L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (362)

    Carlotta Caldonazzo

This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

January 07, 2016

Due le provocazioni con cui l'Arabia Saudita ha iniziato il 2016: la prima sono le 47 esecuzioni in sé, la seconda è che tra i condannati c'era l'imam sciita Nimr al-Nimr.

Che l'abbia fatto perché la sua economia, quasi esclusivamente basata sul petrolio, è in difficoltà, oppure per distrarre quel poco che rimane dell'opinione pubblica interna da possibili perplessità sull'incapacità della classe dirigente di creare un'economia diversificata, in grado di far fronte alle crisi petrolifere (e anche a eventuali cambiamenti nelle politiche energetiche mondiali); che stia cercando di indurre la comunità internazionale a

Saudiking 
 Abd Allah

riconoscere il suo peso geopolitico con gli unici mezzi di cui dispone, o che stia tentando di distogliere la comunità internazionale (soprattutto magistratura e informazione) da possibili velleità di indagare un po' più a fondo sul sostegno finanziario che alcuni “privati donatori” legati alla casa regnante saudita forniscono ai cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico … In ogni caso, sono in molti ad interrogarsi sul perché, in un momento in cui l'unica cosa di cui la politica internazionale avrebbe bisogno è una strategia di distensione, l'Arabia Saudita abbia deciso di uccidere 47 condannati a morte, tra i quali, come se non bastasse, l'imam sciita Nimr al-Nimr.

Al-Nimr, il cui nipote Ali Mohamed al-Nimr (arrestato quando aveva solo 17 anni per aver partecipato a una manifestazione nel 2011) è ancora nelle carceri saudite in attesa dell'esecuzione, non era solo una guida religiosa, ma soprattutto una figura politica. Sferzante nei confronti dei Saud, critico verso il presidente siriano Bashar al-Assad, dedicava molti dei suoi discorsi del venerdì alle condizioni di cittadini di serie B cui sono condannati i cittadini sauditi di religione sciita. La sua condanna a morte, nell'ottobre 2014 per “terrorismo”, “sedizione”, “disobbedienza al sovrano” e “possesso di armi”, ricorda, con le dovute differenze di contesto, i processi per lesa maestà codificati nel I secolo a.C. da Silla e molto in voga in età imperiale, come metodo per liberarsi di chi osasse opporsi all'impero. Si tratta infatti di capi d'accusa che il più delle volte i tribunali sauditi imputano a chiunque sia sospettato di dissentire dalla politica del regime di Riyadh, a maggior ragione se di religione sciita. Numerosi i rapporti di Amnesty International sulle violazioni e gli abusi ai danni di questa minoranza (si veda ad esempio http://www.saudishia.com/?act=artc&id=586), che vive soprattutto nella regione, economicamente strategica, di Qatif. Finora, tuttavia, gli appelli delle organizzazioni per i diritti umani non hanno avuto seguito.

 

Riyadh continua dunque a portare avanti la sua linea politica di teocrazia retrograda, fondata su un'economia assistenziale, alimentata a sua volta dai proventi del petrolio. Un settore che, tra i progetti di estrazione del gas da scisto negli Stati Uniti e in diversi paesi del mondo (malgrado le numerose voci critiche riguardanti l'impatto ambientale), il prezzo basso del greggio e il fatto che prima o poi le riserve finiranno, rischia di non essere più così redditizio. Si tratta di un'eventualità che per l'economia di Riyadh sarebbe disastrosa, visto che il paese è costretto a importare praticamente tutte le risorse necessarie a soddisfare il fabbisogno alimentare dei suoi cittadini.

A parte l'economia, le 47 esecuzioni decise da Riyadh si inscrivono in un preciso quadro geopolitico regionale. All'Arabia Saudita, infatti, non è bastato reprimere nel sangue (con l'aiuto dei suoi satelliti del Consiglio di Cooperazione del Golfo) le proteste nel suo territorio e in Bahrein per acquisire un qualche peso nello scacchiere politico regionale. E non è bastata neppure la nuova campagna di bombardamenti in Yemen (dopo quella del 2010), lanciata per impedire che i ribelli sciiti Houthis conquistassero il potere, ma rivelatasi un cul de sac. Ora Riyadh teme infatti che la sbandierata guerra contro i cartelli del jihad possa indebolire la sua posizione geopolitica, anche a causa del sostegno di cui godono i gruppi salafiti e takfiriti nelle petromonarchie del Golfo. Ad accrescere i suoi timori è inoltre il ruolo che la Russia ha in Siria. Sarà probabilmente una coincidenza fortuita, ma, nei giorni immediatamente precedenti le 47 esecuzioni saudite, la distensione tra Iran e Usa, avviata dall'accordo sul nucleare, ha rischiato di sfumare. La Casa Bianca avrebbe infatti preparato un pacchetto di nuove sanzioni contro Tehran per contrastare il suo programma missilistico. Le autorità della Repubblica islamica hanno risposto immediatamente che il programma è nei limiti del diritto dei singoli stati alla difesa e il presidente Hassan Rohani ha ordinato al ministro della difesa di accelerare la costruzione delle testate balistiche. Un buon momento per creare un motivo di scontro con l'Iran, che con la Russia condivide la stessa posizione sul conflitto siriano.

 Rohani
 Rohani

Inoltre, a dicembre, la Turchia ha avviato importanti colloqui con Israele, per normalizzare le relazioni tra i due paesi, quasi interrotte cinque anni fa, per la vicenda della Mavi Marmara (nave turca impegnata nella Freedom Flotilla, che trasportava aiuti umanitari nella Striscia di Gaza). Il 2 gennaio, dopo una visita in Arabia Saudita, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha diffuso alla stampa una nota in cui affermava che “Israele ha bisogno di un paese come la Turchia nella regione. E noi dobbiamo accettare che anche noi abbiamo bisogno di Israele”. Una mossa con cui Ankara intende mostrarsi a livello internazionale come un alleato indispensabile contro i cartelli del jihad, al punto da potersi permettere la militarizzazione delle zone a maggioranza curda (con gli abusi che questo implica). In questo contesto, il 23 dicembre il co-segretario del Partito democratico dei popoli (partito turco filocurdo - HDP) Selahattin Demirtaş ha incontrato a Mosca il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov, per discutere del conflitto siriano e della crisi diplomatica tra Turchia e Russia a seguito dell'abbattimento di un jet russo da parte dell'aviazione turca. Demirtaş, per questo, aveva ricevuto aspre critiche, soprattutto dal partito Giustizia e sviluppo (AKP, il partito di Erdoğan). Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu era giunto ad accusarlo di tradimento, solo perché Demirtaş aveva definito un errore l'abbattimento del jet russo. A completare il quadro, alla fine di dicembre, durante un raid sulla Siria, l'aviazione russa aveva ucciso Zahran Allush, predicatore salafita siriano, che Riyadh contava di far partecipare ad eventuali negoziati, ovviamente dopo la “necessaria” destituzione di Assad.

Probabilmente le 47 esecuzioni con cui l'Arabia Saudita ha iniziato il 2016 non sono solo l'episodio di uno scontro regionale per decidere le sorti della Siria e, di conseguenza, imporre un nuovo equilibrio di forze. In ogni caso, è evidente che Riyadh conta sulla sua impunità a livello internazionale, se si escludono le recenti prese di posizione del governo svedese sulla condanna del blogger saudita Raif Badawi (che sembra caduto nel dimenticatoio) e sui diritti delle donne. Infatti, ad esempio, non è nella lista in cui il Foreign Office britannico elenca i paesi che devono ridurre progressivamente il ricorso alla pena di morte. Ma sono privilegi che Riyadh ha finora comprato con il petrolio e che, finite le riserve, potrebbero venire meno.

December 30, 2015

caro Renzi,

ieri, alla conferenza organizzata dalla stampa parlamentare hai avuto il coraggio di dire che, fosse per te, aboliresti domani stesso l’ordine dei giornalisti. E’ la prima volta che sentiamo una frase del genere da un Presidente del Consiglio. Non possiamo non concordare. Un ordine, come tanti altri in Italia, che è un “unicum” al mondo, che sa tanto di casta, di lobby, di corporazione, di settarismo e chi più ne ha più ne metta, non ha ragione di esistere. L’avocazione inoltre, se non scandalosa, ma poco ci manca, del monopolio da parte di impiegati al soldo degli editori che si autoreferenziano come “giornalisti” , perché iscritti all’albo, è uno schiaffo alla Costituzione.

Caro Renzi, hai fatto bene a dirlo pubblicamente, ti ringraziamo, del resto la sinistra è sempre stata a favore dell’abolizione dell’ordine dei giornalisti e per un insegnamento delle tematiche inerenti l’informazioni nelle università. Sei stato coerente, te ne diamo atto: del resto l’editore è libero di assumere chi vuole, iscritto all’albo o meno. Ma fossi in te racconterei tutta la storia. Per dirigere una testata nel nostro bel paese bisogna essere iscritti all’albo dei giornalisti, cosa che non esiste in nessuna altra parte nel mondo, per avere finanziamenti pubblici (vedi finanziamenti all’editoria) bisogna essere amico di questo o di quel politico: i finanziamenti (che sono milioni di euro ogni anno) falsano la concorrenza; se ho un concorrente che usufruisce del finanziamento sono costretto prima o poi a chiudere, e questa è concorrenza sleale e che, quindi, non c’è libertà di stampa. Caro Renzi, la libertà di stampa nel nostro Paese è ormai a livelli africani! Basterebbe annullare i finanziamenti e dare modo ai veri giornalisti, ai giornalisti autonomi, i freelance, di poter fare vera informazione e non ci sarebbe più bisogno di fare tagli per far quadrare i conti, ma tu fai finta di non accorgertene……

December 25, 2015

Un quarto della popolazione ai limiti della soglia di povertà, una legge finanziaria che rischia di acuire le diseguaglianze sociali; sullo sfondo, preoccupanti manovre di assestamento ai vertici di stato maggiore e intelligence

 

La morte di Hocine Ait Ahmed, uno dei comandanti storici della guerra di indipendenza, militante della democrazia e fondatore del Fronte delle forze socialiste (Ffs, partito di opposizione), il 23 dicembre, ha lasciato buona parte dell'Algeria nello sgomento persino la Presidenza della Repubblica, che ha proclamato otto giorni di lutto nazionale, in un paese che  presenta diversi fattori di rischio di implosione. Primo fra tutti la caduta del prezzo del petrolio, che ha mostrato negli ultimi mesi la fragilità di un'economia troppo dipendente dall'esportazione di idrocarburi. Dallo scorso marzo, ad esempio, il Fondo di regolamentazione delle entrate (FRR, una sorta di fondo di stabilità) ha perso circa 20 miliardi di dollari, mentre il debito interno è balzato al 15% del prodotto interno lordo (Pil), ma l'unica strategia messa in campo in difesa dell'economia nazionale è un rigido controllo dei tassi di cambio, mirato a impedire eventuali fughe di capitali. A fine novembre, inoltre, l'aumento dell'inflazione al 4,9% rispetto a fine novembre 2014, suscita timori riguardo un possibile aumento dei prezzi dei prodotti alimentari (quasi totalmente importati). Un fatto che potrebbe riportare l'Algeria alla crisi che si è verificata tra 2010 e 2011, producendo un aumento dei prezzi di olio e zucchero. Allora, dopo pochi giorni di proteste di massa, il governo era intervenuto mettendo in campo una strategia basata (oltre che sulla repressione, con oltre mille arresti, un morto e più di 800 feriti) essenzialmente sull'assistenzialismo. Nulla contro la corruzione o per portare il paese, gradualmente, verso l'autosufficienza economica (un percorso nel quale Algeri potrebbe contare su l'estensione territoriale e su politiche di protezione o sviluppo del suolo).

 

 Al contrario, a giudicare dalla legge finanziaria votata dal Parlamento algerino lo scorso 30 novembre, malgrado il boicottaggio del voto da parte del Fronte delle forze socialiste (Ffs), del Partito dei lavoratori (Pt), dell'Alleanza dell'Algeria verde (Aav) e del Fronte della giustizia e dello sviluppo (Fjd), Algeri ha adottato la linea delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica. Le opposizioni accusano il ministro dell'industria e delle risorse minerarie Abdeslam Bouchouareb (assente, peraltro, il giorno delle votazioni) di agire nel solo interesse degli uomini d'affari e dell'oligarchia al potere, modificando il testo del progetto di legge dopo la chiusura delle discussioni della commissione parlamentare creata ad hoc. Nel 2016, dunque, la spesa pubblica calerà del 9% e tra i settori maggiormente interessati dai tagli figurano l'istruzione e i servizi sociali. Inoltre, malgrado i rapporti internazionali (come quello pubblicato dalla rivista Forbes) evidenzino i numerosi punti deboli dell'economia algerina, che per il 98% dipende dall'esportazione di idrocarburi, Algeri continua a preoccuparsi delle sue riserve di gas e petrolio, che, si prevede, potrebbero esaurirsi nei prossimi quindici anni. Ovvero, la sicurezza alimentare continua a passare in secondo piano rispetto alla sicurezza energetica, che in realtà interessa più i paesi che importano idrocarburi che non l'Algeria. Una linea che, da un paio d'anni, include anche la ricerca e l'estrazione di idrocarburi non convenzionali, come il gas da scisto. A nulla sono servite le proteste che, da un anno, la popolazione di In Salah, e di altre regioni coinvolte, porta avanti contro un progetto che rischia (senza grandi prospettive di guadagno) di privare il paese delle poche speranze di sviluppo agricolo e di inquinare irrimediabilmente le falde acquifere in zone pressoché desertiche. Una vera bomba ambientale, se si pensa che tra le aree interessate c'è il governatorato di Reggane, dove tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso la Francia ha condotto esperimenti nucleari che continuano a provocare la morte di centinaia di persone per esposizione alle radiazioni.

 

Al vertice, intanto, oltre alle frequenti domande dell'opinione pubblica e dei giornali sullo stato di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika (con implicazioni interessanti riguardo alla guida del paese), il gotha dell'esercito, dell'intelligence (il Drs, il Dipartimento dell'informazione e della sicurezza) e della guardia presidenziale è interessato da mesi da turbolenze inquietanti. Tutto inizia a metà giugno, quando il viceministro della difesa, generale Ahmed Gaid Salah indirizza una lettera di sostegno al neoeletto (anzi, al neo-rieletto) segretario generale del Fronte di liberazione nazionale (Fln, partito di Bouteflika, saldamente al governo dall'indipendenza), Amar Saadani. Un'ingerenza troppo esplicita, secondo molti osservatori, dell'esercito nelle vicende politiche, per almeno due ragioni. Anzitutto, la rielezione di Saadani è stata piuttosto controversa (ma il generale Salah la considera in ogni caso frutto di un plebiscito). In secondo luogo, Saadani è protagonista dal 2013 di una campagna politica e mediatica contro l'allora capo del Drs (Rab Dzayer, ovvero “Dio dell'Algeria”), il generale Mohamed Mediène, detto Toufik. Una sfida politica nella quale Saadani è arrivato ad accusare esplicitamente Mediène di essere responsabile della morte dell'ex presidente algerino Mohamed Boudiaf (ucciso il 29 giugno 1992) e dei monaci di Tibhirine (1996; un caso controverso, del quale la magistratura francese ancora si occupa). Così, con la sua lettera di sostegno, il generale Salah ha preso implicitamente posizione in quello che molti considerano un regolamento di conti in vista della successione alla Presidenza della Repubblica.

 

A metà settembre, a saltare è stata proprio la poltrona di Mediène, 75 anni, da venticinque saldamente a capo dell'intelligence militare. E, aspetto più preoccupante, artefice dell'equilibrio tra esercito e servizi segreti sul quale si fonda la stabilità dell'Algeria. Toufik è stato dunque rimpiazzato dal suo ex-vice, il generale Athmane Tartag, detto Bachir, in passato direttore della Sicurezza interna (Dsi), in seguito rimosso e poi reintegrato nello stato maggiore come consigliere della Presidenza della Repubblica. Il 10 settembre, inoltre, era stato “mandato in pensione” l'ex capo della gendarmeria nazionale, il generale Ahmed Bousteila (fino ad allora considerato inamovibile). Ma il caso di Toufik suscita preoccupazioni maggiori perché nel 2010 il Drs aveva aperto inchieste scottanti sugli scandali in cui era coinvolta la compagnia petrolifera nazionale Sonatrach e l'ex ministro dell'industria e delle risorse minerarie Chahib Khelil, personaggio molto vicino a Bouteflika. Altro elemento a favore della “pista” del regolamento di conti ai vertici dello Stato è l'arresto del generale in pensione Hocine Benhadid e di suo figlio, lo scorso 30 settembre. Infatti Benhadid (che ha trascorso il suo periodo di formazione negli Stati Uniti), nel 2014, alla vigilia delle elezioni presidenziali, si era espresso molto criticamente a proposito dell'eventuale quarto mandato di Bouteflika (“non può né parlare né alzarsi in piedi sarebbe uno scandalo di fronte all'opinione pubblica nazionale e internazionale”, aveva detto), accusando quest'ultimo di indebolire intenzionalmente il Drs per difendere se stesso e il suo clan dalle accuse di corruzione.

 

In tutto, Algeri ha dunque mandato in pensione 14 generali del Drs e 37 ufficiali dell'esercito, responsabili in vario grado dell'antiterrorismo. Una mossa che ha seguito di poco lo smantellamento del Gruppo di intervento speciale (Gis, importante durante il decennio nero degli anni '90) e l'integrazione della Guardia presidenziale nella Guardia repubblicana. Ufficialmente, un tentativo di rendere più efficiente l'intelligence militare in un momento di alta tensione nel Sahel (in particolare in Libia). Due i casi che vale forse la pena di citare: quello del generale Abdelkader Ait Ouarabi, detto Hassan, e quello del generale Djamel Kehal Medjdoub. Il generale Hassan, dal 2006 a capo del Servizio di coordinamento operativo e di informazione antiterrorista (Scorat, élite dei servizi segreti da un anno accorpata allo stato maggiore dell'esercito), è stato arrestato lo scorso 27 agosto, con l'accusa di distruzione di documenti e infrazione alle consegne, che gli è costata una condanna a cinque anni di prigione dopo un'udienza a porte chiuse nel tribunale militare di Orano, il 26 novembre. Il fatto in questione risale al 2013, poco dopo l'attentato di una cellula di al-qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) a Tiguentourine, in cui sono morti 37 ostaggi e 29 terroristi. Avendo scoperto un traffico di armi tra la Libia e gruppi affiliati ad Aqmi, il generale Hassan avrebbe deciso di lanciare un'operazione segreta per fermarlo. Di ritorno dalla missione (conclusa peraltro con “successo”), gli uomini di Hassan vengono però intercettati da una pattuglia dell'esercito, con il carico di armi sequestrate. Inizialmente arrestati, sono stati liberati poco dopo, mentre Hassan è stato convocato a febbraio 2014 dalla magistratura militare per “spiegazioni”. Dopo una lunga audizione, anche lui era tornato in libertà, quindi l'affaire sembrava chiuso, almeno fino al 27 agosto. A far discutere sono stati, in particolare, due aspetti: anzitutto il fatto che Hassan rendesse conto delle sue operazioni solo a Toufik; poi, la sua posizione critica riguardo ai ripetuti tentativi della Presidenza della Repubblica di indebolire il Drs. Dopo il suo arresto, peraltro, ad intervenire in suo favore era stato proprio Toufik, con una lettera inviata a diverse testate algerine, caso unico nella storia. Analoga la vicenda che ha coinvolto il generale Medjdoub, ex capo della sicurezza presidenziale (Dgspp, Direzione generale della sicurezza e della protezione del presidente), condannato il 2 dicembre, dal tribunale militare di Costantina, a tre anni di prigione per il tentativo di “intrusione” condotto nella notte tra il 16 e il 17 luglio contro la residenza di Bouteflika a Zeralda, a Ovest di Algeri. Di questa tentata infiltrazione, i motivi non sono mai stati rivelati ufficialmente, ma si sa che è costata il posto, oltre che a Medjdoub, anche al generale Ahmed Moulay Meliani (capo della Guardia repubblicana) e ad Ali Bendaoud (direttore della sicurezza interna, Dsi).

December 12, 2015

Egregio De Rita,


in primis, mi è ignoto da dove lei abbia appreso che gli italiani, oggi, si sentano estranei ad una guerra eventuale, perchè lei purtroppo non ne parla nel suo articolo. Per cui, mi pare sinceramente una sua completa deduzione, soggettiva. Soggettività che, nel suo articolo lei cita, peraltro, come causa di egoismo e del senso di separazione dallo Stato, dalla guerra, e forse dalla società tutta.

In secundis, vorrei sapere per quale ragione al mondo, bisognerebbe sentirsi disponibili a partecipare, di persona o in spirito, ad una guerra di cui, innanzitutto i mass-media più importanti negano evidentemente le cause ed i responsabili. Basta infatti seguire l’approfondimento delle notizie, su siti e blog fuori dal sistema main-stream, perchè emergano tutte le contraddizioni e le follie operate dai nostri politici e dimenticate o negate dai giornalisti, per ciò che attiene alla guerra già in corso.

Peraltro, lei cita la storia di Bush in Iraq e Sarkozy in Libia - eventi che hanno ampiamente dimostrato la follia di ambedue gli interventi e di cui stiamo pagando, giorno dopo giorno, a piè di lista, le conseguenze – cosa che, semmai, dovrebbero indurci, non certo ad imbracciare le armi, per andare a combattere una guerra che sta seguendo con chiarezza quello stesso filone d’intervento geopolitico, miope (e guidato da interessi non certo delle popolazioni europee), ma piuttosto a scardinare una parte delle attuali istituzioni, che ci stanno portando nella direzione della guerra. Nonchè i loro portavoce: i media di regime.

Infine, lei parla di “Essere o non essere una nazione solida e determinata”.. Mi scusi: ma qui l’intero sistema politico del nostro Paese sta scardinando, giorno dopo giorno, l’impianto costituzionale e con esso tutte le strutture pubbliche che ne sono espressione, e lei mi ritira fuori “la nazione solida e determinata”? Piuttosto, faccia pace col cervello, ed esprima un pò di coerenza e di rispetto, e di scuse (sopratutto) verso un popolo che è stato preso per il culo, non solo dalla sua classe politica – che oramai ha imbastito un sistema che si auto-riproduce, al di fuori di qualsiasi rapporto con la società (questa si chiama cieca soggettività) – ma di conseguenza, anche da tutti gli altri politici stranieri che a quelli nostrani hanno chiesto di fare “questo e quello”, cioè di tutto, meno che l’interesse del proprio popolo.

 

Perché gli italiani non si sentono in guerra

Corriere della Sera, venerdì 11 dicembre 2015

«Siamo in guerra». «Chi, io?». Se qualcuno volesse capire come l’italiano medio viva l’attuale drammatica congiuntura internazionale troverebbe la risposta più confacente proprio in quell’interrogativo, che ben riassume una radicata estraneità alle tensioni belliche.  
C’è tutto l’italiano d’oggi, antico e postmoderno insieme, in quel dichiarare «non mi compete». C’è la quasi ingenua ammissione di non essere adeguatamente pugnace; c’è l’antica prudenza di star lontano, se possibile, dalla linea del fuoco; c’è la sottintesa cinica propensione al «se posso, svicolo»; c’è l’abitudine ad allontanare l’angoscia e il ricatto di chi fa dell’angoscia un’arma di guerra; c’è l’implicito trincerarsi nella quotidianità e nella costanza degli stili di vita; c’è la constatazione che è quasi impossibile decifrare e capire la complessità di quel che sta avvenendo; c’è la resistenza a farsi trascinare dalle altrui pulsioni (tutti ricordano che facemmo male a seguire Bush in Iraq e Sarkozy in Libia); e c’è in fondo un antico fatalismo verso gli eventi che non si possono dominare, magari con la riscoperta di un po’ di impaurita devozione creaturale (quante preghiere e quanti ex voto hanno costellato la nostra vita collettiva, dal ’40 al ’45!). 
Essere o non essere una nazione solida e determinata. Questo è sempre stato il nostro dilemma, cui si può attribuire la frequente non eroica resistenza al «prendere armi contro un mare di guai e, combattendo, por fine ad essi». Oggi quella resistenza ritorna, mettendo in ombra e forse sottovalutando guai che per alcuni sono inseriti in un epocale scontro di civiltà, così violento da chiamare a una mobilitazione di massa, al limite anche bellica. Ma non opera soltanto la tradizione storica sotto tale resistenza; opera anche, e forse specialmente, la specifica evoluzione strutturale degli ultimi settant’anni, durante i quali, complici silenziosi la pace e la democrazia, siamo diventati una società ad alta, anzi altissima soggettività, dove ogni problematica viene ricondotta all’io individuale (mia è l’azienda, mio è il tempo, mio è il lavoro, mio il figlio, mio il corpo, mia addirittura la morte) in una grande frammentazione molecolare dei sentimenti e anche degli interessi. E a tale coazione egocentrica non può sfuggire un evento come la guerra (è difficile pensare un italiano che dica «la mia guerra»). 
Se si pone attenzione a ciò, si capiscono facilmente le difficoltà che incontra la politica, stretta fra quella necessità di un collettivo noi (la nazione, l’Europa, l’Occidente) che è indispensabile per gestire i conflitti internazionali e la necessità di un consenso interno tutto condizionato dall’imperante soggettività dell’«io che c’entro?». Stretta, in altre parole, fra le spinte a schierarsi con alleati vecchi o nuovi e la vocazione a navigare prudentemente nei flutti degli avvenimenti. Dio non voglia che arrivi il momento in cui dovremo schierarci; e più ancora che ci si schieri con l’avventatezza dell’ultimo momento. Di solito non ci riesce bene. 

Giuseppe De Rita

December 06, 2015

Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso. A tutti i giovani delle nazioni occidentali. Gli avvenimenti amari che il terrorismo ha creato in Francia, mi hanno spinto ancora una volta a parlare con voi giovani. Per me e' rattristante che si debba parlare in una simile atmosfera, ma la verita' e' che se non correremo ai ripari in questa situazione dolorosa cercando una soluzione, i danni in futuro si potrebbero moltiplicare.

Il dolore di qualsiasi essere umano, in qualsiasi punto della Terra, e' in se e per se rattristante per gli altri uomini. L'immagine di un bambino che muore davanti ai suoi cari, una madre che vede trasmutata in lutto la gioia della sua famiglia, un uomo che porta in braccio il corpo esanime della propria consorte, o uno spettatore smarrito ripreso dalle telecamere e che non sa che quella sara' l'ultima scena della sua vita; non sono immagini che non sconvolgano i sentimenti umani.

Chiunque abbia un minimo di umanita' e di affetto, si rattrista per la visione di queste scene, siano esse in Francia, in Palestina, in Iraq, in Libano o in Siria.
E' fuor d'ogni dubbio che hanno lo stesso sentimento di sgomento e tristezza anche il miliardo e mezzo di musulmani sulla Terra ed e' chiaro che odiano gli autori di questi atti e che provano sdegno per loro.
La questione però e' che se i dolori del nostro oggi non verranno usati per costruire un domani migliore e più sicuro, le tragedie verificatesi rimarranno solo ricordi amari e senza esito.
Io credo che solo voi giovani potete costruire nuove strade per il futuro prendendo le giuste lezioni dalle avversità di oggi, cambiando il corso deviato che ha intrapreso oggi l'Occidente.
E' vero che oggi il terrorismo e' il problema comune tra noi e voi, ma e' bene puntualizzare che i dolori da voi sopportati sono differenti sotto due aspetti rispetto a quelli che in questi ultimi anni hanno sopportato le popolazioni di Iraq, Yemen, Siria e Afghanistan. In prima istanza, bisogna dire che il mondo islamico e' stato vittima della paura e della violenza su scala molto più ampia, con maggiore intensità e in un periodo molto più lungo; l'altra differenza e' che la violenza contro il mondo islamico, purtroppo, e' sempre stata sostenuta in diversi modi da alcune grandi potenze.
Oggi sono ben pochi coloro che non sono al corrente del ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto nella creazione, il rafforzamento e l'armamento di Al Qaeda, dei Talebani e dei nefasti gruppi a loro collegati.
Accanto a questo sostegno diretto, i chiari e ben conosciuti sostenitori del terrorismo takfirita, pur avendo i regimi di governo più retrogradi del mondo, sono sempre figurati tra gli alleati dell'Occidente e ciò mentre i pensieri più illuminati e più democratici nella nostra regione sono sempre stati soppressi senza scrupolo. L'approccio ambiguo dell'Occidente con il fenomeno del risveglio islamico (primavera araba/ndr) e' l'esempio esplicito delle politiche paradossali dell'Occidente.
L'altro volto di questa dualità lo si può osservare nel sostegno al terrorismo di Stato di Israele. Il popolo sciagurato della Palestina da 60 anni a questa parte e' vittima del peggior tipo di terrorismo. Se ora i cittadini europei hanno paura e magari per qualche giorno non escono di casa o evitano di recarsi nei luoghi affollati, una famiglia palestinese da decenni non e' al sicuro nemmeno nella propria casa per via della macchina di distruzione e di morte del regime sionista. Sotto il profilo della crudeltà, quale tipo di violenza può essere paragonata a quella della costruzione degli insediamenti illegali?
Questo regime, senza essere mai richiamato seriamente dai propri potenti alleati o perlomeno essere criticato dagli enti internazionali apparentemente indipendenti, distrugge quotidianamente le case, i campi e le coltivazioni dei palestinesi, e lo fa' senza nemmeno dar loro il tempo di prendere la propria roba o di effettuare il raccolto agricolo; tutto ciò avviene di solito dinanzi agli occhi piangenti delle donne e dei bambini che assistono anche all'umiliazione dei propri mariti e padri e che talvolta li devono salutare per sempre, dato che vengono trasferiti in centri di tortura terrificanti. Conoscete forse, nel mondo di oggi, una crudeltà che sia paragonabile a questa per ampietà, dimensioni e durata temporale? Sparare ad una ragazza nel bel mezzo della strada solo per aver protestato contro un soldato armato fino ai denti, se non e' terrorismo, che cosa è?
Questa barbarie non deve essere definita fondamentalismo solo perchè a perpetuarla e' l'esercito di un governo di occupazione? Oppure le nostre coscienze si sono abituate a vedere queste scene perchè sono 60 anni che si ripetono?
Le campagne militari dell'Occidente nel mondo islamico negli ultimi anni, che hanno causato a loro volta innumerevoli vittime, sono un altro esempio del ragionamento paradossale dell'Occidente. I paesi aggrediti, oltre alle perdite umane ed ai danni alle infrastrutture economiche ed industriali, hanno patito una grave recessione ed in alcuni casi sono tornati indietro di decine di anni. Nonostante tutto, a loro viene imposto prepotentemente di non definirsi vittime. Ma come si fa a trasformare una nazione in un ammasso di macerie e a raderne al suolo città e villaggi e poi chiederle: "per favore non definirti vittima"!
Invece dell'invito a fingere di non capire o a dimenticare le tragedie, non sarebbe meglio chiedere sinceramente scusa? I dolori patiti dal mondo islamico in questi anni per l'ipocrisia degli aggressori, non sono minori a quelli causati dai danni materiali.
Cari giovani! Io ho una speranza; che nel presente o in futuro, voi riusciate a cambiare questo modo di pensare colorato di ipocrisia, una corrente che ha l'unica arte di mentire alla gente e di rendere belle alla vista dell'opinione pubblica le azioni più brutte.
Secondo me la prima fase nella creazione della sicurezza e della serenità, e' la correzione di questo modo di pensare violento.
Fino a quando i double standards domineranno la politica dell'Occidente, e fino a quando il terrorismo verrà classificato in terrorismo buono e terrorismo cattivo, e fino a quando gli interessi nazionali verranno ritenuti prioritari rispetto ai valori dell'umanità e dell'etica, non bisogna ricercare altrove le radici della violenza.
Purtroppo queste radici, nel corso di lunghi anni, sono penetrate piano piano negli strati più interni della politica culturale dell'Occidente dando vita ad una silenziosa dominazione.
Molte nazioni sono fiere della propria cultura nazionale; culture che si sviluppano e che per centinaia di anni hanno reso prospera la vita sulla Terra. Il mondo islamico non e' stato un'eccezione ed ha avuto il suo periodo aureo.
Nel periodo contemporaneo, però, il mondo occidentale insiste sull'omologazione e la mondializzazione culturale. Io ritengo molto dannoso il fatto che la cultura occidentale venga imposta agli altri popoli e che le tradizioni e le culture indipendenti vengano umiliate; questa e' una violenza silenziosa.
L'umiliazione di ricche culture umane e le reiterate offese alle loro sacralità avvengono mentre l'alternativa proposta dall'Occidente non e' affatto completa.
Per fare un esempio, i due fenomeni del "bullismo" e "dell'oscenità" sono divenuti, purtroppo, due pietre miliari della cultura occidentale; oggi gli stessi occidentali criticano questi fenomeni emersi dalla loro società.
La domanda che ora mi pongo e' questa: se noi non vogliamo una cultura aggressiva, oscena e superficiale, dobbiamo essere considerati peccatori? Se cerchiamo di ostacolare quell'alluvione distruttivo che viene propinato ai nostri giovani sottoforma di pseudo-prodotti culturali, dobbiamo essere considerati colpevoli? Io non rinnego l'importanza dei legami culturali. Io sono convinto che quando, in condizioni naturali e di rispetto reciproco, vengono stabiliti contatti culturali, questi non possono che creare dinamismo nella società e renderla ancora più ricca. D'altra parte, però, i legami imposti sono sempre stati di poco successo ed anzi controproducenti.
Con grande amarezza devo dire che gruppi ignobili come l'Isis sono esito del legame con culture importate. Se il problema fosse veramente inerente alla religione, avremmo dovuto avere movimenti simili anche prima del periodo coloniale, ma la storia ci dice che non è mai esistito nulla del genere. Evidenti documenti storici dimostrano che l'incrocio tra il colonialismo ed un pensiero deviato e isolato nel cuore di una tribù agli antipodi, hanno costituito il seme dell'integralismo nella regione. Altrimenti com'e' possibile che una delle dottrine più moraliste e umanistiche della storia che definisce l'assassinio di una sola persona grave quanto l'assassinio di tutti gli uomini, possa dare vita ad un'immondizia come l'Isis?
D'altro canto bisogna anche chiedersi perchè coloro che sono nati in Europa e sono cresciuti in quell'atmosfera spirituale e di pensiero, si uniscano a questo gruppo; dobbiamo credere al fatto che queste persone, con qualche viaggio nelle zone di guerra, diventino così integraliste da aprire il fuoco sui propri connazionali? Non bisogna ignorare l'effetto che per una vita ha avuto la cultura violenta dell'Occidente su queste persone. Bisognerebbe analizzare con realismo questo fenomeno e scoprire i lati oscuri di questa realtà. Queste persone provano odio profondo verso le società in cui sono cresciuti perchè sono stati vittima di discriminazioni? Ciò che hanno accumulato al loro interno si palesa così in certi casi in maniera folle?
Siete voi che dovete scoprire questi lati oscuri delle vostre società, dovete trovare le fonti dell'odio e prosciugarle; dovete liberare i nodi e risolvere i problemi.
Bisogna colmare le distanze, non incrementarle. Il grande errore nella lotta contro il terrorismo sono le reazioni affrettate che non fanno altro che aggravare la situazione. Ogni azione affrettata o basata sui sentimenti che crei isolamento, paura o preoccupazioni ai milioni di musulmani che vivono in Europa e che sono persone attive e responsabili, potrebbe allontanarli dalla società e quindi aumentare le distanze e l'odio.
Soprattutto se le discriminazioni e le azioni ingiuste ad-hoc, verranno trasformato in leggi, ciò potrà portare a maggiori polarizzazioni aprendo la strada a nuove crisi.
In base alle notizie pervenute, in alcuni paesi europei, sono state approvate leggi che apparentemente costringono i cittadini a spiare i musulmani. Questi comportamenti sono davvero ingiusti e sappiamo che il male, che a noi piaccia o meno, porta sempre altro male. Ed in aggiunta direi che i musulmani non si meritano un tale comportamento ingrato.
Il mondo occidentale conosce da secoli i musulmani. Sia in quei giorni in cui gli occidentali divennero ospiti dei musulmani e li depradarono delle loro ricchezze, sia in quei giorni in cui erano gli occidentali i padroni di casa ed hanno usufruito del lavoro e del pensiero dei musulmani, di solito hanno solo visto affetto e pazienza da parte degli islamici.
Per questo, io chiedo a voi giovani di basarvi su una conoscenza giusta e profonda, e di prendere le giuste lezioni dal nostro amaro presente, per porre le basi di una rapporto giusto e dignitoso con il mondo islamico.
In questo caso, vedrete che in un futuro non molto lontano, il monumento che avrete eretto su queste fondamenta, estenderà l'ombra della sicurezza e della serenità sul capo dei propri architetti, dando loro il calore della fiducia e accendendo in loro il lume della speranza in un mondo migliore.

 

Seyyed Alì Khamenei
29 Novembre 2015

November 15, 2015

Sei attentati sincronizzati scuotono Parigi nella serata e fino alla tarda notte tra il 13 e il 14 novembre; è giunto il momento di elaborare una strategia efficace per fermare la logica del terrore e della sopraffazione.

 

Probabilmente, l'aspetto che più preoccupa dell'ondata di attentati di Parigi è la loro sincronia quasi assoluta, prova evidente del fatto che a commetterli siano state almeno otto persone ben addestrate, al punto da essere in grado di compiere attacchi secondo una modalità tipica delle zone di conflitto, come Siria o Iraq, ma in una capitale europea e a pochi giorni dalla visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Europa, prontamente annullata. La strage di Parigi, inoltre, segue di un giorno il doppio attentato suicida che ha colpito la periferia meridionale di Beirut, dove vive una parte dei dirigenti e dei militanti del partito sciita libanese Hezbollah (è l'attentato più sanguinoso dalla fine della guerra civile).

 

In particolare, suscita inquietudine il trinomio costituito da coordinazione strategica, facilità di reperimento di armi pesanti e uso di esplosivi artigianali di facile reperimento. Per ottenere il perossido di acetone (utilizzato dall'attentatore suicida che tentava di entrare nello Stade de France di Parigi), non c'è bisogno neppure di ricorrere alle reti criminali, da cui spesso provengono le armi da fuoco. La tattica degli attentati coordinati contro paesi considerati ostili era emersa già negli attentati rivendicati da al-Qaeda e gruppi affiliati, a partire da quelli dell'undici settembre 2001 negli Stati Uniti, fino a quelli di Madrid del 2004, e di Londra e Sharm el-Sheikh del 2005. Al-Qaeda, tuttavia, a differenza dei cartelli del jihad del cosiddetto “Stato islamico” (Daesh), non gggcontrollava porzioni cospicue di due stati del Medio Oriente (Siria e Iraq) e, soprattutto, non si poneva come alternativa ai confini e alle istituzioni di questi stati. L'intenzione dichiarata da al-Qaeda era seminare il terrore, non reclamare il potere assoluto su una qualche regione del mondo.

 

Dunque, i cartelli del jihad (che con al-Qaeda non hanno sempre relazioni positive, almeno ufficialmente) uniscono alla strategia qaedista quella dei movimenti armati che lottano contro un “invasore” per spodestarlo e prenderne il posto, applicandola a livello trans-nazionale anziché in un solo paese. Per questo la loro propaganda, a differenza di quella di al-Qaeda, mira ad attrarre sempre nuovi adepti attraverso una propaganda esplicita e supportata da sofisticati mezzi di comunicazione, pubblicità e marketing. La loro è una retorica che, come in tutti gli estremismi che si rispettino, trova un terreno particolarmente fertile nelle zone e tra le fasce sociali economicamente e socialmente emarginate. Un aspetto che li accomuna ai movimenti criminali di stampo mafioso, al pari del ricorso a traffici illeciti (droga, armi, esseri umani) per rifornirsi di denaro e armamenti vari. Considerando strategie e mezzi di “sostentamento”, Daesh accorpa dunque elementi provenienti da diverse organizzazioni terroristiche e criminali, corredandoli con una propaganda fondata su motivi dalla forte connotazione ideologica, come la rabbia (e la riscossa) degli oppressi e i sentimenti di ostilità nei confronti del “sistema occidentale”. E lo fa in un momento in cui il senso di frustrazione, impotenza e risentimento è piuttosto diffuso anche tra i cittadini europei o statunitensi. A chiunque salga su un qualsiasi mezzo di trasporto pubblico a Roma sarà capitato almeno una volta di sentire discorsi traboccanti di ira repressa, talvolta persino un qualche “altro che l'Isis...” (Isis è uno degli acronimi con cui è conosciuto il cosiddetto “Stato islamico”).

 

Se non secondo la logica, almeno per esperienza è evidente che un'organizzazione simile non si può fermare manu militari. Tutte le guerre condotte finora, e presentate come “umanitarie” o “preventive”, non hanno prodotto che un aumento dei fenomeni riconducibili al terrorismo e, soprattutto, hanno preparato il terreno alla sua diffusione, al punto che una buona parte dei miliziani di Daesh ha un passaporto europeo. Inoltre, tutte le misure di sicurezza finora messe in campo si sono rivelate inefficaci, anche perché non si può perquisire chiunque e, per quanto si possano intensificare i controlli, il margine di errore resta alto. Combattere i cartelli del jihad significa anzitutto privarli del consenso che riscuotono, oltre che dei mezzi di rifornimento bellico e finanziario, ovvero lavorare sui mezzi di reclutamento e sui traffici illeciti. Una strategia che vale al contempo anche per ridurre (e - perché no? - eliminare) le attività delle organizzazioni criminali e che ha tra le priorità quella di creare sviluppo. Dove c'è sviluppo economico (quello vero, inscindibile dalla giustizia sociale) la propaganda mafiosa e terroristica è meno incisiva. Gli attentatori sono in genere giovani, quindi proporre loro un'alternativa di emancipazione sociale e civile potrebbe essere un buon modo per sottrarli all'orbita dell'estremismo.

 

Se si vuole davvero combattere il terrorismo non ci si può sottrarre ad una riflessione autocritica sul sistema economico e sociale attualmente in vigore. Un sistema che troppo spesso produce ingiustizia, discriminazione ed esclusione, ma soprattutto relazioni sociali basate sulla competizione e sull'egoismo. Al terrorismo e all'estremismo si risponde con la garanzia dei diritti inalienabili dell'uomo, con la giustizia sociale, con l'inclusione e la partecipazione collettiva alla vita politica. Una via che finora la comunità internazionale non è sembrata disposta a seguire, schierandosi, al contrario, contro guide politiche in grado di proporre modelli sociali alternativi, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi di produzione e la gestione delle risorse del pianeta: si pensi, ad esempio, a Thomas Sankara in Burkina Faso o a Mohammad Mossadeq in Iran. Inoltre, la repressione (più o meno diretta) delle forze politiche di sinistra e, in generale, dissidenti, che rappresentavano le fasce sociali più esposte all'ingiustizia, ha provocato un sentimento diffuso di frustrazione e di solitudine in chi si vedeva negati i diritti fondamentali. Ciò, a sua volta, ha sgretolato progressivamente il tessuto sociale, alimentando ulteriormente la tensione. Due esempi fra tutti: il primo, Anders Behring Breivik, che il 22 luglio del 2011 provocò una strage, prima a Oslo, con un ordigno artigianale, poi sull'isola di Utøya, sparando su una folla di studenti; il secondo esempio è invece Yassin Salhi, che il 26 giugno 2015, in una fabbrica vicino Lione, ha decapitato il suo datore di lavoro. Due casi che rivelano una pericolosa diffusione del sentimento di disperazione nei confronti del futuro, fino alla perdita della lucidità (evidente soprattutto nel caso di Breivik, che si dichiarò convinto del suo gesto). Creare sviluppo significherebbe quindi evitare sia gli episodi di follia “interni” che i fenomeni legati al terrorismo, ma anche alla corruzione e alla criminalità.

Che sia vero che l'obiettivo più nobile che un governo possa prefiggersi sia di favorire quel grado di sviluppo economico, sociale e culturale, che renda le istituzioni quasi superflue?

November 14, 2015

Quando i nostri antenati sbarcarono in Africa, in America, in Oriente e in ogni dove portarono uguaglianza, libertà e giustizia solo formalmente, di fatto le popolazioni occupate furono depredate di ciò che la natura aveva abbondantemente loro regalato, sottomesse alla logica della sopraffazione, del profitto e della diseguaglianza, e forse lo sono ancora. Subiremo gli effetti di queste cause per molti anni a venire. Comunque sia, se ai tempi avesse prevalso l’Oriente noi saremmo stati le vittime e gli orientali, gli africani e gli indiani d’America gli oppressori. I tempi non erano maturi per la realizzazione a pieno di questi tre concetti a livello globale. Oggi la Rete, o meglio internet con i suoi social, da forza sostanziale a questi principi che sono alla base del convivere civile, ma presenta anche il conto.

Lo scopo del terrorismo è precipitare la popolazione nell’angoscia e nella confusione, alimentando la paura e la sfiducia: per questo è essenziale non soccombere mai a simili emozioni. Dobbiamo far emergere la forza dello spirito umano in misura ancor maggiore, per superare le dimensioni della minaccia che abbiamo davanti.

Come dice un vecchio detto, più scura è la notte, più vicina è l’alba. Ma la porta su una nuova era non si aprirà di sua spontanea volontà. Tutto dipende da noi, dalla nostra capacità di affrontare direttamente tutte le implicazioni  connesse con questa tragedia, di risollevarci da essa senza sentimenti di sconfitta ma di considerarla anzi  un’opportunità senza precedenti per trasformare il corso della storia umana.

È arrivato il momento di affrontare quest’impresa estremamente difficile con grande speranza e dignità.

November 03, 2015

Nella complessa galassia di Mafia Capitale sono state già emesse condanne con rito abbreviato: Emilio Gammuto, quello che ingrassava la famosa mucca che poi veniva munta da politici, faccendieri e amministratori, si è preso 5 anni e 4 mesi per corruzione con l’aggravante dell’associazione a delinquere di stampo mafioso (il noto 416 bis).

A Emanuela Salvatori, ex funzionaria del campidoglio e responsabile del campo nomadi di Castel Romano, è andata solo leggermente meglio con 4 anni per corruzione. Secondo i pm avrebbe agevolato un finanziamento di 150mila euro a una delle cooperative di Buzzi in cambio dell’assunzione della figlia.

Fabio Gaudenzi e Raffaele Bracci, sodali di Massimo Carminati, si sono beccati 4 anni a testa per usura. Imponevano interessi del 120% agli imprenditori. Le motivazioni precise saranno note soltanto tra due mesi.

Passando agli altri: Luca Odevaine, finora detenuto nel carcere di Terni, se l’è cavata, per ora, con gli arresti domiciliari per corruzione. Già appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale che si occupa di richiedenti asilo e immigrati, si intascava una cosa come 20mila euro al mese per favorire La Cascina, che orbitava sempre nella galassia delle cooperative di Buzzi.

Massimo Carminati, ancora in regime di 41 bis (il carcere duro), ex NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), ex sodale della Banda della Magliana e dotato di un curriculum criminale dei peggiori, dovrebbe essere giudicato da giovedì prossimo, inizio del maxiprocesso nell’aula bunker di Rebibbia, insieme allo stesso Buzzi e ad altri 44 imputati.

Dico “dovrebbe”, perché il legale di Buzzi, Alessandro Diddi, con una mossa furba ma abbastanza prevedibile ha chiesto di nuovo un patteggiamento di pena per il suo cliente.

E siamo alla terza volta: già a giugno di quest’anno Buzzi chiese il primo patteggiamento, subito respinto dai PM, poi ci riprovò a settembre. Gli risposero di nuovo picche. Inizialmente chiedeva 3 anni e 6 mesi, ma ora ci ha riprovato con 3 anni e 9 mesi chiedendo l’esclusione dell’aggravante di stampo mafioso, il 416 bis: forse pensa che aggiungere tre mesi alla condanna possa convincere i giudici.

La mossa appare ancora più furba, se consideriamo che in caso di ennesimo, e prevedibile, rifiuto dei PM, il collegio dovrà, per dirla in gergo, spogliarsi del procedimento e trasferirlo a un altro collegio, il che potrebbe causare uno slittamento dell’intero processo e il rischio di scadenza dei termini di custodia cautelare per alcuni imputati.

October 25, 2015

Dopo un incontro con le autorità turche, la famiglia della giornalista Jacky Sutton accetta la versione ufficiale, in attesa di una perizia indipendente

A prescindere da come si concluderanno le indagini, il caso di Jacky Sutton, ex giornalista della BBC e collaboratrice delle Nazioni Unite, trovata morta nei bagni dell'aeroporto Atatürk di İstanbul, impiccata con i lacci delle sue scarpe, apre diversi interrogativi sul presente e soprattutto sul futuro prossimo della Turchia, a pochi giorni dalle elezioni parlamentari del 1 novembre.

Anzitutto, la donna era diretta a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno (KRG, Governo regionale del Kurdistan), dove dirigeva la sezione irachena dell'Institute for War & Peace Reporting, e conduceva inchieste sulla condizione femminile nei territori controllati dai cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Isis): quindi, nulla che riguardasse direttamente la Turchia. La sua morte, inoltre, è avvenuta qualche mese dopo quella del suo predecessore nel medesimo istituto, Ammar al-Shahbander (ucciso da un'autobomba a maggio a Baghdad con altre 17 persone). Amici e colleghi, infatti, si sono immediatamente chiesti se la Sutton (in passato arrestata in Eritrea con l'accusa di spionaggio) non fosse stata uccisa a causa del suo impegno per la libertà di espressione in Iraq. Nondimeno, ora che familiari e amici, dopo aver ricevuto informazioni dalle autorità turche, hanno accettato la pista ufficiale in attesa di un'indagine indipendente, restano aperte altre questioni.

A proposito di giornalismo, a giugno il direttore del quotidiano turco in lingua inglese Today's Zaman Bülent Keneş è stato condannato a 21 mesi di carcere con sospensione della pena, per aver insultato sulla rete sociale Twitter il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Today's Zaman è controllato dai seguaci del movimento di Fethullah Gülen, predicatore islamico da anni in esilio volontario negli Stati Uniti, ex alleato di Erdoğan e ora suo acerrimo avversario politico. Prima di   Keneş, era stato il direttore del quotidiano turco di ispirazione socialdemocratica Cumhuriyet, Can Dündar a fare le spese della pubblicazione di un video in cui si potevano vedere funzionari dell'intelligence turca consegnare le armi a “ribelli” siriani. Alla vigilia delle elezioni parlamentari del 7 giugno, il giornalista era stato arrestato inizialmente per alto tradimento, ma Erdoğan (e subito dopo la procura) aveva typarlato di spionaggio politico e militare e propaganda per un'organizzazione terroristica, minacciando la testata per cui lavora che “l'avrebbe pagata cara”. I casi di Dündar e Keneş sono solo due esempi del clima di tensione imposto ai media in Turchia, che nella classifica di Reporters sans frontières per il 2015 sulla libertà di stampa occupa il 147esimo posto su 180 paesi.

La questione di fondo è che Ankara impone le sue strette autoritarie a “bersagli” sbagliati: se i maggiori sospetti (anzi le quasi-certezze) sugli autori degli attentati di Ankara, Suruç e Diyarbakır ricadono sui cartelli del jihad, perché mai concentrare gli attacchi militari e i controlli dell'intelligence su organizzazioni che poco hanno a che vedere con la galassia dell'islam politico radicale? In primo luogo il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), con cui sarebbe il caso di intavolare un dialogo serio invece di sperare invano di risolvere la questione curda manu militari, annoverando il PKK tra le organizzazioni terroristiche e bombardandone le (presunte) postazioni, seminando quindi stragi tra i civili. Anche perché, gli attentati di Ankara Suruç e Diyarbakır hanno preso di mira manifestazioni ed eventi legati alla questione curda, un motivo in più per affrontarla con atteggiamento costruttivo e non solo repressivo.

Peraltro, il partito “filocurdo” HDP (Partito democratico dei popoli) alle ultime elezioni parlamentari era entrato in parlamento, con il suo significativo potenziale democratizzante: i diritti delle minoranze, la parità di genere, la difesa dei diritti di LGBT. Il fatto che Erdoğan (e il suo partito Giustizia e sviluppo - AKP) non abbia colto l'occasione per formare con l'HDP un governo di coalizione suscita interrogativi sul come intenda gestire le questioni interne, in particolare le relazioni con le opposizioni politiche e le libertà individuali dei cittadini. A parte le possibili considerazioni sulla gestione della politica estera, soprattutto per quanto riguarda il conflitto siriano, in cui il presidente turco continua a pretendere categoricamente (e senza la minima considerazione degli equilibri interni alla società siriana) la caduta del presidente Bashar al-Assad e la guerra contro il Partito di unione democratica (PYD) e delle Unità di protezione popolare (YPG) ad esso legate. Eppure sono state queste ultime a costituire il principale baluardo contro i cartelli del jihad, nonché a proporre una società laica e fondata sull'uguaglianza dei diritti di genere (si pensi ad esempio ai battaglioni formati da sole donne). Se dunque il presidente turco teme che un loro eccessivo rafforzamento possa risvegliare le aspirazioni indipendentiste della minoranza curda che vive in Turchia (che proprio minoranza non è, visto che si parla di 16 milioni di persone, oltre il 18% della popolazione totale), di certo la linea repressiva che ha adottato rischia di far scivolare il suo paese in un circolo vizioso di conflitti e autoritarismo. Il rischio maggiore, alle prossime parlamentari del 1 novembre è appunto questo, e di certo non aiuta l'atteggiamento opportunista e utilitarista della comunità internazionale.

Carlotta Caldonazzo

October 13, 2015

Ieri è morta la Costituzione italiana, riforma votata dalla sola maggioranza e grazie ai transfughi di Forza Italia capeggiati dal Sen. Dennis Verdini. ma vediamo nel dettaglio cifre, numeri ed esempi.

Ecco quanti sono i politici italiani: dati e stipendi

Deputati, senatori, assessori, consiglieri regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali.
Quanti sono, quanto ci costano:

630 Deputati e 315 Senatori
Che come ben sappiamo, oltre a percepire un lauto stipendio, godono di una lista interminabile di privilegi... non mi dilungo perché la questione è nota..

1.117 Consiglieri regionali
Una parte dei quali, sono assessori (e riscuotono di più). Lo stipendio e il numero dei consiglieri regionali varia da regione a regione: ma da praticante da nessuna parte, comprendendo rimborsi e gettoni, questo è inferiore a un minimo di 10.000 euro mensili: ma spesso guadagnano molto di più. In Piemonte, per esempio la somma tra stipendio e rimborsi, può superare i 18.000euro. Non dimentichiamoci dell' "indennità  di fine mandato": se ne parla poco, ma corrisponde a una cifra considerevole: prendendo in esame il Piemonte, può arrivare a 257.000 euro: praticamente, se lo sommiamo per le 60 mensilità che compongono il mandato, si parla di 4.283 euro al mese. Ovviamente, anche per loro spesso è previsto un bel vitalizio, diritto che viene acquisito mettendo alle spalle anche solamente mezza legislatura.

Per conoscere il dettaglio degli stipendi dei consiglieri regionali nelle 15 regioni andate a elezioni nel 2010 clicca qui (Espresso)
PS: (allo stipendio, composto dalla somma delle voci "stipendio netto" e "rimborsi", va sommato il gettone di presenza delle commissioni: il cui importo, variabile è spesso intorno ai 100 euro. I consiglieri, che spesso fanno parte di più commissioni, si riuniscono in commissione almeno 3 volte a settimana). Per conoscere il dettaglio regione per regione dei consiglieri, suddivisi per partito, clicca qui (Wikipedia)

8.094 Sindaci
Lo stipendio del sindaco varia in base al numero degli abitanti: allo stipendio, ovviamente vanno sommati i rimborsi e le spese di rappresentanza.

GAZZETTA UFFICIALE della Repubblica Italiana (13/05/2000)
Indennità di funzione mensile dei sindaci
Comuni fino:
a 1000 abitanti guadagnano 1.290€
Comuni da 1.001 a 3.000 abitanti 1.450€
Comuni da 3.001 a 5.000 abitanti 2.170€
Comuni da 5.001 a 10.000 abitanti 2.790€
Comuni da 10.001 a 30.000 abitanti 3.100€
Comuni da 30.001 a 50.000 abitanti 3.46€
Comuni da 50.001 a 100.000 abitanti 4.130€
Comuni da 100.001 a 250.000 abitanti 5.010€
Comuni da 250.001 a 500.000 abitanti 5.780€
Comuni oltre 500.001 abitanti 7.800€

Comuni: 120.490 consiglieri e 35.254 assessori

Mentre i consiglieri comunali riescono a racimolare poche centinaia di euro, gli assessori arrivano a percepirne svariate migliaia:

I consiglieri comunali percepiscono un gettone di presenza, il cui importo varia comune per comune. Nei comuni da 1.001 a 10.000 abitanti, 18.08€ a seduta; da 10.001 a 30.000 abitanti, 22.21€; da 30.001 a 250.000 abitanti, 36.15€ per ciascuna presenza in aula. Oltre ad essere percepiti ad ogni riunione del Consiglio Comunale, i gettoni di presenza sono previsti anche per la presenza alle commissioni.

Agli assessori di comuni con popolazione superiore a mille e fino a cinquemila abitanti è corrisposta un'indennità  mensile pari al 15% di quella prevista per i sindaci. Agli assessori di comuni con popolazione superiore a cinquemila unità  e fino a 50.000 è corrisposto un compenso pari al 45%. La tabella dalla quale ho estratto i dati, non indica lo stipendio per gli assessori di comuni superiori ai 50.000 abitanti: ma sicuramente sarà  più elevato, visto ogni indennità aumenta con il numero degli abitanti.

Prendiamo in esempio il Comune di Torino:

COMUNE DI TORINO
- sindaco (Chiamparino) € 9.123,53;
- Vice Sindaco € 6.842,65;
- Assessori comunali € 5.930,31
- Presidente del Consiglio comunale: € 5.930,06;
- Consiglieri comunali: € 3.142,00;

A QUESTE INDENNITA' DI FUNZIONE VANNO AGGIUNTI A TUTTI QUANTI:
- € 120,85 per ogni seduta istituzionale massimo 1 al giorno (massimo 19 "sedute" al mese);
- € 0,510 rimborso chilometrico che viene corrisposto a ciascun dei suddetti eletti per A/R dal luogo di residenza fino alla sede di "lavoro istituzionale”

Natale Ventrella

© 2022 FlipNews All Rights Reserved