Print this page

La solitudine di un regista: il cinema intimo e luminoso di Renato Pagliuso

By Antonella Piliego June 04, 2025 220

 Durante la rassegna CinemAlbar al Villetta Social Lab di Roma, “La solitudine di un regista” ha incantato il pubblico con la sua poesia visiva e la voce discreta dell’autore, trasformando una proiezione in un incontro profondo con la memoria, l’arte e il silenzio.

 

Non è facile dire dove abbia avuto inizio la mia emozione. Forse in quel buio lieve della sala, o nello sguardo assorto di chi sedeva accanto a me. Qualcosa, senza far rumore, mi ha preso per mano e mi ha condotta dentro una storia che sembrava voler sussurrare, più che parlare.

Quel 23 maggio, al Villetta Social Lab di Roma, ho assistito a qualcosa che non era soltanto una proiezione ma un incontro. Con una città, con un autore, con una memoria che mi apparteneva più di quanto credessi.

La rassegna CinemAlbar, curata e organizzata con dedizione da Saverio Piunno, la cui accoglienza, discreta e calorosa, ha creato uno spazio autentico di ascolto, ha aperto la serata con La solitudine di un regista, un cortometraggio indipendente scritto, diretto e interpretato da Renato Pagliuso, durante il tempo sospeso del 2022.

Pagliuso ha introdotto la sua opera con compostezza e misura, scegliendo di affidare alle immagini ciò che le parole non potevano dire.

Lo guardavo mentre parlava: sembrava quasi volersi ritrarre, come chi sa che ciò che conta davvero non è detto con la voce, ma lasciato accadere nel silenzio.

Girato nei giorni immobili della pandemia, il film non racconta, evoca, suggerisce. È narrato dalla voce del protagonista stesso, una voce interiore, sottile e discreta, che si intreccia come un filo invisibile lungo tutta la pellicola. Non guida bensì accompagna, apre varchi, illumina i bordi, lascia spazio allo sguardo.

Forse è proprio da lì che nasce questa visione: da un’infanzia silenziosa, nutrita di immagini e luce più che di parole. Un bambino che, invece di raccontare, proiettava e cercava nell’ombra il volto segreto delle cose. Quel bambino, oggi regista, attraversa la città come chi cerca qualcosa che ha perduto e che forse non ritroverà mai. Eppure ogni passo è necessario, ogni silenzio custodisce un gesto, ogni inquadratura diventa un altare laico dedicato alla memoria.

Il viaggio inizia nel silenzio della notte. Il protagonista, lo stesso regista, cammina per le strade vuote, alza lo sguardo e fotografa le stelle. Ciascuno scatto è un frammento di memoria, un attimo catturato nella vastità del cielo.

Poi si ferma davanti a un vecchio cinema chiuso, dove locandine di film antichi giacciono in disordine e, con mani lente e rispettose, le riattacca alle pareti consunte, come a voler restituire dignità a quei volti e a quelle storie perdute. Dal passato, emergono le voci di quei film, le frasi più celebri, sospese nell’aria come un’eco lontana.  Questo appare senza dubbio un passaggio intimo, in cui la solitudine del regista diventa la solitudine del cinema stesso, quando nessuno assiste più.

Nel cuore del tragitto, trova per terra un carillon a manovella e, sollevandolo con cura come si raccoglie un oggetto sacro, lo suona. Ad un tratto, tra le ombre di un vicolo stretto, appare una donna che balla con lui, lieve, quasi irreale. Potrebbe essere la morte, un sogno o, forse, è entrambe le cose. In quell’abbraccio danzante si concentra il mistero della creazione: l’incontro con ciò che non si può afferrare, ma si può solo evocare.

L’ultima scena mi ha sorpresa. L’ho sentita addosso. Il regista è seduto su una scalinata, all’alba, con la cinepresa accanto, come un’amica fedele. Non parla, non agisce. Poi compie un gesto semplice e potente: filma se stesso mentre mangia un pezzo di pane. Un gesto che evoca una memoria paterna, un’affezione che va oltre le immagini. In quell’istante, l’autoritratto si completa, con umiltà e verità.

La solitudine di un regista non cerca effetti, non chiede applausi poiché è una lettera d’amore scritta con la luce, una dichiarazione di fedeltà al cinema come linguaggio dell’anima. È, ancora di più, la testimonianza di un uomo che non ha mai smesso di guardare, nemmeno quando il mondo sembrava spento.

E io, seduta tra il pubblico, quel battito l’ho percepito e l’ho riconosciuto, perché anche a me, in quel buio condiviso, è sembrato che qualcosa tornasse a vivere.

In quella sera di maggio, tra le voci di chi ama il cinema e i sussurri del vento, il corto di Renato Pagliuso ha aperto una porta e non su una memoria da raccontare ma su una storia da sentire.

E, forse, è proprio questo che il cinema, nel suo gesto più puro, continua a fare: non illumina solo lo schermo, ma l’anima di chi guarda.

La solitudine di un regista ha ricevuto un importante riconoscimento con la premiazione come Miglior Cortometraggio al concorso "Sergio Pastore", tenutosi nel 2022 alla Casa del Cinema di Roma. Un premio alla sua prima edizione, istituito per onorare la libertà degli autori e degli interpreti nel cinema indipendente, in memoria del regista calabrese Sergio Pastore.

Un riconoscimento che conferma la forza dell’opera di Pagliuso, capace di trasformare visione e interiorità in un linguaggio universale e profondamente umano.

Rate this item
(7 votes)
Last modified on Wednesday, 04 June 2025 15:59