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Questa storia è davvero deliziosa, dolcissima ed intrisa di passione. Ci svela come i personaggi coinvolti affrontino la vita ed imparino a gustarla
sempre con un sorriso, focalizzandosi sull’amore per le proprie passioni, le aspirazioni, e le emozioni con cui si assaporano le cose semplici della vita. Tutto è raccontato attraverso un approccio delicato, quasi fatto in punta di piedi in cui si riconosce la mano di Michele, che oltre a scrivere il testo interpreta un particolare ed originale personaggio: Giacomo, un giardiniere un po’ filosofo e un po’ yogi che vive un rapporto molto singolare con il suo lavoro e con le piante del suo vivaio.
Il suo sembra essere un mondo a parte, forse un rifugio in cui coltivare non solo la passione per la botanica, ma anche il rapporto profondo con se stesso, in un luogo reso quasi magico, distante dal tran tran quotidiano che ingurgita tutti e schiaccia il senso della vita. Giacomo sembra prediligere il rapporto con il mondo verde, più che con quello degli uomini. Sembra volersi proteggere dai rapporti umani e distaccandosi da essi, dedica tutto sé stesso alle piante instaurando con loro un rapporto profondo e confidenziale.
Inaspettatamente, irrompe nella sua tranquillità Camilla, una donna dedita completamente alla carriera lavorativa. Vive per il lavoro che sembra dominarla occupandole ogni momento della giornata. I due apparentemente sono in perfetta antitesi, ma paradossalmente si rivelano anche molto simili. Hanno in comune lo stesso atteggiamento: quello di impegnarsi in qualcosa che li possa proteggere dal rapporto emotivo con gli altri.
Aldo invece è il dolcissimo assistente che lavora e aiuta Giacomo. Un sempliciotto con un lieve ritardo mentale che però lo rende spontaneo, vero. Privo di ogni forma di inibizione, dice sempre quello che pensa. Fortemente condizionato dalla madre, ha sviluppato anche lui un particolare rapporto con le piante, ma anche con il suo datore di lavoro. Anche lui sembra essere protetto da questo ambiente, che non lo ostracizza per la sua condizione. Qui tutti sembrano essere uguali, sullo stesso piano.
Tre caratteri e tre tipologie di vita assolutamente differenti si incontrano e si scontrano grazie ad una scrittura semplice ma efficace, che sprizza dolcezza e spontaneità in ogni suo passaggio. Un inno alla semplicità umana e un’ode alla vita, che vuole portarci a riflettere sul tempo che passa, sull’importanza del confronto con gli altri e sul valore e il piacere dell’attesa che va goduta nel preparare un evento, nel vederlo crescere per poi coglierne i frutti… proprio come si fa con le piante, entrando in sintonia con il naturale corso della natura e del destino, in attesa che questo si compia.
Tutto è affrontando con apparente leggerezza ma in realtà in modo molto profondo. Ogni forma di ansia e nervosismo dei personaggi viene curato da questo atteggiamento sempre positivo che domina la storia ricca di riflessioni, che porteranno via via i tre a riconsiderare le priorità della vita, donandoci l’opportunità di ritagliarci anche noi un attimo di riflessione.
Michele si presenta con il suo inconfondibile atteggiamento: un po’ sornione, calmo, spontaneo, spiritoso, estremamente riflessivo in ogni sua esternazione. La sua comicità ha il sapore di quella di una volta, cresciuta e maturata con i grandi nomi dello spettacolo e oggi personale e tutta sua.
Francesco interpreta un ragazzo le cui evidenti difficoltà per il suo lieve ritardo ne fanno un personaggio amabile e divertente per la spontaneità. Afflitto da visibili tensioni muscolari, Francesco con gesti e movenze inequivocabili svela le difficoltà motorie ma al contempo sottolinea il carattere mite in un modo davvero commovente.
Federica passa dallo stato di stress ed egocentrismo iniziale a manifestare tutta la sua dolcezza, la femminilità e la sensibilità inespressa. Abbandonando le sue frustrazioni, si trasforma in una piacevole ragazza, dolce e piena di sogni finora nascosti grazie all’incontro con una sorta di “mago di Oz” che ha i panni di un giardiniere, il suo aiutante schietto e sensibile, ma anche grazie a questo ambiente magico in cui il tempo pare non esistere ed essere fermo ad aspettare pazientemente la maturazione dei personaggi, proteggendoli intanto dal mondo esterno.
Questo apparentemente normale vivaio si rivela quindi un luogo pieno di vita ed emozioni, protettivo e fatato. Una suggestiva scenografia riempita di piante e vasi, a cui si aggiungono le luci, lo esaltano e lo rendono molto realistico.
Le scene si susseguono inframmezzate da brani di Pino Daniele, Lucio Dalla e da altri classici della musica italiana. In ogni scena c’è tutta la passione per il teatro che il lavoro di Michele riesce a trasmettere, supportato dal suo valido cast e dalla regia di Nicola Pistoia (di cui in una scena sentiremo anche la voce fuori campo registrata).
Uno spettacolo adatto a tutti, che dietro alla sua semplicità nasconde una forte dose di sensibilità, di profondità e una grande ricchezza di valori.
Ogni scena è un crescendo che ci rivela un pezzetto alla volta il carattere dei personaggi, che con i loro pregi appannano ogni loro difetto. Una commedia che sprizza positività e una grande passione per la vita, quella sana, fatta di persone che sanno ascoltarsi e ascoltare, o che vogliono imparare a farlo per arrivare a godersi la semplicità, abbandonando sterili e fugaci ambizioni, così come farà Camilla. La donna si accorgerà che la vita è fatta di altri valori da gustare dietro ai quali, chissà, può nascondersi anche il sogno d’amore al quale abbandonarsi senza paura. L’amore, questo sentimento che spesso spaventa per la sua intensità…
Imparare ad affrontare questa paura significa vivere in armonia sia con sé stessi che con gli altri. Questo credo sia il messaggio insito nella storia.
Teatro Sette Off
“Il Piacere dell’attesa”
Di Michele La Ginestra; regia: Nicola Pistoia, aiuto regia Loredana Piedimonte
Con Michele La Ginestra, Federica De Benedittis, Francesco Stella
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Ornella Mariani Forni |
In una sua ironica e sottile lettera aperta di buon anno 2024, Ornella Mariani Forni - premio Italia Diritti Umani 2023 - cita alla fine la Carta di Nizza, altrimenti detta CDFUE, di cui io parlo dal 2019 sostenendone la efficacia e grande valore giuridico, poiché essa ha sancito dei valori e dei diritti fondamentali per tutti i cittadini della Unione.
Cinque anni fa - nonostante essa fosse ben discussa dai giuristi italiani e dagli addetti ai lavori accademici - non era dibattuta dagli avvocati se non raramente, e poco o per nulla nota al grande pubblico italiano.
Qualche giudice di pace nelle sentenze con cui negli ultimi mesi ha annullato le illegittime sanzioni amministrative e i relativi avvisi di addebito per mancata vaccinazione COVID-19, la ha citata e invocata come strumento di tutela dell'individuo dinanzi al quale il potere autoritativo dello Stato deve retrocedere se sproporzionato o lesivo della dignità umana.
Dispiace solo che la Corte Costituzionale italiana prima e la stessa Corte di Giustizia UE di Lussemburgo poi, negli ultimi due anni si siano tirate indietro quando sono state interpellate rispettivamente in ricorsi e richieste di pronunzia pregiudiziale, limitandosi a una sua tutela formale e non anche sostanziale e vivente.
La Carta di Nizza e la sua equiparazione a trattato dall'anno 2009 nel diritto eurounitario, e' stata la ultima conquista storicamente rilevante nell'ambito dei diritti civili e umani in Europa, prima che il Vecchio Continente anno dopo anno venisse travolto da una deriva autoritaria a tutti i livelli - ostaggi di grandi lobby finanziarie e potentati occulti - che lo stanno trasformando in un superstato totalitario mascherato da valori democratici e libertari, poco concreti e sempre più fittizi.
Auguro a tutti voi un buon anno 2024 perché godiate e conserviate i vostri affetti e raggiungiate i vostri traguardi, ricordandoci che sono le piccole cose della vita a dare sapore alla felicita'.
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il video della lettera al Presidente delle Repubblica |
I “Diavoli in cucina” sono dei mattacchioni un po’ improvvisati e raffazzonati che compongono lo staff del ristorante “Rigatoni”, destinato nonostante tutto a diventare famoso. Vi lavorano tre uomini e una donna: Michela (Valeria), che lo gestisce; Francesco (Alessandro), un inveterato mammone che va ad aiutarla perché da sempre è innamorato di lei; Nando (Simone), uno speakers radiofonico sottopagato e ormai disoccupato con la passione per la cucina; Marco (Maurizio) che prima del suo ingresso nel gruppo sbarcava il lunario con ogni tipo di occupazione per mantenere la sua esosa e pretenziosa famiglia, mentre con difficoltà cerca di coronare il sogno di
laurearsi.
Un po’ confusionari e un po’ arrangiati, i quattro portano avanti il locale dove cucinano, apparecchiano i tavoli, intrattengono i clienti, li servono, puliscono la sala, fanno la spesa… e intanto ci divertono.
Uniti in questa avventura lavorativa, Condividendo molto tempo insieme, finiscono per affezionarsi, confidarsi, confrontarsi, aiutarsi e scherzare, maturando un’affettuosa amicizia e un forte rispetto reciproco. Ma nella vita le cose cambiano e non sempre tutto va per il meglio. Purtroppo il personale del locale subirà un drastico cambiamento: viste le ingenti spese di gestione, uno di loro dovrà abbandonare il lavoro... Michela, che si trova così spiacevolmente tra l’incudine e il martello, sarà costretta a licenziare uno di loro…
Ecco allora che l’idillio della compagnia si rompe e il rapporto tra loro cambia drasticamente. Nonostante la commedia sia leggera e divertente, si affaccia anche un lato drammatico che tocca temi sensibili come la disoccupazione e la crisi nei rapporti d’amicizia.
Il cast in scena è ben rodato. Dopo il successo dello scorso anno con il divertentissimo “Una zitella da sposare”, che peraltro a breve sarà riproposto qui al Teatro de’ Servi, tornano tutti e quattro con questa esilarante proposta.
Sono artisti molto impegnati e richiesti: Valeria ha terminato da poco un tour con Antonello Costa e il suo divertente e toccante “La vita è un attico”, e dopo l’appuntamento di questa sera sarà nel cast del travolgente “La signorina Papillon”; Maurizio ed Alessandro riproporranno il loro fortunatissimo “Banda disarmata” e poi, sempre qui, li ritroveremo con Valeria in “Quasi quasi ci ripenso”… Simone ormai collabora spesso con loro mentre si divide con altri interessanti impegni teatrali…
Stasera ho molto apprezzato l’inserimento di questa vena velatamente drammatica che non stona, anzi, dà corpo alla storia. Un risvolto che permette di affrontare con profonda ironia temi come la disoccupazione, l’amicizia, gli interessi personali, le difficoltà economiche e i sogni infranti, tra paure e instabilità.
Marco (Maurizio), Michela (Valentina), Francesco (Alessandro ) e Nando (Simone), dopo essere entrati inaspettatamente in sala ed essersi presentati in maniera molto simpatica al pubblico irrompendo nella quarta parete, prendono posto sul palco dove li aspetta una deliziosa e curata scenografia che ripropone il ristorante che accoglierà tutte le vicende.
La pièce di Natale e Quinto, in maniera veloce ma esaustiva, presenta subito i personaggi con accenni sulla loro vita, i reconditi desideri, le fisime che li affliggono e caratterizzano, per poi catapultarci immediatamente nel vivo della storia tra scherzi, screzi, dispetti, battute goliardiche e la realtà di questa precaria situazione lavorativa.
Con una velata derisione dell’altezzosità di programmi culinari come “Master chef”, la storia svela con dignità il lato più recondito di ogni personaggio e il suo difficile rapporto con vita. Quando si affaccia il demone del licenziamento, ognuno a suo modo cerca di apparire indispensabile agli occhi di Michela, la responsabile, cercando prima di ingraziarsela e poi di svilire gli altri ai suoi occhi per non perdere il posto. La scrittura riesce a restituirci, nello spazio di meno di due ore, il duplice aspetto di ogni personaggio: prima il carattere fondamentalmente semplice e buono, poi il dramma interno che vive e che lo trasforma in disperato opportunista in una guerra tra poveri.
Tutto senza mai perdere quella comicità di fondo che accompagna lo spettacolo. I nostri, rivelandosi divertenti e simpatici, svelano la macchietta che si cela dietro ogni singolo ruolo senza mai sminuirlo o ridicolizzarlo grazie alle loro indubbie capacità recitative. I battibecchi che ricreano sono sempre divertenti e realistici e rivelano inequivocabilmente la natura tenera e infantile con cui i protagonisti affrontano la vita. Non si può non amarli e affezionarsi a loro, perché in fondo sono tutti dei buoni diavoli.
Confusionari e divertenti, questi cuochi si avvicendano e accavallano forsennatamente tra una scena e l’altra. Insieme intrattengono il pubblico tra risate ed applausi dando vita ad una commedia leggera, frizzante e divertente che gira intorno ad un tema originale per il teatro come quello della cucina, che se è tanto in voga nei programmi televisivi, al contrario non è usuale in teatro.
Quello che mi è molto piaciuto della scrittura è l’esaltazione della semplicità dei personaggi e del loro impegno alla difficile ricerca di uno spazio nella società e nel mondo del lavoro. Anche se apparentemente paiono deboli e con scarse capacità, dimostrano che nonostante le loro difficoltà personali ed insicurezze, l’unione fa la forza e che alla fine la tenacia, l’amicizia e l’amore trionfano sulle difficoltà. Forse è questo il messaggio positivo insito nella commedia.
La recitazione, la scelta delle musiche, i suoni di fondo sono ineccepibili, ed è ottimo l’uso delle luci che fa spiccare ogni scena e rende efficaci i brevi soliloqui-sfoghi dei nostri. La storia rivelerà un finale dolce, delicato ed inaspettato.
Uno spettacolo gradevole e divertente, adatto a tutti.
Teatro De Servi
“Diavoli in cucina”
Di Gianni Quinto e Massimo Natale
Regia di Massimo Natale
Con Valeria Monetti, Maurizio Paniconi, Alessandro Tirocchi e Simone Giacinti
Fino al 7 aprile 2024, Firenze (città come pochissime altre già immensamente straripante di bellezza artistica) offrirà la possibilità di entrare in contatto con la particolare sensibilità estetica di Alphonse Mucha, considerato uno dei grandi padri dell’Art Nouveau.
La Mostra, allestita in maniera intelligente e suggestiva, presenta un percorso tematico e cronologico abbracciante oltre 170 opere, tra manifesti, libri, disegni, olii e acquarelli, nonché fotografie, gioielli e opere decorative, in modo tale da consentire di assaporare efficacemente la variegata sinfonia della raffinata iconografia di uno dei pittori più originali di fine Ottocento e di inizio Novecento.
Pur essendo prevalentemente dedicata alla produzione destinata al mondo dello spettacolo e a quello pubblicitario, l’esposizione permette anche di intravedere il grande lavoro di riflessione teorica e di sperimentazione pratica che caratterizza un cammino artistico improntato alla ricerca della Bellezza, ma anche della Verità e dell’Amore. Mucha, infatti, come tanti altri artisti dell’epoca (da Kandisky a Balla, da Malevic a Mondrian), ha coltivato forti e sinceri interessi nel campo della filosofia spiritualistica, avvicinandosi, in particolare, alla cultura teosofica e finendo poi per abbracciare il pensiero e l’opera della Massoneria. La sua arte, di conseguenza, nonostante l’apparente leggerezza che potrebbe, a volte, apparire sconfinante nell’effimero, è animata e sorretta da un sincero anelito verso un mondo valoriale alternativo a quello della forza e del potere che divide e separa, che aggredisce ed opprime.
“Lo scopo del mio lavoro - ci rivela - era costruire, creare ponti; perché dobbiamo tutti nutrire la speranza che l’umanità si unisca”.
In lui, quindi, accanto all’appassionato amore verso la sua terra e la sua gente (che lo porterà a creare l’immenso ciclo della Epopea slava, senza alcun dubbio una delle vette più alte dell’intera arte contemporanea), incontriamo, in maniera analoga a quanto accaduto nei nostri Mazzini e Garibaldi, un indomito desiderio di affratellamento fra tutti i popoli in vista del raggiungimento di una agapica era di Pace.
L’Arte secondo Mucha è, pertanto, non solamente gioia sensoriale e sognante festosità, ma anche invito a colorare di allegrezza il vivere quotidiano, un invito rivolto indistintamente a tutti e non più alle cerchie ristrette ed esclusive delle élites dominanti. “Sono stato felice - potrà dire, operando una sorta di bilancio della sua produzione - di essere coinvolto in un’arte per il popolo e non per salotti privati. E’ stata poco costosa, accessibile al pubblico e ha trovato casa in famiglie povere, così come nei circoli più ricchi.”
Ed è forse questo l’aspetto della sua personalità che meglio emerge dalla Mostra fiorentina: il suo desiderio di coltivare un’ Arte capace di far entrare qualche raggio di delicata bellezza nelle case di tutti, rendendo le singole esistenze più ricche di colore, di gentilezza e di armonia.
ALPHONSE MUCHA. LA SEDUZIONE DELL’ART NOUVEAU
Museo degli Innocenti, Firenze
Fino al 7 aprile 2024
Informazioni: TEL. 0550981881
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Il premio a Carmen Lasorella |
Nello splendido Teatro Civico di Alghero si è svolta sabato 16 dicembre la cerimonia di premiazione dell’edizione 2023 del Premio Nazionale Alghero donna di letteratura e giornalismo: vincitrici Carmen Lasorella nella sezione Prosa per il romanzo “Vera e i gli schiavi del terzo millennio” (Marietti1820); Antonetta Carrabs per la sezione Poesia con “La casa della poesia di Monza”; per il giornalismo sportivo Novella Calligaris e la prof.ssa Giuseppa Tanda Premio Speciale della Giuria per il progetto Domus de Janas da presentare all’UNESCO.
Apertura e chiusura musicale affidate al cantautore Antonello Colledanchise, in lingua algherese con il suo cuatro venezolano accompagnato dalle maestre di flauto traverso Isa Sanna e Elisa Ceravola .
I saluti istituzionali sono stati portati da sindaco di Alghero Mario Conoci, dal presidente del Consiglio Regionale della Sardegna on. Michele Pais e dall’assessore alla cultura della città di Alghero, Alessandro Cocco.
Come sempre la serata è stata condotta da Neria De Giovanni, ideatrice del Premio, che ha intervistato sul palco le premiate.
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Della Giuria presente soltanto Giuditta Sireus, direttrice artistica del Club Jane Austen Sardegna, poiché i giurati Antonio Casu e Massimo Milza non sono interventi perché bloccati a Roma dai mali di stagione e Antonio Maria Masia per un concomitante evento del Gremio dei sardi di cui è presidente.
Proprio la Sireus ha aperto la serata con la motivazione al premio di Carmen Lasorella, Neria De Giovanni ha letto quella per la poesia mentre Speranza Piredda, presidente della Rete della Donne e Silvana Pinna della FIDAPA e UNICEF hanno letto rispettivamente le motivazioni per il giornalismo e il Premio speciale.
Media partner La Fiera Letteraria e portaleletterario.net
Con Maurizio Mattioli (Cardinal Moletti), Marco Fiorini (Gioachino Belli), Chiara Fiorelli (Cencia), Erika Marozzi (Maria), Riccardo Rendina (Nando), Dario Panichi (Gigi), Matteo Stasi (Gaudenzio Belli), Fernando Calicchia (Tonino), Demetra Fiorini (voce).
Gioachino Belli, vestito di un bianco sgargiante come il colore del marmo di una statua o forse come quello di un fantasma, si stacca e scende da un’irreale è sorprendente riproposizione di un suo famoso monumento, prendendo vita. Sogna o immagina, in questa realtà alternativa, l’incontro con la popolana Cencia e con l’ austero e vendicativo Cardinale Moletti.
Durante questo viaggio onirico ed introspettivo, si rivede da fanciullo e intanto riflette su come scrivere i suoi sonetti in uno stile nuovo, utilizzando la lingua del popolo per arrivare a tutti e parlare così dei pregi e dei difetti di Roma, la sua città, quella con cui ha un cordone ombelicale inscindibile.
Mazzucco lo propone con una veste più introspettiva e riflessiva. Vuole rappresentarne la parte meno conosciuta, quella più umana del poeta, palesando i suoi dubbi, i timori, le aspirazioni.
L’indomani, una volta ridestato da questo sogno premonitore, mentre percorre i vicoli di Trastevere incontra davvero Cencia. Ne fa la conoscenza e ne rimane ammaliato. Questo incontro fatale lo porterà a ritrovarsi invischiato nelle beghe politiche tra il sordido potere papale e la Carboneria.
Coinvolto suo malgrado nelle attività dei carbonari, ne abbraccerà le idee rivoluzionarie, ma da buon osservatore e uomo di mondo ne evidenzierà pregi, difetti e illusioni.
La proposta di Mazzucco si ispira agli scritti del grande poeta capitolino e attraverso la sua immaginazione crea delle situazioni che ne svelano la parte più intima, trattata anche con una vena umoristica.
Così, “L’ultimo sogno di Gioachino” diviene un modo per conoscere e scoprire il pensiero del grande personaggio della letteratura italiana, impelagato nel clima di delazioni, cospirazioni, speranze, tradimenti, conflitti e grandi imminenti cambiamenti che coinvolgono e sconvolgono romani, papato, Roma e l’Italia tutta dell’Ottocento.
Ben nove attori si alternano sul palco. Marco, impersonando il Belli, gli dona un taglio umoristico e profondamente umano. Apprezzo molto questo versatile attore e il suo aplomb. Sempre cordiale, pacato, ponderato e discreto, sembra voler nascondere ogni volta tutto il suo talento e la professionalità dietro un’ innata modestia che lo contraddistingue. Un grande professionista.
L’antipatico e perfido cardinale è impersonato da Maurizio, che ci restituisce una perfetta immagine del peggior esempio di odioso religioso arrivista, sprezzante, fastidioso e molesto senza scrupoli dell’epoca.
Il resto del cast funziona bene e si inserisce in scene che raccontano le tragedie del periodo. Troviamo i carbonari, un prelato, una buffa serva, la moglie del poeta e gente comune.
Il cast si alterna professionalmente ed efficacemente dando aria alle vicende che prendono vita, e movimentandole con gusto ed estrema attenzione.
Voglio sottolineare la bravura di Chiara Fiorelli, che impersona ben tre personaggi, tutti distinti da una spiccata personalità: Mena, la coriacea prostituta carbonara che Chiara ripropone con gestualità, atteggiamenti e approcci tipicamente trasteverini; Nina, la buffa serva ciociara, ignorante e spontanea; è infine la suggestiva personificazione di Roma.
Incantevole è Demetra, la figlia di Marco, che non conoscevo di persona, la cui voce di soprano, sublime e delicata, ci ha incantato. Elegante nelle movenze, apre suggestivamente lo spettacolo lasciando a bocca aperta con la sua performance.
Bella l’essenziale scenografia, assolutamente suggestiva, soprattutto nella ricostruzione del monumento del Belli, identico a quello che troviamo nei pressi di Piazza Sonnino, che prende vita in maniera evocativa.
All’inizio Marco, nei panni del Belli, sembra voler fare un tributo ad Alberto Sordi quando interpreta il povero carbonaro (questo però non è un sovversivo e vende solo il carbone). Con questo approccio il poeta viene svestito della sua aria austera e risulta subito simpatico, stravagante e un po’ spaesato.
Poi la storia prende il via e si fa più drammatica. Gioachino si ritrova ostaggio, suo malgrado, di un gruppo di carbonari giacobini pronti alla sommossa, è costretto a lasciare la sua quieta vita familiare, e così paradossalmente, scopre gli amari retroscena del suo matrimonio.
Lo spettacolo è conciso e veloce, dura poco più di un’ora ma è ben concentrato e diretto e non si perde dietro a frivolezze e futilità. Piacevoli le musiche e i costumi (un po’ meno coerente col periodo storico trattato sono le calzature). Suggestive le luci che donano la giusta dose di drammaticità e mistero alle vicende.
Uno spettacolo dal grande potenziale, che ci restituisce un Gioacchino Belli diverso da quello conosciuto a scuola e reso così più fruibile. Mi associo alle critiche positive ascoltate a fine spettacolo dai presenti in sala tra cui professionisti del settore, il regista e gli stessi attori. Anche io credo che lo spettacolo potrebbe essere ampliato, sviluppato ed impreziosito con altre scene, così da sfruttare di più questa brillante proposta e il suo preparato e capace cast.
Nonostante le difficoltà e gli imprevisti che una prima può incontrare e che saranno sicuramente risolti, come rumori di sottofondo, fruscii e antipatici ritorni di cuffia, devo dire che la prova mi ha soddisfatto appieno e che è superata a pieni voti.
Ottimi gli attori, così pure regia, scenografia e immagini. Il film ricalca il solito cliché dei film americani, dove chi finanzia detta modi e condizioni. Dopo gli eventi di Wonder, il bullo Julian è stato espulso dalla scuola e cerca di ambientarsi nel nuovo istituto. Sentendolo in difficoltà, la nonna lo sorprende, gli fa visita da Parigi e gli racconta la storia della sua infanzia. Di come lei, giovane ragazza ebrea nella Francia occupata dai nazisti, fu nascosta e protetta da un compagno di classe. Di come la sensibilità e il coraggio di questo ragazzo le abbiano salvato la vita. Di quanto può essere forte il potere della gentilezza, tale da cambiare il mondo. Amore, paura, morte, buoni e cattivi che di solito, se non sono i comunisti sono i nazisti, e finalmente arriva la luce, l’amore, la libertà, la grande America, gli esportatori di democrazia, oggi diremmo a suon di bombe. I più deboli e perseguitati, come al solito sono gli ebrei, e a Hollywood sanno bene che la formula, adottata da più di mezzo secolo, ha il potere di narcotizzare le masse e addomesticarle. Libertà contro tirannia. Si parla di un popolo
perseguitato, ma mai di altri popoli perseguitati o annullati per la sola colpa di esistere. Si gioca con il sangue e le disgrazie di un popolo che, guarda caso, è sempre lo stesso. Se pur a fini educativi questa messa in scena a senso unico puzza molto di propaganda. Comunque sia, l’altro messaggio che vuole veicolare il film, il potere della gentilezza, principio universale, qualora fosse adottato da tutti, potrebbe veramente cambiare il mondo. Il film da modo allo spettatore di riflettere sul potere del cinema e degli interessi economici che ci sono dietro.
WONDER - WHITE BIRD
un film di MARC FORSTER
con HELEN MIRREN, GILLIAN ANDERSON, BRYCE GHEISAR
Il nuovo spettacolo di Pippo Franco, composto da monologhi, affronta il tema dell'evoluzione dell’uomo coraggiosamente, addentrandosi in un panorama molto vasto.
Con molta umiltà e simpatia, l'artista affronta questa sfida interessando e coinvolgendo il pubblico su argomenti che bene o male coinvolgono tutti, e si fa accompagnare nel viaggio dalla melodiosa e virtuosa chitarra di Giandomenico Anellino.
Lo spettacolo è arricchito da immagini per meglio supportare spiegazioni e narrazioni che ci porteranno in un interessante cammino attraverso l’arte, la storia e la cultura, con un approccio del tutto particolare e molto profondo, condito da simpatiche battute o gag ironiche.
Sono cresciuto con i suoi film, ben sessantuno, e con i suoi numerosi programmi televisivi. Un’artista che ha lasciato il segno nella comicità, nella commedia all’italiana, nel cinema e nel teatro.
Finalmente per la prima volta stasera riesco a vedere Francesco Pippo (questo è il suo vero nome) dal vivo al teatro e a conoscerlo di persona. Al solo rivederlo, i ricordi della mia adolescenza sono riaffiorati prepotentemente, riportandomi indietro nel tempo alla mia adolescenza e a quella che considero un’icona della vecchia e sana comicità italiana, che ha accompagnato gli anni della mia giovinezza.
La serata parte subito con un fantastico medley di brani famosi reinterpretati dal fantastico chitarrista, che miscela sonorità tra musica classica, jazz e spagnola. Possiede una tecnica ineccepibile che gli consente di esprimere un gusto melodico ricco e un’attenta ricerca del suono. Pippo Franco gli lascia tutto lo spazio che serve per farci cullare dalle sue infinite note. Interverrà più volte durante la serata per inserirsi tra un argomento e l’altro con brani conosciuti ed interpretati con virtuosismo. Pezzi di Battisti, di De Andrè, di Lucio Dalla , ma anche altri brani come “O sole mio”, “We are the world”, “Strangers in the night”, La Guerra di Piero”, Piazza Grande… si susseguono e ammutoliscono la sala che poi esplode in uno spontaneo applauso. Questo musicista, che vagamente mi ha ricordato per l’aspetto Ninetto Davoli ( di cui ha sicuramente la stessa simpatia e cordialità), ha colpito anche il grande Ennio Morricone, tanto che gli chiese di incidere i suoi brani… E adesso, mentre sto scrivendo, li sto ascoltando… Bellissimo.
Pippo ci regala due ore abbondanti di “Stand up comedy” donandoci uno spettacolo maturo, con inserzioni ironiche e umoristiche sì, ma attento e molto intimo mentre guarda con attenzione il cammino dell’uomo attraverso l’arte, la storia e la conoscenza. Pitagora, Adamo ed Eva, Augusto, Giulio Cesare, Boccaccio, Machiavelli, Michelangelo, Darwin, Freud, Leonardo Da Vinci, Neil Armstrong… tutti personaggi storici a cui l’artista lega un aneddoto buffo sconosciuto ai più.
Tante le immagini proiettate di opere famose, come “Il sole del mattino” di Edward Hopper o “L’artista e la modella” di Jack Vettriano, l’ “Allegoria del trionfo di Venere” di Bronzino, il “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Jan Van Eyck, “Il mercato degli schiavi” di Salvatore Dalí, le “Quattro stagioni” di Giuseppe Arcimboldo e le “Donne con salamandra” di Fausto Pirandello… Sono opere di artisti distanti per stile e tempo, ma paradossalmente legate da una simbologia che a prima vista sfugge allo spettatore, svelata in modo affascinante. La platea così scopre di poter vedere con altri occhi questi quadri e di coglierne il nesso in un forte messaggio che li accomuna.
Quello di stasera è uno spettacolo improntato sulla cultura ricco di aneddoti e storie interessanti raccontate con grande trasporto, come farebbe un nonno con il nipotino. Un artista che mette a disposizione del pubblico saggezza, conoscenza ed esperienza. Ci si alza soddisfatti, sorridenti, coccolati, ma soprattutto più ricchi e con qualcosa di interessante e unico da raccontare a casa.
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Letrari |
Tutti conosciamo la storia, a volte distorta, comunque in gran parte rispondente a verità, del Trentino vitivinicolo, di quella parte geografica corrispondente alla Provincia Autonoma di Trento.
Ricordo che tutto ebbe inizio da quella via Claudia Augusta voluta da Cesare Augusto (nel 15 a.C.) e terminata dall’imperatore Claudio (nel 46 d.C.) per “romanizzare” i popoli dell’attuale Trentino-Alto Adige, Tirolo austriaco, Alta Baviera e Svevia. Una “via” consolare tutt’oggi preservata in parte che penetra in vigneti e, turisticamente, rappresenta un percorso storico-vinicolo molto apprezzato. E le legioni romane, nei loro spostamenti, portarono usi e costumi dell’Urbe, tra cui l’esperienza viticola allora conosciuta.
Tutto il resto è sotto i nostri occhi: la Piana Rotaliana a nord, la Vallagarina al centro-sud.
Sebbene il Trentino produca tanti vini fermi sia bianchi che rossi, oggi rivive momenti di gloria grazie ad un Signore che 150 anni fa volle concretizzare un sogno: creare in Trentino un vino capace di confrontarsi con i migliori champagne francesi. E, visti i risultati, c’è riuscito. Quest’uomo si chiamava Giulio Ferrari.
Un pioniere: è lui che per primo intuisce la straordinaria vocazione della sua terra, lui che per primo diffonde lo Chardonnay in Italia fino ad allora confuso con il Pinot Bianco.
Iniziò a produrre poche selezionatissime bottiglie, con un culto ossessivo per la qualità.
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Dorigati |
Oggi lo spumante trentino ha la sua denominazione chiamata Trento Doc, creata nel 1993 e registrata nel 2007. Metodo usato “la rifermentazione in bottiglia” ormai conosciuta e conclamata in Italia come Metodo Classico.
Nei primi giorni di settembre ho deciso di immergermi nella realtà spumantistica trentina visitando quattro aziende, ritenute dal sottoscritto, rappresentative di tutto il territorio.
AZIENDA DORIGANI: scelta perché posizionata all’estremo nord del territorio. La Piana Rotaliana, con Pinot Nero e Chardonnay muscolosi, veramente nordisti. Massima espressione l’etichetta METHIUS.
Le note aziendali: “Zona di origine: fascia collinare di Faedo e Pressano a 350 - 500 m di altitudine Vigneto: il sistema di allevamento è la tradizionale pergola trentina. Ma una potatura corta e povera ed un dirado dei grappoli dimezzano la produzione altrimenti abilitata Vitigno: 60 % Chardonnay, 40 % Pinot Nero Vinificazione: in bianco con fermentazione in barrique di parte dello Chardonnay Maturazione: preparazione della "cuvée" nella primavera successiva la vendemmia.Imbottigliamento e presa di spuma lenta alla temperatura di 11°C. In bottiglia matura circa cinque anni, con periodiche rimesse in sospensione dei lieviti. Si procede poi alla fase di "remuage" sulle "pupitres".Alla fine di tale ciclo si effettua la sboccatura con aggiunta di "liqueur d'expedition". Lo spumante così ottenuto matura per ulteriori 6 / 8 mesi prima di essere commercializzato”.
AZIENDA PEDROTTI: scelta per la sua posizione a Nord di Rovereto, nel Comune di Nomi e per la sua produzione Trento Doc di nicchia. Nove tipologie di spumanti a Metodo Classico presentate in tre linee dalla diversa complessità e struttura. GROTTA DELLO SPUMANTE BATTEZZATA DA LUIGI VERONELLI: “LA CATTEDRALE DELLO SPUMANTE”. Questa cantina è un ambiente roccioso naturale,
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Enantio |
contesto ideale per maturare gli spumanti ed esaltare ancor più il perlage di montagna.
Tra le numerose etichette ho scelto di riportare EXTRA BRUT RISERVA SPECIALE 1988 un prodotto raro, quasi unico, che deve la sue affascinanti caratteristiche non solo a se stesso e alla sua straordinaria longevità. Queste le note aziendali che riporto fedelmente: “ Alla sua eccezionalità hanno contribuito infatti protagonisti che ora ne fanno parte e dai quali non è possibile prescindere per capirlo e gustarlo. In primo luogo ci sono le uve, Chardonnay e Pinot Noir di eccellente qualità, provenienti da vigneti coltivati a metà montagna, con le caratteristiche di acidità e maturazione ideali per il Trentodoc. La grotta, che ha donato negli anni alle 17mila bottiglie prodotte nel 1988, e di cui ora rimane una piccolissima riserva, una temperatura costante di 13 gradi, un silenzio e un buio quasi irreali. Alla sua essenza hanno contribuito le mani di chi, con competenza e passione, ha movimentato dapprima ogni 6 mesi, e poi ogni 3 anni tutte le bottiglie, per riportare i lieviti in sospensione. E infine sopra tutti il tempo”.
AZIENDA LETRARI: scelta per la sua posizione nella piana Vallagarina e per la produzione che predilige dosaggi bassissimi. Azienda che affonda le radici nella storia del vino trentino. coltivando le uve nelle zone più altamente vocate della valle. Riporto dalle note aziendali di presentazione: “Noi elaboriamo con naturalezza, grazie ad un'esperienza maturata in oltre mezzo secolo di vendemmie. Papà Leonello è considerato un fondatore della spumantistica trentina, le sue prime bottiglie di risalgono infatti al 1961. Non è un vino della consuetudine: nasce dalla caparbietà e dall'autorevolezza del cantiniere abbinata alla sapienza del vignaiolo. Noi possiamo vantarle entrambe”.
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Pedrotti |
Sulla base di queste affermazioni come non ricordare la Riserva del Fondatore. “E’ il vanto della nostra ‘maison’, una riserva che vuole essere decisamente esclusiva. Oro lucente, che alla vista onora subito la sua classe, con una gamma di fragranze di rara eleganza, note di nocciole mature a percepire l’essenza delle mele di montagna, pure della pesca, arachidi tostate e zenzero. Il sorso è cremoso, un mix di rotondo equilibrio tra sapori agrumati e l’incontenibile ampiezza della crema pasticcera, con il limone candito che mitiga e rilancia tutta la finale, interminabile complessità organolettiche”. AFFINAMENTO SUI LIEVITI 120 mesi. Vini base in barriques e conversione malolattica avvenuta.
AZIENDA ROENO: perché la sua scelta. Ci troviamo sul confine con la Regione Veneto. L’azienda e la cantina si trovano oltre il confine (Veneto), mentre i vigneti “spumantistici” in Trentino, zona Trento. Terroir diverso e maturazioni posticipate. Leggo e faccio proprio: “La famiglia Fugatti rappresenta una somma di sentimenti che la memoria ha tramandato, oltre il legame del sangue. Un albero i cui tanti rami hanno indicato la strada da seguire, in cui rispetto e umiltà rappresentano i valori da non dimenticare. Più a Nord invece, raggiungono la provincia di Trento, rientrando quindi nel disciplinare del Trentino Doc”.
Interessanti i due aspetti: la scoperta di “certi” vini fermi unici (Enantio in particolare) e gli spumanti dalla veste interiore unica. E di questi spumanti ricordo DÈKATOS, metodo classico millesimato 2012, 100% chardonnay. Spumante di sostanza e ispirazione, trasformato in identità di territorio. Lunga permanenza sui lieviti (100 mesi) per connotare e cesellare uno stile unico. “Dekatos respira l’arte e il vento delle latitudini trentine, dove la vocazione per i grandi Metodi Classici ha permesso di scrivere pagine importanti all’interno della storia enologica italiana”.
Prendo a prestito quest’ultimo pensiero trasmessomi da Cristina Fugatti, titolare dell’azienda Roero, per chiudere questo mio viaggio in Trentino, terra di spumanti.
Ops, dimenticavo: delle quattro visite ben tre sono gestite da imprenditrici femminili (Pedrotti, Letrari, Roero). Forse il Trento Doc è diverso anche per questo? Chapeau!!!
Urano Cupisti