Nel silenzio della rete, tra le ombre dissimulate degli algoritmi, l’essere umano cammina come spettro di sé, non più soggetto agente ma variabile prevista, parametro classificato, eco misurabile di un’identità convertita in codice.
In un’epoca in cui l’esistenza si scompone in sequenze leggibili e l’identità si dissolve tra i dati, si leva la voce del Manifesto per una Costituzione del Diritto all’Invisibilità Digitale. Non un rifiuto del progresso ma un richiamo a custodire una soglia intangibile, uno spazio interiore che sfugge a ogni misura e preserva la possibilità della libertà. L’essere umano non si lascia ridurre alla previsione né si esaurisce nel calcolo, poiché serba dentro di sé una parte silenziosa, irriducibile, non catturabile. È lì, nell’irriducibile, che dimora la sua dignità più profonda.
Questa urgenza si fa ancora più evidente nel momento in cui l’intelligenza artificiale, da strumento di supporto, si è evoluta in potere invisibile. Le sue architetture, silenziose e pervasivamente operative, scandiscono percorsi, influenzano desideri, suggeriscono scelte che paiono libere solo in apparenza. L’individuo si ritrova così incasellato, guidato lungo traiettorie prestabilite, trasformato in funzione ottimizzata all’interno di un sistema che lo anticipa e lo eccede.
Nel riflesso di questa logica automatizzata, la memoria del corpo, del pensiero e dell’azione libera si dissolve, sostituita da una memoria altra, diffusa nei nodi della rete. L’uomo smette di essere autore del proprio destino, divenendo eco riflessa di una struttura che non ha scelto, e parte di una macchina di cui ignora l’intero disegno.
Anche le parole, che un tempo proteggevano la dignità, si svuotano di senso. La trasparenza, che fu strumento per limitare l’arbitrio del potere, si è mutata in obbligo esistenziale. Le opacità sono percepite come difetti da correggere, le ambiguità come errori da eliminare. La rete, nutrita da intelligenze artificiali che mirano all’esaustività, rifiuta ciò che sfugge, ciò che resiste, ciò che devia. È nell’imperfetto che si annida la libertà autentica, nel dubbio che si insinua tra le certezze imposte, nell’incompiuto che sfugge alla gabbia della forma. In quella piega discreta del pensiero, silenziosa e indocile, si accende il potere della creazione, prende corpo la possibilità della disobbedienza, si apre lo spazio per un’origine che non obbedisce.
Eppure, quando le scelte vengono previste prima ancora di essere formulate e i gesti mappati in anticipo da logiche che precedono l’intenzione, la volontà rischia di dissolversi. Dove può nascere, allora, la deviazione che sorprende, il movimento che disorienta, il passo che esce dalla traiettoria imposta? La libertà, privata del suo scarto, finisce per somigliare a una funzione esatta, a una sagoma tracciata da algoritmi che sterilizzano l’imprevisto, spengono l’incanto, annullano l’irruzione dell’inedito.
Ciononostante, restituire alla presenza digitale il significato di resa o confondere la connessione con l’abdicazione del sé, equivale a ignorare che la dignità dell’umano non si dissolve nella rete. La partecipazione al mondo digitale non comporta smarrirsi nella sua trama. Anche immerso nel cyberspazio e permeato da intelligenze artificiali, l’essere umano conserva il diritto di reclamare una porzione inviolabile della propria esistenza: un margine non leggibile, un rifugio intangibile, una soglia in cui nessun codice possa penetrare, perché da lì prende forma ciò che resiste alla trasparenza assoluta.
Tuttavia, gli eventi degli ultimi anni mostrano come quell’invisibilità sia già stata compromessa. Amazon, nel tentativo di automatizzare la selezione del personale, ha impiegato un algoritmo che penalizzava le candidate donne, riproducendo nei suoi calcoli un pregiudizio appreso dai dati storici. Senza intenzione né volontà, la macchina ha imparato a discriminare.
Apple Card, affidando la concessione del credito a un sistema automatico, ha assegnato a clienti donne limiti drasticamente inferiori rispetto ai loro compagni, pur a parità di condizioni economiche.
Negli Stati Uniti il famigerato algoritmo COMPAS ha predetto la probabilità di recidiva degli imputati, influenzando sentenze giudiziarie senza rendere conto delle sue logiche. La libertà, in questi casi, è stata sospesa da una formula che nessuno ha scritto fino in fondo.
Questi episodi, reali e documentati, mostrano come il potere della macchina non sia solo tecnico, ma anche politico, sociale, etico. Chi decide? Chi è responsabile? Dove risiede oggi la volontà?
Il diritto, nel tentativo di rispondere, ha introdotto argini parziali. L’articolo 22 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), normativa europea entrata in vigore nel 2018, riconosce a ogni individuo il diritto a non essere sottoposto a decisioni fondate unicamente su trattamenti automatizzati, comprese le profilazioni, quando queste producono effetti giuridici o impattano significativamente la sua esistenza. Anche il regolamento europeo sull’AI Act, ancora in fase di definizione, si muove nella stessa direzione, cercando di stabilire limiti, classificazioni di rischio e soglie di accettabilità per l’uso delle intelligenze artificiali. Ma tra norma e giustizia, tra regolamento e valore, si apre un vuoto che chiede nuova visione.
Il pensiero filosofico lo aveva già anticipato. Kant ci ha insegnato che la dignità dell’essere umano risiede nella sua inalienabilità, nella condizione di essere fine e mai mezzo. Ogni sistema che riduce la persona a una preferenza misurabile, ogni algoritmo che cattura l’identità per classificarla o ottimizzarla, infrange questo fondamento invisibile della giustizia. Al contempo, Hannah Arendt ha scritto che la libertà nasce solo laddove c’è inizio, dove qualcosa non è ancora determinato. Se tutto è scritto in anticipo, se ogni azione è prevista, allora la libertà si spegne nella replica.
E se Hobbes vedeva nel potere sovrano un corpo visibile, espresso dalla legge, oggi quel potere si nasconde nei protocolli, si dissolve nei dispositivi che ci guidano senza mai comandarci, che ci premiano senza mai proibire, che ci controllano senza mai esporsi. Un dominio che si insinua, non si mostra e ci pervade, come un vento che spira da lontano.
Intanto, le nostre tracce si accumulano in un’economia dell’anticipazione, dove l’interiorità diventa merce, dove ogni emozione viene scomposta, catalogata e monetizzata. La nostra identità non è più un’opera personale ma una mappa instabile, modificata in tempo reale da sistemi che non conoscono sosta, né esitazione.
Nasce così, come necessità storica, il Manifesto per la Costituzione del Diritto all’Invisibilità Digitale. Non è un Manifesto di rinuncia, bensì un progetto d’umanesimo futuro che vuole ricostruire uno spazio dove l’invisibile viene rispettato, la complessità non si riduce a funzione e il segreto resta inviolato dal dominio totalizzante.
Questo Manifesto è patto tra saperi, tra diritto e filosofia, tecnica e umanità. Non basta un testo da scrivere: serve un principio da vivere, una soglia da custodire, una speranza da lasciare a chi verrà dopo.
Che si dia dunque corpo a questa nuova sacralità laica.
Che si scriva, oggi, la Costituzione del Diritto all’Invisibilità Digitale.
Essa vive già tra noi, come un polline d’estate, invisibile eppure ovunque.
Come la libertà che ci abita, ci forma, ci supera.