 53,7% in Italia), e rappresentano il 6,3% di tutti gli autonomi complessivamente attivi nell’Ue. In Italia i non comunitari rappresentano la maggioranza (69,9%). Un sesto di essi ha dei lavoratori alle dipendenze (15,8% vs una media del 25,7%).
Sono più di 550mila le aziende a guida immigrata registrate in Italia alla fine del 2015, il 9,1% del totale, e producono 96 miliardi di euro di valore aggiunto, il 6,7% della ricchezza complessiva.
Tra il 2011 e il 2015 sono aumentate di oltre il 21% (+97mila), mentre nello stesso periodo il numero delle imprese registrate nel Paese ha fatto rilevare un calo complessivo dello 0,9%.
È netto il protagonismo delle ditte individuali: 8 casi su 10 (79,9% vs il 50,9% delle imprese guidate da nati in Italia). Le imprese a gestione immigrata, quindi, rappresentano quasi un settimo di tutte le ditte individuali del Paese (13,6%) e meno di un ventesimo delle società di capitale (4,1%).
Il commercio, in continuo aumento, rappresenta il principale ambito di attività (200mila aziende, 36,4% vs il 24,5% delle imprese a guida autoctona); segue, seppure fortemente provata dalla crisi, l’edilizia (129mila, 23,4% vs 13,1%). Notevole è anche il comparto manifatturiero (oltre 43mila aziende, 9%), caratterizzato come l’edilizia da una forte dimensione artigiana. Sono artigiane, infatti, oltre 4 imprese edili immigrate su 5 (83,2%) e oltre 2 su 3 di quelle manifatturiere (68,4%). Proprio nell’edilizia e nella manifattura, infatti, si concentrano i tre quarti (76,0%) delle aziende immigrate artigiane (180mila in tutto). Ma cresce soprattutto la partecipazione nei servizi. Dai dati di Unioncamere risulta che alla già consolidata presenza immigrata tra imbianchini e carpentieri o nel trasporto merci e nella confezione di abbigliamento, si affianca una crescente partecipazione alle aziende (per lo più individuali) che nella sartoria, nel giardinaggio, nelle pulizie, come pure nella panetteria o nella ristorazione take away.
Più in generale, si affermano le attività di alloggio e ristorazione (41mila, 7,5%) e i servizi alle imprese (29mila, 5,3%).
I dati Sixtema/Cna sui responsabili di imprese individuali confermano il protagonismo di specifici gruppi nazionali. I più numerosi sono i marocchini (14,9%), seguiti da cinesi (11,1%) e romeni (10,8%) e, quindi, da albanesi (7,0%), bangladesi (6,5%) e senegalesi (4,4%): sei collettività che, da sole, ne raccolgono più della metà del totale (54,7%).
Ciascun gruppo si concentra in peculiari comparti di attività: il commercio nel caso di marocchini, bangladesi e soprattutto senegalesi (attivi in questo ambito rispettivamente per il 73,3%, il 66,8% e l’89,2% del totale); l’edilizia per i romeni (64,4%) e gli albanesi (74,0%); il commercio (39,9%), la manifattura (34,9%) e le attività di alloggio e ristorazione (12,9%) nel caso dei cinesi, che mostrano insieme a un’accentuata vocazione imprenditoriale, una maggiore diversificazione degli ambiti di attività in cui, nel tempo, tale capacità si è distinta e radicata. Ne consegue che sono cinesi la metà di tutti gli immigrati responsabili di ditte individuali manifatturiere (49,3%), come pure un quarto di quelli dediti al comparto ristorativo-alberghiero (25,0%). Quasi la metà di quelli attivi in edilizia, invece, sono romeni (27,1%) o albanesi (20,1%); e quasi 3 su 5 di coloro che operano nel commercio sono marocchini (26,7%), cinesi (10,9%), bangladesi (10,7%) o senegalesi (9,5%).
Operano al Centro-Nord 8 imprese immigrate ogni 10 (77,3% vs il 66,0% delle aziende autoctone) e quasi un terzo solo in Lombardia (19,1%) e nel Lazio (12,8%). Seguono la Toscana (9,5%) – in cui si rileva anche la più elevata incidenza delle imprese immigrate sul totale (12,6%) –, l’Emilia Romagna (8,9%), il Veneto (8,4%) e il Piemonte (7,4%) e, quindi, la Campania (6,8%), prima regione meridionale di questa graduatoria.
Questi dati, selezionati tra quelli presentati nel Rapporto, consentono di concludere, con il Sottosegretario Luigi Bobba, che è possibile passare dall’imponente crescita dell’imprenditorialità immigrata a una fase di piena maturità, con grande beneficio per il “Sistema Italia”. Una fase che includa non solo l’aumento delle imprese, ma anche la crescita dell’innovazione e della dimensione transnazionale. La stabilità del soggiorno, come ha evidenziato una indagine dell’Ocse, favorisce questo sviluppo.
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Mentre volano le quotazioni del petrolio dopo l'accordo tra i Paesi Opec e non sui tagli della produzione. I contratti sul greggio Wti con scadenza a gennaio guadagnano più di 3dollari a 54,5 dollari a barile, ai massimi da luglio 2015, in Italia le cose non vanno come dovrebbero. nel terzo trimestre 2016, le nuove assunzioni a tempo indeterminato, hanno registrato un calo del 18,7% rispetto allo stesso periodo del 2015. i contratti attivati sono stati 406.691 mentre le cessazioni di rapporti fissi sono state 483.162 (- 3,2%). i dati emergono dal report pubblicato sul sito del Ministero del Lavoro e risentono della riduzione degli incentivi sulle assunzioni a tempo indeterminato. Cresce, invece, del 10,6% rispetto allo stesso periodo del 2015 e 20 volte più dell'aumento nazionale il dato delle esportazioni del Sud Italia nei primi nove mesi del 2016. Questi i dati Istat, secondo cui crolla l'export delle isole (-21%) e cala quello del nord - ovest (-0,8%). In crescita nord - est e centro a più 1,5% e aumento medio nazionale fermo a più 0,5%. Sul trimestre, sud e isole segnano - 1,5% ed il nord - est - 0,2%, mentre crescono nord-ovest e centro (più 2,1% e più 0,8%). Per l'Istat sul PIL resta forte i divario tra nord e sud. Crescita nazionale dello 0,7% nel 2015, per il Pil in volume, con variazioni che vanno da più 1,1% nel Mezzogiorno a più 0,3% nel Centro, passando per più 0,8% a nord-ovest e più 0,7 a nord-est. Nel periodo 2011 - 2015 il Pil ha segnato il passo soprattutto nel Centro e nel Mezzogiorno (-1,2% e -1,1%), mentre la flessione è stata piu' contenuta nel nord - ovest (-0,9% e nord-est (-0,5%). Resta forte il divario tra nord e sud, Pil pro capite a 33,4 mila euro a nord-ovest, 32,23 mila euro nel nord-est, nel centro 298,3 mila euro e 17,8 mila a sud, - 44,2% rispetto a centro-nord.
Cari italiani lo volete cambiare o no questo Paese? Volete dare una sforbiciata al senato e far ripartire l'Italia? Ve l'hanno raccontata cosi la bella storia sul Referendum. Renzi vi ha proposto di votare "si", per cambiare verso al nostro Paese. Inizia cosi il video di un servizio di LA7 che sta spopolando in internet e che vi propongo un breve cenno in questo articolo. le Riforme non sono state scritte dal Partito Democratico, sono troppo intelligenti, ma da qualcuno che a livello mondiale conta un po' di più, ma poco poco, ossia, dalle lobby delle Banche d'affari ed in particolar modo dalla JP Morgan, sotto inchiesta per lo scandalo dei mutui “subprime". La crisi dei "subprime" è una crisi finanziaria scoppiata alla fine del 2006 negli Stati Uniti, che ha avuto gravi conseguenze sull'economia mondiale, innescando la grande recessione che ancor oggi stiamo pagando. Nel 2012 la Procura di New York denuncia per frode Bear Stearns e EMC Mortgage, per truffa dei mutui. Le perdite della Bear Stearns ammontano a 22,5 miliardi di dollari e provocano, solo negli USA, 7 milioni di disoccupati e la crisi che da anni imperversa in tutti i Paesi d'Europa. Il 28 maggio del 2013 JP Morgan ha pubblicato un documento intitolato "aggiustamenti nell'aera euro"; la prima parte spiega per filo e per segno come vanno riformati i Paesi, tra cui l'Italia. In particolare la JP Morgan scrive che la Costituzione italiana va cambiata perché "i sistemi politici dei Paesi del Sud ed in particolare le loro Costituzioni, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea". E sapete perché secondo questa brava gente dobbiamo cambiare la nostra Costituzione? Perché è troppo "socialista e garantisce la protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori e contempla il diritto alla protesta contro i cambiamenti dello Status Quo politico. JP Morgan scrive proprio cosi nero su bianco: "la protezione dei diritti dei lavoratori è un ostacolo e anche il diritto a protestare". Ma secondo voi è un caso che le stesse schiforme volute da questa banca d’affari le vuole lo "spara balle" Renzi, a Firenze detto “ il bomba”? Certo che NO, Matteuccio sta facendo i compiti che le ha assegnato la grande Banca d'affari JP Morgan. E sapete chi lo ha consigliato? Tony Blair, il quale, da alcuni anni guadagna molti milioni di euro come consulente.
Il compito di Blair è quello di andare in giro per il mondo a fare "lobbying" (gruppo di pressione). Nel 2012 Renzi e Blair si sono incontrati per cena a Palazzo Corsini a Firenze e sapete chi ha organizzato l'incontro? L'amministratore Delegato di JP Morgan. Nel 2014 i due amiconi si sono incontrati nuovamente a Londra e subito dopo Blair ha rilasciato una bella intervista a Repubblica, spiegando che Renzi aveva uno splendido programma di riforme per cambiare il Paese e rilanciare l'economia. Le stesse riforme che chiede JP Morgan! Queste non sono accuse dei complottisti e sapete perché? Vi ricordate la storia delle Bad Bank (cattive Banche)? Sapete chi ha scelto come consulente il Governo Renzi per chiudere l'affare? La JP Morgan! Nello stesso tempo la stessa Banca, mentre faceva consulenza al nostro Governo, nei suoi report consigliava i propri clienti di evitare le Banche italiane. Ecco da chi prendiamo lezioni! JP Morgan scrive le riforme e Renzi le esegue e non vi meravigliate se tra qualche anno lo vedrete advisor ( consulente) di qualche altra Banca d'Affari, come il figlio di Mario Monti, consulente della Goldman Sachs, Banca Commerciale Comit, generali, FIAT, Coca Cola, Trilateral etc. Cittadini, vi fidate ancora di Renzi e dei suoi uomini di "regime" che organizzano meetings per farvi votare "si"? Poi che dire dei ricatti di Napolitano e Boschi! Il primo ha minacciato gli italiano con lo "spread", arma usata dagli usurai per cacciare Berlusconi e meritevole di indagine per queste dichiarazioni, la seconda, figlia del vicepresidente della fallita Banca Etruria, che ha mandato sul lastrico migliaia di correntisti truffati e tanta osannata a Turi durante la sagra delle ciliegie" (solo in questo Paese poteva trovare tanta ospitalità), ha ricattato a "Porta a Porta" gli italiani dicendo che: "se vince il NO, addio agli 80 euro"", convinta lei ed inconsapevole di aver detto una cazzata!
Per chi ha letto la puntata del Diario della crisi finanziaria che parla di cosa è davvero Goldman Sachs questa di oggi è un po' inutile, in quanto in quel testo che mette insieme quattro puntate dedicate al potente ma ancor più preveggente colosso della finanza strutturata vi sono tutti gli elementi per capire perché, nonostante il vero e proprio crollo della domanda di petrolio evidenziata dal calo del 10 per cento circa registrato di recente in Italia, il prezzo del greggio, dopo una breve puntata al di sotto della soglia psicologica dei 40 dollari, si sia riportato rapidamente in vista della soglia altrettanto psicologica dei 50 dollari (parlo del WTI naturalmente, perché il Brent è ormai prossimo a quella soglia).
E' divertente che, ogni volta che assistiamo a movimenti repentini del genere, gli analisti un po' improvvisati, quelli competenti e con le mani in pasta ovviamente tacciono, si precipitano a parlare di vertici a due o a tre in corso per stabilizzare la produzione al fine di riavvicinare la domanda e l'offerta, ma è altrettanto evidente come a questi vertici non seguano mai decisioni o ancor meglio azioni decise e non è solo l'Iran che sta mandando gli impianti a tutta caldara, ma un po' tutti i produttori stanno accelerando l'estrazione, per non parlare di quel Venezuela ridotto oramai letteralmente alla fame pur disponendo di riserve di grandissimo rilievo.
Cosa sta allora accadendo? Sta accadendo che il prezzo dei future sul petrolio è nelle mani delle banche più o meno globali, entità spesso di grandi o grandissime dimensioni ma che si accodano pedissequamente a quello che fanno i loro esperti e superpagati colleghi di Goldman Sachs che decidono quando, spesso al di là delle decisioni dei ministri del petrolio arabi od occidentali, il prezzo deve andare verso l'alto o verso il basso e il bello è che, essendo i primi ad imprimere la direzione, guadagnano in entrambi i casi!
Di fronte a uno scenario di questo tipo, tollerato e ampiamente accettato dai Governi di tutto il mondo, non posso non pensare a quando, alla borsa merci di Chicago, Raul Gardini, soprannominato in patria il pirata, fu crocifisso dall'organismo che vigila su quella borsa per avere comprato tutti i contratti futuri sulla soia e fu costretto a venderli realizzando una grande perdita e subendo un colpo che forse ha influito sulla sua tragica fine.
Nulla di tutto questo accade a Goldman e alle sue sorelle che continuano imperturbate a influire sui prezzi del greggio e delle altre materie prime, per non parlare dei metalli preziosi, influendo così anche sulle condizioni di vita degli ignari abitanti del nostro pianeta.
Da quando, nell'agosto del 2007, si bloccò completamente la liquidità nel mercato interbancario europeo, ho seguito con la dovuta attenzione i numerosissimi vertici internazionali che allora avevano cadenza settimanale, tra incontri formali e informali, incluso il famosissimo intervento a porte chiuse in cui Mario Draghi, allora Governatore della Banca d'Italia e capo dell'organismo ristretto incaricato di riscrivere le regole del gioco in quello che l'allora presidente francese, Nicholas Sarkozy, ebbe a definire un casinò a cielo aperto, ebbe con i massimi esponenti del mondo bancario operante negli Stati Uniti d'America, un incontro del quale ovviamente non trapelò nulla se non la testimonianza di quanti ebbero modo di vedere i volti dei banchieri più potenti del mondo all'uscita dall'albergo in cui si era svolto l'incontro, facce che testimoniavano di quanto era stata dura la reprimenda che Super Mario aveva rivolto loro.
Come dicevo, di vertici ne ho seguiti davvero tanti, cercando di decifrare dai comunicati ufficiali quale era lo stato dell'arte delle decisioni prese o meno per disinnescare la mina vagante dei titoli strutturati della finanza creativa escogitati dagli apprendisti stregoni delle potentissime divisioni di Corporate Investment Banking delle banche più o meno globali, operazione che, come ricordavo in una recente puntata del Diario della crisi finanziaria, è in qualche modo riuscita, anche se dopo un vero e proprio bagno di sangue, negli Stati Uniti d'America, mentre in Europa siamo ancora al carissimo amico.
Come tutti sanno, lunedì scorso si è svolto a Ventotene un incontro al vertice tra il premier italiano, Matteo Renzi, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente francese, Francoise Hollande, un vertice che sancisce l'esistenza di un triumvirato tra i tre paesi più grandi dell'Unione europea dopo la vittoria al referendum della posizione che sanciva l'uscita della Gran Bretagna dalla UE dopo una travagliata e pluridecennale permanenza di quella grande nazione nel consesso europeo, una permanenza segnata da una tale quantità di ricorso alla clausola di opting out da rendere la sua adesione più simile ad un trattato bilaterale che ad un'adesione piena e convinta ai valori che animano l'Europa unita.
Quella della quasi definitiva formalizzazione di queste consultazioni a tre è forse l'unica vera notizia emersa dal vertice, in quanto le dichiarazione dei tre leader europei sono state più o meno una ripetizione di cose già dette in risposta alla richiesta italiana di andare oltre il Piano Juncker sugli investimenti e la riaffermazione della piena sovranità della Commissione dallo stesso presieduta sulla valutazione delle richieste di flessibilità più o meno rilevanti avanzate dagli Stati membri, Italia ovviamente inclusa.
Abituato a leggere tra le righe delle dichiarazioni di politici e banchieri, devo dire che la realtà dell'incontro a porte chiuse e dei contatti che lo hanno precedute appare diversa, in quanto su un punto c'è certamente un accordo ed è rappresentato dalla questione delle banche, sulle quali il relativamente facilmente gestibile problema dei Non Performing Loans delle banche italiane sta servendo come grimaldello per ottenere un via libera della Commissione europea per ottenere la possibilità di gestire il problema dei rischi collegati alla montagna di derivati e titoli più o meno tossici in pancia alle banche tedesche e francesi, ma, si sa, una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso.
Così come la riaffermazione che sulla flessibilità sui conti pubblici italiani sarà la Commissione a decidere non esclude che Francia e Germania non si adopereranno perché le richieste dell'ormai importante partner italiano non vengano, in tutto o in parte esaudite, per non parlare dell'avvicinamento delle posizioni dei tre paesi sul cruciale capitolo della gestione dei flussi migratori.
Dopo aver testato per diverse sedute livelli molto prossimi ai recenti minimi storici legati in buona parte ai timori di un maxi aumento di capitale per soddisfare le richieste della vigilanza bancaria europea presso la BCE che chiede che la banca milanese porti il Tier 1 dal poco più del 10 per cento attuale all'alquanto proibitivo 12,25 per cento, Unicredit è rimbalzata martedì in borsa sulle voci di una prossima vendita del 40 per cento di Banca Pekao che è valutato intorno ai 3,5 miliardi di euro, mentre non è escluso che si arrivi anche all'alienazione totale di Finecobank, la banca prevalentemente online che dovrebbe portare ulteriori risorse, due mosse che, se andranno in porto, potrebbero limitare l'aumento di capitale a 5 miliardi di euro.
Faccio parte della non folta schiera di quanti hanno visto con un certo sospetto la nomina del nuovo Chief Executive Officer francese di Unicredit, un banchiere molto versato nel campo della finanza ma con trascorsi non sempre chiari nel mondo del Corporate & Investment Banking, come quando si trovò nella posizione di capo del trader infedele Kerviel che arrecò danni miliardari alla sua banca francese, ma devo ammettere che, rispetto ai templi biblici del precedente CEO, De Mustier appare un razzo e sono molto curioso di vedere come si articolerà il nuovo piano industriale atteso entro la fine dell'anno.
E' chiaro che Unicredit non uscirà dalla sua crisi solo vendendo i pezzi dell'argenteria, saldi nei quali ricompresi Bank Austria, mentre ancora nulla si sa della sorte di HVB (quarta banca tedesca), ma quello che è certo è che, alla fine di un percorso di dimissioni che non sarà né facile né breve, la banca di piazzetta Gae Aulenti sarà una banca molto, ma molto meno internazionale, anche se questo non sarà necessariamente un male.
Quello che ancora non è ufficialmente sul tavolo è il taglio delle sedi e del personale che però tutti, a partire dalle organizzazioni sindacali di categoria, danno per inevitabile e del quale si aspettano solo i dettagli.
Non so dove stia trascorrendo le sue vacanze Viktor Messiah, Chief Executive Officer del quinto gruppo creditizio italiano, UBI, quel gruppo che è riuscito sotto la sua guida a schivare tutte le insidie presenti nelle diverse fasi del processo di ristrutturazione del sistema creditizio italiano, quelle insidie che hanno inferto colpi gravissimi alle altre quattro componenti del quintetto di testa della graduatoria delle banche italiane e che vede la presenza di colossi dai piedi di argilla come Intesa, Unicredit, Monte dei Paschi e Banco Popolare (fra poco fuso con quella Banca Popolare di Milano che un magistrato che condusse una lunga indagine su un gruppo di persone che a suo avviso dominava la banca milanese in anni passati, un gruppo di persone che lui ebbe a definire la Cupola), banche che spesso quelle insidie le hanno trasformate in atti di gestione dai costi spesso miliardari e che le rendono difficilmente ristrutturabili se non, almeno in alcuni settori di attività, ripartendo da zero e affidandosi alle migliori best practice esistenti a livello mondiale.
Dicevo che non so dove e se si stia riposando il numero uno operativo di UBI ma certo gli è pervenuta la circolare interpretativa dell'Associazione Bancaria Italiana, una circolare redatta in questi giorni e che fornisce l'interpretazione pressoché autentica di quell'articolo della legge di stabilità 2016 che prevede la deducibilità dagli imponibili IRAP e IRES delle somme destinate agii schemi di salvataggio delle banche in difficoltà nell'ambito del fondo di tutela dei depositi e, quindi, anche degli interventi che una banca fa per risolvere i guai di un'altra, purché assimilati agli stessi e ora si capisce perché, dopo innumerevoli rifiuti di Messiah a parlare della possibilità che il suo gruppo acquisisse MPS, lo stesso Messiah ha iniziato qualche settimana fa a dire che quello che è importante in un'acquisizione è che la stessa sia finalizzata a creare valore per entrambe le parti in causa ed è certo che se le somme spese vanno in doppia deduzione fiscale una mano alla creazione di valore viene.
Ma quella della eventuale deducibilità fiscale non è per chi sta studiando il dossier della banca senese che una ciliegina su una torta a più strati che si compone del lavoro pluriennale di Fabrizio Viola nel sistemare i guai del passato e per cui sta avendo anche delle noie giudiziarie, del piano di radicale abbattimento delle sofferenze lorde e nette, un'operazione che lascerebbe in piedi solo il pacchetto da 20 miliardi di crediti deteriorati (crediti che non sono ancora sofferenze e forse non lo diverranno mai) e, the last but not the least, un aumento di capitale che, spesate le operazioni di pulizia, aumenterebbe di un paio di miliardi il già forte patrimonio di MPS (9,5 miliardi di euro), insomma ce ne è di sostanza per valutare un'acquisizione che avverrebbe per il classico piatto di lenticchie e con i ringraziamenti dell'intera collettività nazionale!
La terza fase della tempesta perfetta in corso sui mercati, in particolare modo su quelli europei, ha imposto delle perdite anche ai più ricchi, in quanto il forte calo dei corsi azionari delle loro aziende ha determinato flessioni dei loro portafogli, come evidenziano le più recenti statistiche di Forbes che segnalano cali nell'ordine del 15 per cento in media, ma parliamo, almeno con riferimento ai paperoni italiani, di cifre miliardarie e che in molti casi sono diversificate sui mercati azionari mondiali per cui c'è sempre la speranza che le perdite subite da una parte si possano in contemporanea o in un prossimo futuro recuperarle da un'altra.
Ho letto proprio in questi giorni un'analisi del modello svedese, un paese che segue abbastanza pedissequamente il modello keynesiano di sviluppo e che parte da un principio molto caro all'economista Davide Ricardo e che postula che, al di là del livello della ricchezza personale, è difficile che si possano fare più di tre pasti al giorno, un paese sostanzialmente immune alla crisi e che adotta un sistema di redistribuzione della ricchezza, in gran parte tramite il suo sistema tributario e alle norme sulla successione, che lo rendono un paese autenticamente socialista, al di là del fatto che governino i socialdemocratici o forze di centrodestra, un paese dove la povertà indotta dalla non facile congiuntura internazionale colpisce una percentuale minima della popolazione, così come marginale è la percentuale dei senza lavoro e che ha fatto fino in fondo la sua parte nell'accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo mentre agisce in modo deciso nei confronti di quanti vorrebbero partecipare al suo sistema avanzato di welfare per motivi esclusivamente economici.
Ovviamente, la Svezia non è immune al fenomeno dei movimenti populisti, antieuropei e spesso razzisti e xenofobi, ma sostanzialmente, almeno fino ad ora, un solida maggioranza dei cittadini di quel paese crede ancora alle ricette dei partiti di centrosinistra e di centrodestra che continuano ad alternarsi al governo.
Questo lungo preambolo è utile per venire alle cose di casa nostra, in quanto mai come in questi ultimi quindici anni la distribuzione della ricchezza e conseguentemente dei redditi ha raggiunto livelli di iniquità di gran lunga superiori a quelli registrati nelle precedenti fasi della vita economica a partire dal secondo dopoguerra, una situazione che non solo fa crescere in modo sempre più evidente le fasce di povertà ed emarginazione, ma rappresenta anche un freno endemico alla crescita economica a causa della diversa propensione al consumo delle classi più abbienti rispetto a quella pari quasi a cento delle classi più bisognose, una situazione che si è accentuata grazie alle rendite di posizione determinatesi con l'introduzione mal governata e mal gestita dell'euro, come ben hanno capito i pensionati con assegni da un milione di lire quando si sono trovati a percepire assegni da 516 euro, parlo dei pensionati non perché i lavoratori dipendenti non si siano trovati di fronte ad uno shock simile ma, almeno sulla carta, avevano l'arma della contrattazione salariale che poteva ridurre, almeno in parte, il gap che si era venuto determinando in un breve volgere di mesi.
La mini redistribuzione del reddito attuata attraverso i provvedimenti del Governo Renzi, pur procurando un certo sollievo ai dieci milioni circa di percettori degli 80 euro mensili in più in busta paga, avviene a carico delle casse dello Stato, mentre sarebbero necessarie maggiori imposte sui grandi patrimoni immobiliari e sulle grandi ricchezze accompagnati da significativi sgravi fiscali sulle classi di reddito basse e medie, una manovra da cui verrebbe quella spinta ai consumi che realmente sarebbe in grado di imprimere un impulso alla crescita dell'anemico prodotto interno italiano e il tutto dovrebbe accompagnarsi ad una commissione di inchiesta parlamentare su quello che è avvenuto nel processo di transizione tra la lira e l'euro nei settori del commercio, del lavoro autonomo e delle libere professioni!
La notizia è di quelle da far tremare i polsi: le autorità federali statunitensi hanno fatto ricorso a un tribunale perché intimi al colosso creditizio tedesco Deutsche Bank di nominare una figura indipendente in possesso dei requisiti professionali adatti per fare una valutazione obiettiva dei derivati montati dagli apprendisti stregoni delle due diverse Corporate & Investment Banking preposte alle attività finanziarie della banca, la nuova figura prevista dovrebbe districarsi tra derivati e titoli tossici per un ammontare di 52 mila miliardi di euro in termini di nozionale, un'esposizione immensa che però ovviamente si riduce di molto quando si eliminino le operazioni di segno opposto, ma che resta immensa quando si consideri il cosiddetto rischio di controparte.
Ho sentito un cauto commento in diretta su un canale televisivo specializzato in notizie economiche e finanziarie, ma l'interpellato non ha avuto esitazioni sugli effetti sistemici che potrebbero derivare da questa notizia, soprattutto se il giudice federale arrivasse a pronunciare un verdetto in linea con la richiesta delle autorità federali cosa che è in realtà molto probabile, ma che ha anche sostenuto che, in caso di nomina ed esito del lavoro sfavorevole rispetto alle attuali e molto rassicuranti rappresentazioni fornite dalla banca basata in Francoforte, sarebbe necessario ricorrere ad un maxi aumento di capitale di dimensioni superiori al fabbisogno di nuovo capitale previsto nel medio termine per le banche italiane!
Ovviamente, è stata ricordata la garanzia statale tedesca accordata alla banca globale, ma, ove l'importo previsto dovesse essere dell'importo ipotetico di cui parlavo di sopra, è evidente che andrebbe individuata una soluzione europea della quale non potrebbero essere escluse le banche degli altri paesi dell'eurozona, una circostanza che chiarisce anche i continui riferimenti del premier italiano, Matteo Renzi, alle difficoltà vere o presunte del colosso creditizio tedesco in materia di derivati, così come spiega la posizione conciliante della Merkel e del suo normalmente arcigno ministro delle Finanze rispetto alla richiesta italiana di non considerare aiuti di Stato eventuali partecipazioni pubbliche ad aumenti di capitale delle banche italiane in difficoltà.
Le banche come è noto vivono non solo di requisiti patrimoniali e di liquidità, ma possono operare anche e direi soprattutto sulla base della reputazione di cui godono nei paesi in cui operano; così non vorrei essere nei panni del Chief Executive Officer britannico che deve decidere se anticipare le mosse statunitensi proponendo sua sponte questa autorità indipendente senza aspettare che sia il tribunale di un altro paese a intimarglielo.
In queste ultime sedute i tre principali indici azionari americani stanno rompendo tutte le resistenze e macinando un record storico dopo l'altro, con Il Dow Jones Industrial che, rotto il livello dei 18.500 punti, occhieggia alla soglia più che psicologica dei 19.000 punti e il Nasdaq e lo Standard &Poor's 500, proprio quello contro cui sta o stava scommettendo il principe degli speculatori, al secolo George Soros (spero per lui che si stia rifacendo con la scommessa sempre più riuscita contro la sterlina inglese ormai a livelli di liquefazione), che infrangono anche loro i precedenti massimi storici un giorno sì e l'altro pure.
Oltre che a quanto accadde nelle prime fasi della tempesta perfetta, quando il Dow Jones toccò un massimo storico a pochi mesi dall'inizio del blocco della liquidità per poi scendere rovinosamente nei mesi e negli anni successivi, tutto questo rinvia al grande crollo del Nasdaq del 2001, quando, dopo aver superato di un balzo la soglia dei 5 mila punti, l'indice tecnologico si portò a quasi la metà di quel valore, costringendo Alan Greenspan, a quei tempi presidente della Federal Reserve, a inondare il mercato di liquidità per evitare una serie di fallimenti a catena!
Nel frattempo, ho sentito una notizia che non ho avuto modo di verificare appieno e che dice che il livello dei prezzi delle case negli Stati Uniti d'America sta risalendo molto sensibilmente puntando a riportarsi ai livelli precedenti a quel 2007 che diede l'avvio ad un vero e proprio meltdown dell'immobiliare USA, un tracollo che non risparmiò nessuna area del paese e che determinò il fenomeno delle foreclosure di massa con le conseguenti vendite all'asta a prezzi di assoluto realizzo, nonché l'emersione di intere località deserte di abitanti, come ad esempio Newark località non molto distante da New York e fino a poco tempo prima abitata da pendolari proprio con la grande mela, perché gli stessi erano stati cacciati dagli ufficiali giudiziari inviati dalle banche inferocite per la valanga di mutui, spesso subprime, non pagati.
Si tratta di una situazione di forte tensione sui prezzi delle case che non è ancora diffusa a livello nazionale, ma che si sta presentando nelle aree a forte tensione abitativa, così come non risulta che vi siano state campagne aggressive sui mutui come si verificò negli anni precedenti la prima ondata della tempesta perfetta, quando persone del tutto lontane dall'idea dell'acquisto di una casa, anche perché consapevoli del fatto di non avere i requisiti reddituali per sostenere la spesa di un mutuo venivano sollecitate a procedere un'acquisto incentivate da condizioni sul mutuo (condizioni che in generale duravano in realtà solo per il primo quinquennio) tali da rendere la rata del mutuo poco diversa dal prezzo dell'affitto dello stesso immobile.
Da allora di strada gli USA ne hanno fatto tanta, al punto di dimenticare gli sfracelli dei tre indici azionari successivi alla prima ondata della tempesta perfetta e la catastrofe del mattone, e possiamo dire che sono stati anni di ripresa vera, ben riflessa sia dai successi dell'azionario che dalla lenta ripresa dei prezzi delle case, sia di quelle individuali che degli appartamenti nei condomini, determinando la situazione di mini boom economico di cui il presidente Barack Obama va così orgoglioso, ma e in tutte le storie c'è sempre un ma, si iniziano ad avvertire sinistri scricchiolii in questa storia di successo.
Ho vissuto la fase cruciale del negoziato sulle parità "fisse e irrevocabili" tra le valute candidate a far parte della valuta unica europea nel maggio del 1998 mentre ero l'economista della sala cambi di un'importante banca italiana che disponeva di analoghe struttura a presidio di tutti i fusi orari e ricordo bene le discussioni tra gli operatori e le riunioni mattutine nelle quali si discuteva delle possibilità di successo della nuova valuta nel confronto con il dollaro statunitense, lo yen giapponese e la sterlina inglese, così come ricordo la notte in cui le stesse parità furono fissate perché dopo un'intervista al Tg 3 che aveva seguito il nostro lavoro notturno in diretta lasciai per sempre quell'attività per diventare il responsabile dell'ufficio studi di un sindacato nazionale del settore finanziario.
Ho ricordato i miei trascorsi solo per chiarire che quella delle basi fondamentali del percorso che ha portato all'introduzione dell'euro le ho vissute in prima persona e le ho vissute con la morte nel cuore perché ero perfettamente consapevole che se ci fossero stati due anni in più per la fissazione delle parità il processo travolgente di recupero della lira in corso dopo gli sfracelli avvenuti sotto il primo governo Berlusconi e quello di Lamberto Dini, la nostra valuta sarebbe entrata con un rapporto di cambio ben più favorevole, certamente più basso di quelle 1936,27 lire per euro fissate nel maggio del 1998.
Ma il problema, come si suol dire in questi casi, era politico più che economico, in quanto il governo Prodi non solo fece di tutto per partecipare sin da subito alla costruzione della moneta unica, ma, nelle fasi più convulse del negoziato puntò sull'ultima svalutazione della lira puntando su un cambio anche oltre le 2 mila lire, mentre tedeschi e olandesi vedevano la nostra valuta intorno a 1.900 e dalla mediazione nacque il valore che ho appena ricordato e, al colpo di mazza del banditore di Walras, tutti i prezzi furono convertiti, nel 2001 ma di fatto tre anni prima, e, insieme il più grande processo di redistribuzione del reddito mai verificatasi nel nostro Paese mai dal secondo dopoguerra.
Il bello è che è stato un processo pressoché istantaneo e non a caso ho citato Walras e la sua rappresentazione del processo istantaneo di formazione dei prezzi, perché nella totale latitanza del governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2006, intere categorie che avevano nelle loro mani il potere di fissare i prezzi fecero carne di porco e quello che è accaduto allora ai prezzi delle case è noto ai più, basti dire che dopo anni di calo dei prezzi il valore di un immobile è mediamente ancora, e di molto, più alto del suo valore in lire. Insomma, il combinato disposto di questi movimenti ha determinato per la popolazione che vive a reddito fisso un impoverimento che è stato calcolato intorno al 30 per cento, al netto ovviamente dei risparmi sugli interessi dei mutui legato alla moneta unica.
Sono molte le cose che mancano all'euro, ma la prima di tutte è l'assenza di un Governo vero dell'Unione, unito all'applicazione della regola dell'opting out da parte di numerosi paesi membri, Regno Unito in testa e che ora ha lasciato addirittura l'Unione, anche se in realtà non lo farà verosimilmente prima del 2020, così come sono forti le differenze tra le diverse aree dell'Unione ed è da qui che parte la proposta del Nobel per l'Economia, Joseph Stiglitz, che è quella di prevedere un euro per l'Europa del Nord ed un altro, ovviamente più debole, per i paesi dell'area mediterranea, ma è un rimedio peggiore del male perché non tiene conto che inizierebbe quasi automaticamente un processo di disgregazione che porterebbe danni incalcolabili.
Non è un mistero che numerosi esponenti dell'accademia americana sono stati sin dall'inizio contrari all'introduzione dell'euro che, negli anni, ha iniziato a rappresentare un'alternativa nelle riserve ufficiali al dollaro, così come l'Europa incalza gli Stati Uniti nel prodotto interno lordo, ma non penso che gli economisti europei avrebbero mai proposto di prevedere diversi dollari che tenessero conto delle grandi disparità esistenti tra gli stati americani.
Come ho scritto in una puntata del Diario della crisi finanziaria di qualche tempo fa, sono stato nel cuore dell'Inghilterra post industriale pochi giorni dopo la vittoria del leave all'Unione europea, una vittoria non di larghissima misura ma anche un po' inaspettata e in buona parte spiegata dall'incredibile astensionismo dei giovani (hanno votato il 36 per cento degli aventi diritto di questa classe di età) che tutti i sondaggi di tipo stratificato per età davano per il remain con buona percentuale di distacco, ma questa ormai è storia e ne parlo solo per ricordare che mi è capitato allora di vedere numerosi edifici sui quali era riportata la bandiera della UE e una scritta che ricordava che erano stati realizzati grazie a finanziamenti provenienti da Bruxelles.
Ebbene, pochi giorni fa uno dei neo ministri della premier May si è premurato di rassicurare i sudditi di Sua Maestà britannica, che non si è mai espressa sul quesito ma che ha compiuto una serie di piccoli gesti che hanno convinto tutti che non fosse proprio una euro entusiasta, che lo Stato avrebbe garantito i finanziamenti un tempo provenienti da Bruxelles fino al 2020 e che gli stessi sono pari a 4,5 miliardi di sterline l'anno, una cifra che, visti i continui bracci di ferro britannici sui contributi al budget comunitario, superano, come affermato da molti nel corso della accesa campagna referendaria, quanto versato ogni anno a Bruxelles, così come è evidente che il Tesoro britannico non potrà fabbricare questa cifra, pari a poco meno di venti miliardi di sterline nel periodo considerato, e la stessa dovrà provenire da tagli alle spese o da aumenti delle imposte, esattamente quello che, prima del voto, aveva affermato il precedente responsabile dell'economia nel gabinetto di David Cameron, Osborne, un ministro che parlava di un buco da coprire di 30 miliardi di sterline includendo anche altri e pesanti effetti sull'economia derivanti da quella che allora era solo un'ipotetica scelta degli elettori britannici.
Non voglio infierire sulle bugie raccontate in campagna elettorale da Nigel Farage, Boris Jhonson e compagnia cantante, bugie smentite poi all'indomani del voto da loro stessi, con siparietti con giornalisti esterrefatti per l'impudenza di questi politici, uno dei quali si è dimesso, mentre l'altro è ministro degli Esteri della May e attualmente primo ministro facente funzioni per l'assenza per ferie della May e lo sarà anche in prospettiva ogni volta che la premier sarà assente, ma quello che è certo è che la marea montante del populismo, spesso condito da balle in economia e da razzismo in politica, non abita solo nel Continente europeo, ma è forte e tanto anche nelle isole britanniche, ma quello che è certo è che il conto di queste bugie e di queste vere e proprie manipolazioni dell'opinione pubblica lo pagheranno di tasca propria i contribuenti britannici e tutti i percettori di un sistema di welfare che già presenta un deficit previdenziale ammontante ad una cifra stratosferica, il tutto al netto di un referendum già annunciato dalla Scozia e di analoghe mosse che potrebbero riguardare l'Irlanda del Nord e il Galles con effetti altrettanto devastanti sul bilancio nazionale.
D'altra parte, il Governatore della Bank of England ha già annunciato che il prodotto interno lordo nel 2017 si porterà allo zero virgola qualcosa da una velocità di crescita al primo semestre del 2016 del 2,2 per cento, una flessione che peserà e non poco sul bilancio, così come il prezzo del petrolio che non riesce nemmeno a rivedere la soglia dei 50 dollari al barile farà inesorabilmente la sua parte su quella che negli scorsi decenni è stata, insieme alla finanza, la vera risorsa nazionale. Gli economisti utilizzano spesso una misura grossolana ma efficace per misurare il potere reale di acquisto nei diversi paesi ed è rappresentata dal prezzo del Big Mac ma nel Regno Unito questo indicatore è sostituito dal prezzo della pinta di birra e questo è già schizzato fino alle 3 sterline dalle 2 di pochi anni fa, ma il problema è che il tracollo della sterlina minaccia ulteriori rincari per la birra di importazione ed è così che l'associazione di categoria dei proprietari di pub ci informa che ogni settimana chiudono 11 esercizi di questo tipo con i britannici sempre più costretti a comprare la birra al supermercato e bersela in solitudine a casa e dire che erano stati proprio i pub i luoghi dove è maturata la vittoria del leave!
Nei primi due-tre anni della tempesta perfetta, quella che nel sottotitolo del Diario della crisi finanziaria definisco la più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra, mi sono occupato prevalentemente della crisi delle banche statunitensi letteralmente sommerse da quei titoli della finanza strutturata, a partire dall'impacchettamento dei mutui subprime in pacchetti realizzati dagli apprendisti stregoni delle sezioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, e che godevano in larga misura del racing della tripla A, una montagna dalle dimensioni impressionanti che sembrava dovesse sommergere tutto ma che alla fine ha fatto soltanto una vittima illustre, la Lehman Brothers, più alcune di istituti di piccole e medie dimensioni, ma, grazie alle scelte del capo della Federal Reserve, Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, che ha utilizzato l'enorme volume di liquidità creato con le varie edizioni del Quantitative Easing per drenare migliaia e migliaia di miliardi di dollari di questi titoli più o meno tossici dalle banche operanti negli USA (banche europee globali incluse), trasformando le sedi della Fed, in particolare quella di New York, in enormi discariche a cielo aperto di questi titoli che sono di fatto scomparsi dalla circolazione.
I più attenti tra i miei lettori si chiederanno: ma se l'azione della Fed ha salvato le banche americane perché non ha fatto altrettanto per Deutsche Bank, BNP Paribas, Société Generale, UBS You and I, Credit Suisse, Lloyd Bank, Il problema aggiuntivo dell'area europeaRoyal Bank of Scotland e via cantando? La risposta, almeno apparentemente, è semplice e dipende dal fatto che, oltre ai derivati e ai titoli più o meno tossici conferiti alle capaci discariche della Fed, gli apprendisti stregoni delle CIB di queste banche, nel caso di Deutsche di CIB ne esistono addirittura due, hanno continuato a sfornare i prodotti più disparati, accumulandone, complessivamente, per centinaia e centinaia di migliaia di miliardi di euro di nozionale, una situazione che le apre a a rischi operativi (che, sempre collettivamente, non superano di molto i cento miliardi di euro), ma, e questo e più grave e di gran lunga più difficilmente quantificabile, a rischi di controparte che, tradotto in soldoni, è il rischio che una controparte di un contratto finisca a gambe all'aria.
Ma il problema aggiuntivo dell'area europea, la Svizzera richiederebbe un discorso a parte, è che, stretti dai vincoli stretti dei parametri di deficit e debito previsti dal trattato di Maastricht, i governi dei grandi paesi dell'area hanno sì fatto interventi rilevanti volti al rafforzamento patrimoniale delle banche dei rispettivi paesi, interventi fatti solo in modo marginale dall'Italia con i Tremonti e i Monti Bonds, ma non hanno potuto evitare che la spirale recessiva mandasse in default numerose aziende debitrici delle stesse banche, determinando un ammontare di Non Performing Loans pari a un trilione di miliardi di euro, dei quali più di un terzo facenti capo alle sole banche operanti in Italia, un macigno che gli stress test hanno evidenziato, pur mandando al di sotto della linea di valutazione il solo Monte dei Paschi di Siena.
La vera differenza, tuttavia, sta nella politica economica e, soprattutto, quella monetaria attuate al di là e al di qua dell'Oceano Atlantico, in quanto, dopo le scelte molto opinabili della triade Bush-Bernspan-Paulson (ex numero uno di Goldman Sachs prestato alla politica come ministro del Tesoro pochi mesi prima dello scoppio della tempesta perfetta), è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti d'America Barack Obama e, come per magia, Bernspan ha iniziato a tirare fuori dal cappello quelle trovate che hanno reso una vera e propria catastrofe una grande opportunità, ovviamente infischiando dei vincoli di bilancio e dei parametri che restano un ossessione tutta europea, anche perché i due erano ben consapevoli che o si riusciva a raddrizzare la nave o si andava tutti a fondo e che a ripagare i debiti ci avrebbero pensato i posteri, cosa che, peraltro, non accadrà perché la ricetta ha funzionato e ora ci si trova con un'economia in soddisfacente crescita, un tasso di disoccupazione quasi ai minimi storici e le banche quasi del tutto in piena salute!
Il Governo italiano, per bocca del suo ministro dell'Economia, ha dichiarato venerdì di non essere rimasto sorpreso della crescita zero su base congiunturale del prodotto interno lordo nel secondo trimestre di quest'anno di disgrazia 2016, un dato secondo Piercarlo Padoan atteso e questo appare veritiero sulla base dei dati parziali che si sono susseguiti nei mesi scorsi e che indicavano un rallentamento della crescita dopo i dati incoraggianti del primo quarto dell'anno, dati che vedevano segnali negativi dalla produzione industriale e dagli ordinativi, nonché un rallentamento dell'export che è determinato da un lato dalla debole domanda mondiale, Cina in primis, ma che è anche il risultato della pervicace volontà della Commissione europea che continua a non sanzionare la Germania per il non rispetto, da sei anni almeno, della norma europea che prevede che un paese membro non possa superare per più di tre anni consecutivi il limite del 6 per cento dell'avanzo commerciale in rapporto del PIL e, grazie anche grazie a questa tolleranza, l'avanzo si è portato lo scorso anno all'8 per cento del PIL.
Ma tutto questo, ovviamente, non giustifica l'arresto della crescita in Italia dopo anni di decrescita e dopo qualche trimestre con segno più, seppure sempre a livello di zero virgola, perché il problema è che scontiamo un dato strutturale che risiede non tanto nella scarsa propensione al consumo degli italiani, peraltro ormai stremati da un'operazione mal gestita di cambio dell'euro a un rapporto di cambio estremamente debole e dall'assoluto non controllo dei prezzi successivo al cambio di valuta, ma piuttosto da un comportamento in verità decennale di una vasta parte della nostra classe imprenditoriale che ha portato le proprie aziende in bancarotta per i crediti con le banche, con il fisco e con l'INPS e i propri capitali all'estero, una fuga peraltro premiata dai vari provvedimenti di sanatoria, su base anonima, approvati dai Governi di ogni colore in cambio di percentuali irrisorie applicate per la regolarizzazione, spesso tombale, di quello che era è resta un reato penale, incentivando così chi non lo aveva fatto ad imitare tale comportamento che, a differenza degli altri grandi paesi membri dell'Unione europea, viene visto dalla maggioranza degli italiani, così come accade per l'evasione fiscale e contributiva, un peccato veniale se non un comportamento addirittura virtuoso.
Nelle numerose puntate che hanno composto il breve saggio intitolato le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi ho illustrato con dovizia di dati questi comportamenti incoraggiati e blanditi dai numerosi suoi governi, ma il problema è che un paese che ha circa quattro milioni di imprenditori e lavoratori autonomi, più del doppio di Germania e Francia messi assieme, ha difficoltà, ammesso che ve ne sia la volontà di contrastarli e solo da pochissimi anni sembra che ci sia resi conto della gravità sistemica della questione.
Farò un caso concreto per dimostrare quanto questi comportamenti possano essere deleteri e il caso del Nord Est in generale e del Veneto in particolare credo davvero che siano esemplari con le numerosissime aziende di piccole e medie dimensioni spuntate come funghi tra le villette abitate dai proprietari e che grazie alle continue svalutazioni della lira hanno invaso i mercati con i loro prodotti grazie anche ai generosi prestiti delle banche della regione, un miracolo che, con l'introduzione dell'euro, è entrato in crisi e che ha mandato a gambe all'aria numerose banche dell'area salvate a suon di miliardi dal Fondo Atlante e dall'istituto centrale delle BCC, il tutto mentre le aziende chiudevano una dopo l'altro e i profitti dei decenni d'oro stavano tranquillamente in Svizzera, in Lussemburgo, alle Cayman e negli altri paradisi fiscali!
Quando sono riprese le pubblicazioni del Diario della crisi finanziaria nel febbraio di questo anno di disgrazia 2016, ho segnalato alcune criticità collegate alla terza ondata della tempesta perfetta ed erano, in estrema sintesi la Cina e il suo mercato azionario, in particolare quello di Shanghai, il comparto delle banche a livello globale, ma in particolare di quelle italiane, ma anche il rischio di bolla speculativa sui mercati azionari a stelle e strisce che ormai macinano un record storico dopo l'altro, per non parlare di quel prezzo del petrolio che ha infatti visto nelle settimane successive alla prima puntata dimezzarsi il valore che ha poi cercato nei mesi successivi un recupero fino a oltre 52 dollari per poi risprofondare a 40 dollari al barile; ovviamente tutte queste criticità sono strettamente connesse tra di loro e hanno tutte a che fare con la recessione e la deflazione che colpiscono in particolare l'Europa, ma che da qui si diffondono poi all over the world e che non sono efficacemente contrastate dalle politiche espansive di tutte le banche centrali ed un livello dei tassi di interesse ufficiali che oscillano ovunque di poco intorno allo zero.
Quasi tutte queste criticità sono esplose e se del petrolio ho già detto quello che è accaduto al comparto bancario è senza precedenti con le banche italiane che già avevano perso molto nel 2015 hanno visto le quotazioni azionarie calare di un cinquanta per cento in media ma con punte di molto superiori per Monte dei Paschi di Siena, passato da oltre 2 euro a 25 centesimi, o il titolo di Unicredit passato da 7 euro a poco più di 2, per non parlare delle due banche venete salvate dal Fondo Atlante le cui azioni da un valore di emissione di diverse decine di euro sono finite per valere 10 centesimi, ma dimezzamenti e più del valore hanno colpito anche banche globali come Deutsche Bank o BNP Paribas, ma andamenti più o meno analoghi sono stati registrati da altre banche globali tedesche, francesi e inglesi.
Ma quello che è scoppiato è scoppiato e serve a poco piangere sul latte versato, anche se nessuno può escludere che qualcosa non possa ancora accadere, mentre il problema è rappresentato da quelle realtà citate all'inizio che non sono ancora esplose: la Cina e il suo mercato azionario, ma ancor di più quello bancario che secondo alcuni osservatori è già tecnicamente fallito, e l'azionario americano contro cui sta scommettendo da mesi uno speculatore di razza come George Soros che, a quanto pare, ha scommesso con successo contro la sterlina in occasione della Brexit che è una bella wild card di cui ho già parlato a lungo.
Alcuni amici mi hanno detto che quando leggono la puntata del Diario della crisi finanziaria al mattino gli va un po' di traverso la colazione, ma il problema è che, in una tempesta perfetta che dura con fasi alterne da nove anni, fare investimenti di rischio è poco consigliabile anche se capisco che le alternative sicure sono a rendimenti bassissimi se non negativi!
Di questo argomento mi sono occupato almeno due volte all'inizio della mia carriera giornalistica, la prima fu su Reporter un quotidiano erede diretto di Lotta Continua e che ha avuto vita molto breve e la seconda dalle colonne del settimanale Capitale Sud appartenente al gruppo Milano Finanza, ma in entrambe le occasioni cercai di dimostrare che una sofferenza raramente è un credito andato a male, trattandosi, invece, nella maggior parte dei casi, di un affidamento che veniva fatto per un'ampia serie di ragioni, tranne, purtroppo che sulla base di valutazioni tecniche e oggettive a partire da quello che, nel gergo tecnico viene definito il merito creditizio del richiedente il prestito.
Badate bene che, allora, la massa dei crediti oggi definiti Non Performing Loans non arrivava, per l'intero sistema bancario italiano, a 100 miliardi di euro, mentre oggi si colloca allegramente a 360 miliardi, ma le cause le avevo già delineate in una ricerca pubblicata su un numero monografico di Sviluppo, rivista dell'ormai defunta Carical ed è ancora un mistero per me che con quello che avevo scritto me l'avessero anche pubblicata.
Ma devo dire che quello che è emerso con riferimento all'operato di Veneto Banca, della Banca Popolare di Vicenza, di Antonveneta (anche se la maggior parte delle magagne di quest'ultima sono emerse solo dopo, ma tanto tempo dopo l'acquisizione della stessa da parte del Monte dei Paschi di Siena), mentre poco so di quanto riguarda la Popolare di Verona, oggi Banco Popolare e domani, se tutto va bene,fuso con la Banca Popolare di Milano, anche se la richiesta di pulizia delle sofferenze avanzata dalla vigilanza BCE e il conseguente aumento di capitale da un miliardo di euro mi fanno pensare che, in tutto o in parte, un analogo sistema funzionasse anche da quelle parti, mentre tralascio per carità di patria quella altra dozzina di istituti di credito di più piccole dimensioni operanti nel Veneto, ebbene dicevo che il modo di erogare il credito in quella regione ha superato di gran lunga la mia fantasia di economista prestato al giornalismo economico.
Quello che in altre parti d'Italia era un fenomeno di grande rilevanza ma sostanzialmente bilanciato da una sana gestione del credito, in Veneto era invece diventato un sistema che si allargava anche ai piccoli soci delle maggiori banche ai quali, come è emerso dalle indagini giudiziarie, si erogavano finanziamenti a fronte dell'acquisto di azioni od obbligazioni subordinate, un andazzo che spiega in parte anche perché non ci sia stata una rivolta popolare quando le azioni sono crollate da 62 euro in un caso e 42 euro nell'altro alla stessa infima soglia di 10 centesimi!
Un fenomeno comune a quasi tutte le banche italiane è quello dell'elevata incidenza percentuale e l'assoluta consistenza in termini assoluti dei prestiti andati in malora in favore dei costruttori che pesano per 40 miliardi circa sui 200 miliardi di sofferenze lorde e che arrivano a pesare per quasi la metà delle sofferenze di alcune banche e se qualcuno pensa che, trattandosi di costruttori, le garanzie reali siano commisurate all'entità dei prestiti ricevuti e mai restituite avrebbe sorprese molto, ma molto amare.
Ai più sarà sfuggita una frase dal sen fuggita di Viktor Messiah, Chief Executive Officer di Ubi Banca, uno dei più forti conglomerati bancari italiani, spintonato da tutte le parti perché si faccia carico dell'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena, offerta che ha ripetutamente declinato in modi a volte anche bruschi, mentre, dopo la doppia approvazione della vigilanza BCE del piano di Fabrizio Viola che prevede l'azzeramento delle sofferenze e un aumento di capitale da cinque miliardi cinque, Messiah ha messo il silenziatore al refrain: stiamo bene così, per dire che, insomma, se si tratta di una fusione che accresce valore alle due convitate a nozze allora si potrebbe anche fare, il che è davvero il massimo che si può strappare a un tipo come lui.
D'altro canto, le cronache di ieri dicevano che il clima si sta rasserenando anche sul fronte della nascita di Atlante 2, quel fondo nato dalla costola di Penati, dominus del Fondo Atlante, e che è chiamato a svolgere un ruolo fondamentale nell'opera di smaltimento delle sofferenze di MPS e che vedeva latitare fino a poco tempo fa i sottoscrittori, il tutto grazie all'opera di convincimento del ministro dell'Economia, Piercarlo Padoan, e della potente Cassa Depositi e Prestiti che è in realtà il suo braccio armato.
Ma, venendo all'argomento di questa puntata del Diario della crisi finanziaria, è evidente a tutti che, spinti dalle attenzioni a volte pressanti della vigilanza bancaria europea presso la BCE, i vertici delle banche italiane stanno rivedendo in tutta fretta i loro piani industriali, a partire dalle due entità coinvolte nella più grossa fusione della storia bancaria recente, il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, che hanno retto alla prova dell'aumento di capitale da un miliardo del Banco e stanno lavorando pancia a terra allo smaltimento delle sofferenze, anche se lo stress test di novembre prossimo riguarderà ancora soltanto il Banco Popolare, in quanto la fusione sarà pienamente operativa solo dal primo gennaio 2017.
Ma quello che manca in questa fusione, e più in generale nel complesso e variegato mondo delle banche italiane, è l'applicazione del modello Deutsche Bank, un modello che taglia alla radice uno dei problemi alla base della debolezza delle banche nella terza ondata della tempesta perfetta e che è rappresentato dalla pletorici della rete distributiva, leggi filiali e agenzie, e il correlativo organico delle stesse, con qualche sforbiciata anche all'organico delle sedi centrali, all'attività di Corporate & Investment Banking e alle presenze all'estero. Insomma, Hic Rodi, hic salta!
Che la vicenda del buco nero del credito italiano, il Veneto, sarebbe prima o poi finita in tribunale era chiaro a tutti, in primo luogo ai diretti interessati, cioè ai presidenti e amministratori delegati delle due entità poi salvate dal Fondo Atlante, alcuni dei quali hanno messo in atto una serie di mosse che li hanno resi poco più che nullatenenti in modo da sfuggire alle richieste di risarcimento provenienti dalla folla di risparmiatori che hanno acquistato le azioni a 62 o a 42 euro e si ritrovano ora con in mano titoli del valore di 10 centesimi.
Ma l'arresto di Vincenzo Consoli, già amministratore delegato di Veneto Banca, apre uno squarcio su una rete di favori volti a mettere al riparo lui stesso e la banca da intromissioni poco gradite su un sistema ipercollaudato che distribuiva finanziamenti a imprenditori amici che si sapeva già non li avrebbero mai restituiti, una somma di comportamenti che ha creato il buco miliardario che ha reso tecnicamente fallita Veneto Banca.
Ma ancora più originale è l'iter della vicenda che ha portato Consoli agli arresti domiciliari, in quanto i risultati dell'ispezione della Banca d'Italia che chiarisce un quadro impressionante della gestione della banca è del 2013 e in pari data trasmesso alla procura di Roma che celermente lo trasmettono alla procura di Treviso dove l'istruttoria dorme fino all'ispezione a sorpresa della Guardia di Finanza dai cui risultati si giunge all'allontanamento di Consoli che, però, continua a influenzare la banca attraverso suoi uomini nel consiglio di amministrazione che poi sono gli stessi, spesso grandi debitori della banca stessa, che guideranno l'assalto vittorioso contro la nuova gestione che verrà spodestata in una lunga e infuocata assemblea che vedrà messa in minoranza la nuova gestione e che approvareà quell'aumento di capitale da un miliardo di euro che nessuno degli imprenditori-debitori sottoscriverà aprendo così le porte all'intervento del Fondo Atlante che gestirà in totale autonomia Veneto Banca e compirà finalmente quegli atti necessari a recuperare quella montagna di crediti inesigibili costruiti in gran parte proprio sotto la gestione del banchiere ora agli arresti domiciliari.
E' evidente che questo è solo l'inizio di una fase di inchieste giudiziarie che verranno facilitate dal fatto che ora le due banche venete sono nelle mani di un Fondo che ha tutto l'interesse a che si accerti la verità non essendo legato a quella rete di interessi e complicità che ha avvelenato quella regione d'Italia.
Il normalmente silenzioso Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha fornito venerdì in un paio di interviste la sua verità sulle vicende che hanno portato al quasi dissesto il Monte dei Paschi di Siena, puntando l'indice sulle scelte dissennate fatte dal duo Mussari-Vigni, rispettivamente presidente e direttore generale che, tra l'altro, decisero l'acquisto in una notte di Banca Antonveneta dal Banco Santander di Emilio Botin per un corrispettivo non lontano dall'intero patrimonio della banca senese e che cercarono di occultare le perdite correlative con due derivati denominati Alexandria e Santorini a loro volta forieri di ulteriori perdite, nonché guai giudiziari per i due banchieri.
Ebbene, cosa dice di nuovo Visco? Afferma che, venute alla ribalta la questione dei due derivati (per i quali sono indagate anche le banche che li hanno montati), Mussari e il numero uno operativo di MPS hanno deciso di ricorrere alla cosiddetta platea dei gonzi, emettendo obbligazioni subordinate per diversi miliardi di euro, obbligazioni che, come è scritto nel prospetto informativo che la banca si è premurata di far firmare ai sottoscrittori e che, in caso di default o di applicazione del bail in, seguono la sorte delle azioni, così come non è un mistero che è proprio sulla sorte di questa categoria di obbligazioni che si sta ragionando tra Governo, Commissione europea e vertici del Monte dei Paschi di Siena, in quanto è quasi certo che non verranno toccati gli obbligazionisti appartenenti alla categoria retail, mentre è ancora incerta la sorte dell'ingente quota di obbligazioni in mano agli investitori istituzionali.
Fatta la storia di quello che è avvenuto in quel di Siena fino alla fine della gestione Mussari, sotto processo insieme a Vinci e altri per quelle vicende, il Governatore affronta di petto il piano proposto da Fabrizio Viola, amministratore delegato di MPS, che, come ho scritto in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, ha rilanciato rispetto alle richieste della vigilanza bancaria europea, proponendo un azzeramento immediato delle sofferenze lorde e nette e lanciando un aumento di capitale da 5 miliardi di euro, un piano sostiene Visco che rappresenta una rivoluzione copernicana rispetto alle scelte della passata gestione, perché le perdite derivanti dalla cessione di sofferenze vengono coperte da un aumento di capitale e non da emissione di carta dalla sorte incerta e dal combinato disposto delle due mosse ne verrà fuori una banca ancora più solida e più patrimonializzata.
Nelle due interviste, Visco ammette poi quello che tutti sanno e cioè che oramai la vigilanza non abita più in Via Nazionale, essendo ormai passata da due anni nelle mani di Madame Daniele Nouy, domiciliata in quel di Francoforte!
Il titolo della puntata di oggi del Diario della crisi finanziaria non mi è venuto del tutto a caso, perché dalle statistiche del blog di cui dispongo ho rilevato un'anomalia, in quanto ero abituato a visite contemporanee di centinaia di visitatori statunitensi, ma è da un mese circa che lo stesso accade con visitatori russi, e in entrambi i casi le visite avvengono nello stesso momento, come se un docente stesse mostrando ai suoi alunni le puntate topiche relative alla prima fase della tempesta perfetta e ciò risulta dalle pagine visitate in quel momento e devo dire che la cosa, così come quando riguardava i visitatori en bloc a stelle e strisce mi sta inquietando non poco così come quando il blog ai tempi del fallimento molto pilotato di Lehman Brothers e le altre vicende topiche della finanza globale verificatesi al di là e al di qua dell'Oceano Atlantico, riceveva anche sei mila visite al giorno, in prevalenza dagli Stati Uniti d'America, ma anche da parte di visitatori provenienti da un centinaio di paesi, il tutto grazie alle magie del traduttore di Google.
Ma veniamo al titolo di oggi, che poi non fa che registrare quello che sta accadendo ai titoli bancari, in particolare Unicredit, MPS e Banco Popolare, per non parlare di Carige, azioni che registrano forti impennate e subito dopo tracolli stratosferici e tutto perché non si sa quali saranno, né sul piano qualitativo, né sul piano quantitativo, saranno i provvedimenti che il Governo italiano, d'intesa con la Commissione europea, adotterà, un'attesa che dura oramai da alcuni mesi e che sta rendendo le notti dei numeri uno esecutivi delle principali banche italiane alquanto insonni e talvolta popolate da incubi.
L'unico che ha rotto gli indugi e che non sta dietro ai boatos del mercato è Fabrizio Viola, amministratore del Monte dei Paschi, un banchiere combattivo che ha preso il toro per le corna, rilanciando su quelle che erano le richieste della vigilanza europea, giungendo a pianificare l'azzeramento di 27 miliardi di sofferenze lorde che poi, al netto degli accantonamenti già effettuati sono poco più di 9 e che chiederà al mercato (leggi banche internazionali impegnate nel consorzio di garanzia) cinque miliardi di euro che porteranno il patrimonio della banca senese a undici miliardi e mezzo dai nove e mezzo attuali e che la dovrebbe portare a un cet1 superiore al 15 per cento contro il poco più del 10 per cento previsti dalla normativa e il 14 per cento attuale certificato dagli ultimi stress test.
Archiviata la pratica degli stress test dell'EBA che per colma dell'ironia è guidata da un italiano, così come al nostro paese appartiene il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi in arte Supermario, le banche italiane, quelle promosse e quelle bocciate sono dovute passare al vaglio della borsa dove stanno combattendo, in particolare Monte dei Paschi, Unicredit e Carige, per non toccare nuovi minimi storici, come invece oggi è capitato alla loro sorella di sventura tedesca, la Deutsche Bank.
Il problema dei problemi è come al solito quello dello smaltimento accelerato di una parte significativa di quei 360 miliardi di euro di Non Performing Loans che hanno in pancia, un'impresa nella quale MPS si è già cimentata con la benedizione della vigilanza della BCE, questa a guida di una signora francese, Madame Daniel Nouy, che si è detta felice della temerarietà del CEO di MPS, Fabrizio Viola che va ad eliminare in un colpo solo tutte le sofferenze lorde e nette, mantenendo solo i crediti deteriorati che hanno speranza di recupero migliori delle incancrenite sofferenze e che non solo non approfitta dell'orizzonte temporale quasi triennale offerto dalla vigilanza, ma chiede al mercato, si fa per dire, cinque miliardi di euro quando ne bastavano solo tre, ma come non approfittare di un consorzio di collocamento e garanzia come quello che si è andato formando in questi ultimi giorni.
Non mi ripeterò con Unicredit che al mercato finirà per chiedere un'altra cifra mostruosa, chi dice 7 chi dice 9 miliardi, anche se credo che come Viola anche Mustier finirà per fare cifra tonda e di miliardi ne chiederà dieci, anche perché, al netto delle varie dimissioni che sta effettuando, deve sempre salire di due punti percentuali nel coefficiente patrimoniale ed è utile avere un cuscinetto per le richieste prossime venture di Madame Nouy!
Ma se volgiamo l'attenzione all'intero sistema bancario, torna utile ricordare quanto prevedeva uno studio di una banca straniera nel quale si sosteneva che per affrontare il problema degli NPL e fare fronte alle correlative perdite, sarebbero necessari dai 50 ai 100 miliardi di euro di ricapitalizzazione, una cifra enorme per un mercato che di azioni bancarie non vuole assolutamente sentir parlare, ma che fa il paio con un altro corno del problema: quello dell'enorme numero di dipendenze bancarie e del correlativo necessario taglio sia di alcune migliaia di filiali, sia di un numero di dipendenti bancari che va dalle 30 alle 50 mila unità.
La banca britannica nota al mondo per essere stata oggetto di un salvataggio pubblico da 20 miliardi di sterline ai tempi della prima ondata della crisi finanziaria quando gli inglesi e gli scozzesi assalivano gli sportelli di Northern Rock e di altre banche sospette di poter essere travolte da una crisi di liquidità, è uscita allo scoperto giovedì annunciando per bocca del suo Chief Executive Officer spagnolo, tale Horta, un taglio di 3 mila dipendenti e la chiusura di ben duecento filiali nell'ambito di un piano di ristrutturazione che fa esplicito riferimento alle conseguenze economiche e, soprattutto, finanziarie derivanti dalla decisione degli elettori britannici di approvare l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea.
Il drastico ridimensionamento degli organici e delle filiali di Lloyds fa seguito al taglio di 4 mila dipendenti annunciato nei mesi scorsi, due sforbiciate ravvicinate che toccano poco meno del 10 per cento dell'organico della banca che è pari a 75 mila unità, né vi sono segnali che l'operazione di ridimensionamento sia finita qui, perché le previsioni sul calo dei finanziamenti e in particolare modo dei mutui sono tutt'altro che rassicuranti ed è così prevedibile che altre banche inglesi e scozzesi si metteranno in scia per giungere a quel ridimensionamento degli organici compreso tra un 20 e un 30 per cento previsto per le banche poste sia al di qua che al di là della Manica, così come la consistenza degli sportelli dovrebbe essere ridotta in media di un terzo.
Come ricordavo qualche settimana fa, il numero dei dipendenti del settore finanziario britannico e di circa un milione di persone, uomini e donne che si dividono tra un esercito di persone addette a mansioni ripetitive e poco qualificate e un manipolo, comunque consistente, di addetti alla cosiddetta finanza, con differenze di status e di stipendi, nonché di premi, estremamente elevate. Per dare un'idea, i dipendenti di banca in Italia si aggirano sulle trecentomila unità, un numero non molto difforme dai loro colleghi tedeschi e francesi, il che porta a dire che i dipendenti del settore finanziario britannico sono grosso modo pari a quello della somma dei loro omologhi nei tre paesi più importanti dell'area dell'euro, mentre è possibile ritenere che nei quattro paesi considerati dovranno uscire da qui a pochi anni circa 200 mila dipendenti, mentre dovrebbero chiudere qualche migliaio di dipendenti.
Sono stato di recente in Inghilterra e ho volutamente scelto di arrivarci poco dopo il referendum e avevo notato un certo clima di euforia che non capivo visto che le previsioni economiche in caso di Brexit erano tutt'altro che brillanti, ma poi ho letto in questi giorni la notizia che sono state vendute in pochi mesi 31 milioni di pinte di birra in più e ho capito molto di più!
E alla fine sono arrivate le ventidue di venerdì 29 luglio, la data e l'ora scelte dall'EBA (si doveva tenere conto della chiusura dei mercati azionari statunitensi perché molte banche globali sono quotate anche al New York Stock Exchange), l'organismo europeo chiamato a verificare la solidità patrimoniale delle banche europee aventi rilevanza sistemica, cinque per l'Italia, 51 banche in tutto tra le quali spiccano una pattuglia di banche globali con sede in Francia e Germania, ma anche le due italiane al vertice della graduatoria del nostro paese, Unicredit e Intesa-San Paolo, in quanto a dimensione e presenza all'estero non scherzano.
Ormai tutti sanno come è finita e che in pratica 50 banche hanno superato il test di solidità patrimoniale non solo, e questo era scontato, nello scenario inerziale, ma anche nel cosiddetto scenario avverso che prevede il verificarsi di condizioni di mercato estremamente difficoltose ed è in questo, superata molto brillantemente la verifica a bocce ferme, che il Monte dei Paschi è caduto rovinosamente, passando da un Cet1 di oltre il 14 per cento ad uno che presentava valori negativi, per la precisione di -2,2 per cento, anche se il dato rovinoso era preceduto, come ho già scritto nei giorni passati, dal comunicato della vigilanza europea che accoglieva il piano del Monte dei Paschi sulla cessione totale delle sofferenze (27 le lorde e 9,6 le nette) e l'aumento di capitale da 5 miliardi di euro, aumento garantito da un pool di banche internazionali e che vede la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs con un importante ruolo di appoggio.
Va notato che quasi tutte le banche presentano, nello scenario avverso, un forte contrazione del coefficiente patrimoniale, mentre Intesa-San Paolo presenta la minore differenza tra i due valori, confermando così la solidità che le viene riconosciuta; va anche detto che il Monte dei Paschi avrebbe superato ampiamente lo stress test se fossero già stati realizzati i due capisaldi del piano approvato dalla BCE e cioè l'aumento di capitale e la pulizia di bilancio così massiccia che la porterà ad essere l'unica banca italiano libera da sofferenze e con "solo" venti miliardi di euro di credit deteriorati, dai 47 miliardi precedenti l'operazione con il Fondo Atlante che, lo ripeto con questa operazione prosciuga del tutto il suo fondo di dotazione e deve usare anche se non per molto l'effetto leva.
Insomma se questa fosse una favola potremmo dire che tutto è finito nel migliore dei modi e che tutti vissero felici e contenti!
I lettori più affezionati del Diario della crisi finanziaria ricordano bene le gesta di Corrado Passera, ex consulente Mc Kinsey nonché direttore generale della Olivetti, ma a quel tempo, la prima ondata della tempesta perfetta,, Chief Executive Officer di Intesa-San Paolo, il massacratore della prima banca italiana, la Banca Commerciale Italiana, persasi nei meandri dei vari processi di distruzione creativa del grande gruppo creditizio milanese fino a scomparire anche dal logo, ma e forse soprattutto manutengolo di Silvio Berlusconi nell'affossamento del possibile e quasi formalizzato merger tra Air France-KLM e Alitalia, un'operazione che sfumò dopo che Silvio vinse a mani basse le elezioni politiche anticipate in Italia nel 2008 e che vide la nascita di quella cordata capitanata da Colonnino padre, anche lui con un passato in Olivetti, un'operazione che vide miliardi di costi addossati allo Stato e che ha rappresentato uno dei più chiari esempi di come, facendo un'operazione non per realizzare qualcosa ma per contrastare qualcuno, si possa determinare una delle più grandi distruzioni di valore che la storia economica contemporanea ricordi.
Poi il nostro entrò in politica con Mario Monti come suo ministro dello sviluppo economico e fu poi uno dei pochi suoi ministri tecnici a scegliere di restare, senza un grande successo in realtà, sulla scena politica, dove alla prima prova in prima persona, le elezioni per l'importante carica di sindaco di Milano scelse, nella costernazione dei suoi, di fare un endorsement in favore del candidato di centro-destra Stefano Parisi che, come tutti ricorderanno è stato battuto, anche se non in modo esaltante, ma è stato battuto da Giuseppe Sala.
Ebbene costui, mentre l'amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena si stava giocando la partita della sua vita con niente poco di meno che la vigilanza bancaria europea presso la Banca Centrale Europea sulla cessione en bloc di 9,6 miliardi di euro (che poi sono più o meno ventisette se si contano gli accantonamenti già effettuati) e il correlativo, ma non del tutto visto che di miliardi ne bastavano due di meno, aumento di capitale da 5 miliardi di euro, si presenta tomo tomo cacchio cacchio al presidente di MPS, tale Tonini con quattro paginette quattro nelle quali si dichiara un interesse per la banca senese e si fa il nome della UBS (You and I come recitava la pubblicità della banca svizzera nel corso della prima ondata della tempesta perfetta) non si capisce se come mandante, se come acquirente, insomma una mossa probabilmente prevista dal numero uno di MPS, Fabrizio Viola, e che forse spiega perché si sia precipitato a tagliarsi i ponti alle spalle sia con il Governo che con la Politica più in generale. Forse Viola perderà, come gli è già successo in passato, ma si può proprio dire che se l'è giocata alla grande
Per ora ha incassato il via libera di Madame Nouy, capo della vigilanza europea, sia alla cessione ad Atlante delle sofferenze sia alle modalità del maxi aumento di capitale, mentre il consiglio di amministrazione di MPS ha rigettato il piano di Passera senza neanche discuterlo.
Con un laconicissimo comunicato, Deutsche Bank ha reso noto di aver realizzato, si fa per dire, utili nel secondo trimestre in discesa del 98 per per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente che aveva visto un utile di 756 milioni di euro, realizzati però in un contesto completamente differente e con Il Chief Operating Officer di importazione non aveva ancora messo in atto il suo piano di drastica ristrutturazione di quella che ancor oggi è la più importante banca europea, una ristrutturazione che vedrà l'uscita di Deutsche da 10 paesi in cui oggi opera e il taglio di un terzo delle dipendenze in Germania, dove la banca di Francoforte è leader assoluto del mercato creditizio interno e dove le concorrenti sia private che pubbliche sono alquanto ammaccate, compresa la HVB di proprietà del gruppo Unicredit, una banca che non ha portato grandi soddisfazioni a coloro che, a partire da Alessandro Profumo, si sono trovati al timone di questo colosso che non poche analogie ha con la banca di Francoforte, compresa la richiesta avanzata ad ambedue dalla vigilanza europea presso la BCE di portare al 12,25 il CET1, ossia il coefficiente patrimoniale che le banche devono rispettare e che, come si è scoperto, non è uguale per tutti ma dipende dalle valutazioni effettuate dalla Nouy e dai suoi più stretti collaboratori.
Certo, le attese degli analisti era ancora peggiori, visti i costi della ristrutturazione messa in atto dal CEO che comportano spese per la chiusura delle dipendenze e, soprattutto, per la dismissione di circa 7 mila dipendenti solo in Germania, mentre poco si sa di quanto costerà l'uscita di dieci paesi in cui Deutsche era presente, spese che varieranno caso per caso in relazione dei sistemi di welfare e di protezione dei lavoratori ivi vigenti.
Ma, come ben sa chi ha seguito le puntate del Diario della crisi finanziaria dedicate alla crisi del colosso creditizio tedesco, il problema dei problemi è rappresentato dalle due Corporate&Investment Banking di cui è dotata Deutsche. Un'anomalia che non trova riscontro nelle altre banche globali poste al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico, che hanno sì alcune di loro due Chief Opaerating Officer, modello di derivazione Goldman Sachs e che ora è stato mutuato da Unicredit, per decisione del suo nuovo/vecchio CEO, ma il problema è che due CIB con due fabbriche prodotto non si erano mai viste e i risultati sono stati subito evidenti con un nozionale per prodotti derivati e titoli più o meno tossici asceso alla stratosferica cifra di 54 mila miliardi di euro, un comparto che, non si sa ancora come, verrà disboscato con il napalm!
Come tanti, ho fatto i conti in tasca ad Atlante, il fondo costituito con massicci oboli delle maggiori banche italiane e con il contributo determinante, in termini qualitativi più che quantitativi, della Cassa Depositi e Prestiti un'entità emanazione diretta del Ministero dell'Economia ma partecipata anche dalla maggior parte delle fondazioni bancarie, un fondo nato per aiutare lo smaltimento dei Non Performing Loans in carico alle banche italiane per 360 miliardi di euro, nonché, ed è quello che finora ha fatto, intervenire in quegli aumenti di capitale che il mercato ostinatamente rifiuta di sostenere, come ha fatto acquisendo pressoché integralmente gli aumenti di capitale della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, rispettivamente per 1,5 e 1 miliardi di euro, mentre va ricordato che per i vecchi azionisti delle due banche si è applicato un bail in alla matriciana perché si sono trovati in mano azioni del valore di dieci centesimi di euro avendo acquistato le stesse a 62 e 42 euro senza avere mai la possibilità di rivenderle e per loro non ci sarà altra possibilità di rivalsa che quella esperibile in via giudiziaria.
Di quello che resta della dotazione di Atlante è presto detto, in quanto è a tutti noto che sarà il Fondo a incaricarsi di smaltire i 10 miliardi di euro circa (sono 9,7 per l'esattezza) di sofferenze nette che la vigilanza bancaria presso la Banca Centrale Europea ha intimato al Monte dei Paschi di Siena di cancellare dai suoi bilanci entro il 2018, ma che Fabrizio Viola, l'amministratore delegato di MPS, ha saggiamente deciso di far fuori in un colpo solo sapendo che questo farà bene alla credibilità della banca senese e sapendo altrettanto bene che si è aperta una finestra irripetibile sia per il fatto di trovare un acquirente che sembra disposto a pagare questi crediti ben il 30 per cento, se non qualcosina di più, così come difficilmente ripetibile è il contesto delle trattative avanzate, molto avanzate, tra il Governo italiano e la Commissione europea per trovare una strada per non fare apparire aiuti di Stato alle banche italiane quelli che inequivocabilmente proprio aiuti di Stato in realtà sono.
Il problema, tuttavia, è rappresentato dal fatto che, dopo il salasso degli aumenti di capitale delle banche venete e i 3 miliardi circa di euro necessari per acquisire le sofferenze del Monte dei Paschi, il Fondo Atlante avrà esaurito la sua dotazione di capitale, anzi avrà debiti per circa 300 milioni di euro e quindi negli ambienti governativi, in particolare in Via Nazionale, si è deciso di chiamare a raccolta tutti, ma proprio tutti, dalle casse previdenziali e gli altri fondi pensione, alle compagnie di assicurazione, alle banche straniere operanti in Italia a quelle tra le banche italiane che si erano sottratte agli appelli della prima ora, stabilendo anche delle cifre cumulative per comparto e poi, ovviamente di un nuovo ricorso alle disponibilità della Cassa Depositi e Prestiti che dovrà provvedere a quello che manca e tutto va bene se si arriverà a mettere insieme quello che serve a MPS per fare quell'aumento di capitale da 5 miliardi di euro anche se MPS pensa, come scrivevo ieri di raccogliere questa somma sul mercato!
Secondo fonti ben informate e riportate dall'edizione online di Repubblica nella serata di venerdì, l'amministratore delegato di MPS, Fabrizio Viola, avrebbe inviato una lettera alla vigilanza bancaria operante presso la BCE annunciando che la banca smaltirà 27 miliardi di sofferenze lorde, che al netto degli accantonamenti esistenti sono pari a 9,6 miliardi, cioè esattamente la cifra richiesta nelle settimane scorse da Daniele Nouy, e che la banca senese si appresta varare un aumento di capitale per la cifra tonda di 5 miliardi di euro, dopo che per giorni si era parlato di due-tre miliardi, per giungere fino a 4 miliardi, ma evidentemente i vertici di MPS sono consapevoli che questa è un occasione irripetibile per giungere ad un rafforzamento patrimoniale che, al netto delle perdite previste per lo smaltimento delle sofferenze, porterebbe denaro fresco per circa due miliardi di euro, una mossa che porterebbe il coefficiente patrimoniale della banca al 13 per cento, quasi tre punti in più di quanto richiesto dalle attuali disposizioni di vigilanza e di 75 punti base al di sopra di quanto richiesto di recente ad Unicredit e a Deutsche Bank.
Il nodo sta nel fatto che per giungere alla cifra richiesta dalla banca senese al mercato ci sarebbe un passaggio molto doloroso per gli attuali obbligazionisti subordinati, in quanto sarebbe previsto che le loro obbligazioni vengano trasformate in azioni e non si sa se ciò avverrebbe distinguendo tra i risparmiatori privati e gli investitori istituzionali o facendo di tutte le erbe un fascio anche perché le obbligazioni subordinate in mano alla clientela retail sono davvero tante e non vi è dubbio che, nonostante le venti banche di rango impegnate nel consorzio di collocamento, la domanda di azioni bancarie da parte del mercato è davvero molto, ma molto scarsa, un'ipotesi quest'ultima che determinerebbe un caso Banca dell'Etruria e delle sue tre sventurate sorelle moltiplicato per alcune volte.
D'altro canto, che gli obiettivi del Governo italiano e quelli del top management di MPS non stessero del tutto coincidendo lo si era capito quando il massimo consigliere economico di Matteo Renzi, tal Gunfeld, aveva dichiarato che andavano ben distinte le due fasi dell'operazione, concentrandosi innanzitutto nello smaltimento delle sofferenze richiesto dalla vigilanza BCE e rinviando ad una seconda fase la questione dell'aumento di capitale, una posizione che sottintende anche che lo stesso aumento andrebbe proporzionato alle effettive necessità legate alla cessione dei crediti per la quale si sta costituendo il Fondo Atlante2, così come tra le righe sembra cogliersi una certa insofferenza per la decisione di Viola di effettuare lo smaltimento delle sofferenze in un'unica soluzione senza approfittare dell'arco temporale triennale indicato nella stessa missiva giunta nelle settimane scorse da Francoforte, ma è chiaro che, inviando la lettera alla vigilanza BCE, l'amministratore delegato di MPS si è tagliato i ponti alle spalle e ha messo il Governo di fronte al fatto compiuto!
Chi segue il Diario della crisi finanziaria sin dai tempi della prima ondata della tempesta perfetta, sa che è un mio vecchio pallino quello della possibilità che il molto malmesso Monte dei Paschi di Siena disastrato dalla gestione Mussari-Vigni potesse finire nelle mani di una banca globale straniera, anche se allora imperava ancora sulla banca senese l'omonima fondazione e il prezzo da pagare sarebbe stato più o meno dell'ordine che MPS aveva pagato per comprare, nel giro di 24 ore, la Banca Antonveneta e cioè più di quanto BNP Paribas aveva pagato per acquisire la Banca Nazionale del Lavoro.
Nel frattempo, lo scenario bancario italiano è radicalmente cambiato e gli sportelli che allora venivano contesi a 5-7 milioni di euro l'uno sono calati drasticamente di prezzo e i crediti deteriorati sono schizzati verso l'alto per giungere a 360 miliardi di euro a livello di sistema e a 47 miliardi per il solo Monte dei Paschi a fronte di impieghi vivi pari a 113 miliardi di euro e con un rapporto tra NPL e impieghi del 42 per per cento circa, un rapporto assolutamente abnorme e non mitigato dalla copertura per il 48 per cento delle sofferenze lorde.
Quello che è certo è che la banca senese si appresta, sentito il parere della vigilanza bancaria europea a cui ha scritto una lettera di risposta alla missiva nella quale si chiedeva una drastica riduzione delle sofferenze nette, a cedere sofferenze per 10 miliardi di euro circa al Fondo Atlante ad un prezzo che a sentire i bene informati dovrebbe aggirarsi sul 30 per cento del valore nominale dei crediti stessi, operazione che dovrebbe portare ad un aumento di capitale sino ad un massimo di 4 miliardi di euro, aumento che sarebbe garantito da un consorzio di banche, consorzio che, ovviamente, ancora non è uscito allo scoperto.
Il problema è che il Monte dei Paschi, pur avendo un patrimonio netto di 9 miliardi di euro, in questo momento non arriva ad una capitalizzazione di borsa di un miliardo e non si nota uno spasmodico interesse dei risparmiatori e degli investitori a mettere mano al portafoglio per concorrere all'aumento di capitale, il che apre la strada all'ipotesi che si profili all'orizzonte un cavaliere bianco che desideri crescere sul mercato creditizio italiano o entrarvi mediante questa acquisizione che sarebbe certo a buon mercato ma che presenta notevoli profili di rischiosità.
E' ovvio che tutto quanto precede sarà influenzato dalle intenzioni del Governo italiano e dall'esito della trattativa in corso ormai da settimane con la Commissione europea, che, come ha ricordato giovedì scorso Mario Draghi, ha l'ultima parola sugli aiuti di Stato alle banche.
Nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria ho preteso francamente troppo dalla memoria dei miei lettori, in quanto ho dato per scontate molte cose delle quali mi sono occupato diffusamente nelle puntate degli anni scorsi dedicate alle tre fasi di ristrutturazione del sistema bancario italiano, un processo molto lungo e complesso che ha preso le sue mosse dopo l'approvazione della Legge Amato che prevedeva in buona sostanza la scissione della proprietà della casse di risparmio e di alcuni tra gli istituti di diritto pubblico e la trasformazione in società per azioni, governate ovviamente dal diritto privato, delle cosiddette banche conferitarie, quindi le fondazioni bancarie da un lato e le banche da esse possedute dall'altro; nacquero quindi veri e propri mostri, o almeno così li definì il padre della legge, le fondazioni bancarie appunto che avrebbero dovuto alienare in tutto o in parte le azioni delle loro banche e occuparsi sostanzialmente di beneficienza e mecenatismo in linea con quanto avviene per le omologhe istituzioni di diritto anglosassone.
E' questa sostanzialmente la prima fase del processo di ristrutturazione del sistema bancario italiano, con i banchieri ormai ex pubblici che erano in spasmodica attesa dei successivi provvedimenti governativi che avrebbero costretto le fondazioni ad accelerare il processo di dismissioni delle azioni delle ex banche di diritto pubblico e fu allora che Alessandro Profumo del Credito italiano e Corrado Passera e Bazoli dell'allora Banco Ambrosiano ebbero l'idea che fece nascere Unicredit da un lato e Banca Intesa dall'altro: offrire alle fondazioni di mettere al sicuro le azioni delle loro banche, garantendo per un lunghissimo tempo la sopravvivenza delle stesse sotto forma di banche marchio dotate per di più di una loro direzione generale, nonché di un patto fra gentiluomini per la gestione della banca risultante dalle fusioni.
Nessuno è stato in grado di calcolare esattamente i costi derivanti da questa autonomia delle banche marchio, ma è certo che sono stati estremamente ingenti, ma, e forse soprattutto, hanno impedito quella gestione del credito che ha favorito e non poco la crescita abnorme dei crediti deteriorati e delle sofferenze lorde e nette molto di più di quanto sarebbe accaduto se si fosse scelto fin da subito un modello di gestione accentrata dei nuovi gruppi bancari neonati, cosa che poi accadde ma dopo un lasso di tempo insopportabilmente lungo e con costi, vedi Monte dei Paschi di Siena, Unicredit e Banca Intesa-San Paolo, veramente enormi nonché ingerenze nella gestione da parte delle fondazioni bancarie, come si è visto di recente nel blocco del processo decisionale per la nomina del nuovo Chief Executive Officer di Unicredit poi sbloccato dopo ripetuti crolli in borsa e gli appelli ultimativi di Piercarlo Padoan e Matteo Renzi.
E' in questa terza e non conclusa fase del processo di ristrutturazione del sistema bancario italiano che ci troviamo e con con qualche decina di miliardi di euro di munizioni in meno per affrontare le richieste che si faranno sempre più pressanti da parte della vigilanza europea presso la BCE!
C'era molta attesa per quanto avrebbe detto Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, nella consueta conferenza stampa che si svolge al termine dei lavori del comitato direttivo della BCE tenutosi giovedì scorso, una riunione tutto sommato di routine dal punto di vista della politica monetaria, in quanto sono stati lasciati invariati i tassi di interesse e si è confermata la prosecuzione a ritmi invariati del Quantitative Easing, ma che ha dato modo a Super Mario di intervenire a gamba tesa sul problema dei problemi del sistema bancario italiano che è quello della possibilità di aiuti pubblici nella difficile operazione di smaltimento dei Non Performing Loans, che lo ripeto assumano alla stratosferica cifra di 360 miliardi di euro e che assommano la metà circa di tutti gli NPL dell'area dell'euro.
Ovviamente, Draghi ha iniziato dal problema dei problemi che è quello di costruire un mercato dei crediti deteriorati delle banche che non porti a cessioni a prezzi eccessivamente bassi, quindi il primo compito degli Stati deve essere quello di incentivare la creazione, e il pensiero dei presenti alla conferenza stampa è ovviamente andato al Fondo Atlante e alla trattativa in corso con il Monte dei Paschi di Siena per la cessione di quei circa dieci miliardi di euro di sofferenze nette che la vigilanza bancaria europea ha chiesto di smaltire entro il 2018 e che l'amministratore delegato della banca senese, Fabrizio Viola, vorrebbe cedere in un colpo solo, determinando così la necessità di un aumento di capitale per due-tre miliardi di euro.
Come già il vice presidente Costancio e il rappresentante italiano nel comitato direttivo, la frase più utilizzata da Draghi è stata quella che dice che tali interventi sono possibili solo in circostanze eccezionali perché in quelle normali sono utilizzabili solo le norme stabilite dai trattati attualmente in vigore, ma tutti, inclusa la Commissione europea, sono d'accordo che la vittoria della Brexit ha determinato appunto tali circostanze eccezionali.
La benedizione di Draghi avrà un peso forte sia sull'istruttoria della vigilanza BCE sul caso Monte dei Paschi, sia sulle trattative in corso tra il Governo italiano e il Commissario europeo competente sui possibili interventi che l'Italia ha allo studio per ridurre sensibilmente l'ammontare degli NPL e per rafforzare patrimonialmente le banche italiane.
E' ormai da più di sei mesi, in pratica dall'introduzione del nuovo sistema di risoluzione delle banche in crisi e della sua parte principale: il bail in, chela Banca Central Europea, l'OCSE e il FMI hanno messo sotto esame le banche italiane, in particolare per l'ingente massa di Non Performing Loans, cioè i crediti deteriorati, giunti alla cifra di 360 miliardi di euro, un dato che fa da riferimento per l'intensissima attività della vigilanza della BCE che tiene sì conto del fatto che le sofferenze lorde sono pari a 200 miliardi di euro e che quelle nette sono di "soli" 85 miliardi e la ragione di questa scelta della Nouy, il capo della vigilanza, risiede nel fatto che si considera che in condizioni di forte stress le banche non sarebbero in grado di utilizzare i pur ingenti accantonamenti effettuati negli anni e rischierebbero di entrare in una crisi di liquidità, una fattispecie di cui abbiamo avuto una prova generale nei primi giorni di agosto del 2007 quando nel grande mercato interbancario europeo vi fu un blocco totale della liquidità e che costrinse la Banca Centrale Europea a inondare letteralmente il mercato di quella liquidità che mancava proprio perché le 53 banche che partecipano all'Euribor non si fidavano l'una dell'altra.
Su tutto questo ho speso numerose puntate del Diario della crisi finanziaria, ma va rimarcato che il conto delle banche "risolte" o salvate dal Fondo Atlante ha ormai raggiunto il numero di sei e altre, anche di grandissime dimensioni, traballano e questo ha indotto il Governo italiano a varare un fondo da 150 per garantire le obbligazione delle banche e sta trattando per ottenere una sorta di parentesi temporale nella quale sostenere le banche maggiormente in difficoltà senza incorrere nella normativa che vieta gli aiuti di Stato a questo come a tutti gli altri settori produttivi dell'economia italiana, il tutto sfruttando la situazione eccezionale che si è venuta a creare dopo la Brexit ed anche grazie alla recentissima sentenza della Corte di giustizia europea che apre uno spiraglio in tal senso e di cui ho parlato nella puntata di ieri.
Ma, come sta evidenziando il processo di ristrutturazione in corso del colosso Deutsche che, a differenza delle banche italiane ha piuttosto un gigantesco problema sui derivati, il problema non è solo quello degli NPL, ma quello della abnorme rete distributiva delle banche italiane, cioè la rete delle filiali e degli sportelli, e che sempre più appare ridondante a causa dell'enorme sviluppo dell'internet banking, sempre più utilizzato dalla clientela che, per la parte legata al contante, si avvale delle decine di migliaia di bancomat, che sono peraltro sempre più evoluti.
Facendo due conti e vista l'entità dei tagli messi in atto da Duetsche, i tagli occupazionali nel settore creditizio italiano dovrebbero essere nell'ordine delle 30 mila unità, mentre la chiusura delle dipendenze dovrebbe essere nell'ordine delle migliaia di dipendenze!
Era molto atteso il pronunciamento della Corte europea di giustizia sul ricorso della Slovenia contro le nuove norme sulla risoluzione delle banche in crisi e soprattutto sul bail in, quel salvataggio dall'interno che, entro il limite dell'otto per cento del totale dell'attivo della banca in questione, chiedeva sacrifici in primis agli azionisti e agli obbligazionisti subordinati, ma anche ai depositanti per quanto eccede la soglia garantita dei 100 mila euro, misure che, secondo i critici, fanno sì che si inneschi un meccanismo perverso che porta alla fuga di questi soggetti ai primi segnali di possibile default, anche perché per non tutti è valso quello che è accaduto agli azionisti della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca entrati in possesso e a prezzi molto elevati di azioni non quotate e che potevano essere riacquistate solo dalla banca emittente cosa che, dopo una breve fase iniziale non è stato più possibile per nessuno, con il risultato che, dopo le fallite quotazioni in borsa, quelle stesse azioni sono arrivate a valere 10 centesimi!
Cosa ha dunque deciso la Corte? Ha stabilito che il bail in si inserisce perfettamente nella normativa europea vigente, non violandone alcun principio, il che in un'Unione europea che è di fatto un libero mercato più un'unione monetaria con parti ancora disomogenee di unione bancaria non stupisce, mentre è l'altra parte della sentenza che ha fatto allargare i cuori dei banchieri dell'area dell'euro ed è quella dove si dice che in circostanza eccezionali, il che dopo la Brexit è quasi lapalissiano, i governi possono non applicare il meccanismo anche se, alla fine, l'ultima parola tocca alla Commissione europea, ovviamente sentita la BCE.
Ma quale è la banca italiana che più ha subito le conseguenze della pronuncia della Corte? In primis il Monte dei maschi di Siena che sa che anche se riuscirà a vendere i 10 miliardi di circa di sofferenze richiesti dalla missiva della Nouy rimarrà con il cerino acceso in mano di dover fare un aumento di capitale da almeno due o tre miliardi di euro, il che, con l'attuale situazione di mercato, appare quanto meno improbabile senza un aiuto da parte dello Stato, ma anche Unicredit che ha portato a caso, regnante il nuovo Chief Executive Officer, un miliardo di euro da cessioni ma deve colmare il gap tra il Tier 1 attuale e quello richiesto da Francoforte per almeno cinque o sei miliardi di euro e, anche in questo caso, senza aiuti da parte dello Stato si tratta di una vera e propria missione impossibile.
In una precedente puntata del Diario della crisi finanziaria, ho detto che lo stock di depositi bancari che eccedono la soglia dei 100 mila euro ammonta alla stratosferica cifra di 425 miliardi di euro, una somma che francamente stupisce visto quello che accade ai piani alti della graduatoria delle banche italiane, ma la verità è che nessun banchiere, né in terra di Siena, né in terra milanese ha alcuna voglia di rendere noti i deflussi di capitale provenienti dai depositi eccedenti quella soglia critica, deflussi che non devono però essere irrilevanti e che, almeno in prospettiva potrebbero essere in grado di determinare conseguenze non di poco conto, come testimonia peraltro la risposta dei mercati alla decisione della Corte!
Nel giro di pochi giorni, due in realtà, abbiamo assistito ad una strage di grandi proporzioni in Francia, un attentato pare messo in atto da un uomo solo, e ad un tentativo di golpe nella Turchia di Erdogan e che puntava ad eliminare fisicamente un presidente che ha mostrato negli anni non poche ambiguità nei confronti dell'estremismo islamico (Isis da un lato e Hamas dall'altro) e che ha giocato una partita perdente nel sanguinosissimo conflitto che sta da alcuni anni toccando la Siria e l'Irak.
Questi due eventi hanno toccato in modo davvero marginale i mercati azionari occidentali che hanno in realtà oscillato di poco intorno alla parità, così come sostanziale tranquillità ha caratterizzato i mercati delle valute e delle materie prime, fatta eccezione ovviamente per la lira turca e per il mercato azionario di quel paese.
Ma la giornata di ieri è stata caratterizzata da un annuncio alquanto atteso, quello del Chief Executiva Officer di Deutsche Bank, John Cryan, che ha reso note le intenzioni del colosso tedesco sui tagli miranti a risparmi di 4 miliardi di euro su base annua, nonché un ridisegno del perimetro di attivata, un ridisegno che renderà Deutsche molto meno globale di quanto sia stata sinora.
Tradotto in soldoni, Deutsche ha annunciato che taglierà di un quarto il numero delle filiali, con correlativa perdita di diverse migliaia di dipendenti, e trasformerà molte delle dipendenze residue da agenzie che fanno di tutto ad entità che si occuperanno fondamentalmente di assistenza finanziaria alla clientela, una scelta, quella di Deutsche, che dovrebbe essere imitata dalle banche italiane, francesi, spagnole e, ovviamente, dalle concorrenti tedesche della banca di Francoforte.
Ma il riordino della banca tedesca non finisce qui ed è stato annunciato il ritiro da dieci paesi, mentre, per quanto riguarda le attività di Corporate&Investment Banking, non sono state ancora scoperte le carte ma già in comunicazioni precedenti il numero uno operativo di Deutsche aveva chiarito che la cura per il ramo di attività che più ha portato guai alla banca di Francoforte sarebbe stato molot, ma molto radicale.
A sentire le cronache riportate dai giornali, vi è un certo numero di banchieri che hanno ricoperto, spesso per lungo tempo incarichi di massima responsabilità in banche che sono tecnicamente fallite e spesso salvate solo dall'invenzione di un fondo come Atlante o chiude e poi rinate dopo che azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre la soglia dei 100 mila euro erano stati debitamente tosati; ebbene questi banchieri si risentono quando giornali importanti come il Corriere della Sera ospitano un articolo a firma Ferruccio de Bortoli (già direttore di quel quotidiano) che attacca con un certo grado di veemenza Gianni Zonin, per decadi presidente della Banca Popolare di Vicenza, sì di quella banca che si è presentata all'appuntamento con l'aumento di capitale da 1,5 miliardi di euro andato praticamente deserto e che ha reso necessario l'intervento del Fondo Atlante che con quella cifra ha acquisito il 99,3 per cento del capitale sociale e che, prevedibilmente, farà di quella banca e di Veneto Banca carne da macello per poter rientrare dell'investimento effettuato.
Sono certo che De Bortoli, come ovviamente ho sempre fatto io, ha espresso un giudizio basato sul fatto che non si può ricoprire la carica di presidente di una banca per un ventennio circa e poi dire che dello sfacelo che è sotto gli occhi di tutti non si ha alcuna responsabilità, essendo in questo in buona compagnia con il precedente presidente di Carige, l'ex amministratore delegato della stessa, Piero Montani e personaggi di spicco di Apollo che si sono altrettanto risentiti per la richiesta che i nuovi vertici della banca hanno mosso nei loro confronti nel tentativo di recuperare la bella somma di 1,2 miliardi di euro per responsabilità nella vendita del ramo assicurativo del gruppo creditizio ligure che solo un giudice, ed è questo anche il caso di Zonin, dovrà eventualmente accertare.
Chiarito questo, è altrettanto evidente che la lunga teoria di decision makers bancari si sta allungando sempre di più, a partire da Mussari e Vigni, rispettivamente presidente ed amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena ai tempi della sciagurata nonché costosissima acquisizione di Banca Antonveneta, per passare ai vertici di Banca Etruria e delle altre tre banche su cui è intervenuto il provvedimento governativo che ha applicato per la prima volta in Italia e due mesi prima della sua entrata in vigore il bail in con le conseguenze descritte sopra cui si metterà una pezza con i risarcimenti avviati proprio in questi giorni, per giungere poi a Zonin e ai vertici del passato di Veneto Banca.
Ripetendo che non si vuole anticipare nessun pronunciamento giudiziario eventuale, invito i lettori a guardare le numerosissime interviste rilasciate in passato da questi banchieri e vedere come essi presentavano se stessi come i deus ex machina delle rispettive banche, altro che quello che dicono ora quando presentano se stessi come persone che ricoprivano incarichi senza quasi nessun potere decisionale!
Scrivo dall'estero e con la morte nel cuore per l'ennesimo attacco terroristico compiuto dall'Isis in Francia, la strage di Nizza che ha fatto decine e decine di morti in un giorno di festa nazionale culminato in tragedia!
Come ho scritto nelle puntate precedenti del Diario della crisi finanziaria, il mercato sembra prendere sul serio gli stringenti negoziati in corso a Bruxelles per individuare gli strumenti attraverso i quali il Governo italiano può intervenire a sostegno del proprio sistema bancario nazionale senza incorrere negli strali della normativa che impedisce gli aiuti di Stato.
Mancava una risposta alla domanda posta nel titolo della puntata di ieri sul perché i falchi tedeschi e olandesi hanno assunto nei confronti delle richieste del Governo italiano in sede comunitaria ed è quella data dal fatto che, con la fine della crisi politica britannica e la nascita del governo May-Johnson, è ormai chiaro a tutti che non si può favorire la crisi di grandissime banche italiane, una crisi che avrebbe oltretutto un effetto sistemico sull'intera area dell'euro.
Sistemata la partita delle banche venete, con la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca ormai saldamente in mano al Fondo Atlante e il Banco Popolare che pare essere riuscito a portare a termine il suo aumento di capitale, la vigilanza europea presso la BCE è passata ai due obiettivi grossi che sono rappresentati dal Monte dei Paschi di Siena che, su ordine di Francoforte, sta trattando la cessione di 10 miliardi di euro di sofferenze al Fondo Atlante, mentre sarebbe questione di ore l'invio della lettera a Unicredit nella quale la Mouy chiederà ai nuovi vertici della banca di colmare quel gap di due punti percentuali nei requisiti patrimoniali già segnalato in una missiva precedente e alla quale l'istituto di Piazza Cordusio ancora non ha risposto in modo fattivo.
Intanto gli amministratori di Intesa-San Paolo e di Ubi Banca, le uniche due del quintetto di testa del sistema bancario italiano a essere state escluse dalle attenzioni della Nouy, non stanno dormendo sonni tranquilli perché sanno che presto o tardi la letterina da Francoforte arriverà anche a loro.
Proprio ieri, un'altra delle banche attenzionate dalla vigilanza della Banca Centrale Europea, la Carige, ha messo in piedi un'azione di responsabilità contro i precedenti amministratori della banca ligure, in primis l'ex presidente e padre padrone della banca, chiedendo agli stessi 1,2 miliardi di euro di risarcimento.
Nel frattempo sono arrivate le procedure per risarcire i truffati di Banca dell'Etruria e delle altre tre banche fallite, e in una di queste, Cariferrara, l'indagine della magistratura sta compiendo passi in avanti.
Alle orecchie di Padoan e di Renzi sono suonate come miele le parole concilianti sulle possibilità che l'Italia trovi un accordo con l'Unione europea sullo spinoso argomento del salvataggio delle banche italiane senza dover ricorrere ai meccanismi di risoluzione previsti dall'apposita direttiva europea, una direttiva che prevede il bail in, ossia la partecipazione degli azionisti, degli obbligazionisti e dei depositi per la parte eccedente ai 100 mila euro (in Italia, secondo la nostra banca centrale, ve ne sono per 425 miliardi di euro) il tutto entro il limite massimo dell'otto per cento del totale dell'attivo della banca in questione.
A pronunciare queste parole sono persone come Angela Merkel, come l'arcigno presidente olandese dell'eurogruppo, come lo stesso ministro tedesco delle finanze, tutte persone che fino a poche ore prima si trinceravano dietro il mantra dell'inviolabilità delle regole, pur avendo, in tempi assolutamente non lontani, utilizzato centinaia di miliardi di euro di fondi pubblici, cioè soldi dei contribuenti per ripianare le perdite delle banche olandesi e tedesche appunto, cosa fatta anche dai governi di altri importanti paesi dell'area euro, in particolare Francia e Spagna.
Poiché è molto improbabile che i suddetti personaggi siano stati illuminati sulla via di Damasco, credo proprio che siano stati invece convinti da considerazioni molto più prosaiche al limite degli interessi di bottega e che sono rappresentate da un lato dalle difficoltà incontrate da un numero crescente di banche tedesche a rispettare le dure previsioni della vigilanza europea presso la Banca Centrale Europea (è di pochi giorni fa la notizia che la Deutsche Bank avrebbe fallito gli stress test della Federal Reserve, cui è soggetta in quanto banca globale, e sia in attesa di quelli disposti dall'EBA, mentre è nota a tutti la difficoltà che sta vivendo la Landesbank di Brema), mentre, dall'altro lato, vi è un timore crescente di rischio di controparte per le loro banche derivante dall'eventuale default di qualche importante banca italiana, compresa tra le cinque che sono state sottoposte agli stress test il cui esito sarà noto il 29 giugno.
D'altra parte, il fatto che l'accordo sia pressoché cosa fatta lo dimostra la mossa del fondo Atlante che si è offerto di rilevare 10 miliardi di euro di sofferenze nette dal Monte dei Paschi di Siena, una mossa che esaudisce i desiderata della vigilanza BCE ma che apre il problema della ricapitalizzazione della banca senese per colmare le perdite derivanti dalla cessione.
E' stata davvero una giornata surreale quella di lunedì, seguita sullo stesso tono da quella successiva, con tutti i giornali italiani e anche parecchie testate di altri paesi europei che discettavano sui possibili accordi e probabili scontri in seno alla riunione dell'eurogruppo prima, presieduta dal falco olandese dal cognome impronunciabile, e quella dell'Ecofin a seguire, accordi o scontri sul non marginale argomento dei possibili salvataggi delle banche europee derogando dalle regole sui processi di risoluzione e bail in stabiliti da una direttiva che gli eurodeputati italiani prima e i parlamentari del nostro paese poi hanno approvato pressoché all'unanimità senza dibattito alcuno.
Si è creato così un clima di attesa tale da costringere il ministro dell'Economia italiano, Piercarlo Padoan, a improvvisare una sorta di comizio nell'atrio del palazzo dove si tenevano gli incontri per ribadire che l'argomento degli aiuti pubblici alle banche non era presente nell'ordine del giorno di nessuna delle due riunioni, ma approfittando dell'occasione per ribadire che i provvedimenti precauzionali sono in parte stati già presi, mentre altri sono in dirittura d'arrivo, sempre in sintonia con gli organismi decisionali di Bruxelles e sempre a scopo esclusivamente precauzionale, anche se non sfugge nelle parole di Padoan e nei passaggi della lunga intervista del premier Renzi al Corriere della Sera che i meccanismi di garanzia sarebbero orientati a proteggere i depositanti e gli obbligazionisti intesi come persone fisiche ma non gli azionisti e gli obbligazionisti intesi come investitori istituzionali.
Ma a rinfocolare le polemiche sulle banche italiane ci ha pensato un breve ma feroce articolo del Financial Times, forse il più autorevole quotidiano finanziario del mondo, che sostiene che, nonostante la riforma delle banche popolari e di quelle di credito cooperativo, l'Italia ha perso più occasioni per dare una raddrizzata al proprio pletorico sistema bancario come fatto dalle banche tedesche, da quelle francesi e, in ultimo, da quelle spagnole, possibilità ora precluse dalle nuove regole che bloccano di fatto gli aiuti di Stato, e che il nostro paese ha più filiali di banche che pizzerie e che, quindi, una delle soluzioni è quella di ridurre il numero degli istituti di credito mediante fusioni che mettano mano drasticamente ala rete distributiva e tagliando, a livello di sistema, decine di migliaia di posti di lavoro.
Tra gli addetti ai lavori, non è un mistero che il vero problema del sistema bancario europeo non è rappresentato dai Non Performing Loans che, per l'intera area dell'euro sono pari a circa 700 miliardi di euro, 360 dei quali concentrati nelle banche italiane, ma che la vera bomba ad orologeria risiede nella montagna di derivati per molte decine di migliaia di miliardi di valore nozionale, una parte dei quali fanno capo al colosso tedesco Deutsche Bank che, per ragioni che non sono state mai chiarite a sufficienza, rappresentano un multiplo del totale dell'attivo della banca tedesca e a sua volta pari a mille e settecento miliardi, una sproporzione tale da escludere che si tratti soltanto di operazioni di hedging, ma lascia pensare piuttosto ad un'intensissima attività di trading con un numero elevatissimo di controparti, per non parlare poi dei 32 miliardi di titoli a livello 3, comunemente definiti titoli tossici e che segnalano una crescita costante segno del fatto che non riescono proprio ad essere smaltiti.
Ma Deutsche Bank in questo non è sola, in quanto quasi tutte le banche globali del Continente, per quelle britanniche sarebbe necessario un discorso a parte, presentano situazioni analoghe anche se i loro multipli rispetto al totale dei rispettivi attivi non raggiungono il livello stratosferico toccato dalla banca con sede a Francoforte, una circostanza che tuttavia fa interrogare sul fatto che nello stabilire i criteri prudenziali sia stato assegnato un peso maggiore ai crediti, che nella maggior parte dei casi sono assistiti da garanzie reali e personali, e uno molto più basso ai derivati.
In questi mesi, le autorità governative tedesche si sono sgolate nel ripetere il solito mantra che recita che Deutsche è solida come una roccia e in questo si è distinto in particolare l'arcigno ministro delle finanze tedesco, Schauble, ma, nonostante quanto detto sopra sulla sottostima dei rischi da parte della vigilanza europea, Daniele Nouy ha richiesto a Unicredit e Deutsche di elevare i loro coefficienti patrimoniali da poco sopra il 10 per cento all'alquanto proibitivo 12,25 per cento, quasi due punti che significano uno sforzo considerevole per entrambe le banche in termini di aumento di capitale o cessione di attività, ma soprattutto un'implicita ammissione del fatto che il mantra sulla solidità del colosso tedesco era alquanto infondato.
Ma ecco che, in vista di una riunione decisiva dei ministri delle finanze dell'Unione Europea, Deutsche avanza a sorpresa la proposta di istituire un fondo di 150 miliardi di euro in favore delle banche in difficoltà, una proposta che è in apparente contrasto con la posizione ufficiale del governo tedesco che per ora ammette solo le difficoltà della più piccola delle Landesbanken, quella basata a Brema e che richiede interventi per poche centinaia di milioni di euro e che fa pensare che, mai come in questo caso, Deutsche abbia parlato come Cicero pro domo sua!
Doveva essere il giorno dell'Associazione Bancaria Italiana, con la relazione del presidente Patuelli e gli attesissimi interventi del ministro dell'Economia, Piercarlo Padoan, e del Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ma, da oltreoceano, è pervenuta una nota del Fondo Monetario Internazionale che invita le autorità monetarie italiane ad utilizzare tutta la flessibilità presente nella normativa europea sulle banche, quel processo di risoluzione delle stesse con annesso bail in che tanto sta facendo discutere anche perché è evidente a tutti che si tratta di norme che sono state introdotte in assenza di un'unione bancaria e, soprattutto, di un meccanismo di salvaguardia dei depositi a livello europeo.
Mentre Padoan, Visco e Patuelli intrattenevano una folta platea di banchieri, di giornalisti ed esperti del settore, tutti gli occhi dei presenti erano fissi sulle cifre riportate sui loro touchscreen che indicavano una netta inversione di rotta delle azioni delle banche che, in particolare dalla Brexit, sembravano ormai destinate a proseguire nella loro caduta libera, mentre ieri, in particolare per alcune di loro, è stato il giorno del riscatto, con il Banco Popolare, con un rialzo di oltre il 18 per cento, ha ritrovato il livello posto per l'aumento di capitale, 2,17 euro, livello che era stato fissato quando l'azione del Banco valeva oltre quattro euro, ma bene sono andate tutte le principali banche italiane, compreso il Monte dei Paschi di Siena, la cui azione non è riuscita però a chiudere oltre la soglia dei 30 centesimi con un rialzo del 5 per cento circa che è stato molto più basso di quello medio delle principali concorrenti.
Ma è davvero giustificata questa euforia dei mercati? Da un lato, vi è la certezza che il Monte dei Paschi verrà aiutato nella sua opera di pulizia delle sofferenze, ma soprattutto nel conseguente aumento di capitale che, a bocce ferme, è assolutamente indigesto per il mercato, così come è chiaro è che questo avverrà con il soccorso di Atlante o del Fondo bis in corso di costituzione, ma, d'altro lato, è sicuro che all'orizzonte si profila una fusione con una banca di cui si sa nome e cognome, ma il cui amministratore delegato minaccia querele se qualcuno gli attribuisce l'intenzione di compiere questo passo verso cui, e questo si può dire, lo stanno spingendo in tanti e, tra questi, vi sono persone a cui è difficile dire di no.
Ma il problema vero è rappresentato dal fatto che nessuno conosce le vere intenzioni di Madame Nouy e della sua fida collaboratrice tedesca, anche se è evidente che dal solo gruppo di testa dei cinque grandi gruppi bancari la responsabile della vigilanza europea può chiedere pulizie di bilancio per qualcosa come 30-40 miliardi di euro, una cifra che andrebbe ad aggiungersi ai 9,6 miliardi chiesti al Monte dei Paschi!
Dopo aver toccato ieri, in pieno blocco delle micidiali vendite allo scoperto disposto per tre mesi dalla CONSOB, un nuovo minimo storico nell'area dei 26 centesimi e aver incassato la doccia fredda dell'arcigno presidente olandese dell'eurogruppo che ha ribadito che per il salvataggio delle banche valgono le nuove regole, bail in incluso, continuano le febbrili trattative tra Italia e Commissione europea per trovare una soluzione alla ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena, un aumento da 2 forse 3 miliardi di euro necessari per eliminare in via definitiva sofferenze per 9,6 miliardi di euro come richiesto dalla vigilanza presso la Banca Centrale Europea nella sua recente lettera alla banca senese.
Al termine di un consiglio di amministrazione straordinario durato oltre sei ore, è stato diffuso un comunicato scritto a firma dell'amministratore delegato, Fabrizio Viola, un testo alquanto stringato nel quale si rende noto che è stata approvata la lettera di risposta alla vigilanza europea, ma che, sia i contenuti della lettera ricevuta dal Monte dei Paschi, sia quelli della risposta della banca senese saranno resi noti solo quando perverrà la lettera definitiva da Francoforte, lettera che dovrebbe tenere conto, almeno in parte, delle controdeduzioni contenute nella missiva che partirà oggi per Francoforte.
Nel comunicato, Viola rivendica i successi della gestione ordinaria della banca e, soprattutto, rimarca con forza il fatto che i cinque milioni di clienti sono rimasti legati alla banca, nonostante i rischi connessi al bail in, questo, ovviamente non lo ha detto esplicitamente ma, come si suol dire, intelligenti pauca...
Credo di aver fatto una cronaca fedele di quanto è successo ieri, ma quello che è certo è che l'istituto di Rocca Salimbeni non intende avvalersi dell'arco temporale offerto dalla vigilanza BCE e cioè non diluirà l'intervento da qui al 2018 perché una soluzione, quale che essa sia, deve essere trovata entro pochi mesi!
Sono di ritorno da un breve soggiorno in una città dell'Inghilterra che è stato un epicentro della rivoluzione industriale e una storica roccaforte del partito laburista ma dove, una settimana prima del mio arrivo aveva vinto il leave, seppur non in proporzioni drammatiche, lasciando intendere quanto sia stato profondo il sommovimento che ha portato, forse al di là delle stesse reali intenzioni dei promotori del fronte dell'abbandono dell'Unione europea, quasi un milione e mezzo di cittadini britannici a fare la differenza con quel 48 per cento di loro compatrioti che invece hanno votato per rimanere.
Ma è quello che è successo dopo il voto ad essere realmente surreale con le dimissioni a certo tempo data di David Cameron che ha dato due mesi e mezzo di tempo al suo partito, che gode alla Camera dei Comuni di una maggioranza solida, per individuare il nome del suo successore, aprendo di fatto una fase di estrema incertezza sul nome, anche se è quasi certa l'investitura al congresso dell'attuale ministro dell'interno, la non proprio carismatica May, ma quello che ha colpito davvero è stato il passo indietro del vincitore nell'ambito del partito conservatore, Boris Johnson, un uomo che tutti davano a Downing Street in sostituzione di Cameron e che è stato certamente vittima di una congiura di partito, ma che è sembrato sollevato all'ipotesi di non essere lui il primo ministro che dovrà trattare con la Commissione europea i termini della separazione.
Ma se Atene piange Sparta di certo non ride e, con una schiacciante maggioranza di eletti in Parlamento, è stato chiesto al leader laburista, Jeremy Corbyn, di farsi da parte e lasciare il passo ad un nuovo leader che eviti, in caso di nuove elezioni, che i laburisti patiscano una cocente sconfitta, richiesta alla quale il pressoché neoeletto Corbyn ha opposto un netto rifiuto, effettuando un rapido rimpasto del governo ombra con pochissimi esponenti che hanno dovuto accettare doppi incarichi per sopperire ai vuoti lasciati dai dimissionari.
Ma quello che ha fatto più clamore è stato l'abbandono della scena politica da parte del vero vincitore del referendum, quel Nigel Farage che non ha convinto nessuno sui veri motivi del suo gesto e che ha dato l'idea di non volere essere coinvolto in quella oscura fase del dopo rispetto alla quale nessun politico britannico sembra avere le idee chiare, con la sterlina che continua ad essere ai minimi storici e mentre non si sa nulla delle intenzioni di imprenditori e finanzieri che, prima del voto, avevano minacciato di trasferire sul continente europeo la sede delle loro attività, con un impatto che è stato stimato, se alle parole seguiranno i fatti, come quantificabile nella perdita di qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro!
E' stata un'altra giornata di fuoco sull'azione del Monte dei Paschi di Siena dopo altrettante giornate terribili seguite alla Brexit, un fuoco incrociato di vendite che si e' intensificato quando la banca senese ha finalmente ammesso di avere ricevuto una missiva da parte della vigilanza bancaria operante presso la Banca Centrale Europea, una lettera nella quale senza giri di parole si chiedeva di eliminare 10 miliardi circa di euro di sofferenze nette entro il 2018, un vero e proprio bagno di sangue per la banca guidata da Fabrizio Viola che produrrà miliardi di euro di perdite che dovranno giocoforza essere coperte da un aumento di capitale, il tutto mentre il mercato ha già mandato deserti due aumenti di capitale richiesto dalle due tecnicamente fallite banche venete e quando ancora non si hanno notizie dell'aumento da un miliardo di euro richiesto, sempre dalla vigilanza BCE al Banco Popolare.
Mentre sono in corso febbrili trattative tra il Governo italiano e la Commissione europea, quello che e' chiaro e' che quello che e' stato già concordato non risolve assolutamente il prolema del Monte dei Paschi di Siena, così come non risolve quello di Unicredit e delle altre banche italiane in attesa ansiosa di sapere se riceveranno a loro volta una draft piu' o meno ultimativa da Francoforte, perché in realtà il problema delle banche italiane e' molto semplice e consiste nel fatto che servono, come scrive la potente ma ancor piu' preveggente Goldman Sachs, circa 40 miliardi per coprire le perdite derivanti dalle pulizie di bilancio e, di questi tra i 7 e i 9 miliardi per la sola Unicredit, un fabbisogno che non ha niente a che vedere con quello scudo da 150 miliardi di euro che la Commissione ha autorizzato per garantire l'emissione di altrettanti bond da parte delle banche italiane, una possibilità che rischia di arrivare quando alcune delle maggiori banche potrebbero essere nel pieno della procedura di bail in che, lo ricordo, prevede che gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per la quota eccedente i 100 mila euro paghino il conto del default entro il limite dell'otto per cento dell'attivo della banca in questione.
Avendo a mente quanto e' accaduto con Banca Etruria e le altre tre anche coinvolte a novembre dello scorso anno in tale procedura, non voglio nemmeno pensare a cosa accadrebbe nel caso dello terza banca italiana e credo che altrettanto stiano pensando i nostri vertici governativi e il governatore della Banca d'Italia e sono quindi sicuro che alla fine uscirà un coniglio dal cilindro e che una simile eventualità verrà scongiurata nell'interesse nazionale!
Qualche anno fa, posi sul Diario della crisi finanziaria la stessa domanda che pongo nel titolo di oggi, ma allora il gruppo senese era ancora dominato dalla fondazione omonima e guidato dall'allora presidente Mussari e dal direttore generale Vigni, gli stessi che, insieme ad altri, sono sotto processo per diverse ipotesi di reato legate alle operazioni messe in piedi per occultare il buco miliardario emerso dopo la dissennata acquisizione di banca Antonveneta, un'acquisizione non solo costata quasi dieci miliardi di euro, ma che ha portato in dote un ammontare pressocche' equivalente di crediti andati a male che hanno quasi raddoppiato l'ammontare delle sofferenze del Monte dei Paschi di Siena.
Il nuovo ticket posto alla guida della banca senese, composto dal presidente Alessandro Profumo, l'ex golden boy di Unicredit, e dall'amministratore delegato Fabrizio Viola, si trovo' di fronte una situazione dei conti davvero disastrosa e fu costretto a convincere i molto riottosi soci, in particolare la fondazione omonima, a procedere a sostanziosi aumenti di capitale che pero' non erano in grado di affrontare radicalmente il problema delle sofferenze che, in particolare nell'ultimo triennio, sono aumentate in linea con quelle dell'intero sistema creditizio, e cioe' molto, portando alla fine i Non Performing Loans a circa 40 miliardi di euro.
Su questo fronte, Fabrizio Viola sta lavorando molto intensamente ed entro fine anno dovrebbe partire una piattaforma delle sofferenze gestita da Mediobanca, ma il tempo stringe e l'ultimatum della vigilanza europea di cui ho dato conto ieri prevede un abbattimento delle sofferenze nette (che sono ovviamente di gran lunga inferiori agli NPL) nell'ordine del 40 per cento dello stock attuale entro il 2018.
Come e' noto, la Commissione europea ha dato il via libera ad uno scudo da 150 miliardi di euro sotto forma di garanzie governative alle obbligazioni di nuova emissione, ma e' rimasta sorda rispetto alla richiesta italiana di poter iniettare fino a 40 miliardi di euro di nuovo capitale nelle banche o di poter fare qualcosa di piu' sul fronte delle sofferenze, il che ha provocato una forte insoddisfazione del Governo italiano, sfociata,a quanto pare, in un diverbio tra Renzi e il presidente della BCE Mario Draghi.
L'attenzione della vigilanza bancaria della Banca Centrale Europea si sposta dalle banche venete tutte costrette a procedere ad aumenti di capitale che hanno fatto finire la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca nel non molto capace carniere del Fondo Atlante e il Banco Popolare ancora alle prese con la risposta del mercato alla sua richiesta di aumento da un miliardo di euro propedeutico alle nozze entro l'anno con la Banca Popolare di Milano (il prezzo di mercato nelle ultime sedute e' posto al di sotto di quello di offerta).
Ora e' giunta la volta del Monte dei Paschi di Siena che ha ricevuto una missiva da Francoforte che intima alla banca guidata dal bravo Fabrizio Viola di abbattere entro il 2018 le sofferenze nette (pari all'incirca al patrimonio della banca senese), una richiesta che produrra' perdite per centinaia di milioni di euro, con conseguente aumento di capitale nell'ordine presumibile di un miliardo di euro almeno da effettuare nel prossimo biennio.
Ovviamente, la notizia e' piombata come un macigno su un mercato alquanto depresso e il valore dell'azione del Monte dei Paschi, gia' crollato nelle precedenti sedute, ha perso in apertura qualcosa come il 10 per cento, discesa che si e' accompagnata con le solite sospensioni per eccesso di ribasso, sospensioni che hanno innervosito ancora di piu' gli investitori che davvero non sanno quando il mercato tocchera' il fondo.
Ma non e' stata questa l'unica notizia riguardante il gruppo creditizio senese, perche' sempre stamane si e' saputo che la banca ha chiesto il patteggiamento nel processo sui derivati Alexandria e Santorini, quelli messi in piedi per nascondere il buco miliardario determinato dall'acquisizione fulminea nel 2007 di Banca Antonveneta dal Santander allora guidato da Emilio Botin, un'acquisizione fortemente voluta dalla coppia Mussari-Vigni e che ha determinato il fatale deterioramento dei conti del gruppo senese. Con il patteggiamento, il Monte dei Paschi accetta di dichiararsi colpevole di non avere vigilato a sufficienza sull'operato della coppia allora al vertice e propone di pagare 600 mila euro come sanzione e un sequestro di 10 milioni di euro.
Dopo che si erano esaurite tutte le possibili strade di pressione istituzionale sui vertici di Unicredit per giungere alla nomina di un nuovo amministratore delegato che prendesse il posto di Federico Ghizzoni dimissionario dal 14 maggio, erano intervenuti, nell'ordine, il ministro dell'Economia, Padoan e lo stesso premier Renzi. mancava solo il presidente della Repubblica ma i contrasti tra i soci storici e gli stranieri non permettevano di giungere ad una soluzione e alla fine ha deciso il mercato spingendo l'azione giu' del 30 per cento circa in poche sedute e allora gli azionisti hanno ritrovato l'unita' nominando all'unanimita' Jean Pierre Mustier nuovo Chief Executive Officer del colosso creditizio milanese.
Il nome di Mustier certamente non dice molto ai piu' ma mi permetto di ricordare che era a capo della Corporate&Investment Banking di Socgen ai tempi dello scandalo Kerviel il trader che si imposseso' di svariati miliardi di euro della banca francese e fu lui stesso multato per insider trading e poi da li' passo' a fare il capo della CIB di Unicredit per tre anni dal 2011 al 2014 per poi passare alle dipendenze di una banca straniera.
Mustier e' dunque un uomo di finanza e cioe' esattamente il contrario dello skill di uomo retail fortemennte voluto dai soci di Unicredit nei loro primi e un po' confusi intendimenti anche se la borsa ha ieri timidamente premiato il titolo perche' francamente non se ne poteva piu' di questa situazione di stallo e perche' la mission principale che ha ricevuto e' quella di evitare la svendita degli assets e portare a termine un massiccio aumento di capitale che riporti i ratio patrimoniali ai nuovo livelli richiesti a Unicredit e Deutsche Bank dalla vigilanza europea.
Sono in viaggio nella patria della Brexit e cerchero' di mantenere questo appuntamento anche se non necessariamente a livello quotidiano (anche se spero che la prossima puntata del Diario della crisi finanziaria potro' scriverla con una tastiera che prenda le virgole) ma voglio subito dire che le cose qui sono gia' un po' cambiate rispetto alla mia visita di sei mesi fa pur in assenza di variazione dei trattati.
Mentre tutti si stanno interrogando su quale è la prossima tappa del percorso di discesa senza freni del valore delle azioni delle banche italiane quotate nei mercati regolamentati, si viene a sapere che il Governo italiano ha allo studio dei non meglio precisati provvedimenti per venire in soccorso delle banche italiane tramortite dal livello elevatissimo dei Non Performing Loans, dall'ipotesi tutt'altro che remota di dover procedere, sotto la pressione della vigilanza europea, ad aumenti di capitale che il mercato assolutamente non gradisce, dalla normativa sul bail in che spaventa azionisti e risparmiatori, una normativa che ovviamente non distingue tra le molto disastrate banche venete e i colossi del settore che un tempo vantavano capitalizzazioni di borsa per decine e decine di miliardi di euro, basti pensare ai 60 miliardi di euro di Unicredit che ora si sono ridotti a meno di 12 miliardi, ma sorte analoga tocca a Intesa San Paolo, Monte dei Paschi di Siena e Ubi.
D'altra parte è quanto va sostenendo da mesi il poco carismatico Governatore della Banca d'Italia e membro del Board della Banca Centrale Europea, il quale non perde occasione per ripetere il suo mantra sulla eccessiva rigidità del bail in che provoca la fuga precipitosa di azionisti e risparmiatori sin dalla prima lettera di messa in mora da parte della collaboratrice tedesca del capo della vigilanza europea creando così le premesse per un ulteriore dissesto della banca sotto esame, insomma un meccanismo perverso che aggiunge danni alla situazione spesso già traballante dell'istituto di credito attenzionato.
Una valutazione di assoluto buon senso quella di Visco e un ragionamento che ha ispirato il Governo e il suo braccio armato, la Cassa Depositi e Prestiti, a favorire la nascita del Fondo Atlante un organismo chiamato ad affrontare tutti e due i corni della questione, gli aumenti di capitale e lo smaltimento almeno di una parte delle sofferenze che affliggono le banche italiane, essendo a tutti chiaro che gli aumenti di capitale sono in tutto o in larghissima parte determinati dalle perdite cui le banche vanno incontro quando cedono, spesso al venti per cento del loro valore nominale, i crediti deteriorati alle entità specializzate nel recupero dei crediti.
Quale è quindi la soluzione a cui stanno lavorando dei ministeri e economici, della Banca d'Italia e della Cassa Depositi e Prestiti? Tutto parte dalla situazione eccezionale determinata dalla Brexit, una situazione che consente di utilizzare quanto previsto dai trattati europei che non escludono che in un frangente simile si possa derogare dal divieto di aiuti di Stato alle banche, anche se poi come si declinerà concretamente questa possibilità è ancora avvolto dalle nebbie, perché si passa da interventi di ricapitalizzazione a un rafforzamento di grandi dimensioni del fondo di dotazione del Fondo Atlante ad un mix di questi due interventi o altre misure che dovessero uscire dal lavoro del gruppo di esperti incaricato di individuare soluzioni!
Quando venerdì ho scritto "Brexit un vero bagno di sangue", pensavo francamente, come tanti, che quel crollo verticale del valore delle azioni delle principali banche italiane e, seppur in proporzioni leggermente più attenuate, di quelle europee rappresentasse un minimo da cui non si poteva che risalire, anche perché vedere Unicredit cedere in una sola seduta poco meno di un quarto del suo valore e Intesa San Paolo e Banco Popolare perdere, rispettivamente, il 24 e il 23 per cento, mentre l'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena riusciva, nell'ultima seduta della scorsa settimana, a "contenere" le perdite al 16 per cento.
Comprendere i motivi di questo vero e proprio crollo delle azioni delle banche italiane e dei principali colossi bancari europei non è semplice anche perché un nesso causale non c'è o è molto difficile da comprendere, anche perché è vero che esiste la possibilità che dalla Gran Bretagna possa spirare verso il Continente un vento recessivo, ma le proporzioni del crollo sono troppo grandi perché questa spiegazione regga, per non parlare poi del fatto che verosimilmente il divorzio della Gran Bretagna dall'Unione europea si consumerà soltanto tra un paio di anni.
Un motivo in realtà c'è ed è dato dall'ipertrofico settore bancario in Gran Bretagna, un comparto di attività che occupa circa un milione di persone (in Italia non si arriva a 300 mila) e intermedia un quarto dei flussi dell'intera Unione europea.
Analisti e operatori erano quindi in attesa all'apertura delle borse di ieri di assistere al previsto rimbalzo dai livelli davvero infimi toccati venerdì dal listino milanese, maglia nera in Europa con perdite che superavano di quasi sei volte quelle subite dal principale indice della borsa di Londra e inizialmente questo è avvenuto con un timido rimbalzo di qualche decimo di punto, ma è bastato poco per capire che non eravamo di fronte ad una inversione di tendenza, perché i titoli bancari hanno iniziato nuovamente ad affondare ed è scattata una raffica di sospensioni al ribasso che, solo nel listino principale, sono state dodici e tra queste spiccavano quelle dei titoli bancari ed è poi andata così per tutta la giornata per finire con perdite del 13 per cento circa per il Monte dei Paschi, dell'11 per cento circa per Intesa San Paolo e dell'8 per cento per Unicredit che così in due sole sedute ha perso il 32 per cento circa, pari a 83 centesimi in meno, mentre il Footsie Mib 100 ha lasciato sul terreno, tra venerdì e lunedì, oltre il 16 per cento. Perdite importanti anche per tutti gli altri listini europei, per le borse sudamericane e Wall Street. E domani è un altro giorno!
In alcune puntate precedenti del Diario delatrici finanziaria, avevo messo in guardia dal facile ottimismo che si era diffuso nei giorni che hanno immediatamente preceduto questo 23 giugno 2016 che non so se, come sostiene Nigel Farage, sarà ricordato come l'Indipendence Day britannico o come il giorno della catastrofe, un ottimismo basato su sondaggi che si sono rivelati franchi come già in occasione del referendum sull'indipendenza della Scozia, quello vinto con buon margine da quello stesso Cameron che venerdì ha dovuto dichiarare le sue dimissioni a certo tempo data per lasciare il passo a colui o colei che saranno incoronati a ottobre dal congresso dei conservatori.
Eppure la sera stessa del voto gli opinion polls davano un discreto margine a favore del remain, ma le banche della City avevano preparato per tempo i propri piani, mobilitando nella notte centinaia di traders e di analisti che si sono scatenati tra le tre e le quattro del mattino vendendo la sterlina e i future sugli indici azionari britannici e su quelli dei più importanti paesi membri dell'Unione europea che hanno poi aperto con livelli di perdita che in genere si verificano solo a fine seduta nei giorni più neri. Ma il peggio doveva ancora venire e devo dire che, mai come nella giornata di venerdì, la realtà ha superato di gran lunga l'immaginazione.
Per quanto riguarda la borsa italiana, di proprietà della borsa britannica e il cui indice principale si chiama Footsie Mib, l'unica cosa che riusciva a partire era l'indice, mentre le principali azioni che lo compongono erano in massa sospese per eccesso di ribasso, condizione dalla quale sono faticosamente uscite denotando, in particolare le maggiori banche, perdite intorno ai 20 punti percentuali, livelli di perdite dai quali davano nelle ore successive l'impressione di potersi risollevare, per poi risprofondare su perdite ancora peggiori che poi hanno mantenuto fina a quando è finalmente giunto il segnale di chiusura delle contrattazioni.
Era come se fosse stato allestito uno stress test reale e ben diverso da quelli cui le autorità di vigilanza europea le sottopongono in modo virtuale ed è così che Unicredit ha perso il 24 per cento circa del valore segnato solo ventiquattro ore prima, mentre Intesa-San Paolo di punti ne ha persi 2£, in linea con le perdite del Banco Popolare che ancora una volta avvicina il valore di mercato a quello previsto per l'aumento di capitale in corso, mentre il Monte dei Paschi di Siena è riuscito a limitare le perdite al 16 per cento. La perdita dell'indice di Piazza Affari ha segnato un record storico coni 12,48 per cento. Nel frattempo la sterlina perdeva il 10 per cento contro l'euro, mentre oro e Bund tedeschi volavano e la somma delle perdite dei mercati europei, Londra inclusa, superava i 600 miliardi di euro.
Quando leggerete questo articolo, forse sarete già al corrente del risultato del referendum svoltosi ieri e nel quale i cittadini britannici sono stati chiamati a decidere se rimanere nell'Unione europea con un pacco di eccezioni che non ha pari in nessuno degli altri 27 paesi dell'Unione o semplicemente decidere di recidere quel cordone ombelicale esistente da più di quaranta anni e tornare ad una politica isolazionistica con i vantaggi e i rischi che questo comporta.
Sì, perché, al contrario di quello che in tanti pensavamo, lo spoglio delle schede del referendum pur essendo iniziate ieri alla chiusura dei seggi alle 23 verrà ufficialmente comunicato questa mattina (e senza la diffusione di veri e propri exit exit polls dopo la chiusura dei seggi) aggiungendo suspence, ove se ne sentisse il bisogno, ad una attesa che ha prodotto sfracelli sui mercati con perdite di oltre mille miliardi di euro in poche sedute, perdite solo parzialmente recuperate quando i mercati si sono convinti che con il barbaro assassinio della giovane deputata laburista Jo Cox il vento fosse radicalmente cambiato a favore del remain, una visione che ho criticato in "Brexit o non dir quattro se non l'hai nel sacco", sia per motivi etici sia per la scarsa consistenza in un Paese spaccato in due e dove le convinzioni di chi propende per il leave sono molto radicate e molto emotive.
Sono andato a dormire, come tanti, sull'indicazione di opinion polls che davano in testa il fronte del remain su quello del leave per quattro punti percentuali, mentre si profilava un record di affluenza alle urne eccezionale per la Gran Bretagna e che oscilla intorno al 70 per cento, ma quando, a metà delle schede scrutinate, si è visto un prevalere dei sì all'uscita sui no per mezzo milione di voti la sterlina ha iniziato a perdere contro il dollaro portandosi a 1,30 dollari contro gli 1,50 di ieri sera, livelli non toccati dal lontano 1985 e i futures sul principale indice borsistico di Londra segnalano un meno 6 per cento e la borsa di Tokyo sta perdendo sette punti percentuali, le quotazioni dell' oro sono cresciute di quasi il 5 per cento, mentre si registra una significativa flessione del prezzo del petrolio, ma il grosso, se la tendenza attuale favorevole all'uscita dall'Unione europea si trasformerà, come è ormai certo, in certezza, lo vedremo quando apriranno i mercati europei.
Sono certo che molti giornalisti hanno preparato due pezzi, a seconda dello scenario che prevarrà, ma io penso sinceramente che, alla luce del risultato, nulla sarà come prima perché al Governo Cameron non sono bastati i quattro punti strappati all'Unione europea a febbraio e molto probabilmente sarà costretto a dimettersi aprendo la strada ad elezioni che vedranno il prevalere dei partiti sensibili alle ragioni dei sostenitori della Brexit e a una politica dell'immigrazione dai paesi dell'Unione europea che si profila già come molto dura!
Su mandato della procura della Repubblica di Vicenza che indaga sui reati di aggiottaggio e ostacolo alle attività di vigilanza, un nucleo di ufficiali della Guardia di Finanza ha operato martedì una perquisizione della mastodontica sede centrale della Banca Popolare di Vicenza per acquisire documentazione su quanto avvenuto nel triennio 2012-2015, gli ultimi ma più intensi anni dell'era Zonin conclusisi con una perdita miliardaria di 1,4 miliardi di euro e che darà il via alla nuova gestione che poi affonderà sull'aumento di capitale da 1,5 miliardi, aumento andato praticamente deserto e che aprirà le porte al Fondo Atlante che si sostituirà al mercato divenendo proprietario del 99,3 per cento del capitale post aumento, acquisendo le azioni a 10 centesimi contro i 62 euro a cui erano state collocate in un non troppo remoto passato.
Due erano i meccanismi adottati ai tempi della gestione Zonin, allora dominus indiscusso della banca, all'attenzione della vigilanza europea e di quella della Banca d'Italia che agisce come braccio operativo della prima e sono la manipolazione deliberata dei profili Mifid di circa 58 mila clienti della banca vicentina, mentre più interessante per comprendere gli sviluppi patrimoniali e reddituali dell'istituto di credito è l'altro meccanismo, quello che vedeva una sorta di patto scellerato che prevedeva prestiti a imprenditori sia locali che provenienti da fuori regione in cambio della sottoscrizione di azioni della banca, ovviamente proporzionato a quanto si riceveva senza troppa attenzione al merito creditizio del richiedente, a meno di considerare garanzie le azioni acquisite a quei prezzi stratosferici e che ben presto perderanno verticalmente di valore.
Non so quale sia stata la reazione del capo della vigilanza europea, Daniele Nouy, e della sua collaboratrice tedesca che segue da vicino il dossier delle banche italiane alle relazioni dettagliate del doppio meccanismo messo i piedi dalla banca veneta, ma è certo che raramente si sono trovate di fronte a una frode di queste dimensioni che vede classificati come investitori professionali casalinghe, pensionati e altri cittadini che a stento distinguono un'azione da una obbligazione, persone che hanno visto andare in fumo i loro risparmi, giungendo in un caso recente di cronaca a compiere gesti estremi, anche se le evidenze palmari emerse aprono la strada al risarcimento totale di quanto hanno investito.
Ma le vere sorprese verranno dall'intreccio incestuoso tra acquisto di azioni e concessione di finanziamenti poi finiti, in larga parte, tra le partite incagliate della banca, basti pensare al caso di Alfio Marchini che di milioni di euro ne deve alcune decine, per non parlare dell'oscura vicenda lussemburghese. Le perdite miliardarie della Popolare di Vicenza nascono in realtà dalla somma di centinaia di posizioni nelle quali il credito erogato nasceva sin dall'inizio come sofferenza, mentre le azioni acquistate dagli stessi soggetti diventavano carta straccia.
Il cinismo dei mercati finanziari ha dato una prova agghiacciante di sé quando è giunta la notizia che Jo Cox, attivista dei diritti umani e membro del parlamento inglese eletta nelle file del partito laburista, era stata barbaramente uccisa da un militante dell'estrema destra che sosteneva il primato della razza bianca, una notizia che ha fatto fare due più due a quanti sono impegnati nelle sale operative delle banche più o meno globali che, come nei giorni precedenti avevano affondato l'affidabile con perdite per mille miliardi di euro solo nei mercati azionari europei, così si sono gettati a capofitto a comprare il comprabile, proseguendo in questa tendenza anche nelle sedute successive a quel tragico pomeriggio.
Mentre la politica britannica, un mondo che di cinismo de ne intende e non certo da oggi, sospendeva per diversi giorni la campagna elettorale e ieri dava in una seduta commemorativa che vedeva uniti deputati membri della Camera dei Lord una dimostrazione di civiltà che ha commosso il Paese, analisti e operatori scommettevano sulle probabilità di vittoria che la morte di Jo, convinta europeista, avrebbero dato al remain, complice anche l'ultima scivolata del leader dell'Ukip, Farage, che aveva inaugurato una serie di cartelloni montati su camion che mostrano un corteo di immigrati che a suo avviso vanno assolutamente fermati, incurante della estrema somiglianza di questa immagine con quelle esibite nel regime nazista.
Seguendo da una vita i mercati finanziari non dovrei stupirmi di tutto ciò, in particolare avendone fatte le cronache per nove anni nel Diario della crisi finanziaria, ma esistono momenti come questo, nei quali si specula anche sull'assassinio di una donna giovane, madre di due figli, che ha dedicato la sua giovane esistenza ai diritti di quanti, in particolare in Africa, dove è stata impegnata per alcuni anni, non hanno voce!
Lasciando da parte i giudizi morali e l'indignazione, ritengo che questa scommessa sull'impatto di questo tragico evento sull'esito di un referendum che ha spaccato a metà l'opinione pubblica britannica sia anche molto azzardato come lo è stato in precedenza affidarsi ai risultati di sondaggi a un tanto al chilo, il tutto quando sondaggi molto stratificati e con un campione di 16 mila persone denotavano la difficoltà di fornire un quadro omogeneo degli orientamenti elettorali su una questione tanto divisiva e complessa, ma certo non consiglierei a nessuno di scommettere un centesimo su quanto decideranno gli elettori inglesi, gallesi, scozzesi e nord irlandesi giovedì prossimo, un esito che conosceremo peraltro solo il giorno successivo!
Dopo il cruento ribaltone avvenuto nell'ultima assemblea di Veneto Banca, quella che aveva visto il presidente precedente e la sua lista messi in minoranza e l'amministratore delegato Carrus degradato a direttore generale, le due liste di "grandi" azionisti, zeppe di persone che dovevano alla banca centinaia di milioni di euro, avevano promesso che per l'aumento di capitale da un miliardo di euro imposto dalla vigilanza della Banca Centrale Europea non si sarebbe ripetuto lo scenario della Banca Popolare di Vicenza, dove il fuggi fuggi dei soci aveva portato il Fondo Atlante a sborsare 1,5 miliardi di euro per il 99,3 per cento del capitale post aumento, e che erano sicure sottoscrizioni per 150-200 miliardi di euro, che, secondo il portavoce di una di queste associazioni potevano arrivare sino a 600 milioni che avrebbero portato i vecchi soci anche oltre la soglia della maggioranza assoluta del capitale della banca di Montebelluna.
Quando mancano pochi giorni alla conclusione dell'aumento di capitale, queste manifestazioni di interesse si sono dissolte come neve al sole e le adesioni per ora pervenute rappresentano percentuali da prefisso telefonico, e i capitani coraggiosi protagonisti del brusco avvicendamento aziendale motivano il loro ormai quasi certo disimpegno con l'incertezza delle strategie future della banca, sì proprio quel piano strategico atteso per ora invano dalla Nouy e dalla sua collaboratrice tedesca che segue da vicino il dossier.
Giunti a questo punto, due cose appaiono certe e la prima è che Veneto Banca non sarà ammessa al listino di borsa, pur essendosi dichiarata disponibile Borsa Italiana a non essere fiscale sulla soglia minima del 25 per cento di flottante, e che il Fondo Atlante dovrà staccare un assegno da poco meno di un miliardo di euro per assicurarsi poco meno del 100 per cento del capitale sociale post aumento, essendo di fatto azzerato quello precedente, e potrà avere così mano libera nella ristrutturazione, alquanto cruenta, della banca, così come farà in quella Banca Popolare di Vicenza dove si è scoperto che ben 58 mila clienti sono stati classificati con profili di rischio più alti di quello che avrebbe richiesto la loro effettiva condizione.
Nel bagno di sangue che da diverse sedute sta caratterizzando le banche italiane in borsa, l'altra grande banca con sede nel Veneto, il Banco Popolare sta avvicinando la sua quotazione al prezzo previsto per l'aumento di capitale da un miliardo (il che porta il totale richiesto al mercato dalle banche venete nel breve volgere di un paio di mesi alla cifra di 3,5 miliardi di euro), un prezzo di 2,17 che sembrava infimo quando, poche sedute fa, il Banco risiedeva stabilmente nell'area dei quattro euro.
Dopo la squarciamento in borsa di giovedì scorso dell'azione di Unicredit ad un minimo ultrastorico di 2,13 euro (ne quotava circa 7 nella primavera dello scorso anno), c'è voluta una perentoria dichiarazione del ministro italiano dell'Economia, Piercarlo Padoan, che nel pieno della conferenza stampa in conclusione dei lavori dell'Ecofin, la riunione periodica dei ministri delle finanze dei paesi membri dell'area dell'euro anche denominata eurogurppo un organismo che tanti lutti addusse in passato alla povera Grecia, ha fatto un breve passaggio su quella che è la seconda banca italiana e un gruppo creditizio europeo di dimensioni ragguardevoli, dichiarazioni che hanno consentito un netto recupero dell'azione nella seduta di venerdì scorso, con un aumento che ha sfiorato il dieci per cento, anche se l'azione non riesce a recuperare i livelli che aveva prima delle più che annunciate dimissioni del Chief Executive Officer, Federico Ghizzoni.
Ma cosa ha detto in realtà un non proprio disteso Padoan in quel di Bruxelles? Ha richiamato sostanzialmente i rappresentanti di quel gruppo ristretto di soci di Unicredit a rompere gli indugi e di finirla con il giochetto dei veti incrociati che vedono Protagonisti Palenzona, Biasi e altri esponenti di società che insieme possiedono circa un quarto della banca, sostenendo Padoan che i nomi di banchieri adatti a ricoprire il prestigioso ma anche molto impegnativo incarico di numero uno operativo di Unicredit ci sono e che gli stessi sono assolutamente all'altezza di guidare la banca in questa fase molto tormentata della sue esistenza e che si tratta soltanto di scegliere tra uno dei candidati.
Padoan è stato molto attento a non travalicare i confini esistenti tra l'attività del Governo e l'autonomia dei soci di una banca privata, ma le leggi esistenti gli consentono ampiamente di dire la sua su una situazione di stallo giudicata assolutamente intollerabile dai mercati che, infatti, stavano sparando ad alzo zero sulle quotazioni di un'azione che che rischiava seriamente di sprofondare a livelli da prefisso telefonico, un'eventualità che avrebbe reso molto difficili sia le previste dismissioni di assetts importanti del gruppo, sia avrebbe reso estremamente difficile quell'aumento di capitale da cinque miliardi di euro di cui la stampa specializzata e gli analisti finanziari stanno parlando da molto tempo.
D'altra parte, era impossibile per il Governo non intervenire quando fonti molto vicine al dossier avevano parlato apertamente di tempi di attesa per l'individuazione del nuovo amministratore delegato che si spingevano sino a fine luglio, determinando un clima di incertezza intollerabile.
Quella di venerdì è stata la puntata numero mille del Diario della crisi finanziaria, un'eventualità che non avevo proprio preso in considerazione quando questa avventura ha preso le mosse nove anni fa.
Tra i tanti lamenti che il presidente della Bundesbank, Weidmann, muove alla politica monetaria della BCE, il massiccio Quantitative Easing che in buona parte si traduce in acquisto di titoli rappresentativi del debito sovrano degli stati membri dell'eurozona, non ne ho mai sentito uno sulla pratica di acquistare non solo titoli dei paesi "pencolanti", ma, per quasi un terzo delle disponibilità mensili del piano ben 20 miliardi di euro di Bund alle varie scadenze, ma in buona parte proprio di quelli a scadenza decennale che fanno da riferimento per calcolare il differenziale con gli omologhi titoli degli altri paesi determinando quel valore sintetico che è definito spread e finendo per mandare anche il rendimento dei decennali in territorio negativo, come già da tempo accade per i Bund dalle scadenze più brevi.
Quello che c'è di assurdo nella politica seguita dalla BCE a guida Mario Draghi è rappresentato dalle quantità impiegate nei confronti di un titolo di stato che per ragioni sui quali non intendo annoiare chi legge è di fatto un titolo rarefatto per cui anche ondate di acquisto di proporzioni ben inferiori a quelle che caratterizzano da più di un anno l'istituto centrale di Francoforte hanno consentito di tenere i rendimenti di poche decine di basis point al di sopra dello zero, il che ha determinato valori esagerati dello spread pur in presenza di rendimenti dei decennali degli altri stati molto contenuti rispetto a quelli evidenziati in un recente passato, è il caso dello spread BTP-Bund con il decennale italiano che segnala, anche nei momenti peggiori, valori che sono quasi un quarto di quelli registrati nell'orribile 2011, l'anno nel quale vi furono manovre orchestrate e finalmente accertate tra le banche globali europee, Deutsche Bank in testa con i suoi 7 miliardi di euro di titoli italiani venduti quasi contemporaneamente e mentre la banca tedesca invitava, tramite le sue newsletters, i suoi clienti a non disfarsene!
D'altra parte, la stranezza del comportamento di Draghi e compagni fa il paio con l'altrettanto strano comportamento della Commissione europea che, pur fedele custode dei trattati e dei parametri che hanno strangolato i paesi membri nei terribili anni delle prime due fasi della tempesta perfetta, dimentica ogni anno che vi è una previsione che impone di sanzionare il paese membro che evidenzia un saldo delle partite correnti che per oltre tre anni superi il 6 per cento del prodotto interno lordo, cosa che la Germania fa da oltre un quinquennio, giungendo nel 2015 all'8 per cento, senza che l'argomento sia stato neppure sfiorato quando la Commissione ha distribuito in maggio le severe pagelle agli stati membri.
L'aspra campagna per il referendum sull'uscita o la permanenza della Gran Bretagna dall'Unione europea si è purtroppo tinta di rosso con l'omicidio della deputata laburista Jo Cox, impegnata nella difesa dei diritti umani e fermamente contraria alla Brexit, da parte di un uomo schierato sul fronte opposto.
Da quando il Chief Operating Officer di Unicredit, Vittorio Ghizzoni ha deciso di cedere alle pressioni dei grandi azionisti della banca italiana ma presente in forze in altri importanti mercati creditizi europei, Germania, Austria e Polonia in testa, dichiarando in un consiglio di amministrazione di fine maggio di essere disponibile, dopo avere ovviamente concordato le laute condizioni economiche per l'addio, a passare la mano, l'azione di Unicredit ha perso, al 14 giugno il 30 per cento del suo valore toccando i 2,21 euro, un minimo storico che va raffrontato ai quasi 7 euro della primavera scorsa e perdendo 18 miliardi di euro di capitalizzazione (ora sono ridotti a poco più di 13 miliardi) dall'inizio di quest'anno di disgrazia 2016, l'anno che segna l'avvio di una terza e molto complicata fase di quella tempesta perfetta che ha preso le mosse nel luglio del 2007.
Certo, in un mercato azionario europeo che ha bruciato 2.500 miliardi di euro in sette sedute non c'è da stare allegri e i guai della seconda banca italiana potrebbero anche passare quasi inosservati, tenendo conto di quanto accade al Monte dei Paschi di Siena o ancor più alle due banche destinate a convolare a nozze entro novembre, il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, con l'azione del primo che sta quasi raggiungendo il prezzo fissato per l'aumento di capitale da un miliardo di euro attualmente in corso, ma non vi è dubbio che il mercato non può non rimanere sconcertato rispetto a una banca globale, quale Unicredit è, i cui azionisti più importanti non hanno pronta la candidatura del banchiere che dovrà rimpiazzare il grigio Ghizzoni, un uomo che non verrà ricordato per intuizioni di rilievo fondamentale, ma che almeno si è adoperato in questi anni per dare una sistemata ai conti dopo la effervescente gestione di Alessandro Profumo.
Un po' di ritardo per la scelta del nuovo numero operativo passi, ma quando da fonti autorevoli e, come si dice, vicine al dossier, si è appreso che l'attesa del nuovo numero operativo potrebbe non trovare termine prima di fine luglio le vendite si sono letteralmente scatenate con volumi esagerati e quelle perdite verticali del valore dell'azione di cui parlavo all'inizio e che in un tentativo di rimbalzo mercoledì scorso dopo varie sedute di bagno di sangue ha fallito clamorosamente il ritorno nell'area dei 2,30 euro per ripiegare rapidamente verso i livelli ignominiosi toccati nelle sedute precedenti.
Ma quale è la materia del contendere tra i grandi soci di Unicredit, che insieme ne controllano circa un quarto delle azioni e che per la dispersione degli piccoli azionisti fanno il bello e il cattivo tempo nell'istituto di Piazza Cordusio? E' presto detto: vi è un contrasto sanguinoso tra gli esponenti delle tre fondazioni bancarie che a suo tempo diedero vita insieme al Credito Italiano a Unicredit, un confronto che vede su fronti opposti Palenzona che vorrebbe Nagel di Mediobanca come nuovo CEO e Paolo Biasi di Cariverona che preferirebbe, come quasi tutti gli altri soci, un banchiere esterno al mondo Unicredit (primo azionista di Mediobanca che, a sua volta è un importantissimo azionista delle Assicurazioni Generali) e come dargli torto? Si è poi saputo ieri che, di fronte a quanto sta accadendo sui mercati, Unicredit ha deciso di accelerare i tempi e, nel giorno del voto su Brexit, cioè giovedì della prossima settimana, verrà esaminata una terna di nomi per la sostituzione di Ghizzoni.
Qualche mese fa, ho pubblicato una puntata del Diario della crisi finanziaria nella quale fornivo poche e semplici istruzioni per comprendere un dato sintetico come lo spread tra il BTP decennale e il Bund tedesco avente pari durata, ma ora che la crisi finanziaria si sta facendo sempre più cruenta, in particolare per l'approssimarsi della scadenza del referendum che stabilirà se la Gran Bretagna resterà nell'Unione europea o, viceversa, se la lascerà, credo utile ricordare quanto dicevo allora, anche perché si è verificato un fatto nuovo e che non era mai successo nella storia e, cioè, il passaggio dei rendimenti sul Bund a valori, seppur lievemente negativi.
Cosa significa questo? Sta a significare che il rendimento di un BTP, poniamo l'1,47 per cento, ossia 147 punti base, in presenza di un rendimento negativo del Bund dello 0,03 per cento, porta lo spread a 150 punti base, esattamente come si è verificato ieri ed è una cosa importante perché il differenziale era riuscito a portarsi intorno ai 100 punti base ed ora è a ridosso della soglia psicologica dei 150 punti base, pur se, in termini di rendimento, le cose non siano mutate in maniera significativamente rilevante tra questi due periodi.
Quello che sta avvenendo in realtà è quel fenomeno di cui ho parlato pochi giorni orsono è che definito fly to quality e cioè che quando si entra in un periodo di forti turbolenze economiche e/o geopolitiche gli investitori abbandonano gli investimenti a rischio, come i titoli pubblici dell'area mediterranea, per spostarsi verso il titolo rappresentativo del debito della maggiore economia dell'Unione europea, la Germania appunto, e nel fare questo non badano al livello del rendimento, sono anche disposti a rimetterci, in particolare se si tratta di fondi pensione, grandi compagnie di assicurazione e banche più o meno globali.
D'altra parte, anche le banche dell'area euro sono disposte a pagare un premio dello 0,40 per cento alla Banca Centrale Europea per depositare presso di essa centinaia di miliardi di euro al giorno che non prestano a famiglie e imprese pur concedendo la BCE ingentissimi finanziamenti a tassi che vanno dallo zero al meno 0,30 per cento, rappresentando questo fenomeno uno dei motivi per cui il Quantitative Easing in corso da oltre un anno non sta facendo ripartire l'economia, né è in grado di combattere la deflazione.
C'è stata una seduta di borsa nel corso della scorsa settimana nella quale sembrava che un raggio di sole avesse colpito le banche italiane quotate, ma poi è venuta la terribile seduta di venerdì 10 con una vera e propria alluvione di ordini di vendita che in certi momenti avevano difficoltà a trovare controparti, il tutto tra un profluvio di sospensioni per eccesso di ribasso che hanno colpito, in particolare, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, i titoli del Gruppo Unipol, mentre molto malconcie risultavano anche le due candidate alle nozze, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, ma è stata una seduta nella quale è difficile individuare qualche segno positivo. Scenario replicatosi poi nella seduta di ieri che ha visto le perdite per alcune banche toccare il 10 per cento.
Cosa è accaduto per determinare uno sconquasso di queste proporzioni? In primo luogo le dichiarazioni di Super Mario, al secolo Mario Draghi, in particolare quell'invito rivolto alle banche dell'area euro, ma tutti sapevano bene che il riferimento era a quelle italiane che sono caratterizzate da un livello dei Non Performing Loans sul totale degli impieghi vivi multiplo di quello delle banche degli altri paesi europei, l'invito dicevo a non perdere tempo nel prendere di petto il problema, un invito che fa il paio con l'attivismo forsennato delle due donne alla guida della vigilanza bancaria europea presso la BCE che tanti dolori stanno provocando ai vertici delle banche italiane e a quelli di quei gruppi assicurativi, come Unipol, che hanno in pancia una banca dai conti che è quasi un eufemismo definire disastrati.
Il problema è che la consapevolezza tra i vertici bancari del nostro Paese sulla necessità di affrontare questo problema è pressoché corale, in particolare tra quanti hanno già ricevuto corrispondenza da Madame Nouy e dalla sua stretta collaboratrice tedesca, ma il problema rimane quello sui tempi, anche se c'è un grandissimo gruppo come Unicredit dal quale è trapelato che la scelta del numero uno non dovrebbe avvenire prima di fine luglio e non è certo un caso se ieri il suo titolo ha subito l'onta di segnare nuovi minimi storici con una flessione di oltre il 6 per cento.
La seconda ragione dell'ecatombe di venerdì scoro è data dalla diffusione di un sondaggio del quotidiano inglese The Independent che dava i sostenitori dell'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea avanti di dieci punti su quanti vogliono rimanere e a poco è servito che la media dei sondaggi dà i sostenitori del remain ancora avanti seppur di poco a quelli del leave.
Una persona che di valute se ne intende, come il miliardario George Soros, l'uomo che divenne ricco nel 1992 scommettendo contro la sterlina inglese e la lira italiana, sostiene che finché la sterlina sarà forte difficilmente l'esito del referendum sarà quello di un'uscita dall'Unione europea, ma il problema è che venerdì e ieri la valuta britannica ha iniziato vistosamente a perdere colpi!
Mancano oramai meno di due settimane al momento. giovedì 23 giugno, nel quale ci sarà la prova della verità sulla semplice opzione offerta dal referendum ai cittadini britannici e che consiste nel decidere se restare nell'Unione europea a 28 paesi, dei quali una ventina aderenti all'euro, o uscirne definitivamente, una scelta che sembra francamente incredibile per una Gran Bretagna che paga il conto meno salato al bilancio comunitario e che gode del più alto numero di opting out rispetto a tutti gli altri paesi dell'Unione e che non più tardi del febbraio di questo anno di disgrazia 2016 ha conseguito ulteriori deroghe su quattro punti tra cui la non applicazione dei benefici del welfare per molti anni agli stranieri, inclusi, e forse soprattutto, quelli provenienti da altri paesi membri dell'Unione.
Come ricorderà chi ha letto le precedenti puntate del Diario della crisi finanziaria sull'argomento, vi è stata una levata di scudi da parte dei governanti di altri paesi del mondo occidentale, Barack Obama in testa, di organismi economici sovranazionali, singoli imprenditori ed opinion makers che hanno "avvertito" i cittadini britannici dei rischi elevatissimi per l'economia di quel paese e per la stessa occupazione, per non parlare dei conti con l'estero, un pressing molto pesante e ai limiti dell'ingerenza che ha finito per avere, a quanto pare dai più recenti sondaggi, addirittura un effetto negativo aumentando le schiere dei sostenitori del leave e riducendo quelle di quanti sono schierati per il remain.
Il rischio che, a differenza del referendum scozzese dello scorso anno, si arrivi ad un esito elettorale favorevole all'uscita della Gran Bretagna dall'Unione è stato per prime percepito dalle grandi banche di investimento, in particolare di quelle basate nella City di Londra, che hanno commissionato costosissimi sondaggi riservati che hanno rivelato in anticipo di questa nuova tendenza (avvertita anche da larga parte dell'establishment britannico) tendenza che è vista con grande preoccupazione e che ha spinto molti dei loro clienti a scelte di investimento basata sul principio del fly to quality, privilegiando i titoli di Stato statunitensi, quelli tedeschi (giunti ormai a rendimenti dello 0,02 per cento) e anche quelli britannici, il tutto mentre la sterlina continua ad essere in posizione di grande debolezza.
Ma, come si sarebbe detto un tempo, non tutto è perduto in questa battaglia che per un certo tempo è stata sottovalutata, anche per l'attivismo oltre che di Cameron e di alcuni suoi ministri, del partito laburista che vede nel nuovo sindaco di Londra un astro emergente che sta spendendosi molto per evitare la Brexit, dei leaders sindacali che temono per gli inevitabili riflessi sull'economia e sull'occupazione e dell'intera nazione scozzese, ma anche in parte di quella gallese, che vede nell'Unione europea un ombrello difensivo in favore delle sue istanze indipendentiste, anche se anche in Gran Bretagna, come del resto nel resto dell'Europa, il vento dell'antipolitica e dell'isolazionismo spirano molto forti!
Quando ho ripreso a tenere il diario di bordo della flottiglia finanziaria nella terza e più complessa fase della tempesta perfetta ho individuato l'esistenza di tre bolle speculative quasi tutte semi sgonfie o completamente scoppiate: il petrolio, le banche, in particolare quelle europee e, nell'ambito di queste, di quelle italiane e il settore immobiliare. Su queste bolle impattava e sta continuando a farlo l'operato delle banche centrali che venivano, eccezion fatta della Federal Reserve, nella politica dei tassi a zero o sottozero, così come continuavano nella politica di inondare il mercato di liquidità, anche se in presenza di una difficoltà di trasmissione della politica monetaria dal settore finanziario alle famiglie e alle imprese.
Iniziamo dal prezzo del petrolio che, dopo aver toccato un minimo a 26 dollari al barile per il WTI, ha iniziato una lenta e poco comprensibile ripresa, sino a toccare un quasi raddoppio proprio in questi giorni senza che il problema principale che aveva spinto al tracollo fosse stato minimamente scalfito e che risiedeva in quella distanza di 1-2 milioni di barili al giorno tra la domanda e l'offerta, essendo anche falliti i tentativi in sede OPEC di ridurre o almeno congelare i livelli di produzioni, proposte che sono ripetutamente naufragate a causa dell'opposizione dell'Iran che ha ripetuto fino alla nausea che prima doveva recuperare i livelli di produzione precedenti alle sanzioni.
Per quanto riguarda le banche europee, chi pensava che fossero stati ormai toccati i minimi è stato smentiti dai fatti e restiamo con il cerino acceso per quanto riguarda le banche globali con sede in Germania e in Francia, anche se i veri dolori vengono dal sistema creditizio italiano che, rispetto al maggio dello scorso anno, ha visto pressoché dimezzata la capitalizzazione di borsa, con punte superiori per Unicredit e Monte dei Paschi di Siena, e mentre il neonato Fondo Atlante si è letteralmente impantanato in quel buco nero che è il credito nella regione Veneto, esaurendo, come ho scritto ieri, o quasi le sue risorse negli aumenti di capitale di sole due banche con sede in quella disastrata regione!
Qualche raggio di luce viene invece dal settore immobiliare sia in Europa che in Italia, risveglio testimoniato nel nostro Paese dall'impennata delle compravendite e dal raddoppio dei mutui, anche se ancora non si vedono segnali di risalita dei prezzi che, secondo molti osservatori, stanno solo riducendo la flessione.
Chi ha letto le puntate precedenti si stupirà dell'assenza della Cina ancora alle prese con il problema dei crediti deteriorati e della persistente e massiccia fuga di capitali, ma il fatto è che oramai le statistiche ufficiali di quella grande nazione sono inattendibili anche se non riescono del tutto a mascherare l'ulteriore peggioramento della situazione.
Ormai è quasi ufficiale: il neonato Fondo Atlante con Veneto Banca si appresta a fare il bis di quanto è avvenuto con la Banca Popolare di Vicenza dove ha immobilizzato 1,5 miliardi di euro per ottenere il 99 per cento e rotti delle azioni di una banca tecnicamente fallita e gravata di un ammontare di Non Performing Loans dal livello realmente preoccupante e in molti casi senza garanzie per quel meccanismo perverso che prevedeva crediti facili per gli amici e per quanti accettavano di acquistare azioni e/o obbligazioni della banca allora saldamente guidata da quel Gianni Zonin che, in vista di richieste di risarcimento elevatissime, si è reso praticamente nullatenente donando ai figli le sue quote dell'impero vitivinicolo di sua proprietà.
Certo, l'impegno massimo nell'operazione di aumento di capitale di Veneto Banca sarà "solo" di un miliardo di euro, ma, nell'ipotesi che pochi o nessuno degli attuali e molto inferociti soci si presentasse all'appello, ci troveremmo nella situazione nella quale il fondo gestito da Penati avrebbe impegnato 2,5 dei 3 miliardi di euro previsti per il capitolo degli aumenti di capitale delle banche italiane, mentre ancora si ignora quanta parte degli 1,2 miliardi previsti per i Non Performing Loans saranno assorbiti dalla maxi operazione annunciata dallo stesso Penati e da eseguirsi prima della fine dell'anno.
Ma, sempre con origine nel Veneto, vi è l'aumento di capitale di Banco Popolare di Verona e Novara, una richiesta al mercato per un altro miliardo di euro e che è partita all'inizio di questa settimana, un aumento per il quale non è previsto l'intervento di Atlante, anche se anche in questo caso bisognerà vedere quanto entusiastica sarà la risposta degli azionisti attuali e di quelli futuri, che potrebbero anche essere allettati dal fatto che il valore delle nuove azioni è stato fissato con un generoso sconto rispetto alle quotazioni recenti di borsa.
Ma cosa se ne farà Atlante delle due banche ormai quasi certamente acquisite? E' presto detto ne farà carne da macello, come del resto i fondi speculativi come Quaestio che è il fondo presso il quale è stato costituito Atlante sono abituati a fare quando entrano in una banca o in un'azienda, e lo farà fondendo molto probabilmente i due istituti di crediti, tagliando brutalmente gli organici e aggredendo gli NPL acquistandoli anche a meno del 20 per cento del loro valore nominale, insomma una politica di gestione lacrime e sangue che non ha, tuttavia, molte alternative realistiche e che è resa indispensabile alla luce delle malefatte del passato!
Non volevo credere ai miei occhi domenica scorsa leggendo l'editoriale di Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica e dominus incontrastato di quel giornale che, dopo di lui, ha visto avvicendarsi alla guida della prestigiosa testata Ezio Mauro e Mario Calabresi, due ottimi giornalisti ma che non sono assolutamente in grado di influire sulla linea di un giornale che, a novanta anni suonati, è ancora legato alle posizioni di un uomo le cui idee affondano nelle radici del partito d'azione e protagonista, non so quanto pentito, della nascita del partito radicale di Marco Pannella.
Quale era il motivo della mia sorpresa? E' presto detto: dopo il solito e lungo sproloquio domenicale, Scalfari affronta di petto un tema delicatissimo quale la posizione che la Germania, in vista del voto politico dell'anno prossimo in cui la Merkel si trova ad affrontare una ultradestra in forte crescita nel voto regionale e nei sondaggi politici nazionali e che soprattutto nasce dal movimento dei professori contrari alla politica della Banca Centrale Europea e alla stessa adesione della Germania all'euro, potrebbe annunciare l'intenzione di uscire dalla moneta unica europea o di promuovere la nascita di un euro a due o più velocità.
Come autore da nove anni di un blog sulla crisi finanziaria, ho più volte espresso visioni non ortodosse o in qualche caso estreme, visioni che a volte si sono dimostrate realistiche, quali il fallimento molto annunciato della Lehman Brothers o la vera natura della potente e molto preveggente Goldman Sachs, a volte meno, ma mai, così come la maggior parte dei miei colleghi, avrei osato parlare di una mossa della nazione più potente dell'Unione europea che punterebbe a scardinare, probabilmente in unione con l'Olanda e altri paesi del Nord Europa, la Banca Centrale Europea e l'euro, che sono una delle poche ed effettive cessioni di sovranità che la maggior parte dei paesi europei, non tutti in verità, hanno compiuto in favore dell'Unione, una scelta che, ove dovesse essere vera, insieme alla alla sempre possibile Brexit e alla bomba a scoppio ritardato rappresentata dalla questione del tutto irrisolta dei migranti e di un'equa ripartizione degli stessi tra i 28, o 27 se in Gran Bretagna il 23 giugno prevarranno i leave, paesi membri.
Su una cosa, invece sono d'accordo con Scalfari ed è quando parla di aumenti dei tassi di interesse USA archiviati per quest'anno, ipotesi che avevo già avanzato qualche giorno fa e che, anche dopo l'intervento di lunedì di Janet Yellen, sembra cifrata nell'improvviso indebolimento del dollaro che ha preceduto e seguito le sue parole!
Si avvicina il 9 giugno, la data fissata per il consiglio di amministrazione di Unicredit che dovrebbe scegliere il nome del nuovo Chief Executive Officer della banca più internazionale d'Italia che sta attraversando un momento molto difficile dopo che vigilanza della Banca Centrale Europea ha chiesto di innalzare l'indice patrimoniale dal 10,5 per cento attuale al 12,25 giudicato più adeguato per fronteggiare i rischi che per il gruppo milanese non sono solo quelli comuni alla maggioranza delle banche italiane, Non Performing Loans e stato dei conti, ma sono anche quelli propri di una banca globale con presenze significative in Germania, Austria, Polonia e altri paesi dell'Est Europa, Turchia e via discorrendo.
Molti hanno giudicato originale che le dimissioni di Federico Ghizzoni non fossero state precedute dall'individuazione del suo successore, ma in verità il problema è molto complesso, perché dal nuovo del nuovo numero uno operativo di Unicredit si capirà anche molto delle strategie che sottendono a quello che potrebbe rivelarsi come l'inizio di un riassetto ai piani alti della finanza italiana, un riassetto che potrebbe riguardare anche quella Mediobanca che ha Unicredit come primo azionista e le Generali che hanno a loro volta Mediobanca come primo azionista, con la presenza alquanto ingombrante di Vincent Bolloré in tutti e tre questi soggetti e che spinge fortemente per un riassetto che potrebbe nascondere molti dei problemi di cui tutte e tre queste istituzioni finanziarie soffrono da tempo.
Certo, il momento è molto propizio per un'operazione così complesse che comprende tre campioni della finanza italiana con un elevato standing internazionale e uno degli elementi più favorevoli è dato dai corsi di borsa di Unicredit che mercoledì scorso ha toccato un nuovo minimo storico a 2,74 euro e che favorirebbe un integrazione con Mediobanca molto spostata a favore degli azionisti dell'istituto di piazzetta Cuccia e l'accresciuto peso dell'entità risultante in Generali renderebbe il gioco ancora più facile.
Ma quale sarà il segnale che dalle parole e dai progetti più o meno riservati si intende passare ai fatti? Potrebbe venire proprio dalla nomina a nuovo amministratore delegato di Unicredit di Alberto Nagel, attuale numero uno di Mediobanca, un uomo molto determinato che ha fatto fuori tutti gli avversari nella storica banca di affari milanese e uno dei massimi esperti di complesse operazioni societarie come si prospetta quella che ho appena descritto.
Cosa può fare l'azionista di Unicredit? Purtroppo poco o nulla, perché uscire in questo momento rappresenterebbe una perdita certa, mentre può attendere che un'operazione che si prospetta come una delle più strombazzate sul mercato italiano consenta, in prospettiva, la possibilità di realizzare un profitto da cogliere al volo per non rimanere impantanati in una serie di operazioni che raramente vengono realizzate nell'interesse degli azionisti!
Chi segue da nove anni il Diario della crisi finanziaria sa bene l'importanza che attribuisco all'indicatore denominato Non Farm Payrolls, ossia il saldo positivo o negativo degli occupati nel settore non agricolo negli Stati Uniti d'America, un indicatore che secondo molti analisti dà il vero polso dell'andamento congiunturale di quella grande nazione in uno con il tasso di disoccupazione che, tuttavia, va letto con grande attenzione tenendo conto degli ingressi e delle uscite dal mercato del lavoro, due dati che vengono diffusi contemporaneamente all'inizio del mese (normalmente il primo venerdì del mese) e che hanno un grande impatto sull'andamento delle borse e dei cambi e, di riflesso, anche sul prezzo dell'oro.
L'importanza di questi due dati è addirittura aumentata durante gli otto anni di presidenza di Barack Obama, anche più dei dati relativi alla crescita del Paese e ai dati sulla produzione industriale, perché è nella crescita pressoché costante dell'occupazione mese dopo mese e nel dimezzamento del tasso di disoccupazione che risiede la vera cifra della presidenza del giovane avvocato di Chicago, anche se qualche critico, a mio avviso a ben vedere, ha obiettato che la qualità della nuova occupazione non è stata in molti casi di buona qualità rispetto ai posti persi nella prima fase della tempesta perfetta, ma, comunque, è sempre vero che a caval donato non si guarda in bocca e che un tasso di disoccupazione che oscilla intorno al cinque per cento è di un livello che in termini keynesiani indica la piena occupazione.
Ebbene, quando venerdì scorso sono stati diffusi dal Dipartimento del Lavoro statunitense i dati relativi al dato di maggio sui mercati a stelle e strisce sono state gettate secchiate di acqua gelata perché è emerso che i nuovi occupati a stelle e strisce sono cresciuti di sole 38 mila unità (il dato più basso dal settembre del 2010 anche se spiegato, per 30 mila unità, dallo sciopero della Verizon verificatosi nel mese e che ha reso temporaneamente questi lavoratori dei disoccupati) e che il tasso di disoccupazione è sceso da 5 al 4,7 per cento solo perché 600 mila americani si sono ritirati dal mercato del lavoro, dati che dovrebbero far riflettere Yellen e compagni sull'opportunità di aumentare a breve i tassi di interesse, cosa che chi mi segue sa che avevo previsto qualche puntata fa quando prevedevo che il secondo rialzo sarebbe stato posposto addirittura a dopo le elezioni presidenziali di novembre.
Almeno così la notizia è stata letta dai mercati con cali di tutti e tre gli indici azionari principali americani, un balzo dell'oro che cedeva da trenta giorni, ma soprattutto una flessione del cambio del dollaro con l'euro di quasi due punti percentuali in una sola seduta, anche se il grosso della flessione si è verificata in pochi minuti dopo che gli analisti delle sale cambi delle banche di tutto il mondo hanno avuto il tempo di metabolizzare la doppia notizia e impartire disposizioni agli operatori.
Al termine di un lunghissimo e a tratti drammatico consiglio di amministrazione, è stata fissata la forchetta di prezzo per l'aumento di capitale e concomitante richiesta di ammissione alla quotazione di borsa di Veneto Banca e, come era stato largamente previsto in tempi non sospetti dal Diario della crisi finanziaria e da molti analisti e commentatori, si va da un minimo di 10 centesimi ad un massimo di 50 con azzeramento di fatto del capitale di una banca le cui quote avevano toccato gli alquanto irrealistico 42 euro per azione ma che quasi nessuno degli investitori e risparmiatori in larga parte veneti aveva potuto realizzare perché la banca di Montebelluna aveva di fatto chiuso quasi subito alle negoziazioni che, per statuto, potevano essere realizzate solo con la banca stessa.
Le analogie con le vicende della Banca Popolare di Vicenza sono davvero impressionanti e se, come è largamente evidente, il prezzo finale sarà di 10 centesimi e non vi saranno richieste di adesione all'aumento di capitale tali da garantire almeno un 25 per cento di flottante, la CONSOB negherà alle azioni della banca l'ammissione ai mercati regolamentati e non si aprirà altra strada che quella dell'intervento del Fondo Atlante che così avrà impegnato 2,5 dei 4,2 miliardi di euro del suo fondo di dotazione e manca ancora all'appello l'aumento da un miliardo di euro del Banco Popolare di Verona e Novara che è stato già deliberato dal consiglio di amministrazione, ma almeno il Banco Popolare in borsa c'è già.
Ai detentori delle azioni di Veneto Banca non resta che leccarsi le ferite e interrogarsi su quanto hanno fatto nell'ultima assemblea dove molti di loro, per rabbia e sconforto, hanno appoggiato il ribaltone al vertice dell'istituto con l'arrivo al potere di una improbabile cordata infarcita di persone che dovevano alla banca somme per centinaia di milioni di euro e declassando Carrus da amministratore delegato a direttore generale, cosa alla quale ha in parte posto rimedio la vigilanza della Banca Centrale Europea, intimando che venissero restituite le deleghe al manager che tanto si era adoperato nella mission impossible di risollevare le sorti di una banca che è quasi un eufemismo definire tecnicamente fallita.
Ho scritto più volte delle responsabilità della vigilanza della Banca d'Italia sulla gestione, o meglio sulla mancata gestione, di quella situazione veneta che poi si è rivelata il buco nero del credito in Italia, ma di tutto questo il Governatore Visco, nelle conclusioni finali lette il 31 maggio, non ha speso parola, né tantomeno ha accennato ad una sorta di autocritica, suscitando le ire degli esponenti di numerosi partiti politici, anche di quelli che dal credito facile in Veneto hanno avuto un grande ritorno in termini elettorali!
Ha fatto molto scalpore nel mondo finanziario italiano l'irruzione di un gruppo di funzionari della CONSOB assistiti da militari della Guardia di Finanza nella storica sede della banca d'affari Mediobanca sita nella storica Piazzetta che da qualche anno è intitolata al suo storico fondatore e per anni regista di tutte le sistemazioni ai piani alti della finanza italiana, Enrico Cuccia lo storico avversario del banchiere Mattioli.
La visita congiunta è stata disposta dalla CONSOB per indagare su quanto è accaduto tra l'annuncio della Offerta Pubblica di Scambio lanciata dall'editore Urbano Cairo su Rcs, la società che edita, tra l'altro, il Corriere della Sera e quel 16 maggio nel quale viene annunciata una contro OPA da parte di Andrea Bonomi e altri soggetti tra i quali, appunto, Mediobanca che aveva, per bocca del suo amministratore delegato, Alberto Nagel, annunciato che non avrebbe partecipato a cordate volte ad ostacolare il tentativo di Cairo che è, tra le altre cose, l'editore del gruppo televisivo la 7, un annuncio che non aveva convinto i più ma che sembrava dettato dalla voglia di Mediobanca di non trovarsi coinvolta nell'ennesima guerra ai piani alti del capitalismo italiano per il controllo del Corriere della Sera.
Quello che è accaduto dopo l'annuncio dell'OPA totalitaria lanciata da Bonomi, Della Valle e Mediobanca a 70 centesimi per azione è cronaca, con scambi enormi che hanno portato il valore dell'azione a livelli superiori a quelli offerti dalla cordata che ha come partecipante e advisor Mediobanca ed è su questi scambi e sull'incremento vertiginoso dell'azione del gruppo editoriale che la CONSOB ha acceso un faro e bloccato l'iniziativa, ufficialmente per la richiesta di un'integrazione delle informazioni fornite dal gruppo connorrente, dando invece il semaforo verde all'offerta di Urbano Cairo che potrà raccogliere le adesioni degli azionisti in un periodo che va dal 13 giugno al 7 luglio.
E' difficile dire come andrà a finire, anche se il precedente dei documenti nascosti da Mediobanca in un improbabile nascondiglio posto nella storica sede non depone bene, ma quello che è certo è che il ruolo della storica banca milanese non è più quello di un tempo, quando gli imprenditori italiani andavano a baciare la pantofola di Enrico Cuccia prima di intraprendere qualsiasi operazione rilevante, anche per la concorrenza dei soggetti stranieri, a partire dalla potente e molto preveggente Goldman Sachs!
Appena reduce da un G7 in Giappone dove ha trovato molta solidarietà nei leader mondiali rispetto alla sua battaglia per mantenere il Regno Unito nell'Unione europea e dopo lusinghieri sondaggi che dicono che la maggioranza dei sudditi della novantenne Elisabetta seconda sono dalla sua stessa parte, David Cameron ha scoperto al rientro in patria che un numero imprecisato di parlamentari del partito conservatore sta tramando per defenestrarlo anzitempo, dopo non aver colto l'occasione quando Cameron risultò coinvolto nei Panama Papers.
Questa notizia, che indica implicitamente l'ormai svanita possibilità di liquidare il leader conservatore tramite Brexit, sta ridando fiato alla sterlina che aveva perso molto terreno contro euro e contro dollaro quando il risultato del referendum del 23 giugno sembrava molto più incerto e sta interrompendo quello sciopero degli investimenti che gli industriali hanno messo in atto da qualche mese in attesa che lo scenario divenga più chiaro e si chiarisca se l'orizzonte della Gran Bretagna è quello dell'Unione a 28 paesi o quello, molto più angusto e procelloso, degli angusti confini nazionali, con il rischio connesso di un secondo referendum per l'uscita della Scozia dal Regno Unito e contestuale richiesta di ammissione alla UE da parte dell'ex regno di Maria Stuarda.
In pochi casi come in questa campagna referendaria, il mondo intero ha fatto a gara nell'interferire, a mio avviso giustamente, in una competizione elettorale interna a un Paese, anche se la più clamorosa è stata quella del presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama, che, in visita a Londra, ha apertamente ammonito i cittadini britannici dal votare per far uscire la Gran Bretagna dall'Unione, una sortita che ha fatto diventare ancora più rosso il viso di Boris Johnson, quell'ex sindaco di Londra che viene visto come l'ispiratore dell'attuale complotto in corso per rovesciare David Cameron e prenderne il posto.
Ma Obama non è stato il solo a intervenire a gamba tesa nell'agone elettorale britannico, allo scopo si sono prodotti anche i vertici dell'Unione europea, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, più o meno tutti i leader dei paesi europei che contano e chi più ne ha più ne metta. Una serie di doccia fredde sui cittadini britannici che hanno fatto prevalere gli inviti a ragionare sullo status speciale di cui godono nell'ambito della UE, inviti fatti dalla Confindustria nazionale, dalle banche e dalla City nel suo complesso, un coro che sembra non avere mai fine e che ripeteva Remain, Remain.
Do molto credito ai sondaggi, ma credo proprio che dovremo aspettare la sera del 23 giugno per dire la parola fine su questa vicenda!
Si fa un gran parlare dell'autonomia delle banche centrali dalla politica e dagli interessi nazionali, ma un breve volgere all'indietro lo sguardo sulle vicende dell'ultimo mezzo secolo rivela che questa convinzione è né più né meno che una superstizione, basti vedere quello che la banca centrale statunitense sotto la guida di Bernspan, al secolo Ben Bernanke, ha fatto durante gli anni più bui della tempesta perfetta e quello che il suo predecessore e Maestro Alan Greenspan fece ai tempi dello scoppio della bolla speculativa azionaria, quella del Nasdaq se la ricordate, inondando letteralmente di liquidità i mercati dopo la rottura impetuosa del listino tecnologico dal livello di 5.000 punti che poi è quello attorno al quale sta ondeggiando da qualche mese.
Ma non è che in Europa, Gran Bretagna compresa, e in Asia si scherzi su questo, con una politica dei tassi a zero e sottozero che è tutta rivolta a far partire più che lo sviluppo l'inflazione, anche se i risultati in tal senso sono del tutto sconfortanti, al punto da far dire a Supermario e compagni che, senza i loro interventi, chissà dove sarebbe gli indici dei prezzi all'ingrosso e quello dei prezzi al consumo.
L'attuale presidente della Fed, una signora dai modi tranquilli e che risponde al nome di Yellen, è cresciuta alla scuola di Greenspan prima e di Bernspan poi ed è usa a sentire il canto delle sirene di Washington e a far di tutto per non innescare un brusco voltafaccia dei mercati prima delle combattutissime elezioni presidenziali di novembre, elezioni nelle quali le uniche speranze di Hillary Clinton risiedono nel fatto che la congiuntura economica sia favorevole, con il tasso di disoccupazione ai minimi storici e vicino a quella che viene definita disoccupazione frizionale (composta per lo più da persone che non hanno intenzione di trovare un lavoro), con le borse vicine o al di là degli attuali massimi storici e poco importa se uno speculatore puro come George Soros sta scommettendo sulla caduta del più importante indice azionario statunitense lo Standard&Poor's 500!
Ma anche se dovesse andare come dico nel titolo, ciò non verrebbe visto come un problema dal Federal Open Market Committee della Fed, l'organismo decisionale della banca centrale americana, organismo il quale, o meglio i suoi componenti a turno, alternerebbero doccia fredde e calde per far capire che il tanto temuto rialzo dei tassi è più lontano o più vicino e, comunque, gli osservatori specializzati (i cosiddetti Fedwatchers) hanno già spostato la data più probabile per la ferale decisione da giugno a settembre.
In una recente intervista a Bloomberg, il vice ministro dell'Economia, Enrico Morando, ha ventilato l'ipotesi che il pagamento degli ultimi interessi sui Monti Bond per 4 miliardi di euro ricevuti dalla banca senese nel 2012 e interamente rimborsati al Tesoro potrebbe essere pagata in azioni invece che in denaro e questo porterebbe lo Stato italiano a passare dal 4 al 7 per cento del capitale dell'un po' disastrato Monte dei Paschi di Siena, diventandone così il primo azionista in una fase non proprio felice della banca guidata dal bravissimo Fabrizio Viola ma ancora gravata da Non Performing Loans per una cifra che, secondo il Financial Times si aggira sui 40 miliardi di euro e che ha suscitato l'attenzione della vigilanza europea presso la BCE e richiederà senz'altro misure straordinarie per essere affrontato in tempi non biblici.
Agli attuali corsi di borsa, l'operazione si presenta sicuramente come un affare, ma denota innanzitutto, come ha sostenuto nell'intervista citata lo stesso Morando, la volontà dell'esecutivo italiano di cooperare al rafforzamento del gruppo senese, rappresentando al contempo un atto di fiducia nell'operato dei vertici che hanno preso il posto di quelli precedenti e sotto inchiesta della magistratura con accuse molto pesanti legate a una fase molto oscura del gruppo che ha visto anche la morte ancora inspiegata del giovane direttore della comunicazione di MPS.
Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria, parlavo del Veneto come buco nero del credito in Italia, ebbene gran parte delle imputazioni di Mussari e compagni nascono proprio dalle operazioni messe in piedi per nascondere il buco, o la voragine, aperti nei conti in precedenza solidi del gruppo creditizio senese dalla sciagurata e rapidissima acquisizione della Banca Antonveneta che il Banco Santander aveva acquisito dall'olandese ABN Amro per rivenderla in tempo reale al Monte dei maschi di Siena con plusvalenza miliardaria, le famose operazioni Alexandria e Santorini, la prima delle quali ha pesato ancora sui conti del 2015 della banca senese e non se in via definitivamente risolutiva.
Ebbene, quell'acquisizione non è stata molto costosa, ma ha coinvolto anche il Monte dei Paschi di Siena in una zona d'Italia che proprio in quel momento stava vedendo esplodere il fenomeno dei Non Performing Loans e quindi la banca si è trovata di fronte, contemporaneamente, a un deflusso di depositi e ad un aumento degli incagli in una zona del Paese che da locomotiva dell'economia si trasformava nello scenario dei capannoni vuoti e dei capitali degli imprenditori spesso fuggiti all'estero, il tutto con conseguenze disastrose per la banca e con l'unico corollario felice dell'uscita di scena della omonima Fondazione!
Come era largamente previsto e come avevo anticipato in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, nel corso del consiglio di amministrazione straordinario del colosso creditizio italiano Unicredit svoltosi martedì scorso, l'amministratore delegato del gruppo, Federico Ghizzoni, ha annunciato la sua disponibilità a rassegnare le sue dimissioni prontamente accettate dai consiglieri che hanno dato mandato al presidente, anche lui in odore di uscita, di trovare un nuovo numero operativo entro la riunione del 9 giugno del CdA, anche se, a quanto si sa, il candidato sarebbe già stato individuato nelle convulse giornate che hanno preceduto il passo indietro del non troppo rimpianto Ghizzoni.
Ma perché Unicredit cambia in corsa il proprio Chief Executive Officer? La risposta è presto detta, in quanto, sotto attacco da parte delle donne e degli uomini che rispondono agli uomini che rispondono agli ordini di Daniele Nouy, capo della vigilanza bancaria europea presso la Banca Centrale Europea, la resistenza di Ghizzoni a procedere al rafforzamento patrimoniale per 5-7 miliardi di euro e la sua ostinazione a trovare misure alternative sotto forma di alienazioni di pezzi dell'impero internazionale del gruppo di Piazza Cordusio sono state giudicate dai soci non più proponibili e di qui la ricerca di un nuovo numero uno più obbediente alle scelte dei soci stessi che tutto vogliono meno che trovarsi in un conflitto con la Nouy e il suo braccio destro operativo che chiedono alla banca di passare dal coefficiente patrimoniale del 10,5 per cento a quello più solido del 12,25, misura già prevista per la Deutsche Bank.
Ma perché la Nouy chiede ai due gruppi creditizi di stare circa due punti percentuali sopra i requisiti patrimoniali previsti dalla normativa vigente nell'eurozona? Mai si sono viste ragioni più divergenti per un identico risultato. per il colosso tedesco sono legate all'enorme esposizione in derivati e titoli più o meno tossici, rischi sui quali mi sono già soffermato diffusamente in passato, mentre per la banca italiana la ragione è duplice ed è data da un lato alla rilevante esposizione in Non Performing Loans e, dall'altro, nei rischi finanziari, ma anche geopolitici, legati alla presenza in decine di paesi diversissimi tra di loro, con posizioni importanti in Germania, dove Unicredit possiede la quarta e un po' traballante banca tedesca, in Austria e in numerosi paesi dell'Est europeo, in particolare in Polonia con Banca Pekao in procinto di essere ceduta pur essendo un'importantissima banca che fa un agguerrita e a volte vincente concorrenza alle banche tedesche attivamente operante in quel dinamico paese!
Se la mia lettura degli avvenimenti è giusta, vedremo nelle prossime settimane passi importanti di Unicredit in direzione dei desiderata della vigilanza bancaria europea e non è escluso che si assisterà ad un mix tra aumento di capitale e dismissioni.
Nella puntata del 13 maggio, avevo titolato: Il Veneto è il buco nero del credito? riferendomi alle quattro grandi banche operanti nella regione caratterizzata un tempo dall'economia più dinamica d'Italia, delle quattro tra hanno sede nella regione (Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e, the last but not the least, quel Banco Popolare che presto convolerà a nozze con la Banca Popolare di Milano, previo un aumento di capitale da un miliardo di euro), mentre la quarta, il Monte dei Paschi di Siena, ha sede altrove ma ha acquisito i dolori della Banca Antonveneta per la modica cifra di poco meno di dieci miliardi di euro.
Sul Corriere della Sera di ieri, Federico Fubini ha pubblicato i risultati di una approfondita inchiesta sul credito nella regione Veneto e ha spiegato che ad avere i conti a pezzi sono ben tredici banche con sede nella regione, la maggior parte di piccole e medie dimensioni, banche che diventano quattordici includendo, come è doveroso, il Monte dei Paschi e ha anche chiarito che il meccanismo che ha portato a piazzare azioni non quotate a prezzi stratosferici seguito dalla Banca Popolare di Vicenza (in questo caso si è già avuta la prova della verità con il valore originario dell'azione di 62 euro passato, in sede di aumento di capitale, a 10 centesimi) e Veneto Banca, ebbene questo stesso metodo è stato seguito da quella Crediveneto, messa recentemente dalla Banca d'Italia in liquidazione coatta amministrativa, che ha convinto migliaia di clienti della banca, e moltissime imprese spesso in cambio di aperture di credito, a sottoscrivere azioni che oramai sono carta straccia.
L'elenco delle banche venete fallite e solo in alcuni casi salvate da concorrenti non sempre con sede nella regione è lungo e, anche se si tratta di realtà creditizie nella maggior parte piccole, il danno per il rapporto tra clientela e sistema bancario è bello che fatto, un danno che non è ancora perfettamente quantificato perché viene da chiedersi quanti dei 125 miliardi di crediti erogati torneranno realmente a casa, anche perché le normative italiane sulla classificazione delle sofferenze sono ancora troppo elastiche, non vigendo da noi e in Europa il principio statunitense secondo il quale un credito si trasforma in perdita dopo pochi mesi di insoluti.
Ma anche stando ai dati ufficiali, abbiamo sofferenze pari a svariate decine di miliardi di euro, a fronte dei quali spesso non ci sono garanzie di nessun tipo e il cui valore è persino inferiore a quel 20 per cento che viene corrisposto in sede di acquisizione di sofferenze da parte degli operatori specializzati, per non dire che con gli aumenti di Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Banco Popolare le disponibilità del Fondo Atlante previste a questo scopo sono pressoché finite.
Sembra proprio che la riunione dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del gruppo dei sette paesi maggiormente industrializzati riunito nel week end in Giappone non avesse altra preoccupazione che quella della scelta che i sudditi della novantenne Elisabetta seconda faranno il prossimo 23 giugno tra l'opzione di restare, remain, nell'Unione europea e quella di uscire, leave, dall'augusto consesso che riunisce 28 paesi in molti casi molto diversi tra di loro per struttura economica, cultura, assetto politico e chi più ne ha ne metta.
Dalla riunione giapponese è venuto uno scenario di sciagure per il Regno Unito, che poi tanto non lo sarebbe visto che la Scozia già prevede nel caso un secondo referendum per lasciare l'unione e chiedere l'ammissione all'Unione europea, con conseguenze ferali sul prodotto interno lordo e una svalutazione della sterlina stimabile tra il 15 e il 20 per cento, un aumento del tasso di disoccupazione e un forte impatto sulla già strutturalmente deficitaria bilancia commerciale, tutte eventualità che avevo segnalato nella puntata del Diario della crisi finanziaria dedicata all'argomento, esclusa una svalutazione così massiccia della sterlina.
Ma questo intervento a gamba tesa dei potenti della terra sulla libera scelta di una grande nazione, intervento ovviamente fortemente caldeggiato dalle autorità monetarie britanniche presenti all'incontro e dai rappresentanti della Unione europea per non parlare del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ben presente al centro della foto di gruppo dell'incontro e pressione gradita da tutti gli altri partner presenti rischia di arrivare tardi, perché la partita sembra già decisa in favore della permanenza e ben lo testimonia il forte recupero della sterlina nei giorni scorsi (con un euro si acquistavano 81 centesimi di sterlina poche settimane fa e ora se ne ricevono poco più di 77 centesimi).
Infatti, tutti i sondaggi danno una percentuale dei no all'uscita del Regno Unito dall'Unione europea di sette punti percentuali superiore a quella di quanti vorrebbero invece lasciarla, con gli indecisi ridotti all'infima quota del dieci per cento, sondaggi corroborati dalle quote degli allibratori che pagano pochissimo sopra la pari la possibilità della vittoria del si.
Dando ai sondaggi il credito che meritano, va detto che la partita non è del tutto chiusa e le prossime settimane di campagna possono ancora modificare l'esito che si inserisce in un quadro europeo che vede le presidenziali in Austria che comunque assegnano all'estrema destra circa la metà dei consensi e la partita della Grecia che vede l'Unione europea molto meglio intenzionata verso un accordo, facilitato dal passaggio del secondo pacchetto proposto dal governo Txipras, ma anche qui voglio vedere l'accordo firmato!
In questa analisi della terza ondata della tempesta perfetta che ha preso le sue mosse a cavallo tra il 2015 e questo anno di disgrazia 2016, sto prestando particolare attenzione al sistema bancario italiano ed europeo, anche se non sottovaluto quanto sta accadendo oltreoceano con l'esplosione delle sofferenze nel credito al consumo e la ripresa delle attività delle fabbriche prodotto delle banche globali a stelle e strisce con nuove e pericolose invenzioni escogitate dagli apprendisti stregoni che le popolano, e questa attenzione al sistema bancario è data da un lato ai problemi nostrani in materia di Non Performing Loans, crediti deteriorati per i quali la vigilanza della BCE ci chiede l'avvio di un'opera di pulizia, mentre per quanto riguarda le banche globali europee, Deutsche Bank in testa, continuano a permanere rischi reputazionali e ancor di più rischi legati alla montagna di derivati e titoli tossici che le stese hanno in pancia.
Si è tenuta giovedì scorso l'assemblea di bilancio della Deutsche Bank davanti a 5 mila azionisti molto nervosi, non solo e non tanto perché per il secondo anno consecutivo rimarranno all'asciutto e il gruppo ha registrato una perdita di 6,8 miliardi di euro, ma anche perché la banca è sommersa da 7.800 azioni giudiziarie con contenziosi che vanno da cifre esigue ad altre che prevedono sanzioni per miliardi di euro, molte delle quali già pagate al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico.
Ha un bel dire il bravissimo Chief Executive Officer di Deutsche, John Cryan (rimasto solo al comando dopo l'uscita di scena del co CEO, Jurgen Fitschen), che "noi siamo meglio della nostra reputazione", perché è universalmente noto che per una banca, al di là dei dati reddituali patrimoniali, la reputazione è tutto e non è stato visto bene l'allontanamento di Gerog Thoma, l'uomo incaricato di presiedere una commissione incaricata di fare piena luce sugli scandali e del gruppo e che è stato costretto alle dimissioni per le critiche ricevute da membri del consiglio di sorveglianza che lo accusavano di eccessivo zelo. Resta e pesa la richiesta della vigilanza BCE di portare i requisiti patrimoniali dall'attuale 10,7 per cento all'alquanto proibitivo 12,25.
Partono da qua le analogia con il caso Unicredit, anche esso alle prese con una richiesta di forte rafforzamento patrimoniale da parte della vigilanza europea, ma alle prese anche con problemi di governance interna che si intrecciano a quella richiesta, vista la contrarietà del CEO Federico Ghizzoni a procedere ad aumenti di capitale, aumento che, secondo le stime degli analisti, dovrebbero essere nell'ordine dei 5-8 miliardi di euro e che diluirebbero in modo significativo la quota delle tre fondazioni un tempo padrone indiscusse del colosso creditizio milanese.
L'eventuale uscita di Ghizzoni apre poi un capitolo a parte di questa storia, perché è prassi consolidata nel sistema bancario italiano che un cambio al vertice venga annunciato solo quando è stato deciso e, particolare non secondario, quando è pronta una soluzione di ricambio!
Dopo un'attesa durata parecchi mesi, i risparmiatori coinvolti nel dissesto di Banca Etruria, Carimarche, Cariferrara e Carichieti hanno visto accendersi la luce verde su un provvedimento del Governo che prevede, a partire da un fondo portato da 100 a 300 milioni circa di euro, la possibilità di coprire in tutto o in parte quanto da loro perso investendo in obbligazioni subordinate delle stesse banche, in molti casi senza ricevere adeguate informazioni sulla rischiosità dell'investimento che stavano effettuando, situazioni spesso al limite, limite spesso superato, della truffa orchestrata da dipendenti di queste banche, come dimostrano i recenti sviluppi dell'inchiesta della procura di Arezzo su Banca Etruria.
Il provvedimento governativo prevede però alcuni paletti, il primo dei quali è dato dal fatto che le obbligazioni devono essere state sottoscritte prima del 12 giugno 2014, quando è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la nuova normativa sui salvataggi bancari nell'eurozona approvata anche dall'Italia con l'introduzione del bail in, mentre il secondo è rappresentato dal fatto che il reddito lordo del richiedente non deve superare i 35 mila euro e la sua posizione in titoli non deve superare i 100 mila euro; in ogni caso, invece del rimborso automatico si potrà ricorrere all'arbitrato presso l'autorità anticorruzione guidata da Cantone.
Perché il caso di queste quattro banche di dimensioni tutto sommato modeste è così importante, al punto da condizionare l'andamento in borsa di banche di ben maggiori dimensioni nel primo trimestre di quest'anno di disgrazia 2016? Semplicemente perché si è trattato del primo caso di applicazione del bail in, la normativa europea che prevede che, in caso di dissesto, siano gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per le somme che eccedano la soglia dei 100 mila euro a pagare entro il limite dell'8 per cento dell'attivo della banca coinvolta, un meccanismo che sostituisce il cosiddetto bail out che prevede, invece, che al salvataggio contribuiscano tutti gli incolpevoli e ignari contribuenti.
Ma, se il bail in entrava in vigore solo alcuni mesi dopo, e precisamente il primo gennaio 2016, perché si è scelto di percorrere questa strada alquanto sanguinosa? La tesi del Governo è che altrimenti si sarebbe andati al fallimento vero e proprio delle quattro banche, con conseguenze sulla stabilità delle zone interessate, nonché il licenziamento di qualche migliaio di dipendenti delle banche stesse, una tesi che si fonda tuttavia sul presupposto che il Governo non avrebbe proceduto al salvataggio pubblico delle quattro banche, pur essendo lo stesso ammissibile a quella data dalla normativa europea vigente.
Emblematica è l'idea di stabilire uno spartiacque per i rimborsi automatici alla data del 12 giugno 2014, data nella quale il meccanismo del bail in viene approvato in sede italiana, una data che ha tagliato fuori dall'automaticità solo 186 investitori che avevano acquistato on line le obbligazioni al 50-60 per cento del loro valore e sono stati così classificati come speculatori, tesi che condivido appieno!
Chi mi segue dal settembre del 2007 sa bene che, nel tenere il giornale di bordo della flotta finanziaria scossa dagli alti marosi della tempesta perfetta, ho dichiarato subito che il mio punto di riferimento teorico era il mai troppo compianto John Maynard Keynes, mentre nel panorama contemporaneo le stelle polari erano lo speculatore George Soros e il Leone di Omaha, al secolo Warren Buffett, due persone diversissime tra di loro ma che analizzavano la crisi finanziaria più grave dal secondo dopoguerra mondiale con una lucidità senza pari.
Ebbene, in queste ultime settimane i miei punti di riferimento vanno ognuno per la sua strada, perché George Soros, spaventato dalla sempre più possibile crisi della Cina (e come dargli torto), sta disinvestendo dagli Stati Uniti d'America, anzi sta scommettendo su un tracollo dell'indice Standard & Poor's 500 e gettandosi a capofitto su quello che Keynes definiva un relitto barbarico, sì proprio l'oro che sta comprando fisicamente e a mezzo di futures nonché acquistando quote di società specializzate nell'estrazione e nella commercializzazione del metallo giallo, mentre Buffett, da parte sua (e da par suo) si è lanciato a lancia in resta sull'alquanto traballante Apple e forse anche sulla tecnicamente fallita Yahoo.
Insomma, c'è da farsi venire il mal di testa, anche perché non riesco a dimenticare che solo pochi anni fa il metallo giallo aveva toccato i 1.750 dollari l'oncia per poi precipitare poco al di sopra dei mille dollari, un mercato cioè abbastanza ballerino e nel quale si rischia di bruciarsi le dita se non addirittura le mani, un mercato, cioè ballerino non meno di quello del petrolio dove i giochetti dal lato dell'offerta stanno determinando una corsa basata su alquanto risibili motivi come l'incendio in Canada e gli scioperi in Nigeria, due fenomeni certamente importanti ma largamente surclassati dalla rapida crescita dell'offerta di petrolio iraniano che sta recuperando a grandi passi i livelli di produzione precedenti alle sanzioni.
Il problema è rappresentato dal fatto che Soros non è una stella polare solo per me e, quindi, c'è una quantità di investitori che si stanno mettendo in scia sia sul mettersi contro lo S&P 500 sia nell'acquistare a piene mani l'oro, incuranti del fatto che il metallo giallo vive i suoi momenti migliori quando l'inflazione corre, mentre ora siamo in presenza di una vera e propria deflazione in Europa e di una crescita moderata dei prezzi negli States, ma è ovvio che Soros sta vedendo una recessione mondiale guidata dal crack della Cina e di fronte a questo si va verso i porti sicuri e il porto sicuro per eccellenza rimane l'oro!
Come avevo scritto nelle puntate precedenti, Daniéle Nouy e la sua fidata collaboratrice tedesca incaricata di seguire il dossier delle procedure di risoluzione delle banche appartenenti all'area dell'euro non si accontentano più di pressare, in certi casi molto giustamente, le banche venete o Carige o Monte dei Paschi di Siena ma puntano dritte dritte al cuore del sistema bancario, invitando la seconda banca italiana e la prima per internazionalizzazione, Unicredit appunto, a fare uno sforzo rilevante sul capitale, non bastando i livelli attuali di Cet1 fully loaded che attualmente è al 10,85 per cento, ma chiarendo che non basterebbe nemmeno portarlo, come prevede il piano aziendale, al 12,6 nel 2018, perché la vigilanza della Banca Centrale Europea vuole molto di più anche se non è stato reso noto a quale livello vuole che il gruppo di Piazza Cordusio debba salire, ma quello che è certo è che lo vuole molto prima di quella data.
La notizia delle pressioni della Nouy aumenta il malcontento dei soci di Unicredit nei confronti dell'amministratore delegato del gruppo creditizio milanese, Federico Ghizzoni, un manager un po' grigio che non si è distinto per azioni eclatanti, concentrato come era a garantire la tenuta dei conti che, però, non è sufficiente a garantire lo sviluppo di una banca molto forte in Germania e in Austria e fortissima in alcuni paesi dell'Est dell'Europa, così come evidentemente non è bastato il piano di allontanamento di 18 mila dipendenti annunciato lo scorso anno.
Da quello che si apprende dai giornali, Ghizzoni sarebbe disponibile all'uscita purché la stessa sia onorevole e non si capisce se alluda alle condizioni economiche, certamente generose, o ad una sua eventuale ricollocazione nel panorama economico nazionale, cosa che prevede molto probabilmente un intervento del Governo che, secondo la stampa, sarebbe molto preoccupato per quello che sta accadendo in Unicredit.
Per chi ricorda quanto avevo scritto nelle numerose puntate sulla vigilanza della BCE, uno dei punti più dolenti sollevati dalle banche italiane era proprio la discrezionalità delle regole applicate, una discrezionalità che ora si estende al livello dei requisiti patrimoniali richiesti alle banche dell'eurozona, perché è evidente che i requisiti di Unicredit soddisfano perfettamente quelle stabilite dalla normativa, anche se non siamo a conoscenza dell'esito dello stress test cui è stato sottoposto l'istituto alla fine dell'anno scorso e se questo esito sia alla base delle pressioni attualmente esercitate nei confronti del gruppo milanese.
Riguardavo gli ultimi articoli ul sistema bancario italiano e ho notato che erano uniti da una visione pessimistica, in buona parte dovuta al pressing e all'inedito attivismo della vigilanza della Banca Centrale Europea sulle nostre banche, in particolare quelle più fragili, se non disastrate, e segnatamente quelle con sede legale in Veneto. Ma va detto che, nell'era dei tassi bassi, se non negativi, non tutto va male e a testimoniarlo è l'esplosione dei mutui a fronte dell'acquisto degli immobili da parte delle famiglie, cresciuti nel 2015 del 90 per cento circa (60 per cento al netto delle rinegoziazioni di mutui già esistenti) e del cosiddetto credito al consumo che, nell'aprile di quest'anno, è cresciuto di poco meno del 14 per cento e si è portato ai livelli più alti da quel 2011 che segna l'inizio della tempesta perfetta su quelle banche italiane che avevano superato pressocché indenni la prima ondata della crisi ifnanziaria in quanto molto poco esposte ai rischi connessi ai derivati e ai titoli tossici e che non avevano richiesto interventi di salvataggio da parte del Governo fino ai Monti Bonds che sono successivi a quella data e dei quali sarà, in buona sostanza. unico fruitore il molto mal messo Monte dei Paschi di Siena.
Il discorso cambia e di parecchio se volgiamo lo sguardo agli impieghi bancari alle imprese non finanziarie e qui le banche italiane nel loro insieme continuano a procedere con i piedi di piombo, gravate come sono di 360 miliardi di Non Performing Loans, un aggregato che è vero che non si trasforma del tutto in sofferenze che sono intorno ai 200 miliardi, mentre, al netto di rettifiche e accantonamenti, sono finalmente scese a 83 miliardi, ma, purtroppo, questo aggregato non viene preso in considerazione dalla vigilanza della BCE che sostiene che, in caso di dissesto, quegli accantonamenti e quelle rettifiche non potrebbero essere utilizzati per la crisi di liquidità che sopravverrebbe inevitabilmente, in particolare se si tratta di gruppi bancari di grandi dimensioni.
Ma il ritorno del credito al consumo a livelli precedenti la crisi, una crisi che non è stata solo e forse non tanto finanziaria quanto economica, è una buona o una cattiva notizia? Per poter rispondere bisognerebbe disporre di dati di dettaglio che dividano per lo meno tra finanziamenti finalizzati all'acquisto di un bene e finanziamenti finalizzati alla costituzione di scorte monetarie, mentre l'unica cosa che ho potuto vedere dalla notizia è che i richiedenti appartengono alle classi centrali di età, le due che vanno dai 25 ai 45 anni, a dimostrazione che le classi di età più anziane hanno una minore propensione all'indebitamento, in particolare nei confronti di questo tipo di finanziamenti a tassi normalmente non leggeri erogati dalle finanziarie di ogni ordine e grado.
In un brillante articolo, Nicola Porro, giornalista e intrattenitore televisivo, ha illustrato i risultati di una ricerca di ImpresaLavoro sulle perdite subite dagli azionisti, e, nel caso delle quattro banche tecnicamente fallite a novembre dello scorso anno, anche dai risparmiatori, a partire dall'inizio della tempesta perfetta nell'agosto del 2007, e ne viene fuori una cifra mostruosa di 210 miliardi di euro così ripartito: 150 miliardi di minor valore delle azioni per le 17 banche quotate in Borsa, 50 miliardi di aumenti di capitale delle stesse e 10 miliardi circa tra le quattro banche di cui al decreto governativo del 23 novembre 2015 e il resto ascrivibile alle Banca Popolare di Vicenza, mentre mancano all'appello nello studio citato le perdite legate a Veneto Banca, con relativo aumento di capitale da un miliardo e il miliardo richiesto dal Banco Popolare di Verona, entrambi richiesti ultimativamente dalla vigilanza della Banca Centrale Europea, insieme a tante altre misure da adottare in concomitanza.
Pur trattandosi di cifre mostruose, va tuttavia detto che i rischi per i risparmiatori legati alle banche italiane non finiscono qui, in quanto, come ricordavo in una recente puntata del Diario della crisi finanziaria, secondo uno studio della Banca d'Italia, sono esposti a rischio bail in più di 400 miliardi di euro tra obbligazioni non garantite e, per 225 miliardi, da depositi oltre la soglia dei 100 mila euro, questi garantiti da uno sforzo cooperativo delle banche sopravvissute al salvataggio dall'interno di una o più di loro mediante il Fondo interbancario di garanzia, Fondo che al momento ha in cassa solo quanto serve a far fronte ai rimborsi degli obbligazionisti di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, ma che avrebbe qualche difficoltà a reperire i fondi se il default riguardasse qualche big del settore o un fenomeno di fallimenti a catena.
Vorrei sommesamente ricordare che la strada del passato per il rafforzamento del settore creditizio, quella che ha visto fondersi nelle due più grandi banche del sistema, Unicredit e Intesa-San Paolo, decine e decine di banche e casse di risparmio di ogni dimensione, non ha dato grandi frutti, anche perché ci sono voluti tempi lunghissimi per rendere efficienti qusti carrozzoni ed ora, quindi, il Governo pensa di percorrere la strada degli sgravi di costi, in primis di quelli relativi al personale, per un ammontare pari a 30-40 mila unità, come sta già avvenendo, in vista della fusione con la Banca Popolare di Milano, al Banco Popolare di Verona e Novera che ha appena annunciato 1.800 esuberi di personale.
L'altra strada, quella dell'aggressione della massa da 360 miliardi di euro dei Non Performing Loans, richiederà molto più tempo e l'adozione di misure molto più coraggiose di quelle intraprese sinoad ora con il Fondo Atlante e con lo schema di garanzia dei pacchetti senior di sofferenze delle banche elaborato dal ministero dell'Economia.
Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria alle vicende della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, due banche che sono un vero e proprio ricettacolo di Non Performing Loans (una sigla che rappresenta i crediti deteriorati che ha come sotto insieme le sofferenze lorde e, al netto delle verifiche, le sofferenze nette) con un incidenza sugli impieghi vivi e sul patrimonio a livelli stellari, per poi affrontare il problema rappresentato dal Monte dei Paschi di Siena che, con i suoi 40 miliardi di euro circa di Non Performing Loans, è davvero la grande malata nella pattuglia di vertice delle banche italiane e, tramite l'acquisizione di Antonveneta, è una delle banche leader di questa disgraziata regione dell'Italia, ma ho finito per dimenticare un gigante a livello regionale come il Banco Popolare di Verona, banca che sta per fondersi con la banca Popolare di Milano, come in precedenza aveva fatto con la Popolare di Novara.
Ebbene, la somma degli NPL delle quattro banche non è lontana da quella che caratterizza quella delle banche di una nazione europea di medie dimensioni ed è considerata con grande attenzione, e lettere ultimative, da parte delle donne e degli uomini alle dipendenze del capo della vigilanza presso la Banca Centrale Europea, organismo che ha imposto aumenti di capitale per complessivi 3,75 miliardi di euro, il primo dei quali, quello da 1,75 miliardi, della Banca Popolare di Vicenza è andato notoriamente deserto e ha costretto il neonato Fondo Atlante (mentre il comitato direttivo di Borsa italiana dichiarava l'inammissibilità alla quotazione dell'azione nei mercati regolamentati) a immobilizzare in questa singola banca la metà delle sue disponibilità volte a tale scopo, mentre Veneto Banca ha chiesto tempo per il suo aumento da un miliardo e, per il Banco Popolare, i non lusinghieri dati di bilancio e l'annuncio ufficiale dell'aumento di capitale da un miliardo hanno spinto l'azione a registrare mercoledì una perdita del 15 per cento (poi limata a poco più del 9 per cento in chiusura.)
E' evidente che da una situazione del genere non si esce con misure normali e che le tre banche con sede legale nella regione richiedono una cura di cavallo, che, per il Banco Popolare, coinvolgerà inevitabilmente anche la sposa Banca Popolare di Milano, una cura che passerà attraverso un radicale taglio dei costi operativi, leggi costi del personale, multiplo di quella sensibile sforbiciata prevista dal Governo a livello nazionale, un taglio che comunque non basterà se non verranno adottate misure altrettanto straordinarie sul fronte dei Non Performing Loans per le quali Atlante non ha i mezzi e le misure previste dal Governo sono solo parzialmente applicabili, in quanto riguardano solo gli NPL di buona qualità e ho proprio l'impressione che da queste parti di crediti incagliati di categoria senior ve ne siano non tanti!
Dopo una ripresa effimera dopo l'annuncio della costituzione del Fondo Atlante guidato da Alessandro Penati, economista prestato alla finanza, è ripresa quella corsa allo squarciamento delle quotazioni in borsa dei titoli elle principali banche italiane, con Monte dei Paschi di Siena che dopo aver sostato nella parte bassa della soglia dei 70 centesimi ora si ritrova nella parte alta della quota dei 50 centesimi e Unicredit che dopo aver rivisto a portata di mano i 4 euro, ora si trova a lottare per tornare a quella dei 3 euro, per non parlare poi delle promesse spose, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, con la prima alle prese con un periglioso aumento di capitale da un miliardo di euro e la seconda che la segue a ruota nei ribassi sempre più consistenti.
Da questo macello si salva in qualche modo Intesa-San Paolo che, tra alti e bassi, rispetto all'inizio di quest'anno, permane nell'area dei due euro. Ma, a livello di sistema, siamo di nuovo a un calo delle quotazioni del 40-50 per cento rispetto a quelle registrate nel mese di dicembre che erano già in sensibile calo rispetto ai massimi toccati nella prima parte del 2015.
Certo, ha pesato il fallimento del tentativo di quotare in borsa la alquanto disastrata Banca Popolare di Vicenza e il ribaltone con vero e proprio ritorno al passato di Veneto Banca, con una nuova maggioranza raccogliticcia e inquinata dalla presenza di grandi debitori, spesso insolventi, della banca con sede a Montebelluna e con il nuovo consiglio di amministrazione che ha dovuto chiedere più tempo per procedere all'aumento di capitale da un miliardo di euro, ma anche il Monte dei Paschi di Siena che tanti crediti problematici ha ereditato dall'acquisita Antonveneta, tuttavia il buco nero delle banche venete o assimilate si riverbera su tutto il sistema bancario italiano per una serie di ragioni che tratterò di volata. Tra le banche venete, ho colpevolmente dimenticato Il Banco Popolare di Verona che ieri in borsa ha perso fino al 15 per cento per i conti in rosso e l'aumento di capitale richiesto dalla BCE.
La prima riguarda proprio il neonato Fondo atlante, con una dotazione di 4,2 miliardi di euro, quasi due in meno rispetto agli annunci, che ne ha 1,5 miliardi già immobilizzati in Banca Popolare di Vicenza e della quale si accorgerà ben presto che sarà molto difficile procedere a un a forte ristrutturazione. Ebbene, secondo fonti autorevoli, la parte del fondo dedicata agli aumenti di capitale è pari a 3 miliardi e ve ne sono in vista altri due per almeno 2 miliardi, quindi, le munizioni del fondo a questo scopo sono pressoché esaurite, mentre ne restano 1,2 miliardi per affrontare il problema dei Non Performing Loans (360 miliardi di euro circa) delle martoriate banche italiane, con la evidente conclusione che il Fondo Atlante è oramai bello che esaurito!
Agli investitori che hanno investito ai tempi d'oro nelle banche italiane non resta dunque che allacciare le cinture di sicurezza e sperare in tempi migliori.
Dopo essere stata indagata e multata per quasi tutto quello che una banca davvero globale può fare e in attesa per il processo che si terrà in Gran Bretagna dove, sulle manipolazioni dell'URIBOR sono indagati sette suoi top manager, ora il colosso tedesco è sotto indagine, presso la procura di Trani, per manipolazione di mercato, avendo venduto nel 2011 quasi tutti i BTP italiani in suo possesso proprio mentre consigliava ai suoi clienti di tenerli sia per la solidità dei conti pubblici italiani, sia perché lo spread tra questi e i Bund tedeschi era tutto sommato a valori limitati tra i 100 e i 200 punti base.
La vendita avvenne massicciamente nel primo trimestre del 2011, regnante Silvio Berlusconi e mentre al timone del ministero dell'Economia era Giulio Tremonti, l'uomo che ha svolto quell'incarico per ben tre volte, senza però lasciare grande traccia di sé, se non per i forti e frequenti contrasti con il suo capo di allora.
I fatti successivi sono noti a tutti, perché la mossa di Deutsche suonò come un campanello di allarme nelle sale operative all over the world e tutte le banche più o meno globali si misero a vendere i BTP italiani con il risultato che lo spread cominciò a salire inesorabilmente sino a raggiungere un picco a 576 punti base e costrinse Berlusconi a dimettersi per lasciare il posto ad un uomo della Trilateral ed espressione dei poteri forti italiani europei che adottò un programma lacrime e sangue senza neanche l'intervento della Troika, Fondo Monetario Internazionale-Banca Centrale Europea-Unione europea,, tanto anticipò i desiderata di questo organismo, in alcuni casi, vedi la riforma Fornero, li superò, portando il nostro sistema previdenziale ad essere tra i più sostenibili dell'Unione europea e frustrando al contempo le attese di milioni di italiane e di italiani che si credevano allora prossimi alla pensione.
Questi sono i fatti e, per chi potesse dubitare della mia fede antiberlusconiania invito a leggere il lungo pamphlet dal titolo Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, recentemente ripubblicato sul Diario della crisi finanziaria, ma non posso non considerare il fatto che con una manovra delle banche globali europee, banche legate a doppio filo con i rispettivi governi, è stata decretata la fine di un Governo, per quanto pessimo, regolarmente eletto.
Non so quante e quali carte abbia a disposizione l'attivissima procura di Trani, anche perché è noto che il pool dei reati finanziari della procura di Milano ha lasciato cadere la cosa, ma certo ci sarà da divertirsi nel prosieguo di un indagine che vede indagati l'ex presidente Ackermann e altri uomini al vertice di Deutsche!
Come responsabile dell'ufficio studi di un sindacato del settore finanziario ho scritto decine di pagine su quelle che allora chiamavamo pressioni commerciali esercitate dai vertici sui dipendenti delle banche che avevano l'ingrato compito di piazzare a ignari clienti delle banche, ma anche nelle compagnie di assicurazioni non si scherza, prodotti più o meno a rischio di ogni genere e natura, prodotti che spesso hanno rovinato più di un malcapitato e hanno certamente messo a rischio la reputazione di più di una banca.
Non mi ha stupito dunque quanto è emerso ieri nel corso delle indagini sul crac di Banca Etruria, una delle quattro banche salvate dal Governo nel novembre dell'anno scorso con la prima applicazione del micidiale meccanismo del bail in che ha visto l'azzeramento del valore delle azioni, delle obbligazioni e dei depositi per la soglia oltre i 100 mila euro, un applicazione in anticipo di mesi sull'introduzione delle nuove procedure di risoluzione e che tanto è costato in borsa ai titoli dell'intero settore finanziario, è emerso, dicevo, che, secondo gli inquirenti della procura di Arezzo, esisteva nell'ambito della banca una cabina di regia volta a vendere anche ai piccoli risparmiatori, anzi in prevalenza a loro, decine e decine di milioni di euro di bond subordinati, quelli appunto più a rischio se le cose si fossero, come poi è puntualmente accaduto, messe male!
Con singolare tempismo, sempre ieri Giuseppe Vegas, presidente della CONSOB, l'organismo che dovrebbe appunto vigilare sul fatto che cose del genere non accadano, ha detto, nella sua relazione annuale, due cose: la prima è che i risparmiatori erano perfettamente informati, la seconda è che l'organismo da lui presieduto ha fatto (sic) tutto quello che doveva fare in questa circostanza, dimenticando che era stata emanata una disposizione che autorizzava le banche a non inserire più nei prospetti le simulazioni che indicavano esattamente i rischi connessi con gli stessi bond subordinati offerti ai risparmiatori e dimenticando, altresì, quello che era già emerso anche nei mesi scorsi su quanto era avvenuto in moltissimi casi, quando i risparmiatori erano stati volutamente raggirati in sede di sottoscrizione dei bond medesimi.
Non c'è, quindi, da meravigliarsi se, pur in un quadro di debolezza dell'intero sistema bancario europeo, le banche italiane quotate in borsa stiano soffrendo dall'inizio di questo anno disgrazia 2016 in modo ampiamente supplementare e i guai delle due non quotate venete hanno determinato l'azzeramento di fatto del valore delle loro azioni, con Veneto Banca che ha dovuto far slittare di una settimana le procedure per l'aumento di capitale.
Mi ponevo ieri l'interrogativo sulla solidità del sistema bancario italiano e credo proprio che vicende come queste, e soprattutto i retroscena delle stesse, non aiutino di certo!
Dal settembre del 2007 ho tenuto il diario di bordo del sistema finanziario all over the world sommerso dagli alti mari della tempesta perfetta nelle sue tre fasi principali, della quali la terza, quella che stiamo vivendo a partire dai mesi a cavallo del capodanno di questo anno di disgrazia 2016, risulta a mio avviso la più pericolosa e spero di averlo spiegato nelle puntate con le quali ho dato il via alla ripresa del Diario della crisi finanziaria dopo tre anni di voluto silenzio, e, in tutte e tre queste perigliose congiunture, ho sentito sempre un mantra dalle autorità monetarie e da quelle politiche italiane e questo mantra recitava che il sistema italiano era solido e per questo non era stato necessario ricorrere alle massicce ricapitalizzazioni facilitate dalla mano pubblica che in altri paesi europei avevano salvato i rispettivi sistemi creditizi e finanziari dal collasso; ma quanto c'è di vero in questo ritornello che non diventa più reale solo perché è stato ripetuto fino alla noia da governi di destra e di centro sinistra che si sono succeduti alla guida del nostro Paese?
Se la vigilanza sul sistema creditizio italiano fosse ancora attribuita alla Banca d'Italia, sottoscriverei questa apodittica affermazione, ma sin dal 2014 le cose in materia sono radicalmente cambiate e la vigilanza sulle banche dell'eurozona è stata attribuita all'ex responsabile della vigilanza della Banca di Francia, Daniéle Nouy, che si avvale come braccio operativo di Frau Koening e che, dopo una fase relativamente breve di studio, ha fatto chiaramente chiarito con gli atti e con le interviste che l'aria era radicalmente cambiata e che le banche dovevano rapidamente attenersi alle prescrizioni delle draft con cui si intima, pena ricorso alla procedura di risoluzione, di riportarsi su parametri europei per quanto riguarda l'adeguatezza patrimoniale e la massa dei Non Performing Loans espressi in percentuale dei crediti sani che, per le banche italiane, è attualmente intorno a valori doppi se non tripli di quelli della media dell'eurozona.
Ovviamente, una pulizia, anche non radicale, dei bilanci delle banche italiane che, seppure a fatica, hanno superato gli stress test della Banca Centrale Europea nella passata edizione (mentre per la prossima si attende a breve il risultato) comporterà, nella maggior parte dei casi, di procedere ad aumenti di capitale necessari per restare nell'ambito dei parametri patrimoniali imposti e che, in alcuni casi, possono essere aumentati fino a valori intorno al 20 per cento, come si vocifera per un importante gruppo creditizio nostrano.
Ma quello che preoccupa davvero è lo stato delle casse del Fondo interbancario dei depositi, ossia l'organismo che deve garantire i depositi fino alla ormai arcinota soglia dei 100 mila euro, che pochi giorni fa, per bocca del suo direttore, ha dichiarato che i 300 milioni in cassa sono tutti impegnati per le obbligazioni subordinate delle quattro banche medie tecnicamente fallite e che le disponibilità precedenti sono state interamente utilizzate per garantire, appunto, i depositi di quelle stesse banche nella soglia garantita dei 100 mila euro. Ricordo sommessamente che, secondo la Banca d'Italia, i depositi fino a 100 mila euro a livello di sistema sfiorano i 500 miliardi di euro e non oso immaginare cosa accadrebbe se ad andare in procedura di risoluzione fossero una o più banche di grandi o grandissime dimensioni!
Al termine di una lunghissima e infuocata assemblea, gli azionisti hanno eletto con una maggioranza che sfiora il 60 per cento la lista antagonista a quella del presidente Bolla e che esprimeva anche l'attuale amministratore delegato Carrai, lista che ha ottenuto il 37 per cento, e ha dato, quindi, all'avvocato Stefano Ambrosini, ex commissario straordinario dell'Alitalia, la carica di presidente della disastrata Banca Veneta e dodici posti nel nuovo consiglio di amministrazione della banca.
La sorpresa è aumentata dal fatto che da parte degli uomini e delle donne della vigilanza presso la Banca Centrale Europea c'era stato nei giorni scorsi un intervento a banca tesa che ammoniva che sarebbero stati esaminati con grande rigore i requisiti di professionalità e onorabilità degli eletti nel nuovo consiglio di amministrazione della banca veneta, lasciando trasparire il sospetto, espresso a gran voce dall'ormai ex presidente Bolla che ha dichiarato che le due liste che appoggiavano Ambrosini erano infarcite di clienti della banca che dovevano alla stessa una cifra complessiva nell'ordine di centinaia di milioni di euro (938 di cui 738 a vario titolo a rischio e spesso concessi senza garanzie) crediti per i quali in molti casi non si sarebbe proceduto, nella molto discussa gestione Consoli precedente a quella di Bolla, con la solerzia e l'impegno dovuti ad un'attività di recupero crediti.
Ho scritto più volte in queste settimane delle due alquanto traballanti banche venete, ma, mentre per la Banca Popolare di Vicenza c'è la soluzione rappresentata dal Fondo Atlante che ha investito un miliardo e mezzo di euro per entrare in possesso del 99,33 per cento del capitale e rivolterà quella banca come un calzino, nel caso di Veneto Banca quello che si apre, per usare le parole del neo presidente Ambrosini è un percorso ad ostacoli da compiere per di più avendo lo status di "vigilati speciali" da parte della ben poco accomodante vigilanza della BCE che controllerà le loro mosse passo passo, in particolare in vista di quell'aumento di capitale da un miliardo di euro per il quale la CONSOB ha inviato ieri una lettera nella quale si intima alla banca di avviare le procedure entro una settimana.
Se la regione Veneto fosse una nazione, il suo sistema bancario sarebbe già bello che fallito, ma per fortuna fa parte dell'Italia che, a sua volta, è nell'Unione europea e nell'eurozona, ma se i nuovi amministratori di Veneto Banca si illudono di avere sconti hanno fatto male i loro conti, perché non è più tempo di queste manovre all'italiana, spesso orchestrate per evitare che si riesca finalmente a scoprire gli scheletri nell'armadio.
Forse solo in Veneto poteva capitare che due grandi produttori di vino, Zonin e Bolla, avessero un ruolo di così grande rilievo nel mondo del credito, solo che il primo viene accusato da più parti di aver portato la sua banca sull'orlo del baratro, mentre il secondo ha cercato in tutti i modi di salvare il salvabile!
Come uno di quei fastidiosi mal di stagioni, torna ad esplodere la crisi greca, una nazione oppressa da un debito pubblico che, espresso in percentuale del prodotto interno lordo, non ha paragoni in Europa, nonostante la massiccia tosatura avvenuta pochi anni orsono per 100 miliardi di euro e che ora è alle prese con i mancati impegni nei confronti della Troika, Fondo Monetario Internazionale-Unione Europea-Banca Centrale Europea, impegni molto duri, in particolare sul caldissimo fronte della riforma delle pensioni, e che potrebbero pregiudicare la concessione della terza tranche di aiuti, fondamentali per ripagare i creditori per qualche miliardo di euro nel prossimo mese di luglio e, in assenza dei quali, si potrebbe verificare una situazione di default del debito pubblico dello stato ellenico.
Ho volutamente evitato di esprimere giudizi sull'operato della Troika in questi anni, anni che hanno catapultato un partito alquanto inesperto come quello di Tsipras al potere ad Atene, e non l'ho fatto anche perché bastano e avanzano le critiche espresse da due economisti dello stesso Fondo Monetario Internazionale in un paper che ha avuto risonanza mondiale e nel quale si mettono in evidenza i nessi tra la politica di austerità a dosi massicce e la recessione profonda in cui le stesse hanno precipitato l'economia greca, con costi sociali difficilmente quantificabili ma tremendi, così come si è visto che hanno contribuito a peggiorare gli stessi saldi di finanza pubblica. Insomma una cura peggiore del male!
Ma c'è una considerazione che indurrebbe i diversi soggetti chiamati al capezzale della Grecia a fare uno sforzo aggiuntivo ed è dato dall'approssimarsi della scadenza, il 23 giugno prossimo, del referendum sull'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea, e questo Tsipras, che sarà non esperto ma è molto, ma molto abile, lo sa e non è un caso che stavolta sia lui a fare fuoco e fiamme perché si tenga un vertice dei capi di Stato e di Governo per discutere le sue richieste in merito ai diktat della Troika, così come non è un caso che la Merkel stia facendo di tutto per non concedergli questa chance, non bastando più l'abbaiare del suo cane da guardia, il ministro tedesco delle finanze, Schauble che ha impedito ai ministri dell'economia e delle finanze dell'eurogruppo di discutere le richieste greche.
Per quanto riguarda la Brexit, non è bastato il fermo endorsment del presidente Obama in favore delle posizioni di quanti vogliono restare nell'Unione europea, in quanto l'autorevolezza del primo ministro Cameron è fortemente minata dal suo coinvolgimento nei Panama Papers, ma, nonostante questo, ha parecchie frecce al suo arco per vincere in questa difficilissima competizione referendaria.
Mai una missiva della vigilanza BCE è giunta più gradita ai vertici di una banca sorvegliata ed è questo il caso della lettera di Francoforte giunta ieri a Veneto Banca, l'alquanto disgraziata banca di una regione che sembra proprio avere un rapporto tormentato con il credito per le gestioni passate che hanno reso quelle banche le madri di tutti i crediti deteriorati, spesso crediti elargiti agli amici degli amici che erano anche azionisti della banca stessa determinando un corto circuito esiziale per la salute delle banche stesse.
Ho scritto in diverse puntate passate del Diario della crisi finanziaria che questa prassi sta affossando le due banche con sede legale nella regione veneto, La dissestata Banca Popolare di Vicenza che ha subito lunedì scorso l'affronto di vedersi rifiutata la quotazione nei mercati regolamentati da parte del comitato direttivo di Borsa italiana e ha reso necessario un intervento da un miliardo e mezzo di euro da parte del neonato fondo Atlante, Veneto Banca, appunto, e la costola veneta del Monte dei Paschi di Siena, sì quell'Antonveneta che tanti lutti addusse ai senesi e che ha determinato l'uscita di fatto dell'omonima fondazione con sede a Rocca Salimbeni dall'azionariato di una banca che un tempo controllava completamente.
Ma veniamo ai fatti. Ieri il presidente di Veneto Banca, Pierluigi Bolla, il capo della cordata di risanatori dell'istituto di credito, ha tenuto una soddisfatta conference call per rendere noto di aver ricevuto una lettera della vigilanza BCE che ha puntualizzato che vigilerà sui requisiti professionali e di onorabilità dei candidati al consiglio di amministrazione della banca in vista dell'assemblea del 5 maggio che dovrà, appunto. procedere al rinnovo delle cariche sociali.
Anche se la BCE non fa esplicitamente nomi e cognomi, il pensiero di tutti è andato alle due liste Per Veneto Banca e Azionisti di Veneto Banca, due associazioni che esprimono 51 persone indebitate con la banca per 510 milioni di euro, e si tratta in prevalenza di crediti deteriorati, crediti per i quali le passate gestioni non avrebbero fatto i passi necessari per ottenere il recupero del dovuto, quindi, hanno tutto l'interesse a interrompere il processo di risanamento avviato da Botta.
Quello di ieri rappresenta l'ennesimo caso di vigilanza tempestiva e puntuale da parte delle donne e degli uomini agli ordini di Madame Nouy, un'attività di vigilanza che oscura quella esercitata a suo tempo dalla Banca d'Italia e dalle altre banche centrali nazionali dell'area dell'euro!
C'era molta attesa per quello che avrebbe deciso ieri il comitato direttivo di Borsa italiana in merito alla richiesta di ammissione ai mercati regolamentati della Banca Popolare di Vicenza appena trasformata in società per azioni e con l'ombrello del neonato Fondo Atlante che si era impegnato a rilevare il 92 per cento dell'offerta ad un prezzo che, molto irrealisticamente, era stato fissato in una forchetta compresa tra i 10 centesimi e i tre euro ad azione e che ieri, in sede di bocciatura, è stata fissata a 10 centesimi appunto, con buona pace degli azionisti che le aveva in carico a 62 euro e che non rivedranno mai i loro soldi pur non essendo stata assoggettata la loro banca alla procedura di bail in e non si sa, al momento, quale sarà la sorte degli obbligazionisti semplici e subordinati.
La decisione negativa di Borsa italiana all'ammissione dell'azione della Banca Popolare di Vicenza era prevedibile, perché si sapeva benissimo che il flottante, ossia il quantitativo di azioni disponibili per le operazioni di compravendita sarebbe stato inferiore a quel 25 per cento richiesto dall'attuale normativa.
In risposta alla decisione dell'organismo di gestione di Borsa italiana, il Fondo Atlante ha comunicato che porterà la sua sottoscrizione dell'aumento di capitale, l'unico capitale della banca perché il resto è praticamente bruciato, al 99,33 per cento restando il residuo a un pugno di azionisti preesistenti e ristrutturerà l'istituto vicentino avendo le mani completamente libere da lacci e laccioli derivanti da minoranze azionarie, una situazione che era stata largamente prevista da Alessandro Penati e dai suoi collaboratori che, non a caso, nei giorni scorsi avevano già fatto presenti le loro intenzioni di rivoltare la banca come un calzino per portarla poi molto probabilmente a una fusione con qualche istituto più in salute, riuscendo, per soprammercato, a realizzare una plusvalenza stimabile in qualche centinaia di milioni di euro.
Si riapre anche la spinosa questione della mancata azione di responsabilità nei confronti dei precedenti amministratori, segnatamente l'ex presidente della banca, Gianni Zonin, un uomo che, per giudizio pressoché unanime dei suoi alquanto infuriati concittadini, ha distrutto il capitale dell'istituto in una presenza ventennale ai suoi vertici. I vertici attuali non hanno sponsorizzato l'azione che è infatti stata bocciata dall'assemblea, ma i nuovi azionisti molto probabilmente non guarderanno in faccia a nessuno.
Ora rimane aperta la questione dell'aumento di capitale di Veneto Banca, aumento che non è garantito dal Fondo Atlante, ma continua ad essere sulle spalle di Banca Intesa-San Paolo i cui vertici da stasera hanno davvero poco da stare allegri in vista di giungo, mese nel quale sarà valutata quell'operazione da parte, oltre che della CONSOB, ancora una volta da parte del comitato direttivo di Borsa italiana.
In un recente studio, la Banca d'Italia "misura" il rischio dei risparmiatori italiani rispetto all'ipotesi di bail in degli istituti di credito dei quali gli italiani, o anche gli stranieri residenti, sono azionisti, obbligazionisti o depositanti per la parte del deposito che supera la soglia dei 100 mila euro, una cosa che si sapeva, ma della quale si ignoravano le dimensioni che, espresse in lire, sono nell'ordine di qualcosa di più di 800 mila miliardi e che dimostrano come alcuni deflussi di capitale dalle banche siano dovuti da un lato alla propensione dei risparmiatori ad emigrare verso quelli che, a torto o a ragione, vengono considerati porti sicuri, cioè banche di maggiore affidabilità e solidità patrimoniale, mentre dall'altro alla nuova tendenza di spezzettare i depositi tra più istituti in modo da rimanere per ognuno di essi al di sotto della fatidica soglia dei 100 mila euro.
Scendendo nel dettaglio, scopriamo che la somma dei depositi al di sopra dei 100 mila euro è stimatia da Via Nazionale in 225 miliardi di euro, le obbligazioni non garantite sono pari a 173 miliardi, mentre le obbligazioni subordinate sono nell'ordine dei 29 miliardi, un dato in calo dopo le tristi esperienze delle quattro banche salvate in novembre dal Governo, ma con la prima applicazione del bail in che ha comportato perdite per centinaia di milioni di euro a carico dei detentori delle tre categorie di attività finanziarie colpite dalla nuova normativa che invano Governo e Banca d'Italia stanno cercando di addolcire in sede europea.
Ma la vera notizia sta nel fatto che, rispetto al 2011, gli strumenti di debito bancario sono calati da 1.017 miliardi di euro a 921 miliardi, complice un vero e proprio crollo delle obbligazioni bancarie non garantite passate, nel breve volgere di quattro anni, da 341 a 173 miliardi di euro, un deflusso che solo in piccola parte si è dirottato verso le altre forme di debito bancario, veleggiando quindi per altri lidi (molto probabilmente, verso l'investimento in titoli di Stato, azionario non bancario e fuga di capitali all'estero), anche se c'è un significativo aumento dei depositi entro la soglia dei 100 mila euro, segno che lo spezzettamento dei depositi sta avvenendo.
E' in questo quadro che si inserisce l'azione della nuova vigilanza europea, un'azione che non lascia nessuna banca italiana, a prescindere dalla dimensione, al riparo dagli strali delle donne e degli uomini capitanati da Daniéle Nouy che possono in ogni momento, tramite una semplice lettera, avviare quel percorso che, in casi estremi, può portare alla risoluzione della banca sotto esame, con conseguente applicazione delle drastiche misure previste dal nuovo meccanismo che vede colpiti per primi azionisti, obbligazionisti di ogni tipo e depositanti per la soglia, come ho ripetuto più volte,, superiore ai centomila euro.
Il fatto che una quota di poco superiore al 10 per cento della ricchezza finanziaria degli italiani sia oggettivamente a rischio non significa che si aprono scenari apocalittici, ma è soltanto un esercizio statistico della nostra banca centrale che ha diviso i 921 miliardi di euro di strumenti di debito bancario tra i 427 non garantiti e i 494 miliardi che invece, per fortuna dei loro possessori, sono garantiti (verrebbe da dire che, se si verificasse un crisi sistemica, sarebbe ben difficile garantire alcunché)
Se anche un banchiere centrale navigato come il tedesco Weidman non ha timori a sposare le istanze del tedesco medio, meglio se pensionato, che lamenta che dal suo conto corrente o dal suo investimento in Bund, il decennale tedesco, non ricava più nulla e paga solo spese, vuol dire che il tema dei tassi zero sui depositi e il rendimento prossimo a zero del Bund sono questioni molto sentite dai suoi concittadini, in particolare da quelli, come i pensionati, che non godono degli innegabili vantaggi che la politica della Banca Centrale Europea sotto la guida di Super Mario ha portato per i mutui, sia quelli esistenti a tasso variabili (con l'euribor ormai sottoterra), sia per quelli nuovi a tasso fisso che sono a livelli mai visti in passato.
Quella che si intravede in Germania, ma non solo, è quindi una sorta di conflitto generazionale e sociale, che vede sui due lati della barricata gli anziani da un lato e i giovani e le imprese dall'altro e che ha spinto il governo della signora Merkel a compiere un passo anche esso inusitato, alzando d'un colpo le pensioni del 4,7 per cento nella parte Ovest del paese e di oltre il cinque per cento nelle regioni che un tempo facevano capo all'ex Repubblica Democratica Tedesca, aumenti non giustificati dall'inflazione inesistente ma da preoccupazioni meramente elettorali che vedono accomunati sia la CDU-CSU che i socialdemocratici e che non dispiacciono anche ai partiti di opposizione.
Lasciamo la Germania alle sue ambasce da paese ricco e veniamo alle altre aree dell'eurozona, con particolare riferimento a quella del Sud, e vediamo che non si registrano proteste né nel mondo delle imprese, né in quella dei risparmiatori, né tantomeno in quella degli Stati che stanno beneficiando di risparmi sul debito emesso a partire dal quantitative leasing sempre più aggressivo deciso da Super Mario che è riuscito a portare dalla sua la quasi totalità dei membri del direttivo, Widman escluso naturalmente.
Il perché è presto detto, in quanto tutti i soggetti stanno realizzando guadagni da questa politica, esclusi ovviamente i pensionati che oltre al deposito bancario non hanno mutui, ma vi è una maggiore consapevolezza che a livello paese vi è un risultato positivo da questa coraggiosa manovra intrapresa da Francoforte.
L'unico neo è dato dalla scellerata politica di apertura al rischio adottata dal ministero dell'economia italiano sotto forma di contratti di derivati di tassi, contratti che sono costati, nel 2015, 6,8 miliardi di euro, un importo che si è "mangiato" il risparmio di 5 miliardi di euro derivante dal bassissimo livello dei tassi sui titoli pubblici di nuova emissioni, un importo non molto diverso da quello che i derivati sono costati negli anni precedenti e che sarà azzerato solo quando i tassi risaliranno e di molto!
Guardavo l'altro giorno le statistiche sul prodotto interno lordo dei maggiori paesi dell'orbe terraqueo e mi ha colpito l'assenza dell'Unione europea, ignorata dai redattori della lista stessa proprio come se, come accadeva all'Italia di tanto tempo fa, fosse poco più che un'espressione geografica e non un insieme di paesi che ospitano complessivamente 500 milioni di abitanti e che produce un PIL che, nel 2015, supera quello cinese di 2 mila miliardi di dollari ed è dietro soltanto ai potentissimi Stati Uniti d'America .
Ma quale è il motivo di questa irrilevanza che si moltiplica quando si passa a temi quali quello della politica estera e della difesa? Non è solo, e non è tanto, nelle posizioni degli euroscettici, un insieme che accomuna forze politiche e sensibilità molto diverse tra di loro, ma sta nelle posizioni di buona parte dei leaders politici dei paesi membri, che, fatta la moneta unica e fatti progressi in direzione dell'unione bancaria, non sembrano assolutamente disposti a cedere ulteriori fette di autonomia e si rinserrano pervicacemente nei loro confini sempre più circondati dagli stessi muri che erigono contro la marea umana dei migranti che al momento e sulla base delle esangui tendenze demografiche sembrano più una risorsa che una criticità, come insegnano le esperienze vincenti della Gran Bretagna e della stessa Germania, per non parlare della Francia post coloniale.
Chi pensa che un eventuale successo del referendum del 23 giugno sulla Brexit sia in realtà una questione di poco conto e afferente esclusivamente agli abitanti di quella che in tempi antichi veniva denominata Albione commetterebbe un tragico errore, perché si può discutere sull'impatto economico negativo che l'uscita della Gran Bretagna potrà avere sugli abitanti di quelle terre, ma quello che è certo è che da quella scelta verrebbero spinte all'uscita di tanti altri paesi dell'Unione i cui governanti strizzano apertamente l'occhio alle spinte nazionalistiche e a quelle pulsioni che definire euroscettiche rischia di essere sempre più un tragico eufemismo.
Non è un caso che il presidente degli Stati Uniti d'America, una nazione con un'opinione dei decision makers non proprio favorevole all'Unione europea, si stia spendendo con vigore perché la Brexit fallisca, perché, al di là delle ricorrenti divergenze su quasi tutti i temi, avverte la necessità di un interlocutore che parli con una lingua sola su temi non secondari quali la finanza, la lotta al terrorismo jadista,il rapporto con Russia e Cina, la difesa e le questioni che compongono ogni giorno l'agenda dei potenti della terra!
Ma la posizione tedesca di chiusura sulle richieste della Grecia per poter accedere alla terza tranche di aiuti a suo tempo concessi dalla Troika, Fondo Monetario Internazionale-Unione europea-BCE, rischia di determinare a luglio un default del debito pubblico del paese ellenico e potrebbe creare le condizioni per una Grexit dall'euro.
Voucher digitalizzazione 2016 per le piccole e medie imprese per l'acquisto di computer, pc, hardware. Finalmente a quasi 2 anni dall'entrata in vigore del bonus imprese con il Decreto Destinazione Italia e da quasi un anno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del relativo decreto, con molta probabilità, il beneficio potrebbe partire da gennaio 2016. Di seguito tutte le informazioni su cos'è e come funziona l'agevolazione, quali sono le spese ammissibili, come e quando presentare la domanda e soprattutto quali sono i requisiti che le piccole e medie imprese devono possedere per partecipare al bando e fruire del contributo economico fino a 10.000 euro.
Voucher digitalizzazione 2016 PMI: bonus imprese.
I voucher digitalizzazione 2016 PMI fino a 10.000 euro sono un'iniziativa introdotta dal decreto destinazione Italia, al fine di favorire la digitalizzazione delle micro e piccole e medie imprese. Il beneficio, consiste in un contributo economico, dato sotto forma di voucher di importo non superiore a 10.000,00 euro, da utilizzare per aumentare o per adottare interventi di digitalizzazione dei processi aziendali e di ammodernamento tecnologico. Per poter procedere, alla domanda dei voucher imprese da 10 mila euro le PMI dovranno attendere l'emanazione del provvedimento direttoriale da parte del Ministero dell'Economia e delle Finanze, che fisserà le modalità, termini, apertura per la presentazione delle domande, oltreché i requisiti e i moduli per accedere al beneficio, dal momento che la misura massima prevista del bonus è complessivamente di 100 milioni di euro. A quasi due anni dall'entrata in vigore dell'incentivo con il decreto Destinazione Italia, ma fino adesso mai utilizzato a causa della mancata approvazione da parte di Bruxelles del PON Imprese e Competitività 2014-2020, ovvero, l'approvazione ad utilizzare le risorse economiche previste dalla Legge di conversione, pare che la misura dei voucher digitalizzazione PMI 2016 partirà da gennaio, dato che il MEF renderà operativo lo sportello per le domande, solo ad inizio anno. Attenzione però, visto che l’operatività a valere sul PON è stata solo per il momento a favore delle imprese localizzate nelle 8 Regioni del Mezzogiorno, per cui Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, per quelle ubicate nelle regioni centro nord, si dovrà attendere invece lo sblocco delle risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione e del Fondo di rotazione, per le quali serve una delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), che speriamo possa arrivare in tempi molto rapidi.
Chi può presentare la domanda?
Le imprese e le aziende che possono fare domanda del Voucher da 10.000 euro 2016 sono: a) Micro, piccola o media impresa (MPMI) indipendentemente dalla loro forma giuridica, nonché dal regime contabile adottato; b) Non essere imprese la cui attività siano riconducibili a settori di produzione primaria di prodotti agricoli, della pesca e dell’acquacoltura; c) Avere sede legale e/o unità locale attiva in Italia (per ora solo nelle 8 regioni del Mezzogiorno) ed essere iscritte al Registro delle imprese; d) Non essere sottoposte a procedura concorsuale, fallimento, liquidazione anche volontaria, di amministrazione controllata, di concordato preventivo ecc.; e) Non essere beneficiarie di altri contributi statali per l'acquisto e servizi concessi dal voucher; f) Non essere soggette ad un ordine di recupero dichiarato dalla Commissione Europea per aiuti illegali.
Cos'è e come funziona il voucher imprese da 10.000 euro?
Il decreto Destinazione Italia è entrato in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto attuativo del 23 settembre 2014, dell’articolo 6, commi da 1 a 3, del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 che ha istituito, a favore delle micro, piccole e medie imprese, Voucher imprese fino a 10.000,00 euro per l’adozione di interventi di digitalizzazione interni all'impresa, ovvero, per l'acquisto di computer, pc, software e hardware. Il bando per accedere ai fondi, è già diventato legge ma si deve attendere l'emanazione del provvedimento ministeriale che conterrà tutte le informazioni e le modalità che le PMI dovranno seguire per presentare la domanda per accedere al bonus.
Ma cos'è e come funziona il voucher digitalizzazione PMI? A cosa serve?
Il decreto appena pubblicato GU, prevede la possibilità alle PMI di accedere a fondi finalizzati ad aumentare l'efficienza aziendale dal punto di vista digitale e tecnologico. Il voucher da 10.000 euro serve quindi per acquistare software, hardware o servizi che consentano alle micro, piccole e medie imprese di: migliorare l'efficienza aziendale; modernizzare l'organizzazione del lavoro con strumenti tecnologici, tali da consentire la messa in funzione di nuove forme di contratti e lavoro, come ad esempio il telelavoro; aumentare la produttività con e-commerce; garantire l'accesso al web con la banda larga e ultralarga; accesso alla rete internet attraverso il sistema satellitare, con l'acquisto e l'attivazione di decoder e parabole, in quelle aree geografiche in cui non arriva il segnale Adsl. Per la formazione del personale PMI nel campo delle telecomunicazioni ITC. Attenzione: I servizi sopra elencati, devono essere acquistati e adottati, solo dopo il riconoscimento e concessione del voucher.
Cosa serve e quali documenti occorrono per presentare istanza voucher PMI?
Le imprese per poter presentare la domanda devono avere obbligatoriamente una PEC valida e funzionante e la firma digitale del rappresentante o del delegato.
Quando va presentata la domanda?
I tempi e le modalità di erogazione del bonus imprese, sono definiti dal Ministero dell'Economia che con successivo e specifico provvedimento direttoriale definirà le tempistiche per la presentazione delle istanze per fruire di questa importante agevolazione. Una volta presentata la domanda, il Ministero, provvederà a verificare il possesso dei requisiti e le spese ammissibili descritte nell'istanza, dopodiché determinerà l'importo del voucher, cui ha diritto l'impresa beneficiaria. Come viene dato il contributo? L'importo del voucher viene erogato direttamente dal Ministero in un'unica soluzione, in base alla somma richiesta dall'impresa in sede di presentazione dell'istanza e concessa e approvata dal MISE.
Cause di revoca del contributo e perdita dell'agevolazione.
Le cause che possono determinare la revoca del contributo e quindi perdita totale o parziale dell'agevolazione, sono: Il mancato possesso da parte delle impresa di uno o più requisiti che determinano l'accesso al bonus, o perdita di una delle condizioni prevista per la fruizione e mantenimento del beneficio. Se a seguito di controlli formali, l'impresa risulta aver presentato una documentazione irregolare tale da non poter essere sanata o addirittura falsa. Se non vengono rispettati i termini e le modalità per la presentazione delle richieste di erogazione del voucher. Se interviene nel frattempo una procedura fallimentare aziendale dell'impresa beneficiaria. Il mancato rispetto del divieto di cumulo dello stesso tipo di agevolazioni. Per info scrivere a : Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Per un patto non scritto raggiunto prima della sua fondazione, la Germania ospita la sede della Banca Centrale Europea ma non ne esprime il presidente, carica ricoperta, nell'ordine, da un olandese, con esiti disastrosi, da un francese, il non troppo rimpianto Jean Claude Trichet e, the basta but not the least, il nostro Mario Draghi, un uomo il cui curriculum incredibile e il cui operato gli hanno consentito di conquistare il nomignolo di Super Mario, una persona di successo che non piace né ai tedeschi, né al governo di quel potentissimo paese, ma soprattutto non piace al non più potente capo della banca centrale tedesca, un'istituzione che, prima dell'avvento della BCE, influenzava fortemente i destini economici dell'Europa.
Come ho scritto nel recente articolo sulla Banca d'Italia, parlando della perdita verticale di attribuzioni dell'istituto con sede a Via Nazionale in Roma, perdita di poteri che vale ovviamente per tutte le banche centrali dei paesi membri dell'area dell'euro, e vale, nonostante le chiare ambizioni di un uomo che non nomino neanche, anche per il capo della Bundesbank, che non perde occasione per attaccare Super Mario e la sua politica di quantitative easing e di politica dei tassi a zero, se non sottozero, quella politica che non piace ai risparmiatori tedeschi che non riescono a fare fruttare il loro denaro in banca e che vanno sotto in termini di rendimenti anche quando investono nei loro tanto amati Bund, i titoli di stato decennali made in Germany.
Ieri, venendo a casa nostra, o meglio nella sede dell'ambasciata tedesca, il nostro ce ne ha dette una per bere e una per sciacquare, affermazioni che un tempo avrebbero fatto tremare la borsa, che invece ieri gli ha risposto con un discreto rialzo e i nostri titoli di stato che, invece, hanno guadagnato qualche posizione, dicendo che il nostro debito pubblico è una minaccia per l'eurozona, che il nostro ministro dell'Economia è un inguaribile ottimiste, il che, in termini di cose economiche, significa dire che è uno stupido, e ha salvato solo quello che va in direzione del modello tedesco, e cioè il job act e il neonato fondo Atlante per garantire gli aumenti di capitale delle banche e per intervenire nel settore dei Non Performing Loans.
Che sulle banche dell'eurozona siamo di fronte ad un patto di ferro tra la Germania e la Francia è una cosa che sanno pure i bambini che sono cresciuti a pane ed euro, ma la politica di Madame Nouy ha apportato alle banche francesi e tedesche dei vantaggi competitivi immensi, pesando poco i rischi finanziari di cui queste sono strapiene e attribuendo un peso enorme ai rischi creditizi, rischi che dalle banche centrali nazionali venivano visti in modo molto diverso!
Ho detto più volte che gli strapagati banchieri italiani dalla fine dell'anno scorso hanno difficoltà notevoli ad addormentarsi e fare sonni tranquilli perché hanno in mente la severa signora francese alla guida della vigilanza delle banche dell'eurozona che vuole che in tempi rapidi ripuliscano drasticamente i loro bilanci dalla zavorra dei crediti deteriorati, non facendo quasi distinzioni tra questo ampio aggregato e quelli più ridotti delle sofferenze lorde e di quelle nette, adducendo Madame Nouy il ragionamento che, in una situazione di forte stress, non sarebbe possibile per la banca sotto attacco utilizzare gli accantonamenti effettuati nel tempo, perché vi sarebbe una crisi di liquidità in parte dovuta alla fuga dei depositanti oltre i 100 mila euro, come è accaduto di recente, per ammissione del suo stesso amministratore delegato, alla disastrata e sotto aumento di capitale Banca Popolare di Vicenza.
Ma un informatissimo articolo di Rosario Dimito su Il Messaggero va ancora più nello specifico e ci informa che per i banchieri italiani, ma non solo per quelli del nostro paese, la segretezza del manuale di vigilanza e, quindi, delle modalità di attuazione dello stesso, costituisce un problema perché non consente di capire quale è il modello di riferimento, quale è il modello ideale di banca secondo le donne e gli uomini della Banca Centrale Europea, così come non si capiscono i criteri secondo cui vengono divulgati alla stampa i nomi delle banche sotto stress test, visto che alla fine dell'anno scorso sono stati resi pubblici solo quelli delle banche italiane.
E veniamo qui al corollario della insistenza della vigilanza BCE sui Non Performing Loans delle banche italiane, perché l'adeguarsi alla politica delle pulizie di bilancio porta con se la necessità di procedere ad aumenti di capitale, aumenti che non potranno essere tutti garantiti dal Fondo Atlante come è stato nel caso della Popolare di Vicenza e che portano normalmente a contrazioni, anche forti della capitalizzazione di borsa delle banche coinvolte, richieste che non tengono conto, come nota Dimito, del fatto che negli ultimi otto anni le banche italiane si sono rivolte al mercato per una cifra di circa 40 miliardi di euro!
Per non parlare delle richieste di aumentare i livelli di patrimonializzazione di grandi gruppi bancari al livello assolutamente irragionevole del 20 per cento (Unicredit), o ad abbreviare significativamente i tempi oltre i quali un credito è considerato deteriorato, per giungere all'assurdo di considerare deteriorati i crediti verso la pubblica amministrazione, tutte cose che, ove attuate, disegnano uno scenario molto fosco per l'industria finanziaria italiana.
Faceva un po' tristezza la dichiarazione di martedì del Governatore della Banca d'Italia a proposito dell'approssimarsi della fase delle offerte vincolanti per le quattro banche tecnicamente fallite e che un decreto del governo ha scisso tra good bank e bad bank, banche tristemente note perché sono state il primo banco sperimentale di un bail in che teoricamente, all'epoca dei fatti, non era ancora operante ma, su input della vigilanza della BCE, fu applicato con qualche mese di anticipo, anche perché l'alternativa era il fallimento vero e proprio delle banche con conseguenze ancora peggiori del bail in stesso.
Le quattro banche erano Banca Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti, quattro istituti che, dopo la tosatura, di azionisti, obbligazionisti e depositanti per le somme superiori alla soglia garantita dei 100 mila euro, sono ora banche ripulite di tutte le sofferenze e gli incagli che avevano e che quindi hanno suscitato l'interesse di diverse banche e fondi di investimento italiani e stranieri e verranno vendute "sfuse o a pacchetti" ad offerenti che presentino tutte le garanzie anche dimensionali di essere atte ad operare nel sistema bancario italiano, requisiti questi che verranno accertati dalle donne e dagli uomini che operano alle dipendenze di Madame Nouy, responsabile della vigilanza europea presso la BCE.
Dicevo all'inizio di un sentimento di tristezza perché, avendo operato in un grande banca italiana, ricordo bene il timore reverenziale che si aveva nei confronti della Banca d'Italia, in particolare se la vigilanza della stessa interveniva con un'ispezione per controllare che la governance e l'agire concreto della banca oggetto dell'interesse della vigilanza fossero efficaci e improntati alla massima correttezza e conformi alle leggi e alle disposizioni normative che venivano via via emanate da Via Nazionale, tutte cose che oggi Francoforte fa in maniera più incisiva e con tempi non paragonabili a quelli del passato italico.
Attualmente, la Banca d'Italia è poco più di un gigantesco ufficio studi impegnato a sfornare statistiche e analisi sul sistema bancario italiano e non a caso sia il Governatore che il direttore generale sono stati responsabili dell'Ufficio Studi di Via Nazionale e ci si chiede a che serva avere un organico intorno alle 10 mila unità per svolgere tali attività. Ma questa scarsa rilevanza non impedisce di fare danni, come è accaduto martedì scorso quando, intervenendo nel corso di un'audizione, Visco ha fatto scendere i titoli bancari che erano impegnati in un vigoroso rally delle quotazioni dei loro rispettivi titoli azionari, in particolare il Monte dei Paschi di Siena, a causa di frasi contorte e non comprese dagli operatori.
Nel frattempo, il nostro vero Governatore, Super Mario, ha difeso ieri brillantemente, e con l'unanimità del consiglio direttivo, la Banca Centrale Europea dagli attacchi scomposti provenienti dalla Germania alla sua politica monetaria e, soprattutto alla politica dei tassi zero/negativi, e la cancelliera Merkel ha dovuto abbozzare!
Questo non è il primo articolo e non sarà nemmeno l'ultimo nel quale mi occupo delle banche che operano in quella sventurata terra, almeno dal punto creditizio, che è diventata il Veneto, occupandomi in particolare modo di quelle che hanno sede legale in questa regione, come la Banca Popolare di Vicenza e Veneto banca con sede a Montebelluna, ma ho poi fatto mente locale sul fatto che, acquisendo la Banca Antonveneta, il Monte dei Paschi di Siena è diventata una banca di casa, prendendo i depositanti di quella banca che nella fase più acuta del risico bancario italiano cadde nelle mani di Emilio Botin, patron del Santander e che in 24 ore ore fu ceduta al Monte dei Paschi di Mussari che la pagò qualche miliardo in più di quanto l'avesse pagata il capace e anche un po' rapace banchiere spagnolo.
Ma mentre parte dei depositi sono migrati verso altri lidi, gli impieghi di Antonveneta sono rimasti tutti lì e una parte di essi si sono trasformati in Non Performing Loans, andando ad appesantire quelli, già di per se non lievi dalla banca senese, che, a giugno dell'anno scorso presentava un esposizione complessiva di crediti deteriorati che sfiorava decine di miliardi di euro, così ripartite 11,8 miliardi di sofferenze garantite da immobili, 6,5 miliardi miliardi, una cifra enorme per una banca che vanta impieghi vivi per 117 miliardi di euro.
Ma scendiamo un po' nel dettaglio e vediamo che, al lordo degli accantonamenti, il Monte dei Paschi di Siena ha sofferenze per 26,6 miliardi di euro così ripartite: 11,8 miliardi di sofferenze garantite da immobili, 6,5 miliardi assistiti da garanzie personali e 8,3 miliardi non assistiti da nessuna forma di garanzia, mentre, al netto di quelle rettifiche di cui la mastina Daniele Nouy non vuole sentire nemmeno parlare perché in una situazione di stress non sarebbero utilizzabili, le sofferenze scendono a qualcosa di meno di 10 miliardi di euro.
Ho espresso più volte il mio personale apprezzamento per le capacità dell'amministratore delegato del Monte dei Paschi, Fabrizio Viola, ma ritengo francamente che quella sua sia la classica mission impossible e che solo misure straordinarie con adeguati aumenti di capitale possono far sì che la banca non venga travolta dall'eredità veneta che già tanto è costata in questi anni.
Ormai è certo: il neonato fondo Atlante toglie dalle spalle di Unicredit la fatica improba per una sola banca di garantire integralmente l'aumento di capitale della molto disastrata Banca Popolare di Vicenza, sì quella banca veneta che la gestione monocratica dell'ex presidente Gianni Zonin ha portato a un passo oltre il ciglio del precipizio, e l'altro ieri la borsa. invece di brindare allo scampato pericolo per la prima banca italiana, ha punito sonoramente i titoli della banca di Piazza Cordusio con un rotonda flessione del 3 per cento, proprio in una giornata nella quale la borsa superava con facilità lo scoglio dello stacco dei dividendi e il fallimento del vertice di Doha dei paesi produttori di petrolio aderenti all'OPEC, fallimento determinato dalla posizione iraniana contraria a qualsiasi congelamento della produzione fino a che non raggiungerà i livelli del 2011, quando, prima delle sanzioni, esportava tre milioni di barili di greggio al giorno.
Eppure Atlante, costituito nell'ambito del Fondo Quaestio sgr, è nato fondamentalmente per garantire gli inoptati dei tanti aumenti di capitale che le banche italiane dovranno effettuare o per situazioni pregresse alquanto disastrate, è il caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, o per far fronte alle perdite derivanti dalle alienazioni di crediti deteriorati impostati dalla vigilanza europea costituito presso la Banca Centrale Europea e guidata da Madame Nouy, e già si sa che, dopo il passo indietro di Unicredit sulla banca di Vicenza, ci sarà quello di Intesa-San Paolo sull'aumento di capitale di Veneto Banca con sede a Montebelluna, anche qui si parla di cifre miliardarie che il mercato non vuole assorbire, né tantomeno i precedenti azionisti stremati da un rally delle loro azioni da 72 euro alle poche decine di centesimi che l'operazione verità dei valutatori meno compiacenti di quelli che hanno attribuito quei valori stellari alle azioni delle due banche venete vorranno assegnare alle azioni delle future società per azioni.
Per il fondo Atlante, invece, queste operazioni potrebbero rappresentare una notevole fonte di guadagni, anche perché, partendo da questi valori anche troppo realistici , la possibilità di upside sono davvero significative, e non è un caso se la lista degli aderenti al fondo cresce ad ogni giorno che passa, attirati dalla promessa di un rendimento stellare del 6 per cento l'anno, una remunerazione dei fondi versati alquanto credibile sia sul fronte degli aumenti di capitale, sia su quello dei Non Performing Loans acquisti ad un valore intorno al 20 per cento ma che hanno garanzie per un 70 per cento medio del loro valore nominale, circostanza che rende credibile un valore finale di recupero intorno al 36 per cento!
Ma allora, si chiederà il lettore più smaliziato si chiederà, perché quest'azione di recupero non la fanno direttamente le banche che quei soldi li hanno prestati? E' una domanda che può fare solo chi non conosce gli apparati interni alle banche che non hanno l'agilità e il modus operandi delle società i recupero crediti e si accontentano spesso di transazioni scandalose facilitate da intermediari molto smaliziati, ma di questo parlerò più diffusamente nelle prossime puntate.
Occorre introdurre flessibilità in uscita nel sistema pensionistico "in tempi stretti" anche perché "c'é una penalizzazione molto forte dei giovani e, dato il livello della disoccupazione giovanile, c'é il rischio di avere intere generazioni perdute all'interno del nostro Paese". Lo ha detto il presidente dell'Inps, Tito Boeri, sottolineando
come in Italia i livelli della disoccupazione giovanile siano "assolutamente intollerabili".
"Questa settimana partono le prime buste arancioni, saranno 150 mila e conterranno le informazioni di base" con la stima dell'estratto conto contributivo, e la previsione del rapporto tra contributi versati, pensione futura e possibile data di uscita". Così il presidente dell'Inps parlando a margine del 'Graduation Day all'Università Cattolica. Per Boeri si tratta di una operazione "importante, perché in Italia c'è una bassa cultura previdenziale e una consapevolezza finanziaria ancora più bassa, soprattutto fra i giovani".
"Abbiamo trovato tantissimi ostacoli, soprattutto per l'invio delle buste arancioni perché, lo voglio dire con sincerità, c'è stata paura nella classe politica, paura che dare queste informazioni la possa penalizzare". Così il presidente dell'Inps, Tito Boeri, parlando dei ritardi e delle difficoltà per la campagna informativa con cui l'Istituto diffonde le proiezioni sulla pensione futura. Per Boeri ha pesato "la paura di essere puniti sul piano elettorale".
Il part-time in uscita per chi è vicino alla pensione "è una sperimentazione e come tale va studiata, non si può dare un giudizio prima". Comunque, ha spiegato Boeri, "ci sono dei limiti di stanziamento, quindi in ogni caso non potranno esserci più di 30 mila lavoratori nel giro di 3 anni". E assicura: "valuteremo la misura con estrema attenzione".
Inps, +911.000 contratti stabili in 2015 - Nel 2015 i contratti a tempo indeterminato sono aumentati di 911.000 unità rispetto alla fine del 2014 (saldo tra attivazioni e cessazioni). Il dato arriva dall'Inps che ricorda come nell'anno scorso abbia inciso l'esonero contributivo per le assunzioni e le trasformazioni di contratto a tempo indeterminato. Nell'anno sono stati oltre 1,57 milioni i contratti attivati con l'esonero, un numero molto superiore all'iniziale previsione (un milione). In pratica il 61% delle assunzioni stabili ha goduto del beneficio contributivo.
Nei primi due mesi del 2016 sono stati venduti oltre 19,6 milioni di voucher del valore nominale di 10 euro con un aumento del 45,2% rispetto allo stesso periodo del 2015 (13,5 milioni). Nei primi due mesi del 2014 erano stati venduti meno di 8 milioni di buoni di lavoro accessorio. Lo si legge sul Rapporto sul precariato dell'Inps.
Nei primi due mesi del 2016 sono stati stipulati 291.387 contratti a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni) mentre le cessazioni, sempre di contratti a tempo indeterminato sono state 254.274 con un saldo positivo di 37.113 unità. Il dato è peggiore di quello dell'anno scorso (-74% rispetto ai +143.164 contratti dei primi due mesi 2015), risente della riduzione degli incentivi sui contratti stabili e della grossa accelerazione nelle assunzioni stabili a dicembre. Il dato è peggiore anche del 2014 (+87.180 posti stabili).
Un’attenta analisi della situazione attuale continua a tenerci con il fiato sospeso sulle sorti dell’Italia. La crisi economica che ci ha affossati per un ventennio non può ancora dirsi superata, nonostante le continue rassicurazioni del Presidente Renzi. La ripresa risulta ancora di modesta entità e debole portata. Fiato sospeso anche per la valutazione che la Commissione europea dovrà dare a maggio sulla Legge di Stabilita, sulle correzioni che con la lettera inviata di recente al Governo ha sollecitato. Una ipotesi di relazione, si dice, relativa all’Italia del 2016 che parte dalle tre raccomandazioni che riguardano le priorità che la Commissione aveva indicato: rilanciare gli investimenti, proseguire le riforme strutturali per modernizzare le economie degli Stati membri ed attuare politiche di bilancio responsabile.
Il potenziale di crescita dell’Italia è stato considerevolmente limitato da alcune debolezze strutturali profondamente radicate: la crescita annua del PIL reale italiano attesta in media all’1,5%, ossia 2/3 di punto percentuale al di sotto della media europea, soprattutto a causa della modesta produttività locale dei fattori, l’elevato rapporto debito pubblico / PIL ed il saldo negativo della partite correnti che hanno limitato ulteriormente la capacita dell’economia italiana di resistere agli shock economici avversi. Sia a livello nazionale sia europeo fino al 2014 l’economia ha continuato a contrarsi. Nel 2015 il PIL reale dell’Italia è tornato ai livelli dei primi anni 2000, mentre il PIL della zona Euro era superiore a quei livelli di oltre 10%. Per quanto attiene il fisco il rapporto gettito fiscale – PIL nel 2014 era tra i più elevati della UE anche a causa del costo del debito pubblico. continua ad essere attesa la revisione delle agevolazioni fiscali, ad essere poco incisiva e coerente la politica fiscale, aumentando cosi l’incertezza degli operatori economici. Il sistema fiscale è complesso e la bassa percentuale degli adempimenti degli obblighi tributari aumenta ulteriormente l’onere gravante su imprese e famiglie.
In Italia il potere di acquisto delle famiglie consumatrici,ovvero il loro reddito resale, è aumentato nel 2015 dello 0,8%. Si tratta del primo rialzo da otto anni, dal 2007, prima dello scoppio della crisi. Lo rileva l’Istat che però guardando all’ultimo trimestre dello scorso anno registra una flessione della capacità di spesa, almeno a livello congiunturale (-0,7%). La variazione si mantiene invece positiva su base annua.
La spesa delle famiglie per consumi finale invece ha registrato un aumento dello 1% nel 2015; nell’ultimo trimestre dell’anno il rialzo è stato pari allo 0,4% a livello congiunturale. Scende la pressione fiscale che, nel 2015, si attesta al 43,5% in calo dello 0,1% su base annua. L’Istat spiega: “la correzione riguarda le operazioni connesse alla risoluzione della crisi delle quattro banche”. In conseguenza della revisione delle entrate, la pressione fiscale risulta rivista al rialzo di 0,2 punti percentuali. L’Istat, nel conto economico trimestrale delle amministrazioni pubbliche, rileva inoltre che nel 2015 il rapporto tra indebitamento netto e PIL è stato pari al 2,6%, in diminuzione di 0,4% punti percentuali rispetto a quello del 2014. Nell’ultimo scorcio del 2015, l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche in rapporto al PIL (dati grezzi) è stato pari al 2,2%, risultando inferiore di 0,2% rispetto a quello del corrispondente trimestre del 2014.
Come era largamente prevedibile, il vertice dell'OPEC di Doha di domenica scorsa si è chiuso senza un accordo e il petrolio e le altre materie prime energetiche hanno pagato prezzo già all'apertura dei mercati in Asia lunedì mattina, con il WTI, che nelle settimane precedenti aveva ritrovato un miracoloso prezzo di qualcosa di più di 42 dollari al barile, risprofondato verso la soglia dei 38 dollari, per poi ritornare a 40 dollari al barile, ma di strada, con il passo del gambero, ne dovrà fare ancora tanta e l'unica speranza sarà quella della vacillante offerta di petrolio statunitense, stretta tra chiusure di giacimenti e ricorsi di compagnie a stelle e strisce alla protezione dell'accomodante legge fallimentare in vigore negli Stati Uniti d'America.
Sembra proprio che i nodi al pettine della crescita mondiale, ieri parlavo del contributo dell'anemica crescita cinese (ovviamente per gli standard cui quel paese ci ha abituato in questi anni) alla possibile stagnazione secolare secondo la recente definizione del Fondo Monetario Internazionale, e già oggi vi sto tediando con la bolla scoppiata del prezzo del petrolio in virtù di un mancato accordo di cartello tra i produttori, flop peraltro largamente previsto dalla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, una banca globale che di petrolio ha dimostrato davvero di intendersi, come quando guidò, via derivati, la carica che portò il greggio al prezzo record di 143 dollari al barile, per poi girare opportunamente le proprie posizioni per guidare il ritorno quasi repentino a quotazioni che non si discostavano dai 40 dollari al barile e guadagnò una montagna di soldi sia in una direzione che nell'altra!
Del resto, che le cose a Doha si stessero mettendo male lo si è capito quando si è saputo che la delegazione iraniana al tanto strombazzato incontro sarebbe stata guidata da un funzionario e non dal ministro del petrolio di quel paese, un malcapitato che ha potuto solo ribadire che l'Iran non avrebbe accettato nessun incontro fino a che il paese non avesse recuperato la produzione ante sanzioni del 2011, il che significa in soldoni che intende porre sul mercato una produzione aggiuntiva pari all'attuale sbilancio che vede l'offerta superare la domanda per 1-2 milioni di barili al giorno e ai presenti non è restato che prendere atto di una situazione che non rendeva possibile nessun accordo a meno di un sacrificio forte da parte dell'Arabia Saudita e di altri importanti produttori arabi, né era pensabile che venissero in soccorso altri disastrati produttori fuori del cartello, come la Russia di Putin o il Venezuela del traballante Maduro.
In questa terza ondata della tempesta perfetta, ogni elemento si tiene con l'altro e, già a partire da questa settimana, dovremmo assistere a una nuova corsa verso i "beni" rifugio, quali l'oro, il franco svizzero e i titoli di stato di Germania e Stati Uniti, facendo tendere i rendimenti del Bund tedesco ancor più verso lo zero!
Si è appena conclusa l’ultima affollatissima tornata del Salone del Mobile di Milano. Una settimana di autentica passione che - tra funzionalità, creatività e fantasia – ha affascinato e conquistato gli oltre 370mila visitatori (86% gli stranieri) provenienti da tutto il mondo. Oggi, spenti i riflettori, si tirano le somme – questa volta veramente e strepitosamente positive – e ci si inchina davanti all’alto livello delle proposte che designer e artigiani-quasi-artisti hanno presentato ribadendo, ancora una volta, che sono cambiati i valori del pentagramma dell’ apparire. Oggi, di fronte ad una scelta “basilare”, all’abito firmato dai guru dell’abbigliamento (da indossare nelle grandi occasioni) si preferisce il pezzo firmato del famoso designer (da sfoggiare in salotto) magari con la medesima noncuranza alla Lord Brummel.
Dati di fatto emersi nel corso delle appena concluse calde giornate del Salone del Mobile che hanno letteralmente sconvolto i ritmi, sia pure sempre tumultuosi, della città. Migliaia gli espositori, innumerevoli i designer, gli sperimentatori di nuovi stili e materiali, sparpagliati, oltre che negli stand di Fieramilano Rho, nel Salone Satellite di via Tortona e dintorni e nelle animate performance/installazioni del Fuori Salone sparse in città. Tutti Insieme appassionatamente hanno presentato concreti od onirici stili di vita di un futuro più o meno possibile che spesso arrivano da un passato decisamente più vivibile. Solide proposte di pezzi d’arredo che ricordano quelli di alcuni decenni or sono di funzionalità e aspetto “comune” ma che oggi, attualizzati e firmati da grandi designers e stilisti stellari, si sono rifatti la faccia e l’anima, diventando bio sostenibilmente ed ecologicamente corretti. Ecco quindi materiali soprattutto di origine naturale, legno in primis, forme altrettanto naturali funzionalmente e anatomicamente perfette e, soprattutto “vivibili” ed esteticamente quasi senza tempo. Poi spazio ai giovani designer che con le loro idee di “ritorno al futuro” hanno sorpreso e qualche volta persino incantato, per le coraggiose, e spesso seducenti idee. E tanto, tanto (troppo?) spazio alla tecnologia futuristica e spesso inquietante che dominerà – a breve - la nostre case e i nostri “spazi vitali”.
Discorso a parte sulla creatività fantasticamente poliedrica di cui sono naturalmente dotati i nostri grandi della moda, e che ne fa anche splendidi designer di mobili e accessori e, pur cambiando i parametri, i risultati sono rimasti magicamente invariati. Si è creata una perfetta osmosi tra moda e arredamento che, iniziata diversi anni or sono e via via cresciuta nel tempo, ha avuto lusinghieri consensi. Perciò, a immagine e somiglianza di “Milano Moda Donna” e “Milano Moda Uomo”, la Camera della Moda ha dato vita alla manifestazione “Milano Moda Design” progetto/vetrina voluto per valorizzare e promuovere il “design d’arredamento d’alta moda”.
Giorgio Armani è l’icona – con la sua linea “Armani Casa” - degli stilisti-designer d’alta moda. Ribadiscono il suo stile sofisticato, ma rigorosamente inconfondibile le proposte di quest’anno declinate sulle ali della leggerezza. E della trasparenza. Diafani come un sogno... e attraverso un percorso onirico, quasi trasportati dalle ali di una farfalla, i “pezzi” di Casa Armani ripercorrono i parametri dell’ ultima collezione d’abbigliamento. Trasparenze e leggerezze che, con dolcezza, catturano una luce soffusa riflettendo le sfumature d’oro bianco e d’argento dei ricami che impreziosiscono tessuti di rafia, velluti preziosi, disegni di antichi foulard ripresi su lampi di seta. Gentili espressioni di un’arte che fonde – tra raffinata eleganza e funzionalità – il dna di un poliedrico creativo che ha saputo creare una perfetta corrispondenza tra abiti e abitabilità.
Donatella Versace – per Versace Home – nel segno della comodità raffinata, ha presentato il bellissimo divano “Via Gesù Palazzo Empire” un pezzo di design unico che si ispira alla omonima It-Bag Versace.
Nella grande e preziosa collezione Fendi Casa Contemporary spicca il nuovo divano Soho Lite disegnato da Toan Nguyen stilista francese di fama mondiale.. E’ sorretto da un a struttura minimalista ed elementi di sostegno in acciaio con grandi cuscini che ne sottolineano e amplificano l’ elegante comodità.
Roberto Cavalli amplia la sua già grande gamma di proposte d’arredamento – comodissimi i divani, le “sedute” tigrate, i tavolini, i letti ... faraonici - e annuncia l’ultima novità : la collaborazione con “La Murrina” artistica azienda del vetro di Murano per la creazione e la distribuzione mondiale di prodotti di illuminazione, vetri, specchi ed vari elementi d’arredo realizzati unicamente in vetro di Murano.
Lineare ed essenziale la linea delle proposte Trussardi che ricalcano la sobria raffinatezza delle linee d’abbigliamento del marchio. Deliziosa ed unica la collezione di Marella Ferrera “Trame Mediterranee” che riprendono suggestivi “segni scritti sulle pietre”.
Ho citato solo di sfuggita il passaggio dell'Economia Outlook del Fondo Monetario Internazionale che paventa il rischio di una stagnazione secolare per il mondo sviluppato e questo potrebbe stupire visto che, a livello dell'orbe terraqueo, registriamo da anni tassi di crescita del prodotto interno lordo compresi tra il 3 e il 4 per cento, ma il problema è che si tratta di un valore medio che unisce la crescita anemica dell'occidente sviluppato e del Giappone con quelli molto più vivaci che caratterizzano gli emerging markets e quella che ancora oggi, e nonostante i tanti paperoni cinesi in vetta alle classifiche di Forbes, si chiama Repubblica Popolare Cinese.
Tra le tre concause della terza ondata della tempesta perfetta, ho indicato il problema delle borse, e segnatamente delle banche, lo scoppio delle due bolle speculative del petrolio e delle altre materie prime energetiche, e la crisi sempre più evidente dell'economia cinese su cui grava un problema delle banche che è multiplo di quelli che affliggono le banche europee e il profilarsi dello scoppio di una gigantesca bolla nel settore immobiliare, due fatti che porterebbero le borse cinesi al collasso.
Credo proprio che gli economisti del Fondo Monetario Internazionale stiano seguendo uno schema di ragionamento non troppo dissimile da quello che ho descritto, a partire da febbraio, in numerose puntate del Diario della crisi finanziaria, uno schema di ragionamento che vede avvenire in Cina qualcosa di non troppo diverso da quello che è accaduto in Russia dopo l'abbandono di Michail Gorbachov e cioè l'applicazione selvaggia di metodi capitalisti d'arrembaggio in un paese povero ma che garantiva una serie di certezze a tutti.
Dopo il brusco allontanamento del capo dell'ufficio statale di statistiche cinesi, il nuovo responsabile si è premurato di diffondere a tempo di record le statistiche sulla crescita del prodotto interno lordo cinese che segnalano un lusinghiero 6,7 per cento di crescita, con un incremento della produzione industriale del 5,8 per cento, una crescita quest'ultima che contrasta con i programmi di licenziamento di 1,8 milioni di lavoratori del settore siderurgico e altre chiusure di stabilimenti non più produttivi, nel frattempo esplode l'industria delle abitazioni e esplodono i mutui (+92 per cento).
Il possibile scoppio di tre bolle contemporaneamente, quella del credito che sembra oramai imminente, quella del settore immobiliare e quella delle borse, inducono a prendere sempre più in considerazione le stime alternative dell'esule cinese ma con buoni contatti nella madrepatria, stime che dicono che siamo oramai prossimi ad una "stagnazione" che avrebbe effetti catastrofici sul PIL dei paesi avanzati!
Ho già parlato del fondo Atlante costituito presso una società di gestione del risparmio già operativa e si chiariscono meglio gli assetti proprietari del fondo stesso, con Unicredit e Intesa-San Paolo a far la parte dl leone con un miliardo di euro ciascuna e Cassa Depositi e Prestiti impegnata per mezzo miliardo e poi una pletora di fondazioni, banche e compagnie di assicurazioni a fare da comprimarie. Un'iniziativa che ha ricevuto l'autorevole benedizione del Fondo Monetario Internazionale, mentre suscita qualche perplessità nella più piccola delle società di rating, Fitch's, che paventa rischi per l'affidabilità delle prime due grandi banche italiane che impegnano tante risorse in questa opera di salvataggio del sistema bancario italiano, anche se lo stesso premier Renzi si è affrettato a spiegare che l'iniziativa cooperativa del mondo finanziario è solo un tassello di una strategia più ampia del Governo che punta a mettere al riparo le banche italiane dagli strali della vigilanza della Banca Centrale Europea.
Il vero banco di prova del neonato fondo sarà l'azione di garanzia degli aumenti di capitale miliardari delle due disastrate banche venete, in primis quello della Banca Popolare di Vicenza che, dopo la dissennata gestione capitanata da Gianni Zonin, l'ormai ex presidente che ha gestito da dominus indiscusso la banca per un ventennio, affondandola sotto un mare di sofferenze, aumento spostato ma alle porte e che doveva essere garantito in perfetta solitudine da Unicredit e per il quale si profila una marea di diritti inoptati da parte degli azionisti amareggiati dalla caduta a picco del valore delle azioni, non quotate nei mercati regolamentati, di una banca che sentivano propria al punto da sottoscrivere a 62 euro per azione quello che sempre più sembra somigliare ad un pezzo di carta straccia e che dovrebbe essere quotata a Piazza Affari ad un valore che dovrebbe, secondo i bene informati, oscillare intorno ad un euro, se non meno.
In un bellissimo articolo, il professor Zingales spiega l'ascesa e la caduta delle banche di provincia e il loro rapporto malata con le imprese delle zone di pertinenza, ma è sicuro che in nessuna regione d'Italia come nel Veneto tale rapporto patologico abbia prodotto frutti tanto avvelenati, incrociandosi con l'ascesa e la caduta di quell'economia del Nord-Est fatta di fabbrichette che hanno prosperato grazie alla debolezza della lira e alla relativa assenza della concorrenza cinese, ma che poi sono naufragate quando è stato introdotto l'euro e la concorrenza cinese, ma anche tedesca, ha iniziato a mordere sempre di più.
Come le favole del tempo antico, quello scenario idilliaco non tornerà più e gran parte delle sofferenze delle due banche venete sono irrimediabilmente perdute, anche perché i crediti venivano spesso erogati in assenza di garanzie e ad imprenditori che alla prova dei fatti sono spesso risultati nullatenenti!
Chi mi ha seguito in questi nove anni sa bene che non mi soffermo mai sui movimenti quotidiani di borsa, anche perché ritengo che i fenomeni vadano osservati sui tempi medio lunghi, ma quello che è accaduto martedì nella borsa italiana è stata una classica applicazione di quel detto che sentivo quotidianamente quando facevo l'economista in una sala operativa e, cioè, proprio come dice il titolo: compra sulla voce e vendi quando esce la notizia ed è esattamente quello che è successo a Piazza Affari tra lunedì e martedì per quanto riguarda la costituzione del fondo Atlante, un fondo destinato a sostenere gli aumenti di capitale delle banche italiane e ad acquistare le tranche junior delle cartolarizzazioni di crediti deteriorati, cioè quei pacchetti di sofferenze che non possono godere della garanzia statale riservata ai crediti in sofferenza di migliore qualità.
Cosa è accaduto? In poche parole, le azioni delle banche sono volate nella prima seduta dell'ottava sulle voci, anche contraddittorie, che parlavano della prossima costituzione di Atlante, aumenti che riguardavano indifferentemente le banche salvate da quelle considerate, a torto o a ragione, salvatrici, per non parlare della incertezza che riguardava la dotazione di Atlante, con voci che parlavano di 2,5- 5 o 6 miliardi di euro, cifre destinate in ogni caso a fare da effetto leva per interventi di molto maggiori dimensioni, nell'ordine delle decine di miliardi.
Nella seduta successiva, quella di martedì, quando le notizie sembravano più certe, il clima è cambiato improvvisamente e vi è stata una vera e propria valanga di vendite che ha lasciato indenne solo l'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena che chiudeva quella infuocata seduta con un incremento di qualcosa di più di un punto percentuale, una seduta che era la cosiddetta seduta dei gonzi che hanno venduto, spesso in perdita, azioni che solo il giorno dopo, come è puntualmente accaduto, erano destinati a risollevarsi, in alcuni casi con variazioni a doppia cifra, ed è questo lo scenario che si è realizzato nella giornata di mercoledì, complice una chiarissima intervista del ministro Padoan al Sole 24 Ore.
Quello che sta accadendo sui mercati, con l'ottovolante delle quotazioni delle azioni delle banche italiane, non deve fare dimenticare che il sistema bancario italiano ha trovato il classico uovo di Colombo, cioè una soluzione che potrebbe davvero salvare capra e cavoli, riuscendo con uno sforzo finanziario tutto sommato limitato a venire incontro alle pretese di Madame Nouy che vuole una drastica riduzione delle sofferenze e aumenti di capitale adeguati a far fronte alle perdite derivanti da queste pulizie di bilancio, il tutto utilizzando il metodo assicurativo che permette di far fronte a grandi rischi con poche risorse!
Per combattere l'evasione delle multinazionali in Europa, che costa agli Stati 50-70 miliardi di euro all'anno, la Commissione ha proposto nuovi obblighi di trasparenza che costringeranno le aziende a pubblicare in ogni Paese dove operano le informazioni fiscali più importanti come profitti, tasse pagate, natura delle attività. "I cittadini vedranno chi paga, quanto e dove e vedranno se qualcuno ha spostato profitti all'estero", scrive Bruxelles, convinta che i Panama Papers dimostrino l'importanza della trasparenza.
La direttiva che introduce i nuovi obblighi era già prevista da tempo e quindi non è una risposta diretta ai Panama Papers. Ma può comunque aiutare a fare luce su quelle multinazionali che cercano di nascondere i propri 'traffici' di profitti per sfuggire al fisco. E' la prima volta che la Ue introduce il principio dello "scrutinio pubblico" sin materia fiscale. Con l'obbligo di pubblicazione Paese per Paese, Bruxelles si spinge oltre gli
standard Ocse in materia di trasparenza. Le nuove regole si applicano alle multinazionali più grandi, quelle cioè con un fatturato di almeno 750 milioni di euro annui. Dovranno pubblicare, in ogni Stato dove hanno una filiale, l'elenco dei profitti al netto delle tasse, l'ammontare delle tasse richieste e di quelle pagate, la natura delle attività, il numero di dipendenti, guadagni accumulati in altro modo. E dovranno rendere note
anche le tasse pagate nei Paesi fuori dalla Ue.
La direttiva coprirà circa 6000 società, che rappresentano il 90% del giro d'affari delle multinazionali in Europa. Bruxelles la vede anche come un modo per riportare equità nel settore, visto che le pmi sono spesso
penalizzate dal comportamento fiscale 'aggressivo' delle grandi aziende: secondo le stime della Commissione, una società che opera in più Stati paga in media fino al 30% di tasse in meno rispetto ad una società soggetta ad un solo ente fiscale.
Avendo tenuto il giornale di bordo della tempesta perfetta sin dal suo scoppio nell'estate del 2007, ho individuato tre macro fasi in quella che è nata come la più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra mondiale, travolgendo prima banche, industrie e settore immobiliare a stelle e strisce, per poi allargarsi alle banche britanniche, irlandesi, belghe olandesi, francesi e tedesche, una prima ondata che ha lasciato quasi indenni le banche italiane e l'industria nostrana.
La seconda ondata è quella che ha travolto i titoli del debito pubblico dei paesi dell'Europa mediterranea e la Grecia nel suo complesso con l'avvio dei lavori della Troika e lo strangolamento di quel paese che ancora oggi non è uscito da quella fase di difficoltà in gran parte legato alle strampalate ricette, del tutto pre keynesiane, adottate dagli spin doctors del Fondo Monetario, della Commissione europea e della Banca Centrale Europea, alcuni dei quali hanno anche onestamente, ma un po' coccodrillescamente, fatto ammenda dei loro errori.
In questa seconda fase, io ho interrotto per tre anni circa le pubblicazioni perché non aveva senso analizzare una crisi del debito acuita dalla sostanziale inerzia della Banca Centrale Europea che, in quella fase così calda, non imitò non dico la politica fortemente espansiva adottata dalla Federal Reserve, ma neanche quella fatta propria dalla Bank of England.
Le cose sono radicalmente cambiate nel 2015, anno che ha gettato le premesse di quanto sta avvenendo in questo anno di disgrazia 2016, con le banche europee falcidiate in borsa e quelle italiane sotto la lente della vigilanza europea presso la BCE che, dopo aver molto studiato a partire dalla sua istituzione, ha iniziato a inondare le banche di missive alquanto minacciose brandendo l'arma finale del bail-in.
Tutto questo avveniva mentre scoppiava la bolla speculativa del petrolio e quando non si erano spenti gli echi di quella fragorosa del settore immobiliare, con prezzi non lontani dai minimi in numerosi paesi europei, inclusa l'Italia. Ho invitato i miei lettori a non aspettarsi vere e proprie inversioni di tendenza nei due comparti e a non lasciarsi illudere dalla corsa dell'orso in atto nel settore petrolifero, una corsa drogata dall'attesa del prossimo vertice dell'OPEC previsto a Doha, in quanto Stati Uniti, Gran Bretagna e Iran, per non parlare degli sciagurati paesi latino-americani sono in grado agevolmente da far da contrappeso alle decisioni che verranno eventualmente prese lì. Nel frattempo, l'Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale informa che stiamo andando verso una stagnazione secolare.
La vera novità di questa terza ondata della tempesta perfetta è data dal comportamento ampiamente proattivo delle principali banche centrali dell'orbe terraqueo, un comportamento che da solo certamente non potrà risolvere tutti i problemi, ma senza il quale staremmo certamente molto, ma molto, peggio!
Dopo il vero e proprio bagno di sangue avvenuto sui mercati finanziari a partire dalla primavera dello scorso anno, ma intensificatosi bruscamente a partire dalla prima seduta di questo anno di disgrazia 2016, il Governo italiano ha capito nei mesi scorsi che la favoletta del sistema bancario solido non reggeva più e ha deciso di muoversi, dopo intense faticosi negoziati in sede europea, su due fronti: quello dell'agevolazione con garanzia del processo di smaltimento dei Non Performing Loans in pancia alle banche e quella di un fondo di garanzia per gli inevitabili aumenti di capitale delle banche stesse derivanti dalle pesanti perdite derivanti dallo smaltimento stesso e, per farlo, ha spinto un po' rudemente le banche a muoversi e ad utilizzare una sgr già esistente per garantire gli aumenti di capitale ed acquistare le tranche di sofferenze dismesse dalle banche di qualità più scadente mediante un fondo che si chiamerà Atlante, mentre quelle cosiddette senior versavo assistite da garanzia statale mediante il Gacs.
D'altra parte, di aumenti di capitale ne sono in corso per circa quattro miliardi di euro complessivi da parte di Banco Popolare, come dote di nozze nell'unione promessa con la Banca Popolare di Milano, e da parte delle due disastrate banche venete, la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ma potete essere sicuri che molti altri ne verranno nel corso del 2016, a partire da quel Monte dei Paschi di Siena che denuncia un rapporto tra crediti deteriorati e impieghi vivi intorno al 40 per cento, un dettaglio che non deve essere sfuggito agli uomini e alle donne che lavorano al comando di Madame Nouy!
Come si suol dire, il diavolo si vede nei dettagli e le cifre di cui per ora si parla non sembrano assolutamente stratosferiche, anche se potrebbero esercitare un effetto leva molto forte, in quanto con 2,5 miliardi di euro elevabili a 6 di fondo di dotazione si potrebbero, per la parte che garantisce gli aumenti di capitale, gestire agevolmente aumenti di capitale per decine di miliardi, a meno di ipotizzare livelli di inoptato totali che verrebbe di escludere per ché le banche di cui si parla offrono il valore delle rispettive azioni a prezzi davvero stracciati, in particolare le due banche venete di cui ho parlato di sopra.
Qualche parola va spesa sui motivi per cui ci troviamo oggi in questa situazione che non nasce certo l'anno scorso, ma affonda le radici in una gestione del credito effettuata dalle banche italiane che è stata davvero disastrosa e sulla quale la Banca d'Italia ha chiuso non un solo occhio ma tutti e due e che ha reso facile il compito della nuova vigilanza europea che ha messo in dubbio l'efficacia degli accantonamenti a questo titolo per oltre 110 miliardi di euro effettuati nel tempo e che sarebbero a rischio in una condizione di stress come quella ipotizzata in quel di Francoforte. Un'attenzione legittima, quasi doverosa, che però non viene esercitata con uguale fermezza per la altissima montagna di derivati e titoli tossici in pancia alle banche globali europee, una montagna argillosa non solo per i rischi di mercato ma anche per quelli di controparte!
Le biblioteche e i musei oggi sono a un punto di svolta. Le rapide innovazioni tecnologiche trasformano profondamente l’accesso degli utenti alla storia e alle raccolte. Gli Opac (Online public access catalogue), cataloghi in linea su internet, rendono conoscibili su scala planetaria le risorse delle singole istituzioni, per quanto geograficamente marginali; la gestione informatizzata del prestito snellisce le procedure; prestito interbibliotecario e document delivery, ovvero distribuzione selettiva dei documenti, favoriscono la circolazione degli stessi. Ancor di più, imponenti progetti di digitalizzazione delle raccolte rendono direttamente accessibili a studiosi e lettori di tutto il mondo il contenuto dei documenti, fornendo un surrogato virtuale del libro o del reperto, a patto che non si dimentichi l'importanza della materialità dell'oggetto: presupposto basilare di una corretta informatizzazione dei beni librari, non è una politica culturale non volta a sostituire il documento, bensì a consentire la conservazione dell'oggetto materiale permettendo contemporaneamente l'accesso ai contenuti.
In questo panorama acquisiscono grande importanza lo sviluppo di standard internazionali informatici e di catalogazione, necessari rispettivamente a garantire la fruizione nel lungo periodo dei documenti digitali e a creare una rete di istituzioni che condividono metodi di indicizzazione e non solo: catalogazione partecipata e catalogazione derivata permettono la condivisione da parte di più biblioteche della medesima scheda catalografica, dando uniformità alle voci. Anche in Italia si è ormai affermata l'applicazione degli standard Isbd (International standard book description), promossi dalla Ifla (International federation of library associations) e declinati in una serie di specifiche (M per le monografie, A per il libro antico, S per i periodici eccetera), che si aggiungono alle Rica (Regole italiane di catalogazione per autori) pubblicate nel 1979 a cura dell'Iccu (Istituto centrale per il catalogo unico) per definire gli "accessi formali" e al datato soggettario per i cataloghi delle biblioteche italiane curato dalla Biblioteca nazionale di Firenze nel 1956 per gli "accessi semantici".
Ne deriva quindi l’importanza per un Comune, di riuscire ad avvicinare in tal senso, i suoi cittadini e il mondo, alle risorse culturali del proprio territorio. Il bando europeo a fondo perduto con scadenza 30 giugno, fino a 3 milioni di euro, destinato ai Comuni per la creazione di un museo e una biblioteca virtuale e’un’opportunità per creare un polo culturale informatizzato che porterebbe ogni cittadina d’Italia nella rete delle città culturali. L’impatto sarà quello di creare nuovi aspetti progettuali per l’utilizzo dello stato dell'arte in informatica e la gestione dei Big data, di ricercare contenuti digitali europei importanti e sicuri, sistemi di analisi dei dati con ricerche semantiche tra enormi quantità di dati e non sufficientemente contrassegnati con metadati adeguati e, inoltre, quello di migliorare la comprensione della ricca diversità del patrimonio culturale europeo e creare valore aggiunto per la società, fornendo a ricercatori, giornalisti, politici e al pubblico interessato nuovi modi di trovare risposte alle loro domande sul patrimonio culturale europeo e storico. Un’occasione per i Comuni che potrebbero cogliere per loro stessi e la loro storia. Digitalizzando e gestendo in maniera integrata le informazioni, i vantaggi culturali ed economici del Comune crescerebbero in maniera esponenziale. I Comuni d’Italia, considerata la logica della politica, saranno pronti a vincere sul piano della cultura? La loro storia potrà finalmente essere fruibile da tutti?
Si tranquillizzino i miei lettori perché non voglio fare riferimenti mitologici o di storia antica, ma solo cercare di capire se gli isolani della Gran Bretagna, un miscuglio di popoli e di realtà geografiche molto diverse tra loro, spingeranno i loro risentimenti e il loro orgoglio fino a decidere di lasciare una realtà che conta ventotto nazioni, cinquecento milioni circa di abitanti e un prodotto interno lordo che la colloca nel novero delle tre realtà economiche più importanti dell'orbe terraqueo, una realtà a cui ha aderito relativamente di recente, ma comunque da poco meno di mezzo secolo.
Nell'Unione Europea, comunque, la Gran Bretagna possiede uno status davvero invidiabile, in quanto non aderisce, pur avendone abbondantemente i requisiti stabiliti dall'accordo di Maastricht, all'euro, sfruttando in questo caso la clausola dell'opting out, come hanno fatto anche alcuni paesi scandinavi, non aderisce al trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone nell'ambito dell'Unione europea, mentre sfrutta a mani basse della libera circolazione dei capitali, ma eccezioni generose ha conseguito anche nell'ultima tornata di negoziati svolti in quel di Bruxelles, tra i quali spiccano la possibilità di ulteriori e importanti opting out rispetto a provvedimenti in materia economica e finanziaria, nonché l'esclusione pluriennale dal welfare per gli immigrati che entreranno dopo la data del referendum, se prevarrà, ovviamente, l'opzione di restare in Europa, altrimenti faranno quello che vorranno.
Non mi addentrerò volutamente nel vivace dibattito in corso sui vantaggi e gli svantaggi derivanti dall'esito della scelta referendaria ove la stessa fosse quella della Brexit, anche se trovo ragionevole l'ipotesi di un'incidenza negativa sul prodotto interno lordo britannico nell'ordine del cinque per cento, un impatto pesante per un paese oramai deindustrializzato e alle prese con l'andamento largamente cedente del prezzo del greggio (un prezzo che ha compiuto nelle ultime settimane quella che io definisco la corsa dell'orso, con un repentino rimbalzo e poi con quella che sembra una vera e propria caduta, per poi tentare una nuova risalita).
Quello che più mi interessa è capire la stratificazione sociale rispetto agli orientamenti di voto e trovo un ottimo supporto in un articolo di Maurizio Ricci che analizza un sondaggio di dimensioni davvero impressionanti pubblicato da YouGov, un sondaggio basato su sedicimila interpellati e che indica come Londra, Irlanda del Nord, la Scozia e il Galles siano decisamente per restare nell'Unione europea, mentre le cose vanno decisamente male nelle altre pari della Gran Bretagna, così come vi è una discriminante anagrafica tra gli elettori, con i più giovani contrari a lasciare la UE e i più anziani ferventi fautori della Brexit. Vi è poi una differenza di classe, quella medio-alta a favore dello statu quo e quelle più basse in favore dell'uscita. Comunque sapremo come andrà a finire tra due mesi e mezzo o più precisamente il 23 giugno prossimo, anche se il coinvolgimento di David Cameron nei Panama Papers mette un'ulteriore ipoteca sul risultato.
Oramai è un tam tam inarrestabile: le donne e gli uomini al servizio di Danièl Nouy, la potentissima responsabile della vigilanza della Banca Centrale Europea, stanno lavorando attivamente sul dossier dei Non Performing Loans delle banche italiane che, a livello di sistema, evidenziano un rapporto percentuale sui crediti sani che sfiora il 20 per cento, il triplo del rapporto evidenziato in media dai paesi che, come noi, adottano la moneta unica europea; questo fornisce una chiave di lettura ben diversa al recente summit tra il Governo, il Governatore della Banca d'Italia, i vertici al completo della Cassa Depositi e prestiti e i due molto afflitti amministratori delegati della prima e della seconda banca italiana, sì quella Unicredit e Banca Intesa San Paolo che devono garantire gli aumenti di capitale della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, rispettivamente e che già sanno che dovranno farsi carico di un rilevante inoptato a causa del carico di sofferenze che quei due istituti di credito veneti hanno in pancia.
Ma il problema è che, in quel vertice, i due presunti salvatori che, insieme, rappresentano una parte considerevole dell'intero sistema bancario, hanno dimostrato di avere a loro volta bisogno di essere salvati, anche perché sono detentori di una parte più che proporzionale di Non Performing Loans, in particolare Unicredit, e quindi hanno bisogno come il pane di questo fantomatico fondo da 10 miliardi di euro per smaltire le sofferenze e, questa è la vera novità, garantire aumenti di capitale in gran parte finalizzati a coprire le perdite derivanti dalla cessione forzata di sofferenze e altri crediti deteriorati a prezzi di mercato che non si discostano di molto dal valore nominale degli stessi, come dimostra l'aumento di capitale del Banco Popolare da un miliardo di euro, aumento di capitale interamente utilizzato per coprire parte delle perdite derivanti dallo smaltimento di 10 miliardi di euro di NPL in tre anni imposto, in sede di fusione con la Banca Popolare di Milano, proprio dalla Nouy.
Ho scritto più volte sui sonni persi da amministratori delegati e presidenti delle banche nostrane in relazione alle vere intenzioni della vigilanza BCE e, certamente, avere un orizzonte temporale presumibilmente triennale per portarsi agli standard europei nel rapporto tra sofferenze e impieghi vivi è qualcosa di difficilmente immaginabile, dopo decenni di vigilanza alquanto distratta esercitata dalla Banca d'Italia e credo proprio che in quel di Siena non si chiuda occhio ormai da mesi, alla luce di un rapporto tra crediti deteriorati e impieghi vicino al 40 per cento, cinque volte la media europea e con valori dell'azione del Monte dei Paschi di Siena calata rispetto ai massimi del 2007 ad un valore da prefisso telefonico!
Ma quello che più rode ai vertici bancari italiani è il fatto che il modello utilizzato dalle donne e dagli uomini di Madame Nouy prende a riferimento le sofferenze lorde e non quelle nette, 200 miliardi di euro circa le prime contro un molto più ragionevole 88 miliardi le seconde, perché sostengono che gli accantonamenti non reggerebbero ad una situazione di stress che loro vedono come molto più probabile di quanto ritengono i nostri amministratori delegati. Tutto questo spiega i crolli delle azioni delle banche italiane molto più di tanti astrusi ragionamenti!
Che i clienti non andassero da soli allo studio legale panamense Mossack Fonseca lo aveva capito anche il più sprovveduto dei miei quattro lettori, ma nessuno avrebbe potuto immaginare la diffusione di questa pratica di accompagnamento esistente tra le banche tedesche, con sei delle maggiori banche tedesche pienamente coinvolte e altre 21 banche di minori dimensioni e, almeno in parte, a capitale pubblico.
Ovviamente, la parte del leone la fa una nostra vecchia conoscenza, sì quella Deutsche Bank che non è solo il primo istituto di credito tedesco, ma è anche una banca globale che annovera nei suoi bilanci (al di sopra e al di sotto della linea di bilancio) poco meno di 60 mila miliardi tra derivati e titoli tossici, ebbene questa banca ha avviato per centinaia di suoi clienti le pratiche che portavano a costituire presso lo studio Mossack Fonseca società off shore, un accompagnamento verificatosi oltre quattrocento volte e che sarebbe stato facilitato, oltre che dalle sue dimensioni, anche dal fatto che uno dei due soci fondatori dello studio legale panamense è di origine tedesca.
Ma il bello, come rivela un articolo de La Stampa, è che già due anni fa una persona aveva venduto alle autorità tedesche uno spaccato di questo sistema ed erano state multate alcune banche tedesche, come ad esempio Commerzbank che ha dovuto pagare 17 milioni di euro, oltre a promettere, cosa che a quanto pare non ha fatto, di non adottare più simili comportamenti.
Tra le banche sotto esame da parte delle autorità tedesche, che va detto sono tra le più inflessibili al mondo nel perseguire le pratiche disinvolte dei cittadini tedeschi, vi è anche la Hypovereinbank che, come è noto, fa parte del gruppo Unicredit, e avrebbe aiutato la costituzione di sole 17 società off shore rispetto alle centinaia delle altre grandi banche tedesche, ma il danno reputazionale è fatto!
Certo, questo immenso giro di denaro, un giro che peraltro non è stato ancora quantificato nella sua interezza, è stato facilitato da oltre 500 banche all over the world, ma il totale delle società tedesche sul totale di quelle aperte dallo studio panamense sfiora il dieci per cento (l'8 per cento circa per la precisione) ed è compiuto in larga misura da banche che due anni fa avevano ricevuto il cartellino giallo dalle autorità tedesche.
Comunque, con buona pace di quanto affermato di recente in televisione dal prof. Masciandaro, di questo caso sentiremo parlare a lungo e i provvedimenti, stavolta, dovrebbero essere molto diversi da quelli assunti in passato!
Non ricordo, neanche negli anni più caldi della tempesta perfetta, precedenti di un incontro tra il Governo e il Gotha dei banchieri italiani, anche perché in quegli anni, mentre in tutta Europa si salvavano le banche spendendo circa 600 miliardi di euro, il Governo del nostro paese non spese un centesimo e, infatti, i Monti Bond, peraltro utilizzati in buona sostanza soltanto dal disastrato Monte dei Paschi di Siena, vedono la luce quando oramai l'ondata di piena della prima fase della crisi finanziaria è passata e il sistema creditizio italiano subisce le conseguenze degli "errori" dei banchieri nostrani e il montare delle sofferenze legate alla crisi economica prodotta da quello che negli anni precedenti era accaduto in quel casinò a cielo aperto che era stato per giudizio dei grandi della terra il sistema della finanza strutturata.
Alla riunione ha partecipato, almeno nella parte iniziale, anche il presidente del Consiglio, Matteo Renzi e ha fornito indicazioni generali per poi lasciare la guida della riunione a Pier Carlo Padoan, il ministro dell'Economia proveniente dall'OCSE dove aveva svolto una lunga e fortunata carriera come economista, e Padoan, attorniato dai vertici della potentissima Cassa Depositi e Prestiti, ha ascoltato pazientemente il libro delle lamentazioni dei ben remunerati amministratori delegati delle principali banche italiane.
A quell'affollato tavolo sedevano cacciatori e prede della nuova fase di ristrutturazione del sistema bancario italiano, ma ospite invisibile era anche la potente signora che guida la vigilanza della Banca Centrale Europea, Danièle Nouy, sì quella che sta facendo perdere loro il sonno con le sue richieste perentorie che spesso partono proprio dal carico di sofferenze della banche italiane, partendo da un modello, quello di Francoforte, che prende a riferimento le sofferenze lorde più che quelle nette, quasi che gli accantonamenti effettuati dalle banche non valessero tanto se si entra in una fase di default.
Quello che i banchieri e il Governo si sono detti nella riunione di martedì è, ovviamente, coperto dal riserbo più assoluto, ma, come sempre, qualcosa è trapelato a riguardo della possibile costituzione di un veicolo comune, dote di dieci miliardi di euro, che dovrebbe smaltire in parte il peso delle sofferenze e lo spinoso capitolo degli aumenti di capitale delle disastrate banche venete, con i due big del settore creditizio impegnate a garantire l'aumento della Banca Popolare di Vicenza, Unicredit, e quello di Veneto Banca, Intesa San Paolo; un punto, quest'ultimo, su cui credo proprio che gli animi si siano alquanto scaldati!