L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (362)

    Carlotta Caldonazzo

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June 17, 2016

Le organizzazioni non governative denunciano le brutalità del regime di Manama: dagli esili forzati alle torture in carcere, fino alla chiusura del principale partito di opposizione, al-Wefaq; quasi inesistente la reazione della comunità internazionale

Nelle ultime settimane, le autorità del Bahrein hanno inasprito i meccanismi di repressione del dissenso politico, arrestando e costringendo all'esilio diversi esponenti di spicco dell'opposizione. Il culmine si è registrato il 13 giugno, quando il tribunale di Manama ha ordinato la sospensione delle attività e la chiusura delle sedi di al-Wefaq, la più grande forza politica di opposizione, che durante le proteste del 2011 si è fatta portavoce del malcontento della maggioranza sciita emarginata dalla scena politica e, in generale, delle richieste di un vero progresso in direzione della democrazia e dei diritti. Secondo il ministro della giustizia si è trattato di una misura volta a “salvaguardare la sicurezza del regno”, mentre l'unica timida reazione della comunità internazionale sono state le generiche espressioni di “preoccupazione” del Dipartimento di Stato statunitense. Come nel 2011, quando le manifestazioni vennero soffocate dall'intervento saudita, ufficialmente sotto l'egida del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), gli organismi sovranazionali si sono dimostrati ancora una volta inefficaci, sia nel promuovere la democrazia e il rispetto dei diritti umani, sia nel proporre soluzioni valide ai conflitti. Se di quest'ultimo fallimento si possono citare come esempi Libia, Iraq e Siria, per il primo spicca l'impunità di cui godono l'Arabia Saudita e i regimi satelliti nel Golfo, Bahrein e Yemen in primis.

La sentenza del tribunale amministrativo di Manama è in realtà solo l'atto conclusivo di una serie di azioni repressive ai danni di al-Wefaq, che il prossimo 6 ottobre affronterà l'udienza sul suo scioglimento definitivo. Tra i capi d'accusa, “incitamento alla violenza settaria” e coinvolgimento in una “rete politica internazionale”. Un riferimento, quest'ultimo, non troppo velato a presunti tentativi di ingerenza da parte di Tehran, sbandierati dal regime come pretesto per la repressione. Il 13 giugno, il giorno prima della sentenza, la polizia di Manama aveva arrestato Nabil Rajab, attivista per i diritti umani più volte detenuto per il suo impegno civile, recentemente liberato da un provvedimento di grazia “concesso” dal re Hamad bin Isa Al Khalifa. Ufficialmente le autorità vogliono interrogarlo sulla presunta “diffusione di false notizie”, ma il suo arresto, insieme a quello di altri attivisti, immediatamente prima della 32esima sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, lascia intendere che il vero scopo è impedire qualsiasi espressione di dissenso, soprattutto in sedi internazionali. A maggio di quest'anno, Amnesty International aveva denunciato la revoca della cittadinanza e il conseguente rischio di espulsione di Tarimoor Karimi, l'avvocato e attivista che nel 2011 aveva preso parte alle proteste: provvedimenti che violano esplicitamente le leggi internazionali, ma vengono ripetutamente utilizzate contro gli oppositori alla monarchia assoluta. Il meccanismo è quasi sempre lo stesso: revoca della cittadinanza (che rende illegale la permanenza in territorio bahreinita) ed esilio forzato. Negli stessi giorni, la corte d'appello di Manama aveva portato da 4 a 9 anni di reclusione la condanna della guida di a-Wefaq, Ali Salman, accusato di istigazione alla violenza e all'odio contro il governo e tentativo di colpo di stato. Quanto a un'altra attivista, Zainab al-Khawaja, cittadina danese-bahreinita, uscita dal carcere a maggio per motivi umanitari (era stata arrestata a marzo per aver strappato una foto del re), all'inizio di giugno ha scelto di autoesiliarsi in Danimarca: in un'intervista ha spiegato che le autorità di Manama avevano avvertito l'ambasciata danese del rischio di un nuovo arresto.

Che in Bahrein non esistano garanzie di rappresentanza democratica non è una novità. La monarchia assoluta degli Al Khalifa, di religione sunnita (con posizioni simili a quelle della dinastia regnante saudita), governa con il pugno di ferro un paese a maggioranza sciita, in un piccolo ma strategico arcipelago del Golfo Persico. Basti pensare che degli 80 seggi totali del parlamento, i 40 della camera alta sono di nomina regia, mentre il potere legislativo dei 40 della camera bassa, eletti dalla popolazione, è limitato dall'arbitrio del re. Ma per Riyadh la posta in gioco è troppo alta: da un lato considera Manama un prezioso baluardo contro l'influenza iraniana sulle comunità sciite della Penisola Araba, dall'altro teme che eventuali conquiste sul piano dei diritti da parte della popolazione sciita in Bahrein possano incoraggiare la sua minoranza sciita ad avanzare rivendicazioni simili (in Arabia Saudita gli sciiti non possono esercitare professioni come quella di insegnante o magistrato e vivono, di fatto, come cittadini di secondo ordine). D'altro canto, a interessarsi della posizione strategica di questo arcipelago non è solo Riyadh: il porto di Mina Salman ospita un'importante base della marina militare statunitense, la Naval Support Activity, mentre nella capitale Manama si trova il quartier generale della V flotta. Inoltre, nel novembre 2015, la Royal Navy britannica ha avviato i lavori di costruzione di un'importante base, la prima nel Golfo Persico dal 1971, con il compito di “garantire e preservare la sicurezza regionale”.

June 05, 2016

L'ordinamento democratico antico, appena restaurato dopo un colpo di stato oligarchico, ha condannato a morte Socrate; così, la democrazia nella sua forma attuale ha avuto le sue vittime illustri: giornalisti, intellettuali, artisti.

La condanna a morte di Socrate, nel 399 a.C., avvenne in un'Atene da poco tornata alla democrazia dopo il regime dei trenta tiranni. Allora non esistevano sondaggi, ma il teatro comico ci lascia interessanti testimonianze sulle posizioni prevalenti all'interno di quell'opinione pubblica che proprio Pericle, celebrato come il fondatore della democrazia, aveva contribuito a rendere così influente sulla scena politica. Ma Atene era soprattutto a capo di un “impero”, la lega di Delo, nata ufficialmente per proseguire il conflitto contro i Persiani e presto divenuta strumento dell'egemonia ateniese sulle città alleate. A permettere la nascita e il consolidamento di questo impero è stata la strategia del dominio sui mari (detto talassocrazia), che ha al contempo favorito sia un notevole sviluppo economico, sia l'accesso alla rappresentanza politica dei ceti più poveri del demos. Nell'Atene di Pericle, i nullatenenti venivano reclutati come rematori sulle navi da guerra, sottraendo il primato nella difesa della città alla fanteria dei ceti medio-alti (gli opliti) e, soprattutto, alla cavalleria dell'aristocrazia fondiaria (qui era lo zoccolo duro della fazione oligarchica, quindi degli oppositori politici di Pericle). Nel primo anno della guerra del Peloponneso, che vede opposte Atene e Sparta, le due grandi potenze greche, il sistema democratico ateniese inizia a vacillare, a partire dalla devastante pestilenza del 429 a.C., durante la quale morì lo stesso Pericle e i suoi due figli legittimi. In seguito, secondo lo storico greco Tucidide (testimone diretto degli eventi), la democrazia e l'impero di Atene iniziano un lento declino e, contestualmente, un progressivo irrigidimento. Nell'ultimo discorso all'assemblea popolare ateniese, Pericle presenta il conflitto come una guerra “giusta”: E' giusto che alla condizione onorevole in cui, grazie al suo impero, si trova la nostra città voi portiate aiuto (dato che di tale condizione voi tutti vi vantate)... Né dovete credere che ora si lotti per una cosa sola, per la libertà o la schiavitù: al contrario anche riguardo alla perdita dell'impero... Dal comandare voi non potete più tirarvi indietro, anche se qualcuno spaventato dalla presente situazione per ignavia vorrebbe farlo, sostenendo la parte dell'uomo onesto. Voi possedete in questo potere quasi una tirannide (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 63; ). I successori di Pericle alla guida della fazione democratica non sono “alla sua altezza” e l'ordinamento che dirigono vira verso la demagogia. Attraverso quest'ultima viene appunto convinta l'assemblea popolare ad approvare la disastrosa spedizione in Sicilia del 415 a.C.

Anche il sistema democratico contemporaneo, minacciato dai sistemi totalitari del Novecento, ha vissuto, a partire dalla guerra fredda, brusche virate autoritarie, nelle quali il potere per mantenersi ha “sacrificato” diverse vittime sull'altare della democrazia da difendere. Si pensi al maccartismo, all'operazione Ajax in Iran, all'operazione Condor in America Latina. Fino ad arrivare alle guerre “umanitarie”, quasi sempre combattute sotto l'egida dell'Alleanza Atlantica (NATO) nel mondo monopolare uscito dalla guerra fredda dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Conflitti dettati da una ferrea logica di potenza, che non ammette diritto di replica considerando ogni forma di dialettica una minaccia. Anche questo sistema, dunque, come quello antico, ha mietuto vittime. Anzitutto tra le popolazioni afflitte dalla corruzione e dalla spietatezza delle dittature (più o meno mascherate) che ha contribuito a imporre. In secondo luogo tra le voci critiche come il primo ministro svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/27/olof-palme-caso-ancora-aperto/514605/), e il “Che africano”, Thomas Sankara, ucciso nel 1987. In terzo luogo tra i testimoni scomodi, come la giornalista Ilaria Alpi, morta insieme all'operatore Miran Hrovatin nel 1994, a Mogadiscio, in un agguato organizzato dall'intelligence statunitense con l'aiuto di Gladio e dei servizi segreti italiani (http://www.repubblicaonline.it/2016/03/24/ora-e-ufficiale-ilaria-alpi-fu-uccisa-dalla-cia-il-vergognoso-silenzio-generale/).

Se sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è stata fatta (parzialmente) luce, non si può dire lo stesso per quelle di Enzo Baldoni in Iraq nel 2006 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/28/enzo-baldoni-ucciso-in-iraq-e-insultato-in-italia/1101209/), di Vittorio Arrigoni nella striscia di Gaza nel 2011 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/15/vittorio-arrigoni-5-anni-dalla-morte-la-madre-egidia-oggi-non-riconoscerebbe-questa-europa-disumana-manca-la-sua-voce/2639329/) e di Giulio Regeni in Egitto nel 2016 (http://www.flipnews.org/component/k2/stop-alla-tortura-e-verita-per-giulio-regeni.html). Se la democrazia non può prescindere dalla responsabilità e dalla consapevolezza collettive, come nell'“impero” ateniese del V secolo a.C., così anche nell'imperialismo democratico contemporaneo la responsabilità ricade sullo stesso corpo civico cui spetta la sovranità. Con una differenza: mentre l'antica democrazia ateniese era diretta, oggi il demos si esprime attraverso i suoi rappresentanti. Dunque, all'assemblea popolare abbiamo sostituito il parlamento, ma i meccanismi di repressione (talvolta soppressione) del dissenso e della critica sono rimasti invariati, come anche la propaganda che presenta i conflitti come guerre di difesa della “cultura” e dei “valori” democratici.

La condanna a morte di Socrate apre il IV secolo a.C., che è quello della crisi del modello democratico ateniese. Anche se la sua è stata un'“esecuzione politica” (oltre ad essere una voce critica, Socrate era stato maestro di Alcibiade e Crizia, considerati fonte di innumerevoli mali per la loro città), l'accusa che gli veniva rivolta era essenzialmente religiosa e oscurantista: non credere negli dei e corrompere i giovani, un'astuta operazione di propaganda demagogica, impossibile da conciliare, a livello teorico, con l'autentica tradizione democratica. In modo analogo, è probabile che la crisi che le istituzioni democratiche stanno vivendo (di cui uno dei sintomi è l'emergere della cosiddetta “anti-politica”) sia legata alla spregiudicatezza con cui voltano le spalle di fronte alle vittime degli imperi attuali.

May 24, 2016

Nominato il nuovo primo ministro e presidente del Partito Giustizia e Sviluppo, la Turchia si avvia verso un nuovo sistema costituzionale e tenta di affermare il proprio ruolo di “interlocutore chiave” in Medio Oriente

 

L'insediamento del nuovo primo ministro turco Binali Yıldırım non è il primo segnale dell'accentramento di poteri ai vertici di Ankara, ma l'uscita di scena di Ahmet Davutoğlu segna la fine di quel minimo di dialettica politica interna al governo e al partito Giustizia e Sviluppo (AKP). Già quest'ultimo fatto è indice di un cambiamento avvenuto: la fine del sistema parlamentare e l'instaurazione di un sistema presidenziale de facto. La riforma costituzionale è ancora solo nelle intenzioni del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, ma quest'ultimo, già nel suo simbolico trasferimento di residenza da İstanbul ad Ankara dopo la vittoria alle prime presidenziali della storia della Turchia, aveva dato un segnale chiaro: la sua prima tappa era stata una preghiera personale alla moschea Eyüp Sultan, meta di pellegrinaggio dei musulmani turchi ma anche il luogo in cui i sultani ottomani erano soliti pregare prima dell'ascesa al trono.

Con lo stesso spirito, lo scorso 22 maggio, al congresso straordinario dell'AKP per la nomina del nuovo presidente, Erdoğan non ha partecipato in prima persona perché la costituzione turca stabilisce l'imparzialità del presidente della Repubblica. Tuttavia, “virtualmente” la sua presenza era forte e non solo per la nota scritta che ha mandato e di cui è stata data pubblica lettura. La sala era piena di manifesti con la sua immagine e in apertura il ministro della giustizia Bekir Bozdağ, che presiedeva il congresso, ha ribadito chiaramente (e in barba alla costituzione vigente) che “l'AKP resterà il partito di Tayyip (Erdoğan n.d.r.) finché la nostra gente dirà che è il partito di Tayyip... l'AKP ha solo un leader, il nostro presidente Recep Tayyip Erdoğan”. Quindi, la lettura della nota scritta del “Presidente”, che auspica l'abolizione di “questa strana regola che obbliga il presidente a recidere i legami con la dirigenza del partito”. Come dire che il problema principale di Palermo è il traffico. In un momento in cui vi sarebbero diverse questioni urgenti da affrontare, il neoeletto presidente dell'AKP Yıldırım indica esplicitamente la priorità massima della Turchia: “la cosa più importante che abbiamo da fare oggi è trasformare una situazione de facto in una situazione ufficiale, per porre fine alla confusione, e il modo per farlo è una nuova costituzione che instauri il sistema presidenziale”.

Infatti Yıldırım, ingegnere navale, è da sempre un alleato fedele del presidente turco, sin dal suo esordio negli anni '90 come direttore della compagnia dei traghetti di İstanbul, quando Erdoğan era sindaco della città. Co-fondatore dell'AKP, di formazione conservatrice, da ministro dei trasporti, degli affari marittimi e delle comunicazioni ha portato a buon fine i grandi progetti che dovrebbero rappresentare la “grande Turchia”, la “nuova Turchia”. Uno fra tutti, il terzo ponte sul Bosforo (i lavori sono stati affidati all'italiana Astaldi e al gruppo turco Ictas), la cui inaugurazione è prevista per agosto. Nominato presidente dell'AKP con un plebiscito, in un congresso che è stato, secondo le sue stesse parole, “un esempio di vera lealtà”, ha ricevuto 1405 voti su 1411 (i restanti sei voti sono stati dichiarati non validi). Nella stessa seduta, Davutoğlu ha lasciato ufficialmente la carica di presidente del partito (e di primo ministro), che deteneva dall'agosto 2014, quando Erdoğan aveva ottenuto la presidenza della Repubblica. Nella sua dichiarazione conclusiva, ha esortato i suoi colleghi a tenersi alla larga dalla corruzione politica, precisando che le sue dimissioni sono state una mossa necessaria per evitare spaccature nel partito. “Nessuno è insostituibile”, ha aggiunto, “ma l'AKP ha sei valori insostituibili: la tutela della dignità umana, il seguire la propria coscienza, la condivisione del sapere, la giustizia, la solidarietà nazionale e la volontà popolare. Per questo uno dei traguardi più importanti della nuova era sarebbe stato avere una costituzione libera e democratica”.

Tuttavia, il cammino verso la democrazia per Ankara (e non solo) è ancora lungo. Secondo il presidente del Partito repubblicano del popolo (CHP) Kemal Kılıçdaroğlu l'ultimo congresso dell'AKP è stato un vertice “sul modello coreano”, in riferimento al regime di Pyongyang. Intanto, dal Partito democratico dei popoli (HDP, filo-curdo e impegnato sul fronte dei diritti umani) arriva un allarme sull'uso politico dell'abolizione dell'immunità per i parlamentari indagati. Solo il suo presidente Selahattin Demirtaş ha 41 inchieste aperte a suo carico, con capi d'accusa che vanno dall'insulto al presidente al sostegno a un'organizzazione terroristica (con riferimento al Partito dei lavoratori del Kurdistan – PKK). Gli ultimi sviluppi (come se ce ne fosse bisogno) hanno destato preoccupazione nelle cancellerie europee e a Washington. La cancelliera tedesca Angela Merkel, ad esempio ha espresso i suoi timori riguardo alle condizioni della minoranza curda e per la mancanza di democrazia. “Uno stato democratico ha bisogno di un sistema giudiziario indipendente, di una stampa indipendente e di un parlamento forte”, ha detto a Erdoğan durante il vertice mondiale sui diritti umani che si è tenuto nei giorni scorsi a İstanbul. Dal canto suo, Erdoğan ha più volte esortato l'Unione Europea a rispettare i termini dell'accordo sul ricollocamento di migranti e rifugiati e ad accelerare le pratiche per l'abolizione dei visti per i cittadini turchi in area Schengen. Un invito velato di minaccia: se non si procede verso l'integrazione della Turchia, gli accordi bilaterali con l'UE potrebbero saltare.

La situazione che ora viene additata dalla comunità internazionale come motivo di apprensione è frutto di anni di scelte politiche del partito di governo (l'AKP), soprattutto dal 2014. Eppure al momento di stipulare l'accordo sul ricollocamento dei migranti e rifugiati nessuno ha sollevato obiezioni sulla definizione della Turchia come “paese terzo sicuro”. Basti pensare, a proposito di democrazia e di una costituzione che impone al presidente della repubblica l'imparzialità, che sarà Erdoğan a presiedere la prima riunione del nuovo governo formato da Yıldırım. Lo stesso presidente turco ha assicurato che gli ultimi emendamenti alla legge anti-terrorismo, che hanno suscitato critiche in UE (in quanto pretesto per la repressione del dissenso politico), non sono negoziabili. Similmente, Ankara non mostra l'intenzione di rivedere la sua politica dei visti nei confronti dei cittadini greco-ciprioti, altro punto incluso nelle 72 condizioni che Bruxelles ha chiesto alla Turchia di rispettare in cambio della libera circolazione dei suoi cittadini in area UE. Ma ora Erdoğan ha dalla sua una maggioranza compatta, come ha detto Yıldırım all'ultimo congresso dell'AKP: “la tua passione è la nostra passione, la tua causa la nostra causa, il tuo cammino il nostro cammino”. Frasi che rievocano pagine oscure della storia europea.

Le mire accentratrici di Erdoğan, nondimeno, hanno anche risvolti tragicomici: durante il World Humanitarian Summit dei giorni scorsi, il presidente turco ha salutato il primo ministro greco Alexis Tsipras, domandandogli in un misto di turco e inglese dove fosse la sua cravatta e ricordandogli che in una precedente occasione gliene aveva regalata una lui stesso. Altro che la questione di Cipro! Tsipras è senza cravatta. Ma il re, anzi il sultano, è nudo.

May 08, 2016

Le dimissioni di Ahmet Davutoğlu dalla dirigenza del partito e dalla carica di primo ministro aprono scenari preoccupanti sull'eccessivo accentramento dei poteri nelle mani del presidente Recep Tayyip Erdoğan

Dopo quattordici anni di vita politica e due da primo ministro e presidente del partito Giustizia e Sviluppo (AKP, attualmente al governo), Ahmet Davutoğlu si è dimesso. Una decisione presa, secondo il quotidiano turco Hürriyet Daily News, a causa di contrasti sorti con Erdoğan su diverse questioni, tra le quali il giro di vite sulla libertà di stampa e il sistema presidenziale. Sta di fatto che per le due principali forze di opposizione, il Partito repubblicano del popolo (CHP) e il Partito democratico dei popoli (HDP), le dimissioni di Davutoğlu sono in realtà un “colpo di stato” di Erdoğan. Di fronte a questo nuovo sviluppo, che riduce al minimo la dialettica interna al governo di Ankara, l'Unione Europea è apparsa preoccupata, soprattutto in merito al recente accordo sulla gestione della questione dei migranti e rifugiati. Se Bruxelles, priva di strategie per affrontarla, conta sulla Turchia è proprio per l'immagine di stabilità che Erdoğan ne aveva dato, a partire dalla vittoria alle elezioni parlamentari dello scorso novembre. Si tratta dunque di una preoccupazione proporzionale alla fiducia nell'ennesimo “uomo forte”, che rischia ora di fare la fine degli altri “uomini forti” cui le grandi potenze si sono affidate nei momenti di crisi geopolitica.

Davutoğlu si era distinto nell'ambiente accademico per la sua interessante visione di profondità strategica. La Turchia, secondo lui, avrebbe dovuto approfittare della sua posizione strategica e della sua identità di democrazia musulmana ma laica per affermarsi come ponte tra Europa, Caucaso e Medio Oriente. Tre regioni che a livello geopolitico, sia pure su diversi livelli e per ragioni differenti, vivono una fase di profonda crisi. Una prospettiva coraggiosa, che, in teoria, avrebbe permesso alla Turchia di riaffermarsi come grande potenza regionale, ricomponendo contraddizioni interne (come la questione curda) e conflitti esterni (come la questione armena) in un delicato equilibrio di forze. Per questo, nel 2010 la rivista statunitense Foreign Policy lo aveva classificato al settimo posto tra i pensatori politici mondiali. E per la stessa ragione, Davutoğlu avrebbe potuto essere un personaggio chiave per una soluzione diplomatica del conflitto siriano, tanto più urgente oggi, se è vero quanto affermato dalla stessa Foreign Policy qualche giorno fa, a proposito delle intenzioni del Fronte al-Nusra (ramo siriano di al-Qaeda, sostenuto da Ankara per abbattere il regime del presidente Bashar al-Asad) di fondare un emirato nel Nord della Siria, “alternativo” al califfato dei cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico.

La prima divergenza tra Erdoğan e Davutoğlu è emersa lo scorso anno, quando l'allora primo ministro ha sostenuto la decisione di Hakan Fidan, capo dell'intelligence turca (MİT), di dimettersi dalla sua carica per candidarsi alle elezioni parlamentari che si sarebbero tenute il 7 giugno: le stesse che hanno segnato la perdita della maggioranza assoluta dell'AKP e che, per il fallimento non proprio casuale delle trattative per un governo di coalizione, sono state ripetute il 1 novembre. In quell'occasione, Erdoğan ha praticamente costretto Fidan a mantenere il suo incarico nel MİT, come uomo chiave per la sicurezza interna e per combattere il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), con il quale il processo di pace è stato interrotto. A proposito di queste controverse elezioni, Davutoğlu si è mostrato più aperto al confronto con le altre forze politiche, preferendo, al contrario di Erdoğan, un governo di coalizione a nuove elezioni. Inoltre, secondo indiscrezioni, le sue posizioni sul sistema presidenziale voluto da Erdoğan erano più moderate, come dimostrerebbe la sua intenzione di portare il dibattito in parlamento. Similmente, l'ex primo ministro turco era apparso più flessibile di Erdoğan sui colloqui di pace con il PKK, mentre il presidente ha colto tutte le opportunità per risolvere il conflitto manu militari. Davutoğlu ha mostrato inoltre una certa freddezza sulla proposta di Erdoğan di ampliare la definizione di terrorismo nel codice penale turco, che peraltro già prevede “reati” come insulto al presidente o denigrazione dell'identità turca.

Per questo le opposizioni temono ora che le restrizioni alla libertà di stampa aumentino sensibilmente, in una situazione già difficile per i giornalisti turchi. Ne è un esempio il caso di Erdem Gül e Can Dündar, rispettivamente direttore del quotidiano turco di opposizione Cumhuriyet e caporedattore della sede di Ankara. Entrambi sono stati condannati lo scorso sei maggio a cinque anni di prigione per aver rivelato segreti di Stato e fatto propaganda per un'organizzazione terroristica, per la pubblicazione di un reportage su un traffico di armi dalla Turchia alla Siria attraverso automezzi dell'intelligence turca. In occasione del loro arresto, mentre Davutoğlu aveva detto di attendere il verdetto del tribunale, Erdoğan è stato sempre sicuro della loro colpevolezza, arrivando a minacciare Dündar di fargliela pagare cara. Lo stesso giorno della sentenza, di fronte al tribunale di Istanbul, Dündar è scampato illeso a un attentato, nel quale un uomo, in seguito arrestato, ha tentato invano di sparargli a una gamba. I primi a intervenire sono stati la moglie e il legale del giornalista (membro del partito CHP). Dündar ha poi dichiarato in aula di aver subito due tentativi di assassinio, uno davanti al tribunale, il secondo al processo, per aver fatto giornalismo. Il suo assalitore, intanto, afferma di aver agito individualmente, “per dargli una lezione”: “se avessi voluto ucciderlo lo avrei fatto, gli ho sparato a una gamba per spaventarlo”. Chissà se ora l'Unione Europea rivedrà la sua definizione della Turchia come “paese sicuro”, indispensabile per portare avanti l'accordo sui rifugiati...

May 01, 2016

Alessandro Pajno, il neo-presidente del Consiglio di Stato, ha presentato al pubblico il frutto dello sforzo del Consiglio quale contributo al riordino della Pubblica Amministrazione che il Governo si accinge a varare. 13 pareri in 50 giorni, con la media di circa un mese per ciascun atto. Quasi 700 pagine di quei 13 pareri, frutto dell’esame dei 481 di cui complessivamente si compongono. Si è trattato di mettere a fuoco il nuovo assetto dell’apparato pubblico – oltre agli 11 decreti del primo pacchetto Madia (gli ultimi tre pareri; Servizi pubblici locali; Forze di polizia e direttori Asl- sono in via di pubblicazione), in un mese e mezzo è stato esaminato anche il nuovo codice dei contratti pubblici e il decreto del processo telematico presso il Tar e il Consiglio di Stato che decollerà il prossimo primo luglio.

La conferenza stampa sull’attività del Consiglio di Stato è il primo di una serie di appuntamenti diretto a creare un canale di comunicazione tra il Consiglio di Stato, i Tribunali amministrativi ed il cittadino. L’obiettivo è quello di informare sull’attività della Giustizia amministrativa, i traguardi raggiunti ed il lavoro che si sta svolgendo. In particolare, questo primo incontro ha riguardato i più recenti pareri del Consiglio di Stato sugli atti normativi del Governo tra i quali la riforma della pubblica amministrazione, il codice dei contratti pubblici e il canone RAI. “Nel dare i pareri”, ha sottolineato Franco Frattini, Presidente della Sezione consultiva degli Atti Normativi ,”abbiamo tenuto fermi tre principi: tendere alla codificazione e, dunque, evitare che lo sfilacciamento di norme faccia perdere di vista l’unitarietà dell’impianto; fare in modo che la riforma funzioni, evitando il più possibile eventuali rischi di blocco; valutarne l’impatto economico e sociale”

April 27, 2016

Articolo pubblicato il 17 aprile 2016 su http://tapnewswire.com/2016/04/top-10-indications-that-isis-is-a-usisraeli-creation/

A cura di Makia Freeman.
Traduzione di Adavede.

L’Isis è una creazione israelo/americana, un fatto evidente come il cielo blu.
Per molti lettori di notizie alternative, questo è già palesemente ovvio, ma questo articolo è stato scritto per la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, che ancora non ha idea di chi stia dietro all’avvento dell’Isis.

Non importa per quale nome si facciano passare – Isis, Isil, Is, Daesh – il gruppo è stato deliberatamente ingegnerizzato dagli Stati Uniti ed Israele, per perseguire alcuni obiettivi geopolitici. Sono una organizzazione di terroristi religiosi, fondamentalisti, Sunniti, creata per terrorizzare e rovesciare alcune nazioni arabe Sciite, come la Siria e l’Iraq, ma non si tratta di una organizzazione solamente “islamica”.
Possono essere islamici , e possono patrocinare lo stato islamico, ma stanno lavorando molto per raggiungere gli obiettivi del Sionismo. E’ sorprendente vedere quanta gente sta combattendo per questo. Siamo stati inondati dalla propaganda che riguarda la guerra al terrore, fraudolenta, in particolare termini come “terrorismo islamico” e “Islam radicale” sono comparsi, ma frasi molto più accurate sarebbero “terrorismo Sio-islamico”, e “Sio-Islam radicale”.
Agenzie segrete come il Mossad e la Cia ne tirano i fili.

Ecco qui una lista dei 10 principali indicatori e prove che l’Isis è una creazione israelo-americana

1) Isis è l’acronimo di Mossad

Cominciamo con ciò che è ovvio. Isis è esso stesso un acronimo, non per stato islamico in Iraq e Siria, ma per Israeli Secret Intelligence Service (servizi segreti di intelligence israeliani). E’ solo un altro modo per descrivere il Mossad, la losca agenzia il cui motto è “attraverso l’inganno, puoi portare la guerra”.
In questo video (https://youtu.be/jYONiyG-CZk) i due autori intervistati (il giornalista americano Dan Raviv e il giornalista isreliano Yossi Melman) rivelano che Isis è l’acronimo del Mossad.

2) La precognizione sull’Isis, attraverso documenti trapelati della Dia:

L’americana Dia (agenzia di intelligence della Difesa) è una delle 16 agenzie militari di intelligence americane. Sulla scorta di un documento trapelato, ottenuto da Judicial Watch, la Dia scrive, il 12 agosto 2012 che:

“..c’è la possibilità di instaurare un Principato Salafita, dichiarato o meno, nella Siria dell’est (zone di Hasaka e Der Zor) e questo è esattamente ciò che vogliono i poteri che supportano l’opposizione, di modo da isolare il regime siriano..”

Questo è stato scritto prima della comparsa dell’Isis sulla scena planetaria. Chiaramente l’Isis non è stata una rivolta casuale, ma piuttosto un ben orchestrato e strigliato “gruppo di opposizione”.
I “poteri che supportano l’opposizione” si riferisce a l’arabia saudita, la turchia, e i Gcc ( i paesi della cooperazione del golfo), nazioni come il Qatar, che sono supportati, in cambio, dall’asse americano-inglese-israeliano nella loro battaglia per spodestare il presidente siriano Bashar Al-Assad.
Come ho sottolineato in questo articolo Syrian Ground War.. , gli Stati Uniti stanno appoggiano le nazioni sunnite, mentre la Russia, la Cina e l’Iran quelle Sciite, per cui esiste un potenziale che le cose sfocino in una terza guerra mondiale.

Nel sito Tapnewswire si vedano i flash dei documenti della Dia

(Per maggiori informazioni si guardi il seguente articolo: http://wakeup-world.com/2015/11/24/reality-check-proof-us-government-wanted-isis-to-emerge-in-syria/

Include 7 pagine del documento citato sopra del Pentagono, che incluse i dettagli circa le ragioni per cui il governo stava operando in Siria, prima dell’emergere dell’Isis)

3) L’Isis non ha mai attaccato Israele.

E’ più che mai strano e sospetto che l’Isis non abbia mai attaccato Israele – è un altra indicazione che l’Isis è controllata da Israele. Se l’Isis fosse stato il frutto di una rivolta indipendente e genuina che non era stata segretamente orchestrata dagli Stati Uniti e Israele, perchè mai non avrebbero dovuto tentare di attaccare il regime sionista, che ha attaccato all’incirca tutti i vicini stati mussulmani, a partire dall’anno del suo insediamento, il 1948?
Israele ha attaccato l’Egitto, la Siria e il Libano, e naturalmente ha decimato la Palestina. Israele ha sistematicamente provato a dividere e conquistare i suoi vicini arabi. E si è lamentata continuamente del terrorismo islamico! Ancora, quando l’Isis è comparsa sulla scena come una organizzazione terroristica islamica, barbarica e sanguinaria, apparentemente non ha avuto problemi con Israele e non ha individuato motivi per occuparsi di un regime che ha perpetrato una dose massiva di ingiustizie contro gli Islamici.

Questo spinge la credibilità al un punto di rottura.

Il fatto è che Isis e Israele non si attaccano reciprocamente – essi si sostengono reciprocamente. E’ stato anche scoperto che Israele si è occupata delle cure di alcuni soldati dell’ISIS e di altri ribelli anti-Assad nei suoi stessi ospedali! Si tratta di nemici mortali, o del migliore degli amici?

4) I furgoncini della Toyota

Dov’è che l’Isis ha preso una intera flotta di furgoncini Toyota? Perché così tanti dei suoi scatti fotografici riguardano una flotta di Toyota che corrispondono - corrispondenti cioè, sia per modello che per colore? Come l’articolo della Information Clearing House umoristicamente statuisce.
La storia ufficiale è che l’Isis li avrebbe rubati ai “buoni terroristi” (di Al Nusra), a cui sarebbero stati dati, questi bei veicoli, dal governo degli Stati Uniti. Cosa che sembrerebbe guidare verso almeno un paio di domande. Non ultima delle quali, perchè gli stati uniti riforniscono terroristi di qualsivoglia estrazione con suv di lusso? E a tal proposito, di quanti suv parliamo? Di quanti, con esattezza? In quali garage l’Isis tiene parcheggiata questa massiccia flotta? E perchè sono tutti a marca Toyota? E’ una scelta dei terroristi o un gusto del governo americano? La Toyota se l’è mai presa, per l’associazione tra i suoi trucks e i terroristi?”

Alcuni di questi trucks sono dei veicoli usati che sono partiti dagli Usa o dal Canada e sono arrivati in Siria. Per esempio, questo veicolo che riporta la scritta di un idraulico del Texas, ha fatto scoprire con orrore al suo ex proprietario che il suo vecchio veicolo sarebbe stato adoperato per la guerra, con il suo logo ancora lì su una portiera!

5) Gli skill di prima classe, nell’uso dei social media, dell’Isis.

La storiella delle Toyota ci spinge dritti alla prossima domanda, in merito all’Isis.
Chi si occupa della loro pubblicità? Come hanno fatto ad ottenere così tante foto delle Toyota che se ne vanno in giro? Come sono riusciti ad ottenere quella risma di video (falsi) che ritraggono le decapitazioni? Come ha potuto fare, un barbaro gruppo di assassini, che parlano una lingua molto diversa dall’Inglese, che propinano ideali religiosi fondamentalisti (come la Sharia) e spesso criticano tutto ciò che è occidentale, a gestire con maestria i social media occidentali, per diffondere i loro messaggi, la propaganda e le loro sfide?

6) Il gruppo israeliano SITE è sempre il primo a rilasciare i video dell’Isis.

Un’altra chiave in omaggio che l’Isis è una creazione Usa/Israele è che il gruppo israeliano SITE (Search for International Terrorist Entities) è stato spesso fra i primi a trovare e a rendere pubblici i video ( come la cofondatrice Rita Katz s’è lasciata sfuggire in più di una occasione). Site è stata implicata in una sfilza di video di finte decapitazioni dell’Isis, nel 2014.

False flag falliti! Si ignorino per un momento i brutti lavori svolti con photoshop. Si noti in questa foto come la luce getta ombre sul lato destro della faccia e del collo di un ostaggio, e sul lato sinistro del viso e del collo dell'altro ostaggio.. Parlando di finte decapitazioni, perchè questa Tv di fiction turca mostra una decapitazione che è identica a quelle dell’Isis?

7) Il capo dell’Isis Baghdadi, un agente del Mossad.

Simon Elliot (Elliot Shimon) aka Al-Baghdadi è nato da genitori ebrei ed è un agente del Mossad. Riportiamo di seguito tre traduzioni che intendono asserire con chiarezza che il califfo Al-Baghdadi è in pieno un agente del Mossad e che è nato da padre e madre ebrei. “Il vero nome di Abu Bakr al-Baghdadi è Simon Elliott.. Colui il quale viene chiamato semplicemente “Elliott” è stato reclutato dall’israeliano Mossad ed è stato addestrato in spionaggio e guerra psicologica contro gli arabi e la società islamica. Questa informazione viene attribuita ad Edward Snowden.

8) Comunicazioni trapelate che evidenziano il piano di rovesciamento della Siria.

Julian Assange di Wikileaks ha fatto un gran lavoro per catturare le informazioni circa quello che stava accadendo in Siria, anni prima delle “primavere arabe” e l’attule guerra, iniziata nel 2011.
Ci ha rivelato che William Roebuck, poi chargé d’affaires dell’ambasciata americana a Damasco, stava progettando la destabilizzazione del governo siriano. Le seguenti citazioni inviate da Roebuck a Washington dimostrano come egli stesse evidenziando le debolezze di Assad:

Vulnerabilità:

L’alleanza con Teheran: “Bashar sta camminando sul filo del rasoio nelle sue sempre più forti relazioni con l'Iran, in cerca del supporto necessario, pur non alienandosi del tutto le relazioni con i moderati stati vicini arabi sunniti, così da non essere percepito come qualcuno che favorisca gli interessi sciiti persiani e fondamentalisti. La decisione di Bashar di non sostenere i Talebani. La decisione di Bashar di non partecipare al vertice dei Talabani di Ahmadinejad a Teheran, dopo il viaggio FM Moallem in Iraq, può essere visto come una manifestazione della sensibilità di Bashar all’ottica araba, circa la sua alleanza iraniana.

Possibile azione:
Giocare sulle paure Sunnite dell’interferenza iraniana.
Ci sono timori in Siria che gli iraniani siano attivi e nel proselitismo sciita e nella conversione dei, per lo più poveri, sunniti. Anche se spesso esagerati, tali timori riflettono un elemento della comunità sunnita in Siria che è sempre più sconvolta da e focalizzata sulla diffusione dell'influenza iraniana nel loro paese, attraverso attività che vanno dalla costruzione di moschee fino agli affari. Sulle missioni locali egiziane e saudite qui, (così come sugli importanti capi siriani religiosi sunniti), stanno dando sempre maggiore attenzione alla questione che dovremmo coordinare più strettamente con i loro governi, sui modi per pubblicizzare meglio e focalizzare l'attenzione regionale sulla questione.

9) La Russia bombarda Isis, gli Usa li proteggono.

La pubblicità afferma:”Secondo quanto la politica estera americana in Siria: noi vogliamo combattere l’Isis mentre combattiamo contro il presidente Assad...sebbene l’Isis sta combattendo contro Assad, e i russi stanno aiutando la Siria a combattere l’Isis...per cui dobbiamo combattere la Russia per fermarli dal combattere con la Siria, contro l’Isis..

Se ti sembra folle, è perchè lo è!”

Prima che la Russia entrasse militarmente in Siria, gli Stati Uniti reclamavamo il fatto che essa fosse attaccata dall’Isis, sebbene la Russia fosse capace di fare in pochi mesi ciò che gli Usa non sono stati capaci di fare in anni. Perchè, l’esercito americano è a tal punto incapace, oppure questa è una ulteriore prova che gli Usa hanno finanziato e sostenuto l’Isis per tutto questo tempo? Ci sono stati vari rapporti che ai soldati americani sia stato ordinato di non colpire obiettivi Isis, anche se avessero una chiara visione dei nemici, come questo articolo riporta: “Alcuni piloti degli Stati Uniti che sono tornati dalla guerra contro lo Stato islamico in Iraq stanno confermando che sono stati fermati dal lanciare il 75 per cento dei loro ordigni su obiettivi terroristici, perché non potevano ottenere l'autorizzazione per lanciare l'attacco, secondo un membro di spicco del Congresso.
Non possiamo ottenere l'autorizzazione anche quando abbiamo un chiaro obiettivo di fronte a noi ", ha detto Royce [rappresentante degli Stati Uniti, Ed Royce, presidente della Commissione Affari Esteri della Camera]. "Non capisco per nulla questa strategia, perché questo è ciò che ha permesso all'ISIS il proprio vantaggio e la capacità di reclutamento. Inoltre, perché il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, ha dovuto lottare per festeggiare il fatto che l’ISIS aveva perso Palmyra di recente?

10) L’Isis è sempre la scusa per ulteriori interventi armati:

Infine, si consideri questo: perché è l'ISIS sempre la scusa perfetta per un ulteriore intervento militare in Siria? Data la storia dell'ingerenza straniera in Siria, in particolare dagli Stati Uniti e Israele negli ultimi 70 anni, non è piuttosto conveniente che lo spettro dell'ISIS è la giustificazione offerta per proporre delle no-fly zone, attacchi aerei e truppe di terra? Come altro avrebbero fatto gli Stati Uniti e Israele a conquistare il Medio Oriente, senza il loro scagnozzo, l'ISIS?

Si prega di condividere questo articolo con coloro che non si sono ancora risvegliati alla verità sull'ISIS. Molti lo hanno già intravisto attraverso la propaganda. Una volta che noi siamo in numero sufficiente, l'utilità di questo gruppo terroristico ridicolo, pericoloso e vaudevilliano decadrà - e forse verrà raggiunta una massa critica di persone, per tirare via la tenda e, per una volta, avere un assaggio dei veri burattinai che tirano i fili della guerra.

April 10, 2016

Scambio di accuse tra Armenia e Azerbaijan; l'espansionismo turco e il pragmatismo russo evidenziano l'ennesimo fallimento europeo

Le ultime tensioni tra Mosca e Ankara erano emerse il 24 novembre 2015, quando la contraerea turca aveva abbattuto un jet russo, a margine, per così dire, del conflitto siriano. Al primo aprile, questo è lo scacchiere regionale. A 22 anni dal cessate il fuoco, nuovi scontri si sono verificati tra Armenia e Azerbaijan nel Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza armena e cristiana in territorio azero, la cui indipendenza, proclamata nel 1991, non è riconosciuta dalla comunità internazionale. Dopo il Medio Oriente, anche il Caucaso è dunque (di nuovo) campo di battaglia per la supremazia regionale di Russia e Turchia, senza trascurare il potenziale ruolo dell'Iran, parzialmente riammesso nella comunità internazionale dall'accordo sul programma nucleare e dal suo potenziale apporto alla guerra contro i cartelli del jihad in Siria e Iraq. In tale contesto, la componente etnica e confessionale del Nagorno-Karabakh fa da corollario al dedalo intricato di relazioni internazionali che si è andato instaurando dal crollo dell'Unione Sovietica. Un discorso che vale per il Caucaso, (dove si trovano anche Cecenia, Ossezia e Daghestan), come per i Balcani, non a caso due significative sacche di reclutamento di foreign fighters per l'autoproclamato Stato islamico (Daech).

Il Nagorno-Karabakh è al centro di contese territoriali sin dal suo tentativo di secessione del 1988, quando era ancora una delle Oblast autonome dell'URSS, come Cecenia, Ossezia del Nord e Ossezia del Sud. La politica demografica dell'allora segretario generale del Partito comunista e Presidente del consiglio dei ministri dell'Unione Sovietica Iosif Stalin consisteva nell'ostacolare in tutti i modi la formazione di territori etnicamente compatti, in quanto potenziale fattore di disgregazione. Così, il Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena ma in pieno territorio azero, è rimasto integrato nella compagine sovietica fino al suo dissolvimento. Nel 1991, quando sia Armenia che Azerbaijan hanno proclamato la loro indipendenza, la contesa territoriale è sfociata in una guerra che, secondo le stime, ha provocato circa 30mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Un ruolo non indifferente nel raggiungimento della tregua, siglata nel 1994 a Mosca, è stato giocato dall'Iran, che allora dovette fronteggiare la reazione della propria opinione pubblica, in particolare della numerosa minoranza azera che ancora abita nel suo territorio (16% circa della popolazione totale) e che chiedeva a Tehran di sostenere i “fratelli” sciiti azeri contro gli “infedeli” armeni. Gli Azeri, sia in Iran che in Azerbaijan, sono infatti in larga maggioranza musulmani sciiti duodecimani, la stessa religione ufficiale della Repubblica islamica.

Al di là degli sforzi del Gruppo di Minsk, istituito nel 1992 dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) per favorire una soluzione diplomatica del conflitto nel Nagorno-Karabakh, a rivendicare il ruolo di arbitro erano (e sono ancora) due potenze regionali rivali: Turchia e Russia, entrambe consapevoli della posizione strategica del Caucaso, ricco di gas naturale e passaggio ideale per i nag kar2gasdotti verso l'Europa. Ankara, che ha con gli Azeri (popolazione di ceppo turco) profondi legami etnici, e con l'Armenia un'altrettanto profonda e storica inimicizia, sostiene Baku, con cui si è apertamente schierata anche la scorsa settimana. La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan, inoltre, è preda di deliri espansionistici e nostalgie ottomane, come ha ampiamente dimostrato a proposito della guerra in Siria, che per lui si riduce sostanzialmente alla guerra contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Mosca, dal canto suo, storicamente alleata dell'Armenia nel conflitto con l'Azerbaijan, negli ultimi giorni ha dato prova di un “impeccabile” pragmatismo politico: il Primo ministro Dimitri Medvedev, pur chiedendo a entrambe le parti di porre fine alle ostilità, ha dichiarato che la Russia continuerà a essere il primo esportatore di armi sia in Armenia che in Azerbaijan. In caso contrario, ha spiegato, qualche altro attore regionale potrebbe soppiantarla, distruggendo definitivamente l'equilibrio di forze (peraltro alquanto dinamico) in atto. “Le armi”, ha aggiunto Medvedev, “si possono e si dovrebbero comprare non solo per essere un giorno utilizzate, ma anche come fattore di deterrenza”. Il Cremlino, intanto, offre un contributo significativo alla guerra contro i cartelli del jihad, anche per motivi interni: l'immediato antecedente del cosiddetto “califfato” di Daech è stato fondato nel 2007 in Cecenia, altro territorio caucasico conflittuale. Si tratta dell'organizzazione di Doku Umarov, ucciso dall'intelligence russa nel 2013, in Qatar, e sostituito da Abu Muhammad al-Qatari.

Il 3 aprile l'Azerbaijan ha annunciato unilateralmente un cessate il fuoco e, due giorni dopo, è entrata in vigore una tregua, prodotto della mediazione russa. Ma le accuse reciproche di violazioni e gli scambi di artiglieria suscitano non pochi timori, soprattutto perché l'Unione Europea è oggi molto più debole di quanto non lo fosse negli anni '90, quando sperava di poter costituire un blocco geopolitico in grado di far pesare le proprie decisioni sul piano internazionale.

April 02, 2016

L'estrazione del prezioso minerale, indispensabile per la fabbricazione di prodotti high-tech, alimenta guerra e sfruttamento nella Repubblica Democratica del Congo

Coltan è l'acronimo con cui è nota una varietà di columbite-tantalite relativamente ricca di tantalio, prodotta in Australia, ma, soprattutto, nella Repubblica Democratica del Congo, ex Zaire e fino al 1960 colonia belga. Nelle foreste pluviali di questo paese, situate nelle regioni confinanti con Ruanda e Uganda, migliaia di persone, armate di machete, ascia, pala e qualche panno, lavorano in assenza di tutele e a ritmi disumani, per estrarre il prezioso e raro minerale. Molti sono bambini, le cui dimensioni consentono loro di penetrare in profondità nelle miniere. Il mercato del coltan, inoltre, ha dato vita a una serie di “attività collaterali”, come quelle di chi affitta stanze, spesso con prostitute incluse nel prezzo, o di chi “protegge” i minatori dalle bande di rapinatori, all'interno di una sorta di racket delle estorsioni: sia le stanze, che le prostitute, che le milizie armate sono a carico del lavoratore. Così, anche se le retribuzioni sono le più alte del paese, una grossa fetta finisce nelle tasche di trafficanti (di donne) e formazioni armate.

I conflitti che hanno interessato il paese negli ultimi decenni, culminati con una crisi umanitaria ancora in corso, non hanno ricevuto sufficiente attenzione da parte della comunità internazionale, a parte le opere di mediazione sfociate in fragili tregue (la situazione, soprattutto nelle province orientali resta tesa). Basti pensare che uno di questi conflitti si è verificato negli anni '90, lo stesso decennio che ha visto crescere le vendite di coltan del 300 percento. Questo minerale, o meglio il tantalio che contiene, è indispensabile per la fabbricazione di prodotti come telefoni cellulari, satelliti, televisori al plasma, dispositivi MP3 e MP4, fotocamere, ma anche i sistemi computerizzati di razzi spaziali e missili e, in generale, i sistemi elettronici militari. Tutti prodotti che alimentano una parte consistente del mercato internazionale. A nulla sono servite le segnalazioni da eeeparte di organizzazioni umanitarie sul fatto che l'esercito del Ruanda, quando controllava la regione del Kivu, avesse sfruttato prigionieri di guerra per il lavoro nelle miniere. Anzi, la stessa caccia al coltan ha alimentato le rivalità tra fazioni, in parte perché ha reso economicamente strategiche le aree ricche di questo minerale, in parte perché le milizie armate spesso controllavano direttamente le miniere.

Ugualmente devastante l'impatto delle estrazioni di coltan sulle foreste pluviali e, in generale, sull'ecosistema del paese. Per scavare le miniere, infatti, è necessario disboscare, quindi privare la fauna locale del suo habitat naturale. Si stima che la popolazione degli elefanti sia diminuita dell'80 percento, mentre quella degli elefanti ha subito una flessione del 90 percento. Inoltre, il lavoro nelle miniere, che può fruttare dai 10 ai 50 dollari la settimana (quando lo stipendio medio è di 10 dollari al mese), ha provocato il crollo della produzione agricola, impedendo alla popolazione di conquistare la sicurezza alimentare. Per lo stesso motivo, molti bambini abbandonano la scuola per fare i minatori, un ulteriore colpo all'economia. Anche se l'era del colonialismo è finita, la decolonizzazione non è stata un processo verso l'autosufficienza, come aveva auspicato per l'Africa l'ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, ucciso nel 1987 nel colpo di stato organizzato dal suo ex alleato Blaise Compaore. Il coltan, come il petrolio libico o gli scisti bituminosi del Congo Brazzaville, fa gola a multinazionali che trattano prodotti di fondamentale importanza per i mercati internazionali. Lo stesso meccanismo che privilegia agricoltura e pesca industriali, basate sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, rispetto a quelle su scala familiare, che al contrario potrebbero creare uno sviluppo solido ed ecosostenibile.

March 20, 2016

All'indomani dell'accordo con Bruxelles sui rifugiati, Ankara non cambia atteggiamento: repressione delle minoranze e dei dissensi interni e interventi “indiretti” nel Kurdistan siriano

 

Mentre l'Unione Europea conclude con la Turchia un accordo su rifugiati e migranti, Ankara continua le sue operazioni militari nelle regioni sud-orientali, a maggioranza curda. Dal fallimento del cessate il fuoco con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), gli sfollati interni sono oltre 350mila, ma il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan continua a mettere in atto la sua linea dura, forte della maggioranza assoluta in Parlamento (ottenuta lo scorso novembre, al secondo tentativo di elezioni parlamentari nel paese) e del tacito assenso della comunità internazionale. Ponendo sullo stesso piano quelli che ufficialmente ha individuato come “nemici”, il PKK e i cartelli del jihad del cosiddetto “Stato islamico” (Daech), Ankara aveva già lanciato un chiaro messaggio: nessuno si intrometta nella questione kurda. Così, nessuna istituzione sovranazionale ha avuto alcunché da obiettare sul sostegno turco ai Nipoti di Saladino, formazione armata curda integrata nell'Esercito siriano libero (ESL).


Una qualsiasi forma di autonomia nelle regioni curde siriane è, dal punto di vista del governo turco, una minaccia alla propria integrità territoriale, da scongiurare ad ogni costo. Un atteggiamento analogo a quello mostrato nei confronti della minoranza politica, in occasione dell'ingresso in Parlamento di rappresentanti del Partito democratico dei popoli (HDP, partito moderato filocurdo), a seguito del quale tutte le trattative per un governo di coalizione sono fallite. Se all'interno, anche nei confronti del dissenso, Ankara sceglie la linea della repressione, al di fuori dei suoi confini predilige l'intervento indiretto. In Turchia, infatti, hanno il loro quartier generale i Nipoti di Saladino, potenziali fattori di indebolimento del PYD e di destabilizzazione di un'eventuale regione autonoma curda in Siria. Il paradosso è che Mahmoud Abou Hamza, comandante dei Nipoti di Saladino ha dichiarato ultimamente che la sua organizzazione gode del sostegno degli Stati Uniti: “La Turchia non ci sostiene con le armi. Le nostre armi sono americane”.

Dunque, gli USA, che sostengono il PYD elogiandone i successi contro Daech, sono al contempo alleati di una fazione curda costituita per combattere il PYD e le sue Unità di difesa popolare (YPG): “Loro sono contro i Curdi. Questi gruppi tentano di scatenare una guerra settaria tra Arabi e Kurdi … Se non si ritirano da Tal Rafat e dalla base aerea di Menagh, noi li combatteremo nell'area tra Jarablus e Azaz”, una zona attualmente controllata dai cartelli del jihad. Come sulla questione rifugiati, anche sulla guerra in Siria (che ne è la causa) la comunità internazionale si limita a fornire aiuti ad alcune parti in causa, che non sempre sono in accordo tra loro. Il risultato è lo stesso degli ultimi decenni: intervenire nei conflitti presenti seminando conflitti futuri.

March 19, 2016

In un paese dove vigono ancora le corporazioni medievali tutto tende a perpetuarsi. Questa volta è il caso dell’ordine dei giornalisti nostrano, unico al mondo. Circa un anno e mezzo fa, lancia in spalla il presidente, Enzo Jacopino, aveva denunziato la conduttrice televisiva Barbara D’Urso per “abuso di professione giornalistica”, reato che lo stesso ordine vuole punito con il carcere fino a 2 anni.

la colpa della presentatrice di Mediaset era quella di trattare casi di cronaca nera senza “rispondere a quelle regole deontologiche che impongono precisi doveri ai giornalisti”. Ma il caso vuole che la D’Urso non sia mai stata iscritta all’ordine dei giornalisti per stessa ammissione dell’Ordine, e quindi non si possa accusare di aver violato regole imposte ai giornalisti: un totale controsenso col solo obiettivo di far condannare una persona che svolgeva e svolge il suo lavoro ed esprime le sue opinioni. Ancora una volta il carattere autoritario, corporativo e illiberale di un Ordine che dovrebbe vedere la difesa del diritto alla libertà di espressione e di parola come un valore assoluto,articolo 21 della Costituzione, è esploso virulento, ma ha fatto cilecca: il giudice di Monza ha buttato nel cestino la denuncia contro Barbara D’Urso, accusata di abuso della professione giornalistica. Il gip del tribunale di Monza Giovanni Gerosa, richiamando altre sentenze della Corte Costituzionale, ha deciso per l’archiviazione, richiesta dallo stesso pm, Walter Mapelli, “in ragione della tutela dei diritti fondamentali, quali quello di libertà di manifestazione del pensiero”, articolo 21 della Costituzione. Allora, però, ora si pone un altro quesito: a cosa serve tenere in piedi un Ordine dei giornalisti se è una minaccia alla libertà d’espressione? Non è che basti e avanzi il nostro codice penale per tutelarci dagli abusi di questa?

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