L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
È tristissimo doverlo ammettere ma una discreta parte dei giovani d'oggi (italiani, europei od americani non fa alcuna differenza) è composta di elementi mentalmente manipolati; privi degli strumenti elementari indispensabili per comprendere di esserlo. Anzi: più la manipolazione si accanisce sulle loro scarne menti, più fa presa. Il riferimento al cosiddetto “caro affitti” è lapalissiano. Il dato più raccapricciante di questo sconfortante quadro è il fatto che essi si compiacciano nel sentirsi etichettati ed identificati come bestiame. Ultima generazione è la bandiera od il marchio - se volete, sotto cui squittiscono di gioia allegramente uniti. Ed è una definizione perfetta, impeccabile: sono gli ultimi in senso etimologico. Gli ultimi, gli scarti di questa generazione di incapaci eterodiretti. A loro piace essere definiti così perché – come si accennava poco sopra – non hanno strumenti per comprendere cosa dicono, fanno e quale sia il contenuto delle loro istanze! Dunque, ultimi. Ripetono con sterile psittacismo slogan suggeriti ad hoc. Se intervistati riproducono fedelmente ed acriticamente il nastro imparato a memoria attinto dai social. Pensano di essere ed agire come avanguardisti del pensiero sociale; persuasi di aver scoperto il Santo Graal dell'equità sana e giusta: l'affitto delle abitazioni limitrofe agli atenei è caro e dunque ci accampiamo con la tenda sino a che o i sindaci ci assegnano le case sfitte o lo Stato ci stacca l'assegno per il pagamento dell'affitto.
A sostenere queste insensatezze, sono i figli di quei genitori che per ragioni spesso economiche, vivono lontano dai costosi centri presso cui sorge la quasi totalità degli atenei. E questi ingrati, invece di rimboccarsi le maniche, studiare e conseguire titoli il più velocemente possibile (chi vi scrive percorreva 80 chilometri al giorno tra andata e ritorno, conseguendo la Laurea in un anno e mezzo e la specializzazione idem con la media del 28/30) cosa fanno? Frignano! Qualcuno dovrà prima o poi notificare loro che la Vita si incaricherà di spezzarli in quattro: non è umano pretendere tutto e subito. Perché le cose ottenute senza fatica, non valgono e di conseguenza non vengono rispettate. Di contro, ogni effetto conquistato, assume valore perché compendia il sacrificio, lo incarna proprio. Esattamente quello che voi non conoscete.
Certo, il fatto che 10 anni fa foste alle elementari, gioca a vantaggio vostro e induce noi critici ad una maggiore benevolenza. Però questa viene nuovamente azzerata nel momento in cui non riuscite a capacitarvi di essere manipolati! Vi siete mai chiesti come mai questa mania degli affitti salati sia scoppiata all'unisono in tutto il mondo Occidentale? Non vi sfiora forse il sospetto che vi stiano usando tanto qui in Italia quanto in Europa ed in America per distrarvi dal tema Guerra, quello sì meritevole di ferocissima battaglia cui prenderei parte seduta-stante anch'io? Proprio non ci arrivate? Eppure si mormora che siate fenomeni col telefonino. Ah, forse lo sapete usare solo per giocare ma per le cose da grandi ancora dovete maturare. Steve Jobs, prima di morire, esattamente il 12 Giugno 2005, spese parole sensate, sacrosante direi, in occasione di quel discorso rivolto proprio agli studenti universitari di Standford (CA) ai quali disse: “Non accontentatevi mai e non abbiate paura delle sconfitte. Da lì arriveranno le svolte migliori”. Ecco, siete finiti in una tenda! Come tanti pupazzetti indottrinati, tutti omologati, tutti uguali, tutti in fila, per la profonda quanto intensa goduria di chi vi osserva di lontano e si bea del risultato mondializzante ed anestetizzante ricavato col minimo sforzo. Ma come fate a non rendervi conto dell'immane idiozia che state compiendo e del tempo sprecato nel vuoto siderale di queste grottesche sceneggiate in cui vi producete? Ma non riuscite a vederli coi vostri occhi questi governi di sfacciati ingiacchettati – anch'essi eterodiretti dalla stessa mano che manipola voi – pronti alla Guerra, intenti ad ammucchiare armi mentre ammantano di ripugnante perbenismo intellettualoide intese inconfessabili al punto che debbono essere nascoste alla pubblica opinione col segreto di Stato, o le vedono solo i vecchi cinquantenni ed oltre come me?!? Vi stanno inducendo in uno stato di torpore nel quale risulterete sempre più innocui. Il prototipo dei popolatori del 2023: stupidi ed incapaci di leggere la realtà perché indottrinati! Il Mondo sta ad un passo dall'autodistruzione atomica e voi scandite slogan di affitti cari e condizioni climatiche di cui non sapete nulla?!? Ah, come aveva ragione Eschilo: “Chi pretende d'insegnare è spesso chi ha bisogno d'imparare”. Vi prendono in giro perché siete inesperti. Come riportavo prima, dieci anni fa avevate dieci anni o quindici anni al massimo. Ora site solo più grandi di dieci anni ma non avete ancora capito nulla della Vita e chi vi viene a dire che “voi contate; che siete delle risorse; dei sani anticorpi di uno Stato allo sbando”, ebbene sappiate che sono proprio coloro i quali vi stanno inoculando l'anestesia. Siete ancora in tempo. Manca poco. Il futuro vero è quello che vi dovrà vedere uniti contro la Guerra e l'autodistruzione atomica, e intenti a cianciare di ghiacciai disciolti ed auto elettriche! Laureatevi in fretta, possibilmente con buoni voti e vedete di cacciare via dai palazzi che contano quelli che hanno distrutto la mia generazione e sta anestetizzando la vostra per continuare a gestire i destini di un Mondo malato.
Stay hungry. Stay Foolish. Siate affamati. Siate folli e... risvegliate i vostri simili. Loro vi temono, per questo vi indottrinano!!!
Andrea Signini
Al Gianicolo, al Gianicolo!
Passeggiare senza fretta per le curve che da Trastevere salgono verso la sommità di questa collina panoramica romana potrebbe rappresentare - all’alba del primo di Gennaio, magari rincasando dopo i festeggiamenti pirotecnici della notte - un’occasione suggestiva per rivisitare un rilevante episodio di storia calendariale.
Ma cosa lega il primo giorno e mese dell’anno all’antico “Mons Aureus”, la piccola altura così chiamata per la prevalente doratura dei materiali che la compongono? La risposta è contenuta nei miti religiosi di Roma antica, che consideravano il mese “Ianuarius”-Gennaio e il colle “Ianiculus”-Gianicolo dirette dipendenze del dio “Ianus”-Giano, anche etimologicamente ad esso collegate.
Il nume - figura già presente nel pantheon romano più arcaico - era quello che presiedeva a tutti i momenti di passaggio e, in particolare, alla fase iniziale di qualsiasi attività; veniva rappresentato sia con un’erma a due/quattro facce per la sua capacità di controllare e conciliare passato e futuro, sia con la “ianua”- porta, che apre e chiude la comunicazione tra piani diversi. Garantendo Giove lo scorrere normale del tempo durante tutto l’anno, non poteva certo essere lui a determinarne poi morte rinascita: in questi casi entravano in azione Saturno (a Dicembre) per dissolvere il vecchio anno con i rituali trasgressivi dei “Saturnalia”-Saturnali e appunto Giano (a Gennaio) per presiedere alla rigenerazione di quello nuovo.
Oggi, oltre che nel toponimo Gianicolo, sono ancora rinvenibili a Roma tracce del culto di Giano nell’arco d’epoca costantiniana sito in via del Velabro e - probabilmente - pure nelle due erme a quattro facce sull’antichissimo ponte “Fabricius”-Fabricio detto appunto, in città, “dei Quattro Capi”.
A partire dal 153 a.C. si cominciò nell’Urbs a far insediare ufficialmente i consoli nella loro carica proprio alle “Calendae”-Calende di Gennaio (il primo del mese) esprimendo in questo giorno pure gli auguri allo Stato, indirizzati in seguito all’imperatore. L’abitudine era comunque anche privata, con la simpatica aggiunta di “strenae”-strenne o doni di buon auspicio. A Giano venivano offerti farro col sale e il tortino al forno “Ianual” (impasto di uova, farina, olio e cacio grattuggiato), per propiziare fertilità alla natura e produttività al lavoro dell’uomo. Nonostante questa ricorrenza fosse la più sacra e importante del calendario, non rientrava comunque tra i periodi di vacanza, senza essere per questo - però - neppure considerata una comune giornata lavorativa. Il lavoro veniva a perdervi infatti finalità produttive, acquistando invece dignità sacrale di rito.
La credenza che gli avvenimenti del primo di Gennaio - proprio perché verificatisi in un giorno inaugurale - possano in qualche modo proiettarsi su tutto il periodo futuro, veniva ribadito anche da abitudini augurali come quella di scambiarsi miele, datteri e fichi per addolcire il tempo nuovo che iniziava; nonché dagli stessi intenti propiziatori che informano ancora le attuali pratiche di fine-inizio d’anno: ad esempio indossare indumenti nuovi o mangiare cotechino e lenticchie, simbologie forti d’abbondanza e di ricchezza. Ma altre antiche usanze del periodo del Solstizio invernale - disperse nei mesi di Dicembre e di Gennaio soprattutto per esigenze moralizzatrici del Cristianesimo - sono riuscite in qualche modo a influenzare il Capodanno attuale, con riti d’espulsione delle negatività accumulate durante i mesi precedenti: fuochi (anche d’artificio) alludenti al sole che rinasce, pratiche divinatorie e auguri senza regali passati – questi - invece al Natale.
[A] Luigi M. Lombardi Satriani (a destra) con l'autore |
Caro Luigi
alla tua scomparsa ti hanno voluto ricordare, chi per affetto e smarrimento per la scomparsa dell'amico e del maestro, chi per dovere di cronaca col ' coccodrillo' g ià pronto per non ' bucare' la notizia. Personalmente ho provato qualche delusione nei confronti della cultura nazionale sia generalista sia d'ambito specifico, apparivano incerte tra bere alla fonte dell'oblio o comunque restringere d'intensità/rinviare nel tempo il ricordo di te.Pur destinando ad altro contributo commenti su acquisizioni di metodo più alte delle ricerche tue d'antropologia, ritengo dare rilievo qui (perlomeno) alle buone pratiche da te perseguite contro frammentazione d'associazionismo di settore, volte ad aumentare il potere contrattuale dello stesso a fronte dei referenti politico-amministrativi di sua competenza.
Caro Luigi - da decenni per me maestro d'Antropologia e amico – ti ricordo a pochi mesi da “L' evasione dai giorni” tua di Primavera: evento ladro di un'altra tua amatissima Estate, e di spazi-tempo comunque nuovi per aspirare ancora “ Nostalgia di futuro” . Come vedi mi trovo a dire subito tratti forti di te, anche solo citando titoli di raccolte poetiche tue, d'umana confessione [1] …
A proposito d'una presentazione [2] proprio di “ Nostalgia di futuro” (scritta poi su rivista “ Poeti e Poesia” [3] ), qualche immagine di essa - non mera cronaca d'evento ma testimonianza 'viva' – sembra evidenziare altri modi tuoi significativi d'esistenza. Nella foto [A] ad esempio, la tua intensa abbronzatura corpo/volto sembra chiamare una saggezza di sapore antico, passite entrambe a lungo sotto il sole di Calabria; il tuo sguardo invece attenzione e interesse sinceri verso gli altri, e piacere grande di saperli ascoltare.
Un fermo immagine d'una vita in cui hai definito “ amore e destino” il libero esercizio d'antropologia critica, per guadagnare riconoscimento a tutto ciò che ci fa essere/mantenere ' Uomini'. Un progetto d'antropologia 'poetica' naturalmente integrato con poesia 'antropologica' , realizzabile solo da chi - come te - ha saputo coniugare talento e sensibilità d'analisi con amore per la vita, e sincero piacere d'entrare in relazione con gli altri .
Il mio ricordo comunque qui è senza mestizia, come lo spirito entusiasta tuo per attenzioni di vita: non scevro - eppure - d'agro-dolci connubi tra colta (mai saccente) ironia e realissima malinconia; capace di accogliere nuovi stimoli in accoglienti griglie di logiche/valori d'esistenza, e non nascondere fragilità personali per meglio cogliere così quelle d'altri, e saper proporre - possibili - riscatti. Come in ambito psicologico, più percorsi anche nel tuo modello culturale che t'hanno permesso di nutrire - ad esempio - profondo rispetto per tradizioni sia 'paganeggianti' /laiche sia religiose tue meridionali: perché da te opportunamente ingerite, ruminate e rese nutrimento di ricerca ma pura di vita.
Domanda impossibile, abbraccio certo
Un'altra immagine [B] dalla presentazione di “Nostalgia di futuro” che ti ritrae solo - con espressione stupita quasi adolescente (tipo “Chi, io? “, “Dice a me? “) - sembra alludere proprio all'ultima “ chiamata ” ricevuta, quella a cui purtroppo si fa fronte da soli: quell' “invito” che, ritengo, ti abbia comunque più sorpreso che impaurito sia per il tuo progettare fino all'ultima la vita, sia perché hai sempre tenuto comunque in grande considerazione l' 'evento finale' . E questo sia “ culturalmente” (“La vita deve fare i conti con la morte e con i morti per continuare a esser tale. I morti sono i segni sotterranei della vita” [4] )sia individualmente come “ persona”. Coronamento infatti del tuo cammino antropologico-poetico di consapevolezza - solo apparentemente evidente perché esistenzialmente guadagnato – è quello annunciato e predicato nel titolo della tua terza antologia di liriche “ Omnia vincit amor” [5] , caleidoscopio di “Amores” vissuti come amante/amato , ma membro attivo pure di precisa cultura. In esso affermi con coraggio, a proposito “mi sono nascosto nei libri / occultando così che trovare parole / era un modo per proiettarmi nel tempo / e oltrepassare la morte. / Anche l'amore, le tante forme di amore/sono state per me/tentativo di oltrepassare la morte” [6] .
[B] |
A chiusura di testimonianza, una domanda certo irrituale: in più impossibile e dunque senza risposta che vorrei sentissi però come abbraccio vero, quanto quello scambiato in tanti anni amichevoli. Una richiesta che richiama universi simbolici di cui – al di là d'analisi e commenti - hai fatto dono a noi d'umanissimo racconto: “ Come è stato quel viaggio” che - secondo miti e riti di Sud Italia e non solo [7] - devono compiere le anime lungo la via Lattea dopo la dipartita; a piedi nudi su quel ponte di S. Giacomo sottile come capello e accidentato, che da terra sopra un baratro s'alza fino al cielo?Sarà stato un pellegrinaggio proprio come la tua esistenza, assetata sempre di conforti di Vita e d'Amore: ristori come quelli simbolici della tradizione, offerte d'acqua in casa di chi - per sempre – l'ha dovuta abbandonare. Nel cammino ti sarà mancato certo il ' viatico' della tua valigia ideale, come avesti a descriverla a me tanto tempo fa: bagaglio fisico ma puro psicologico e simbolico che occorre per fare casa in ogni tempo e in ogni luogo, come diceva bene il titolo di quel giornalistico inventario “Insieme ai libri, sogni e nostalgia” [8] .
[1] LM Lombardi Satriani. Nostalgia di futuro. Poesia di amori (1956-2013), 2014; L'evasione dai giorni. Poesie, 2015.
[2] D.Ienna. Sala Magenta (di Bruna Baldassarre e Salvatore Palamara), Roma 24.5.2014.
[3] D. Ienna, Quando antropologia fa rima con nostalgia (di futuro). Poeti e poesie. Rivista internazionale (diretta da Elio Pecora); n. 35, agosto 2015, pag. 21-33.
[4] Intestazione alla seconda edizione de 'Il Ponte di San Giacomo”; Palermo, Sellerio, 1996.
[5] Omnia vincit amor. Poetica dell'amore, 2017.
[6] LM Lombardi Satriani, “Congedo”; da “L'evasione dai giorni”,2015.
[7] Luigi M. Lombardi Satriani-Mariano Meligrana. Il ponte di s. Giacomo. Rizzoli, 1982.
[8] D. Ienna, I Viaggi di Repubblica; 3 dicembre 1998, pag. 74.
Isola di Lampedusa (arcipelago delle Pelagie, Agrigento);
Autunno avanzato che non sembra tale, 2021
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Una volta sognai
di essere una tartaruga gigante […]
e tutti si aggrappavano a me […]
Ero una tartaruga che barcollava
sotto il peso dell’amore
molto lenta a capire
e svelta a benedire.[…]
questa testuggine marina
è la terra
che vi salva
dalla morte dell’acqua.
(Una volta sognai, Alda Merini; inaugurazione Porta d’Europa, Lampedusa 28 Giugno 2008).
1. Verso Lampedusa
Spinti/stipati disperati su natanti diversi – di cui già solo i nomi attribuiti evocano rotte incerte/insicure (barchini/barconi/carrette del mare) - come fantasmi scivolano a centurie verso Lampedusa, ingresso Sud condiviso di Italia e Vecchio Continente (35° nord e 12° est circa di coordinate): un nuovo mondo per second life agognata, troppo spesso a rischio in mare di subli-mare in altra vita (per chi crede) troppo presto ultraterrena.
Tra i fari dei Capi Ponente e Grecale e quello del Porto s’apre davvero un altro orizzonte, anche se – gran parte libero su deserto a rocce bianche e polvere rossa marziana – in certi arrivi può apparire spesso in qualche modo familiare. Su suolo proprio tanto accidentato, tenta ribattere l’Ariosto nel Furioso a chi – vista appunto “Lipadusa” – trovava tale isola “montuosa e inegual”/“alpestre scoglio”teatro non agibile per scontri a cavallo, come quello Cristiani-Saraceni che il Poeta aveva in loco appunto ambientato.
Tra le rive di Barberìa/Africa settentrionale e Sicilia, “A metà del cammino vi è un'isola chiamata Lampedosa” ebbe a dire in seguito Alonzo de Contreras spagnolo (XVI-XVII secolo), novello Odisseo/seriale maestro d’avventure, che suggestivamente ebbe a rilevare sul Porto “una grandissima torre (volgarmente detta sin dall'antichità Torre d'Orlando) abbandonata che dicesi incantata.”
Oggi l’isola è turismo e supercofine, presidiata a terra da Polizia e Carabinieri, Guardia di Finanza e Costiera invece a mare.
2. Lampedusa da bere
Ad Autunno inoltrato - nel pacchetto Caraibi dietro casa per abbronzature fuori stagione, indubbio ossigeno per economia locale di vacanze e pescato - frequentazioni ancora intense di spiagge (Guitgia, dei Conigli di fronte all’isola omonima) e di scogli (baia Mare Morto); giri d’isola su imbarcazioni turistiche con vista delfini e spaghettate (con possibili soste impreviste transito migranti); frequentazioni d’arabeggianti dammusi riadattati e - a Cala Creta - pure pretesa pizzeria “La più a sud d’Europa”; mini-struscio infine in via Roma (orchestrine, shopping e quant’altro) attenuabile forse un po’ visto il contesto, con benestanti in età soprattutto del Nord e tanti giovani vivaci locali… Una Lampedusa moderatamente da bere, osando riciclare l’espressione-tendenze su Milano anni ’80, secolo scorso.
3. Salvezze e naufragi a Lampedusa
Non sembrano trovare invece mai tregua qui da omeriche tenzoni con l’onda, sia respinti/salvati al largo sia – fortunosamente approdati – dopo triage sanitario trasferiti confusi all’hotspot di Contrada Imbriacola; e neppure quando meteo o politiche avversi spingono a ridurre/deviare/smorzare partenze/rotte/speranze, o peggio ancora - a sé stessi malauguratamente perduti – con nomi/senza nomi, diversi si trovano in fine affiancati al cimitero locale .
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Tanti i luoghi/manufatti legati a fughe di salvezza e naufragi, presso cui – anche se solo evocati – continuano a suscitare così pietas, più che mero pietismo.
Al Santuario della Madonna di Porto Salvo storia narrata d’Andrea Anfosso ligure prigioniero dei Saraceni (seconda metà XVI sec.), avventurosamente tornato in patria con l’ausilio di un’immagine mariana scoperta nell’isola. Nell’effigie-sintesi della vicenda, il marinaio innalza a mo’ di vela il sacro dipinto, facendosi sospingere così dal vento a bordo d’improvvisato naviglio . Ma altri racconti aleggiano ancora qui di sbarchi e d’avventure, tra grotte disposte intorno al luogo consacrato .
Sul lungomare in paese - poi - la dinamica fusione Trionfo sul mare” di Geny Scalzo ; le scritte evidentemente antagoniste (probabilmente “Proteggere noi e i nostri confini” e “Proteggere le persone”) vergate/sovrapposte in sequenza incerta al Porto, tra l’ingresso del Molo Favarolo e le tante faccine (fantasmi di chissà quanti viaggi) che animano un murale colorato ; i natanti soccorsi/sequestrati di vario tipo che cigolano ammassati lungo il canale , con senso di naufragio che cerca di trascolorare però la vita quotidiana del Porto.
In Contrada Cavallo Bianco – menzione di quello perso in battaglia dall’epico Orlando – infine la Porta, detta d’Europa : creazione guarda caso d’un altro Paladino - Mimmo scultore - incrostata di simil-oggetti quotidiani salvati/persi (come le vite) in tanti approdi tentati. Passaggio così aperto verso cielo e mare da togliere/affannare in alternanza il respiro, come capita pure al mare stesso di Lampedusa, che a volte col marrobbio (tsunami minimale) esprime le sue emozioni sulle rive dell’isola.
La grande Pelagia in qualche modo resiste – quando può/quanto può - a non fare di tale sogni soltanto incubi, portando ospitalità mediterranea in angosciose contese tra pietas individuale ed esigenze collettive, iniziative locali e protocolli istituzionali, confini di centro abitato/isola e di Paese/ Continente; anche se capita rilevare comunque in loco qualche controcanto deluso, per disparità di concessioni - ad esempio - in tempo di lockdown (vedi annullamento processione per l’amatissima Madonna di Porto Salvo il 22 Settembre, e l’ospitalità concessa invece al sit-in pro-migranti a inizi d’Ottobre),
Beati comunque coloro che possono esprimersi al riguardo con (relativa) libertà come Pontefice, cantautori, intellettuali e poeti… Chissà se anche a questo alludeva la Merini – tanto ermetica eppure lucida - con “Ero una tartaruga che barcollava/sotto il peso dell’amore/molto lenta a capire/e svelta a benedire”: perché se occorre al riguardo non dimenticare mai le persone quando si fa politica e legislazione, è da promuovere pure nel contempo modi equi di comportamento che – una volta applicati a tutti - costituiscano davvero buona pratica per migranti e comunità di residenti relative.
Proprio come la tartaruga marina allora che, se nei versi di Alda appare salvifica, viene salvata però a sua volta presso l’Isola dei Conigli: là dove Caretta Caretta gode appunto di zona d’ovodeposizione protetta nell’ambito della “Riserva naturale orientata Isola di Lampedusa”.
4. In fine
Tra tanti luoghi frequentati da sbarchi sull’isola, colpisce Cala Pisana per somiglianza forte con sbocco del Tevere a Fiumicino di Roma, là proprio dove in Commedia dantesca l’Angelo addetto imbarca anime per soggiorni sofferti (con speranza però) in Purgatorio: “l'angel di Dio […] sen venne a riva/ con un vasello snelletto e leggero,/ tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva./ Da poppa stava il celestial nocchiero […] e più di cento spirti entro sediero”…
E vero purtroppo che - prima di salvamenti d’alto mare o presso costa – non mancano di regnare però su scafi affollati d’anime ben altri, meno angelici nocchieri come sembra ricordare sempre l’Alighieri“Caron dimonio, con occhi di bragia/loro accennando, tutte le raccoglie;/batte col remo qualunque s'adagia”.
In sintonia evidentemente con tali richiami, il presente reportage (come facile notare) è stato proposto senza il fulcro essenziale delle vicende, il soggetto/protagonista narrativo cioè delle stesse: ché circostanze drammatiche dei tanti sbarchi tentati o riusciti hanno reso/rendono difficile perfino dar nome a chi soffre o viene a mancare, riducendo così tutti questi a nulla più che naufraghi fantasmi, che s’aggrappano a migliaia ad altre parti del discorso come a scogli…
Ad allusiva riempitura di tale assenza, tre oggetti sono sembrati proporsi con pretesa di dare qualche morale al racconto: una lavatrice, una panchina e una bandiera. Se immagine di disumana solitudine e abbandono sofferti in battello appare qui un relitto di lavatrice, incomprensibilmente abbandonato in una spianata (si fa per dire) desertica di centro isola, non è difficile sentirsi ugualmente piccoli di fronte a tanto mare e tanti drammi, nonché all’enorme panchina verde isolata presso il faro di Capo Grecale: issandosi su di essa a fatica, sembra far parte - infatti - davvero d’un Piccolo Popolo!
Al casotto-ristoro di Cala Madonna infine - d’una bandiera una volta tricolore - sventolano solo brandelli di Verde-speranza aggrappati all’asta; il Bianco e il Rosso chissà dove sono volati, anch’essi persi oramai sul mare…
Arduo il tema d’Educare alla legalità: davvero un fatto sociale totale che – interessando in toto la nostra convivenza in società - richiede contributi interdisciplinari di natura politica, giuridica, psicopedagogica, socio-antropologica, etica, e per chi si riconosce in un credo pure religiosa. È facile prevedere che le gravi emergenze che bussano già con forza al nostro presente (mutamenti climatici, dilemmi etici a fronte di nuovi orizzonti scientifico-tecnologici, problemi demografici ed energetici, guerre e terrorismi, crisi finanziarie, ecc.) potranno porsi in futuro in modo ancora più drammatico se non verrà affrontato seriamente - a livello globale e locale - il problema della cultura: intesa come complesso di valori, motivazioni, progetti da sostenere nell’immediato, e trasmettere opportunamente poi a generazioni interessate da fasi evolutive. Così, in un intervento radiofonico di anni fa su pericolosità e illegalità d’alcuni tra i cosiddetti botti di Capodanno, ebbi a proporre d’integrare il contrasto a smercio/uso di tali prodotti con una seria prevenzione a livello scolastico, mirata a sensibilizzare però anche adulti e famiglie: illustrando motivazioni/significati relativi, per indurre così una sorta di domestificazione del rito in grado di rendere più permeabili i suoi protagonisti a riflessioni ulteriori.
Problema globale, attenzione locale
Oltre a riflessioni di carattere generale, occorre ovviamente relativizzare il discorso Educare alla legalità al territorio interessato. Pur con diffusione di tipicità criminali ormai in tutto il Paese, ogni territorio rimane comunque caratterizzato da specifiche emergenze d’illegalità animate da ambiti di sottosviluppo e degrado, microcriminalità, e familismo delinquenziale organizzato.
Educazione e Legalità per Educare alla legalità
Se Educazione è processo d’inculturazione in cui vengono resi coscienti e partecipi appunto della cultura di cui fanno parte (o vorrebbero far parte, o si vorrebbe facessero parte) persone, gruppi e generazioni diverse, al fine di gestire sia il presente strutturato sia possibili situazioni future; Diritto il complesso di norme che gestisce il comportamento dei cittadini tra loro; Legalità la conformità delle loro azioni appunto a tali leggi stabilite, Educazione alla legalità viene a configurarsi allora come ambito fondamentale d’una più generale formazione socio-culturale il più possibile continua, diritto-dovere di tutti i cittadini per convivere responsabilmente in comunità e Stato d’appartenenza.
Il compito di tutti e d’ognuno: educarsi ed educare alla legalità
Tale complessa attività di trasmissione didattica può seguire itinera informali oppure formali: quelli informali possono dispiegarsi lungo tutto il corso della vita e - se confortati da guide o modelli buoni - produrre frutti decisamente positivi (Seneca: Lunga è la strada dei precetti, breve ed efficace quella degli esempi); quelli formali – frequentati quasi sempre in modalità collettiva (scuole, ecc.) – presentano invece carattere prevalentemente strutturato, normativo e certo non facoltativo. Nelle più ambiziose intenzioni d’entrambi i percorsi, tale educazione alla legalità dovrebbe far comprendere - oltre la lettera - anche lo spirito della legge, facendo in modo che l’idea di dovere a essa connaturata incontri la motivazione cosciente (morale) di chi si trova impegnato a osservarla; 2 la presa d’atto esterna insomma d’un convincimento interno già raggiunto, secondo il kantiano Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale (ponendoti similmente la domanda: sarebbe auspicabile per la società che questo comportamento che voglio seguire possa essere compiuto da tutti i cittadini?). Questo sembra porsi come corrispettivo positivo del detto di sapienza popolare Fatta la legge, pensata la malizia (escamotages di varia tipologia per evitare coazioni o impedimenti predicati dalla norma in oggetto), riassumibile nel nuovo adagio qui confezionato Fatta la (buona) legge, pensato il senso (per individuo e società). L’integrazione qui del termine legge con l’aggettivo buona ricorda che la riuscita dell’alto compito dell’Educazione alla legalità convinta passa - ovviamente – anche da sensibilità psico-antropologica, attenzione ai mutamenti socio-culturali e semplificazione della produzione normativa da parte del potere politico legislativo interessato; dall’interpretazione applicativa in scienza e coscienza dei magistrati e infine dal controllo/intervento sul territorio delle forze dell’ordine eseguito col doppio rispetto del diritto e del cittadino: tutti in linea cioè con quella separazione dei poteri dello Stato teorizzata da Montesquieu nel XVIIII sec., e garante se reale di un’unione d’intenti verso una legalità davvero ben educata.
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In questo lavorìo giuridico-democratico tra cittadini e istituzioni, l’esercizio d’opportuni strumenti culturali può rendere più comprensibile/condivisibile lo spirito delle leggi, e funzionare come antidoto preventivo in sintonia con interventi rapidi e ben calibrati di controllo sul territorio.
Un lungo processo storico
D’altro canto l’Educazione alla legalità costituisce per politici legislatori, magistrati, intellettuali e formatori del nostro Paese proseguimento e perfezionamento del grande sforzo giuridico-culturale affrontato in occasione della proclamazione dell’Unità, teso a uniformare e armonizzare i diritti pubblico e privato dei vari Stati che costellavano precedentemente la nostra penisola. C’è l’Italia ormai da più d’un secolo e mezzo, ma ancora pure tante Italie (come dimostra il nodo Mezzogiorno) da amalgamare anche attraverso un’Educazione alla legalità sempre più proficua e uniforme.
Educazione alla legalità in scuole e luoghi d’aggregazione vari
Buona notizia dal mondo della scuola, dall’anno prossimo la pratica sportiva potrà entrare nei programmi anche delle classi elementari: un buon contributo per la costruzione di un’Educazione alla legalità già dai più piccoli, visti i valori di lealtà e di rispetto delle regole (oltre agli ovvi benefici fisici e mentali) che per definizione tale attività sa infondere a coloro che la praticano e la sanno apprezzare. Tra gli strumenti più validi riguardo sempre alla didattica, si pone poi sicuramente la disciplina dell’Educazione civica, a cui occorrerebbe garantire presenza autorevole, ampia e continua per acquisizioni teoriche in aula e partecipazione a momenti esemplari di vita della res publica. In linea con i tempi, l’Educazione alla legalità richiede certo forte presenza anche in Rete, per presidiare in modo opportuno tale straordinariamente pervasivo (ma pure insidioso e di complessa gestione) strumento di comunicazione; e favorire così l’esercizio di buone pratiche in luoghi d’aggregazione reali e virtuali da parte dei cittadini interessati.
“Il paradiso del cavaliere”... e del cavallo, aggiungo io. Daniela Franchetto con la figlia Elena, i due cherubini che hanno reso possibile questo a due passi da Roma, sulla Cassia bis. In questo centro equestre nel comune di Nepi, la prima cosa che colpisce è veder convivere cani, gatti, oche, galline, in promiscua totale libertà con i cavalli presenti. E il tutto avviene senza che si crei alcun problema fra gli stessi animali o con i numerosi frequentatori del club. In pratica tutto un altro mondo, un paradiso infatti, dove il rispetto del cavallo è la base per iniziare un percorso di raggiungimento e, nel tempo, quasi di simbiosi fra cavallo e cavaliere. Qui il cavallo vive l'addestramento attraverso un'esperienza acquisita nel rispetto dei suoi tempi e senza il deprecabile “morso”.È un gioco fatto di contatto fisico, abbracci, gratificazioni e stimoli alla sua naturale curiosità, attuato in maniera da non creargli particolari traumi o stress che potrebbe incidere sul suo futuro dal punto di vista psicologico, fisico ed emozionale. Già Senofó nte nel 350 ac raccomandava un addestramento senza dolore, sottolineando che è meglio convincere un cavallo piuttosto che obbligarlo. A fine Ottocento, Federico Caprilli, capitano di cavalleria a Pinerolo, ideò un sistema basato sul principio di permettere al cavallo un movimento il più naturale possibile. N egli Stati Uniti intorno al 1950, Monty Roberts, l'uomo che sussurra ai cavalli interpretato da Robert Redford nell'omonimo film, creò una sua teoria fondata sull'osservazione e la relazione dei cavalli nel branco e la loro comunicazione. Una tecnica che ha contribuito al recupero di moltissimi cavalli difficili o traumatizzati. Infatti è l'uomo che si deve adattare al linguaggio del cavallo che, essendo una preda naturale, interpreta i gesti dell'uomo in modo diverso. Vive in bra dove sviluppa un linguaggio e una comunicazione a secondo dei ruoli della gerarchia. Ad esempio se un cavallo è prepotente, viene allontanato e solo quando cede ed inizia a dare determinati sagnali come la masticazione o abbassa la testa, comunicando di aver capito lo sbaglio e si sottomette, allora viene di nuovo accettato nel branco.
L'uomo deve creare con l'animale un contatto non solo fisico ma anche mentale in modo da conquistare la sua fiducia e fargli comprendere che l'essere umano che gli sta di fronte non è una minaccia ma un amico, un compagno di giochi.
Una relazione fra cavaliere e cavallo empatica, armoniosa e senza tensione psicofisica è condizione indispensabile se si vuole ottenere il massimo rendimento dell'animale, specie nelle competizioni sportive. Alle mie domande relative ad una delle ultime gare della figlia Elena con FLY, una delle piu promettenti cavalle del centro, Daniela mi racconta :
“ A proposito di Fly, la cavalla perfetta, mai una difesa né un rifiuto, proprio lei che le nitrisce appena arriva, le corre incontro e si infila da sola la capezza per giocare con la sua umana, lei che non sbaglia un tempo neanche quando le metti le distanze sbagliate, lei che fa le barriere a 180 cm ad un solo tempo di trotto e il giro dopo la stessa distanza al galoppo, durante la prima gara, il primo giorno, nel secondo percorso rifiuta addirittura di entrare... il flash di un fotografo mentre saliva sulla pedana l'aveva turbata oltremisura. Elena poteva forzarla, incastrarla fra mani e gambe, punirla per la disobbedienza... e invece no, ha deciso di farle dichiarare il suo disagio ed è stata premiata. Il giorno dopo infatti disputa la gara di inglese con la correttezza ed eleganza di una cavalla matura. Ancora piccole incertezze nel Green Ranch Riding e un magnifico terzo posto nel Ranch Riding dei grandi, finalmente un proprio agio in quel posto così diverso e lontano da casa sua.”
-Direi un ottimo risultato per una cavalla ancora ed all'inizio della sua carriera... “ Continuerà la sua carriera sempre più fiduciosa, affidata e competente. Quali che siano i suoi risultati, li vivrà da partner mai da schiava!”
Che questo possa diventare il modus operandi di quanti amano questo straordinario animale, da tempi memorabili amico dell'uomo. Auguri Daniela.
Pino Vasta
Roma - complesso monumentale di Sant'Agnese |
"Chi vo 'entrare qua dentro ci vo' assai lume che se no perde la strada".
Questo suggestivo avvertimento - firmato a carboncino nella catacomba romana di S. Agnese (via Nomentana) da un solerte visitatore dell'Ottocento - ci si prepara efficacemente alla discesa in particolare nei cunicoli paleocristia
ni della Capitale e del Lazio, e in generale nella rete di tutto l '”underground” italiano; che è necessario "assai lume" per cercare non solo il giusto cammino, ma pure il filo delle vicende che percorsero questi luoghi sotterranei.
Per quanto riguarda comunque le catacombe - preziose testimonianze della storia del Cristianesimo più antico - esse costituirono, con la venerazione delle reliquie dei Martiri e le iscrizioni funerarie, un nuovo modo di rapportarsi alla morte, e una diversa capacità di pensarla.
Mentre a Roma, nei primi tempi, i Cristiani seppellivano i loro morti ancora all'aperto, utilizzando gli stessi luoghi dei "pagani", è solo verso la fine del II secolo che vennero allestiti i primi "coemeteria" (luoghi di riposo) separati , indicati con un termine designante poi, anche nella lingua italiana, sepolture soprattutto di superficie.
Le catacombe, invece, furono sepolcreti specificatamente sotterranei, costituiti da una serie di cunicoli scavati secondo progetto o in modo irregolare, anche fino a 5 piani sovrapposti ea 20 metri di profondità!
Utilizzati soprattutto per le sepolture ei culti fino relativi al IV secolo, questi luoghi furono invece adibiti, dal V al VII secolo, all'esclusiva commemorazione dei Martiri.
Queste, in breve, le tappe più importanti nella storia delle catacombe romane: varie citazioni negli itinerari romani redatti per i pellegrini (VII secolo); traslazione, per motivi di sicurezza, delle loro numerosissime reliquie (IX); lungo abbandono fino ad una significativa ripresa di interesse (XVI); fondamentale attività di ricerca, in questo campo, di Antonio Bosio (1575-1629): sua opera postuma "Roma sotterranea" 1634), approfondita e completata - mediante lunghe campagne di scavi - da Giovanni Battista De Rossi (1822-1894).
Considerate in passato rifugi, o comunque luoghi segreti per il culto cristiano durante le persecuzioni, le catacombe sono viste oggi essenzialmente come particolari strutture cimiteriali che, sfruttando le caratteristiche geologiche di alcune località dell'Italia centro-meridionale, permettevano di concentrare un gran numero di sepoltura
intorno alle tombe veneratissime dei Martiri, senza peraltro escludere anche un occasionale uso difensivo.
Il nome specifico di questi complessi funerari deriva da una località situata a Roma all'inizio dell'Appia antica, a circa 4 km dalle Mura Aureliane. La zona, dispone di una cava di pozzolana già luogo di sepoltura nel I secolo, era designata dai Greci immigrati come "katà kumbas" (vicina alle grotte). Con l'arrivo dei resti dei SS. Pietro e Paolo intorno al 258 e l'erezione della basilica di S. Sebastiano nella prima metà del IV secolo, l'area si trasformò in grande centro di sepoltura e culto. Così, se all'origine il termine "ad catacumbas" designava le tombe dei 2 apostoli, dal IV secolo divenne sinonimo di qualsiasi necropoli sotterranea.
Roma e le sue immediate vicinanze ospitano ben 40 catacombe cristiane e poche giudaiche. Quelle cristiane, sviluppatesi su un percorso complessivo di più di 1000 km (il complesso di S. Callisto, per esempio, è costituito da circa 20 km di gallerie articolate su 4 livelli), sono così distribuite in città e negli immediati dintorni: 1 sulla Flaminia, 3 sulla Salaria antica, 4 sulla Salaria nuova, 3 sulla Nomentana, 3 sulla Tiburtina, 2 sulla Casilina, 2 su via Latina, 5 sull'Appia antica, 5 tra Appia antica e Ardeatina, 5 tra l'Ostiense, via delle Sette Chiese e l'Ardeatina, 4 sull'Aurelia antica, 3 sulla Portuense.
Sono indicati, nella quasi totalità dei casi, con nomi di Santi martiri o di buoni cristiani che contribuirono in qualche modo alla creazione delle necropoli: S. Agnese, S. Sebastiano, S. Valentino, S. Callisto, S. Felicita, S. Ermete, S. Ippolito, S. Panfilo, SS. Marco e Marcelliano, S. Nicomede, SS. Marcellino e Pietro, S. Pancrazio / Ottavilla, Domitilla, Priscilla, Commodilla, Ciriaca, Pretestato, Novaziano, Balbina, Generosa, Calepodio; catacombe dei Giordani, del Cimitero Maggiore, della S. Croce, di via Anapo…
Nel Lazio sono presenti sepolcreti di questo tipo anche a Nepi, Rignano Flaminio, Grottaferrata e Albano.
Elementi catacombali di particolare interesse sono le immagini conservate, d'alto valore simbolico (Buon Pastore, Mosè che fa scaturire l'acqua dalla rupe, figura in preghiera, stagioni, colomba, fenice, pesce, ancora…), e le concise ma spesso intense epigrafi funerarie poste su alcuni loculi, arcosoli e cubiculi di famiglia, occupati dalle spoglie di donne e uomini qualunque, adulti e bambini morti nella fede. Per altri versi documenti piuttosto modesti, queste scritte ci illustrano però l'atteggiamento dei Cristiani comuni di fronte alla dolorosa esperienza della scomparsa dei propri cari, e all'altrettanto penosa ricerca di senso in questa drammatica crisi esistenziale. Avviene così, allora, che anche in espressioni prive di riferimenti specifici una vita dopo la morte e alla fede in Cristo,sembra comunque spirare un'aria di consapevole e serena accettazione, un fronte d'un destino ineluttabile ma non cieco perché evidentemente rischiarato, per gli autori delle epigrafi, da una forte luce di speranza.
La breve frase "Cara, ricordati di me", in cui un affetto terreno sembra reclamare anch'esso, come l'anima, la sua eternità, fu vergato in greco nella catacomba di Priscilla (via Salaria); e così pure quest'altra lotta consolatoria, capace (quasi) di addolcire perfino la morte, nella consapevolezza che essa costituisce il destino comune, non senza possibilità di riscatto, di tutti i viventi: "O Terzio, fratello mio, sta 'di buon animo: nessuno è immortale ".
Alte si scorgono in Autunno-Inverno alle nostre latitudini, nel cielo serale, le costellazioni di Perseo, Cassiopea, Cefeo, Andromeda e Pegaso che costituiscono - insieme a quella più discosta della Balena - uno dei miti greci più compiutamente rappresentato sulla volta celeste.
Riguardo in particolare al primo degli asterismi citati, Perseo figlio di Zeus fu l'uccisore dell’unica mortale delle tre temibili Gorgoni, cioè di Medusa capace di pietrificare con la forza dello sguardo i suoi avversari; mostro vinto grazie all’uso di particolari oggetti forniti all’eroe da divinità a lui favorevoli. Per rappresentare in cielo l'orribile testa recisa (serpenti al posto dei capelli, zanne enormi…) o proprio un suo occhio infuocato - la scelta cadde su Beta Persei, stella bianca di discreta brillantezza descritta in passato, però, pure di colore rosso.
In ambito ebraico si vedeva in tale astro la "testa di Satana" oppure Lilith, il biblico demone femminile (Isaia, 34, 14) impegnato a sedurre gli uomini col suo fascino peccaminoso; ancora oggi è conosciuto col nome di Algol – dall’epiteto arabo “Hamil Ra's al-Ghul”, appunto “il portatore della testa del Mostro” - che dimostra la particolare attenzione dimostrata in proposito anche da questa cultura.
Beta Persei - visti i nomi che le sono stati attribuiti - veniva evidentemente considerata in modo non positivo, probabilmente a causa d’una sua caratteristica che soltanto più tardi – però - venne correttamente interpretata dal punto di vista astronomico: si tratta infatti d’una stella variabile, la prima binaria a eclisse a essere scoperta; cioè una ‘doppia’ (facente parte d’un sistema più complesso) i cui componenti - eclissandosi a vicenda - determinano variazioni della luminosità complessiva.
Se Geminiano Montanari riconobbe ufficialmente a Bologna nel 1667 la variabilità dell’astro - inquietante problema che si scontrava con la tradizionale concezione dell’immutabilità del firmamento - solo nel 1783 John Goodricke (dilettante morto nel 1786) riuscì in Inghilterra a determinarne il periodo relativo, calcolato attualmente in 2 giorni, 20 ore, 48 minuti e 56 secondi.
Un suggestivo “occhiolino' astronomico di facile osservazione a occhio nudo, dunque, con la luminosità della stella che passa infatti dalla magnitudine 2.1 alla 3.4, con un piccolo minimo secondario a metà ciclo tra due minimi principali.
Alle radici dell'insulto italico
1) L'insulto latino
"Anima foetida”, “cacatus”, “cadaver abiectum”, “carcinoma”, “corvorum cibaria”, “struthocamelus depilatus”, “fellatrix”, “defututa puella”, “vipera venenata”….
Sarebbe davvero un peccato se quest'antipasto un po' 'forte' – un ‘misto' di sapori latini da gustare comunque con un po' di malizia - facesse storcere il naso a qualcuno, allontanandolo dalle vivande ancora più appetitose che stiamo per servire.
Un peccato, certo, anche per chi non ha mai provato ‘feeling’ per i classici né per l’arte dell’invettiva: perché tali concretissimi o fantasiosi epiteti offensivi – espressi in una lingua da molti secoli oggetto ormai solo di frequentazioni didattiche o di diletto culturale – sono echi di vita lontana, etimologicamente conservati in tanti insulti dell'italiano corrente.
La documentazione relativa - varie e numerose espressioni contenute in opere di letterati, filosofi e storici come Ammiano Marcellino (325/330-ca 400 d. C.), Apuleio (ca 120/125-ca 180 d.C.), Catullo (I a.C.), Cicerone (106-43 a.C.), Ennio (239-169 a.C.), Aulo Gellio (II d.C), Lucilio (180?-103/102 a.C.), Marziale (40-104 d.C), Nevio (ca 270-ca 201 a.C.), Orazio (65-8 a.C.), Persio (34-62 d.C.), Petronio (?-66 d.C.), Plauto (ca 250-184 a.C.), Lucio Pomponio (prima metà I a.C.), Seneca padre (58/55 a.C.- 37/41d.C.) e figlio (4? a.C-65 d.C.), Sallustio (86-34 a.C.), Svetonio (70-dopo 122 d.C.), Terenzio (195/185 ca-159 a.C.), Titinio (inizi II a.C.) ed altri - sembra attestare una particolare attitudine degli antichi Romani a cogliere i lati deboli della natura umana, tale da permettere loro di propinare poi facilmente, secondo le circostanze, il voluto sarcasmo agli avversari.
Per il fatto stesso di far parte d'opere letterarie, gli insulti latini a nostra disposizione sono rappresentati non solo da parole trasgressive (testimoni d'ira e indignazione), ma pure da espressioni di varia complessità, costruite proprio
per indebolire l'avversario presso un pubblico di lettori o d’ascoltatori. Ecco un attacco davvero notevole ("In Pisonem"), firmato nientedimeno che da Cicerone (II-I a.C.):
"E io volevo fidarmi del consiglio e dell'aiuto di questa bestia [istius pecudis], di questo pezzo di carne fetida [putidae carnis]? Da questa carogna reietta [eiecto cadavere] mi sarei aspettato sostegno e incoraggiamento? Io cercavo un console, un console dico, non quello, che in questo porco castrato [in hoc maiali] avrei potuto trovare..."
Così poi l'Arpinate finiva per ammantare abilmente di mostruoso l'avversario di turno (nel caso, Marco Antonio):
"Ma chi potrà sopportare questo orribilissimo mostro [taeterrimam beluam], e come?".
Se dunque anche intellettuali di prestigio non disdegnavano l'esercizio mirato dell'insulto, più tardi capitò pure a qualche autore cristiano di dover denigrare qualcuno, usando certo espressioni 'forti' senza comunque cadere - ovviamente - nell'oscenità. Così ad esempio san Girolamo (IV- V d.C.) - uomo estremamente collerico e impulsivo – definì "sues, canes, vultures, aquilae, accipitres et bubones" (= maiali, cani, avvoltoi, aquile, falchi e gufi) i seguaci di Gioviniano (“Adversus Jovinianum”); "pingues tauri" (= grassi tori) coloro che si ostinavano a opporsi alle verità della Bibbia ("Michea"); e infine "ranae loquaces" (= rane chiacchierone) i denigratori degli ideali monastici (“Epistulae”)!
2) La "Plautina"
Fu soprattutto Plauto (III-II a.C.) a recuperare in letteratura lo spirito mordace delle "flagitationes" popolari, pubbliche manifestazioni di protesta con insulti e derisioni a cui venivano sottoposti personaggi particolarmente invisi alla cittadinanza. L'autore umbro presentò nelle sue commedie pure alcuni neologismi – per questo, appunto, di non immediata comprensione da parte del pubblico – i quali, pur se in ritardo, finivano per rendere più teatrali i dialoghi sulla scena.
Ecco alcune irresistibili battute d’una famosa scena plautina, quella dello "Pseudolus" in cui il giovane Calidoro e appunto il suo schiavo Pseudolo coprono d'insulti il lenone Ballione, molto abile a neutralizzare gli improperi, non opponendosi affatto ad essi:
“(P)…sporcaccione! [impudice]
(B) Esatto.
(C) Canaglia! [sceleste]
(B) Dici il vero.
(P) Mascalzone! [verbero]
(B) Perché no?
(C) Rubasepolcri! [bustirape]
(B) Sì, certo.
(P) Furfante! [furcifer]
(B) Ottimo.
(C) Gabbacompagni! [sociofraude]
(B) Sono proprio io.
(P) Parricida! [parricida]
(B) Continua!
(C) Sacrilego! [sacrilege]
(B) Lo confesso.
(P) Spergiuro! [periure]
(B) Mi contate cose vecchie.
(C) Violatore delle leggi! [legirupa]
(B) Puoi dirlo forte.
(P) Rovina della gioventù! [permities adulescentium]
(B) Bravissimo.
(C) Ladro! [fur]
(B) Caspita!
(P) Scampaforche! [fugitive]
(B) Splendido!
(C) Traditore del popolo! [fraus populi]
(B) E' chiaro.
(P) Truffatore! [fraudulente]
(C) Ruffiano porco! [impure leno]
(P) Sozzone! [caenum]
(B) Ma che bravi musici!”.
3) Oggetti e tipologie d'insulto
Quali oggetti e tipologie d'insulto, dunque, a Roma antica? Anche nei momenti di moralismo meno accentuato le accuse più diffuse - in linea, del resto, col comportamento di tante altre società e culture nella storia - riguardavano soprattutto la violenza, la disonestà e la dissolutezza dei suoi membri. Non per nulla Sallustio (I a.C.), riferendosi criticamente ai seguaci di Catilina, li raggruppò sinteticamente nelle categorie dei “flagitia” = depravati e dei "facinora" = veri e propri criminali.
I termini che con più immediatezza possono illustrarci i vizi citati sono quelli caratterizzati dal prefisso im/in
("im-pudicus" = svergognato, "im-purus" e "in-cestus" = immorale, "im-pius" = empio, "in-famis = infame, "in-fidus" = sleale, "in-honestus" = disonesto, "in-iurus" = spergiuro, "in-iustus" = ingiusto, "in-eptus" = inetto)
a volte anche assimilato
("illex" = fuorilegge),
negatore di virtù o comunque di ‘normalità’ comportamentali – evidentemente considerate stimabili - della persona.
Ma oltre a questi erano disponibili - ovviamente - anche epiteti più specifici e pittoreschi riguardo alla violenza
(“archipirata” = capobanda malavitoso, “crucis offla” = pendaglio da forca, “carnifex” = aguzzino, “furcifer” = furfante, “scelestus” = canaglia criminale, “percussor” = assassino che agisce sfrontatamente allo scoperto al contrario del “sicarius”; “ossifragus” = spezzatore di ossa, “gladiator” = simile al malfattore o prigioniero di guerra impiegato nei giochi circensi),
alla disonestà
(“praestrigiator” = imbroglione, “clepta” = ladro, la graziosa perifrasi “homo trium litterarum” = uomo col nome di tre lettere, cioè "fur" = ladro; “trifur” = grandissimo ladro),
agli stravizi gastronomici
(“ganeo” = crapulone, “gulo” = ghiottone/goloso; “ebrius”, “ebriosus”, “vinolentus” e “vinosus” = ubriacone)
e infine alle ‘anormalità’ sessuali
(“adulter” e “moechus” = adultero, insidiatore; “cuculus” = uomo infedele, simile all’uccello che gradisce visitare appunto nidi estranei, in Plauto, “Asinaria”; “effeminatus”, “cinaedus” e “pathicus” = omosessuale. In proposito, Cesare fu etichettato da Catullo, “Carmina”, come “cinaede Romule” = Romolo effeminato; “fututor” = stupratore, “propudium” = svergognato).
(“scrupeda” = che cammina con fatica),
a caratteristiche comportamentali
(“schoenicula” = profumata con essenza di poco prezzo, “strittabilla” = dall'andatura dondolante, provocatoria; “strittivilla” = che si depila, “trivenefica” = grandissima strega)
e alla bruttezza/vecchiaia
(“vetula” = vecchia befana) -
la maggior parte degli insulti loro diretti riguardava essenzialmente l'ambito dell'immoralità. In proposito, insieme alle numerose accezioni di ‘prostituta’ e simili di cui sarebbe troppo lungo ricostruire qui le storie e gli usi
(“amasiuncola”, “ambubaia”, “amica misera”, “defututa puella”, “lupa”, “meretrix” e “scrapta”; “fulcipedia” = epiteto con cui, nel "Satyricon" di Petronio, Trimalcione apostrofa la moglie; “diobolaris” = donna da due soldi, “scortum” = termine significativamente indicante anche ‘pelle’!),
erano disponibili pure colorite specificazioni d'abilità e di preferenze erotiche femminili
(“fellatrix” = succhiatrice, “tribas” e forse anche "fututrix" = tribade, lesbica).
Un altro cospicuo filone d'offesa è costituito poi da nomi di animali portatori di caratteristiche poco nobili o attraenti, modo indubbiamente rapido ed efficace per colpire l'avversario sia dal punto di vista fisico
(“hircus vetulus” = vecchio caprone, “rhinoceros” = rinoceronte, detto d'un uomo deturpato in Lucilio, II a.C.),
sia da quello psicologico e comportamentale
(ad esempio, per l'avidità, “hirudo” = sanguisuga e “muscae, culices, cimices, pedesque pulicesque” = mosche, zanzare, cimici, pidocchi e pulci, detto di avidi lenoni nel “Curculio” di Plauto; “vipera venenata ac pestifera” = di facile traduzione, detto di Clodio da Cicerone).
“sus lutulenta” = porca schifosa, “vana succula” = porchetta buona a nulla, scritto su di un muro di Pompei.
Così in Plauto, “Mostellaria”, uno schiavo cittadino irride uno campagnolo, trasformando il termine “porcile” da indicazione di luogo a insulto personale:
“Puzzi di aglio, vero mucchio di letame [germana illuvies]…porcile [hara suis], di cane e di capra insieme [canem, capram commixtam]”.
Ma il punto più alto dell'offesa ‘porcina’ lo raggiunse forse Cicerone nei suoi attacchi a Verre: lo “ius Verrinum” o giustizia praticata dal disonesto propretore di Sicilia venne infatti letto opportunamente - grazie a due fortunati doppi sensi (‘ius’ = ‘legge’ ma pure ‘zuppa’, ‘verres’ = identificativo personale ma pure ‘verro’ o ‘porco’) - anche ‘brodo di porco’!
Certo, non poteva poi mancare qualche insulto d'autore basato anche sulla bruttezza animale: “simia purpurata” = scimmia vestita di porpora, soprannome attribuito secondo Ammiano Marcellino (IV d.C.) al non proprio affascinante imperatore Giuliano l'Apostata; “struthocamelus depilatus” = struzzo spennato, in Seneca il Giovane. Così viene poi duramente apostrofato in Plauto, “Mercator”, un vecchio che sognava ancora situazioni galanti:
“Morto di fame, puzzolente d'alito [anima foetida], vecchio caprone [senex hircosus], tu vorresti baciare una donna?”.
Tra tanti epiteti animaleschi appare però un po' difficile giustificare il "taurus iners" (= toro impotente) rivolto negli "Epodi" d'Orazio (I a.C.) da una donna al proprio amante, viste le prestazioni più che buone ottenute comunque dall'uomo con un'altra, e soprattutto l’abbondante sudorazione con fetore emessa a quanto pare dall'accusatrice. Situazione così incresciosa, da rendere questa donna degna di rapportarsi solo con animali selvaggi come gli elefanti neri (“mulier nigris dignissima barris”)!
Ma ben altri disgustosi epiteti e paragoni – relativi all’igiene pubblica e privata - erano a disposizione di chi voleva ferire qualcuno:
“blennus” = moccioloso, “cacator” = cacone, “cacatus” = imbrattato, “cadaver abiectum” = carogna gettata via, “carcinoma” e “vomica” = cancro; “corvorum cibaria” = cibo per corvi, carogna; “foedus” e “taeter” = repellente per lordura, nauseante; “lotiolentus” = forse piscione, presente solo in Titinio, II a.C.; “lutulentus” = schifoso; “machilla” = vaso da notte e relativo contenuto, “purgamentum” = spazzatura, “sentina rei publicae” = acque di scolo dello Stato, detto da Cicerone dei seguaci di Catilina; “sterculinum” = letamaio.
Pungente - in Seneca il Vecchio, “Controversiae” - un’espressione al riguardo: “Si cloaca esse, Maxima esses!” = Se tu fossi una cloaca, saresti la cloaca Massima!
Erano comunque usati in modo ingiurioso anche nomi propri, appartenenti a famosi individui reputati certo in modo negativo dalla maggioranza della popolazione
(“Mezentius” = uno come M., leggendario re degli Etruschi molto crudele; “Catilina” = uno come C., il famoso congiurato; ma poi perfino “Spartacus” = uno come S., il gladiatore ribelle rivalutato invece in seguito come eroe positivo),
e inoltre molti soprannomi trasformati in cognomi, relativi a particolarità fisiche evidenti o negative
(“Flaccus” = dalle orecchie pendenti; “Plautus” = dai piedi piatti).
Come visto del resto anche riguardo al paragone con gli animali, non mancavano poi a Roma antica insulti basati su caratteristiche psicologiche, comportamentali o mentali negative
(“bardus”, “bucco”, “fatuus”, “stolidus” e “stultus” = tutti - ovviamente con varie accezioni - idiota, sciocco, cretino; “blatero” = chiacchierone, “cocurbitae caput” = zucca vuota, “cularcultor” = probabilmente leccaculo, presente solo in Titinio; “decoctor” = dissipatore, “demens” e “vesanus” = pazzo, “deses” = ozioso, “ebriola persolla” = tipo brillo ridicolo, caricatura, macchietta; “gerro” = organizzatore di scherzi stupidi, “homo spissigradissimus” = imbranato, “homullus” = uomo di poco conto, “homo ventosissimus” e “nebulo” = pallone gonfiato, “homo vafer” = furbastro, “imbellis” = vile, codardo, “loripes” = dai piedi impacciati, tardo; “nequam” e “nihili” = buono a nulla, “periusus” = spergiuro, falso; “pusillus” = timido, meschino ma anche piccoletto; “vasus fictilis” = testa vuota)
su condizioni socio-economiche e culturali
(“homo deductus ex ultimis gentibus” = uomo che proviene dall’altro capo del mondo, selvaggio, in Cicerone; “homo postremus” = l'ultimo degli uomini; “inops” = morto di fame, “nepos” = nipote, in Cicerone uomo che conduce vita dissoluta contando su sostanze di famiglia; “profligatus” = rovinato, fallito; “rusticus” = bifolco; “sordidus” = povero, spregevole, sudicio, gretto)
e specifici per schiavi e servitori
(“clitellarius” = portatore di basto come un asino, “mastigia” = scansafatiche da frustare, “perenniservus” = schiavo in eterno, “verberabilissimus” = percuotibilissimo!).
Presenti anche denigrazioni riguardanti certi operatori di cultura, o meglio di pseudo-cultura. Nel mirino soprattutto poeti e poetesse, come il “simius iste” (= codesta scimmia) d'Orazio o i “corvi” e “picae” (= gazze) di Persio, ma poi anche storici evidentemente non proprio insigni, come quello di livello così basso da produrre - secondo Catullo - solo “cacata carta”!
Chiudiamo con l’autoinsulto che – opportunamente corredato d’autoironia e autocritica - può porsi come segno di matura consapevolezza nei propri limiti. In proposito, Cicerone riconosce all’amico Attico d’essere stato davvero un asino (“Scio…me asinum germanum fuisse”) nel dar fiducia a persone dimostratesi poi dei falsi amici.
4) Finale a sorpresa per i nostri insulti
Così insultavano dunque a Roma antica: in un mondo lontano da noi, eppure tanto vicino per i numerosissimi riflessi presenti ancora nei nostri pensieri e tradizioni, e soprattutto nella nostra lingua. Ma dov'è la sorpresa? Potrebbe essere per molti sapere che alcuni nostri insulti - come del resto molti altri termini italiani di significato anche complesso - non si limitano ad affondare le loro radici in un generico ‘humus’ linguistico latino, ma sono debitori, a quella cultura, d'etimologie specificatamente agricolo-pastorali, con forme spesso mantenute in vita anche nei nostri dialetti.
Tali origini, però, sono difficili da rintracciare con un esame superficiale dei nostri vocaboli correnti, perché il distacco da riferimenti molto concreti ha comportato, nel tempo, sensibili variazioni e deviazioni nella copertura semantica dei termini.
Ecco comunque ricostruite come esempio - per alcune nostre espressioni a livello medio d'offesa - suggestive origini latine davvero insospettate:
“Adulatore” trae senso da “adulor” = l'avvicinarsi gioioso e scodinzolante del cane all'uomo;
“Bacchettone” invece da “baculum” = bastone, poi anche manico della frusta, forse identificativo del bigotto che si flagella per penitenza;
“Boia” da “boiae”, collari di cuoio per uso evidentemente bovino, poi genericamente cinghie e strumenti di tortura con passaggio finale dall'oggetto a colui che lo usa;
“Imbecille” da “imbecillus” o “imbecillis” = prendendo ispirazione forse da un giovane albero privo di “bacillum” o bastoncino di sostegno, persona debole e malferma prima fisicamente poi psicologicamente;
“Inquinatore” = da “incunio”, sporcare di concime;
“Prevaricatore” da “praevaricor” = in Plinio il Vecchio deviare il percorso dell'aratro facendo giri o scavalcamenti, poi evidentemente chi trasgredisce/viola le leggi;
"Sciocco" da "ex-succus" = senza linfa, secco; da cui persona psicologicamente poco scaltra e avveduta, dunque piuttosto ‘insipida’;
infine “Stolto” da “stolo” = in Varrone stolone, pollone o ramo parassitario che vegeta alla base di certe piante.***
Ora è tempo però di salutarvi, cari lettori, simpaticissimi “Curculiunculi minuti” (= vermetti minuscoli, in Plauto) che ci avete seguito fin qui con attenzione…
Domenico Ienna
(massima longitudine occidentale d’Europa: lat. 38° 47’ N, long. 9° 30’ O)
Aqui…Onde terra se acaba e o mar comeca
(Luís Vaz de Camões; Os Lusíadas, canto VIII)
Primavera piena a Cabo da Roca su costa atlantica portoghese, ponta mais ocidental do continente europeu come attesta stele con croce, tra turisti in souvenirs e vento sul pianoro del faro. Sporge infatti in Oceano il promontorio ancora più del Finisterre – lassù in Galizia spagnola kilometro zero del cammino di Compostela – nonostante sia questo, in effetti, a portare nome evocatore proprio di fine del mondo.
Sul muretto assorto sopra onde a strapiombo, in mente mi viene – a suggestione forse da tanta luce che scende sul Cabo – l’illuminativa mistica del persiano-islamico Šihāb Sohravardī: nel XII fautore di pensiero orientale, con l’orientamento simbolo-aurora, appunto, di conoscenza interiore; e sulla falsariga ancora poi – d’ambito invece europeo – quello nordico di miti cinema politiche, e l’altro meridiano su cultura solare del vivere in sponde di Mediterraneo. Quanto basta per rilevare allora anche qui – in quest’eccezionale esilio fisico occidentale (dietro terre, avanti solo acque), un’altra risorsa di prospettiva cardinale, da scoprire indagare e valorizzare certo al possibile nella cultura comune del nostro continente.
Tra le varie protagoniste del mito greco a portare il nome d’Εὐρώπη Europa – la più famosa di tutte la bella principessa di Fenicia rapita da Zeus sotto sembianze di toro – interessa ricordare qui una delle tante Oceanine figlie della coppia d’acqua Oceano e Teti. Mi piace pensare proprio a quest’Europa minore come mitica fonte di quel pensiero d’estremo Occidente di cui ho avvertito possibilità al Cabo de Roca, sede eletta appunto di costa e flutti oceanici. Ma qualsiasi sia l’Europa che ci ha fatti europei, dicunt che il termine possa avere origine semitica, con significato legato al posarsi (del sole) e dunque all’Occidente…
Adottare punti di vista di periferia può risultare in effetti spesso fruttuoso: soprattutto se la banlieu del caso non esce dal continuum solo per convenzione, ma è identità marcata da stacco naturale come ad esempio il Cabo, che pensiero certo non può proprio ignorare. Conferma al riguardo - in fisiologia - pure la visione distolta dell’occhio, meccanismo complesso che fa cogliere al meglio oggetti deboli più difficili comunque da rilevare.
Sotto intensa signoria del sole, la mia meditazione sublima infine in sogno, spingendomi a sorvolare da drone umano tutta Europa a diversa conoscenza. Dal limite indiscusso del Cabo già Promontorium magnum romano, progetto di sfilare allora su tutto il continente fino a doppiarne i limiti questa volta orientali: quelli della già Bisanzio-già Costantinopoli-ora Istanbul su sponda continentale del Bosforo politicamente però Asia…
Pochi giri per provare allora il volo in sogno intorno al faro del Cabo e poi via, verso primi, vicini assaggi d’Europa: Villa Italia in costa di Cascais, regale esilio Savoia umbertino; e la vicina Boca de Inferno dove percuote e penetra le rocce Oceano, letterario-esistenziale utilizzo dell’occultista inglese Aleister Crowley.
Plano finalmente su Lisbona maiolicata d’azulejos, sulle autorevoli decise figure del “Padrão dos Descobrimentos”, il monumento celebrativo delle grandi scoperte dovute a capacità e potenza dell’attività marinara portoghese; dettagliata per tempi e luoghi in planisfero su pavimento della piazza antistante, che neanche turisti intraprendenti riescono a fotografare però in toto, perché vasto e calpestato continuamente da tanti visitatori.
Affronto queste tappe corredato da guantierina di pastéis de nata per virate al gusto crema nelle traiettorie di volo, e sottofondo sonoro di sensuale fado languido al femminile… Ma riflessivo un click mi prende prima di lasciare il Portogallo: la più famosa Europa fu rapita da Zeus in sembianze di splendido bovino, e nella Pega tauromachia locale (a tarda sera di Giovedì quinta feira, a Praça de Touros di Lisbona), cavaleiros e forcados amadores combattono orgogliosamente col toro, senza ucciderlo in armi come nella più nota corrida. Si può trovare allusione creativa – in tale vigoroso tor(n)eare – alla possibilità di riscatto dell’Europa dei popoli, e prova che – pur senza sanguinosi strappi tipo Brexit – con vigorosa presa sul collo taurino è domabile l’irruente governance istituzionale della nostra Comunità di continente?
***
Fin quando permarrà la mia felice condizione di volo onirico, continuerò a proiettare lungo tutto il continente la mia ombra veloce su colline e montagne, pianure e foreste, fiumi e laghi: in un continuum che sogno tutta-natura-non-interrotta da frontiere politiche, invisibili non so se per l’altezza raggiunta o per visione magica abolite; con inizio comunque di tutto al miraggio estremo di Cabo de Roca…
Per questo davvero unico start di volo, sempre obrigado Portugal! Sempre grazie, Portogallo!
Domenico Ienna
“Paradisi limen!” Questa è la soglia del Paradiso!
Così s’espresse, estasiato, Francesco Petrarca in visita al santuario del Sacro Speco di Subiaco. Il poeta era stato preceduto, in questo luogo di culto di fama internazionale, dall’altro grande Francesco, capace di trasformare in meraviglioso roseto il cespuglio di rovi contro cui, il promotore dell’”Ora et labora” monastico, drasticamente aveva represso le sue più spinose tentazioni mondane.
E questa è solo una punta del grande iceberg culturale dei santuari del Lazio. Qui amplissima è stata la proliferazione dei luoghi di culto cristiani per l’enorme influenza esercitata dall’Urbe su tutte le provincie vicine. Su questo palcoscenico regionale sono state dunque rappresentate visite di Apostoli, persecuzioni e catacombe, pellegrinaggi di “Romei” e di Crociati sulla via Francigena, e molto altro ancora.
Tutto questo non poteva non lasciare tracce profonde nell’aspetto e nella cultura dei centri abitati laziali, esprimendo così con edifici, opere d’arte, leggende, ritualità e ricorrenze l’incontro tra sentire religioso e vivere sociale. Buoni esempi sono al riguardo le fiere commerciali, allestite in corrispondenza di frequentati pellegrinaggi popolari. E se in teoria ogni luogo di culto può essere ben considerato un “santuario”, il termine viene ad indicare ogni centro di devozione che appaia in particolare rapporto col sacro, predestinato o prescelto, spesso, dalla stessa divinità: sede cioè d’avvenimenti ritenuti prodigiosi o di immagini e memorie di personaggi stimati e venerati dai fedeli, produttrici anch’esse di grazie.
I SANTUARI DEL LAZIO
ALTRE PROVINCE
S. Cristina – Bolsena (Viterbo)
Il sangue dall’ostia
Di grande rilievo nella storia cittadina è il miracolo dell’ostia stillante sangue, avvenuto nel 1263 nella chiesa dedicata a S. Cristina, dove è conservato ancora intatto l’altare relativo. Protagonista fu Pietro da Praga, sacerdote boemo pellegrino verso Roma. Preso da forti dubbi mentre celebrava la messa sulla verità della trasformazione eucaristica dell’ostia in corpo di Cristo (transustanziazione), dovette constatare però sbigottito che dalla particola consacrata stava fuoriuscendo sangue, tanto da macchiare corporale, lini e pavimento. L’anno successivo - con riferimento a quest’evento - papa Urbano IV istituì la festa del Corpus Domini.
Convento francescano – Greccio (Rieti)
Il tizzone e il Presepio
Secondo tradizione S Francesco si stabilì in cima al Monte Lacerone (detto poi, appunto, “S. Francesco”) che incombe e veglia sul paese di Greccio. Erano talmente gradite le sue prediche agli abitanti che l’amico Giovanni Velita pensò di far costruire un convento proprio all’ingresso dell’abitato, in contrasto col Santo che avrebbe preferito luoghi più isolati per favorire il raccoglimento dei frati. Si recarono allora una sera sulla porta di Greccio con un tizzone acceso, intenzionati a edificare là dove questo fosse andato a cadere. Lanciò il tizzone il figlio del Velita di soli quattro anni, con il “Poverello” raccolto in preghiera. Mentre il legno stava già per cadere, ovviamente molto vicino, improvvisamente alzò la traiettoria e, attraversata la valle, andò a fermarsi su di un roccione lontano dove fu costruito il primo ritiro e più tardi il convento. Qui, nella notte di Natale del l223, nacque pure la tradizione del Presepio, allestito per la prima volta da S. Francesco in una grotta poi divenuta, appunto, “Cappella del Presepio”.
Santissima Trinità – Gaeta (Latina)
La “Montagna Spaccata”
Fondato dai Benedettini nel secolo XI , il santuario è detto anche della “Montagna Spaccata”. Presenta una scala di trentatre gradini che scende appunto nella profonda spaccatura di un lembo del promontorio di Gaeta. Aperta, secondo la tradizione, dal terremoto avvenuto alla morte di Cristo. Quasi al termine della scalinata si scorge sulla roccia l’impronta lasciata da un turco il quale, scettico sull’origine cristiana della fenditura, sentì cedere come prova la roccia alla quale s’era appoggiato.
Civita - Itri (Latina)
Quadro in mare!
Durante il periodo iconoclasta, due monaci basiliani furono fermati a Costantinopoli con un’effigie della Vergine. Rinchiusi in una cassa insieme con il quadro, finirono in mare sbarcando finalmente, dopo qualche tempo, a quanto pare in Sicilia. Eppure l’immagine fu ritrovata in seguito da un pastore proprio sul Monte Civita. Dal primo documento storico riguardante il santuario si deduce però che esso doveva esistere già da tempo.
Madonna di Canneto - Settefrati (FR)
La Vergine Nera
Il nome del paese deriva dai sette figli di S. Felicita, martirizzati a Roma nel II secolo. Il santuario sorge nell'amena valle di Canneto al di sopra dei mille metri d’altitudine. Vi si venera la statua della Madonna di Canneto, detta anche Madonna Nera dal colore assunto dal legno, di cui è costituita, attraverso i secoli. È meta di frequentati pellegrinaggi con fedeli e turisti provenienti, oltre che da Lazio, anche da Abruzzo, Molise e Campania.
S. Maria del Piano – Ausonia (FR)
Miracoli in alta quota
Nell'anno 1100 apparve la Madonna ad una pastorella di nome Remigarda, mentre questa stava pascolando il gregge in località Gorgalonga. Come in tutte le visioni di questo tipo la fanciulla doveva richiedere alle autorità di Ausonia l’edificazione d’una chiesa appunto nel luogo dell’incontro. Per farla prendere sul serio in paese, la Vergine guarì Remigarda da una malformazione da cui era afflitta purtroppo fin dalla nascita. Nel sito dell’apparizione fu poi effettivamente rinvenuta una statua lignea di Maria in trono col Bambino, risultata però misteriosamente scomparsa dal non lontano paese di Castro dei Volsci: qui non fu possibile però ricondurla, nonostante i ripetuti tentativi dei suoi abitanti. Altri prodigi ci furono ancora durante l’erezione della chiesa: tracciato un perimetro maggiore di quello voluto dalla Vergine, le mura costruite furono trovate più volte distrutte fino a quando non si decise, opportunamente, d’uniformarsi ai desideri espressi dall’apparizione!
Domenico Ienna
Anche se non mancano certo santuari (ormai) inseriti nei centri abitati, elemento non secondario del maggior numero di questi siti devozionali sono le particolari suggestioni offerte dai luoghi occupati o da attraversare per raggiungerli: rocce, grotte, selve, sorgenti, strapiombi.
E sono proprio la Vergine e i Santi ad indicare, secondo le leggende, i luoghi dove desiderano essere venerati, foklorica intuizione dell’intesa tra ambiente naturale e cultura dell’uomo. Sono presenti, nella regione, anche santuari cristiani che hanno preso il posto di preesistenti strutture pagane relativamente pure ad alcune ritualità connesse, attivando così una certa ‘continuità vischiosa’ tra luoghi di culto di diverse culture.
Se i Santuari d’altura conservano nel Lazio fisionomie più modeste e spirituali, la maggior parte degli altri è costituita invece da edifici più grandi e arricchiti di quelli iniziali, avendo tratto ispirazione dai fasti delle grandi chiese di Roma.
Nel momento in cui si attribuiscono a dei luoghi degli specifici caratteri di sacralità, nascono ovviamente per trarne benefici delle iniziative di pellegrinaggio, considerando tale sia un itinerario con mezzi di trasporto, sia un’escursione a piedi - eventualmente pure di notte - ad un santuario locale.
Come il culto delle memorie ed i relativi miracoli, anche i pellegrinaggi sono considerati con forte prudenza dalle autorità ecclesiastiche perché suscettibili di mistificazioni e visionarismi gestiti al di fuori del controllo religioso. Al di là degli aspetti devozionali e fideistici, essi presentano comunque anche temi di grande interesse psicologico: colpisce infatti di molti pellegrini la commozione sincera, la determinazione e l'entusiasmo con cui affrontano il percorso e seguono l’effigie venerata, con un senso di partecipazione che, da singoli, li rende attori di un'esperienza comune.
Le manifestazioni di devozione nei santuari, con mescolamento democratico dei partecipanti, soddisfano bisogni essenziali: dialogo diretto con l’entità soprannaturale in cambio delle fatiche del pellegrinaggio, ottenimenti materiali, crescita interiore. Qualcuno opportunamente ha detto ”Se il misticismo è un pellegrinaggio interiore, il pellegrinaggio è misticismo esteriorizzato”.
I SANTUARI DEL LAZIO
Divino Amore – Roma
Salvatrice dell’Urbe
Suggestivo il pellegrinaggio a piedi dall'obelisco di Axum, in Piazza di Porta Capena, per Porta S. Sebastiano, Appia Antica, "Quo vadis?" e Fosse Ardeatine, fino al Santuario posto al dodicesimo chilometri della via Ardeatina. Sorse nel punto in cui nel 1740 un uomo, inseguito da una muta di cani inferociti, riuscì ad ammansirli pregando con fervore un'immagine della Vergine posta su di un vecchio torrione abbandonato. Per la devozione popolare questo fu solo il primo d’una lunga serie di eventi miracolosi che portarono alla grande diffusione del culto relativo all'effigie. Fu proclamata Salvatrice dell’Urbe nel 1944 per la protezione di Roma – a lei attribuita – dalla violenza delle truppe tedesche. Federico Fellini con “Le notti di Cabiria” (1957), fece entrare il pellegrinaggio votivo al Santuario del Divino Amore anche nella storia del cinema oltre che in quella del folklore religioso e devozionale romano, di cui certo costituisce una delle manifestazioni più significative.
S. Maria di Galloro – Ariccia (Roma)
La Madonna ritrovata
Fu il giovane Sante Bevilacqua che nel 1621 scoprì l'immagine della Madonna di Galloro, dipinta probabilmente sopra un masso di peperino, nel fosso sottostante l’attuale santuario a mezzo chilometro dal centro di Ariccia. Già oggetto di culto, era stata lì dimenticata, rimanendo poi coperta da una fittissima vegetazione. Appiccato un giorno un fuoco per aprire un varco, le fiamme risparmiarono miracolosamente, con il boschetto circostante, anche l'edicola di legno che conteneva la sacra immagine. Questa protesse l’anno successivo i fedeli radunati nella parrocchiale: durante una tempesta numerosi fulmini abbatterono infatti il campanile procurando però solo feriti all’interno dell’edificio. Si racconta che a tutti rimasero impresse sul corpo delle stelle, simili a quelle raffigurate nel quadro!
Mentorella – Capranica Prenestina (Roma)
Il miracolo del cervo
L’origine di questo santuario, isolato a più di mille metri di quota sul Monte Guadagnolo, risalirebbe alla vicenda di Placido, ufficiale dell’imperatore Traiano. Mentre, a caccia sui Monti Prenestini, stava per uccidere un cervo apparve tra le corna dell’animale un’immagine di Cristo: convertitosi per questo prodigio con il nome di Eustachio, finì per essere martirizzato poi con tutta la famiglia. L’imperatore Costantino, colpito da questa storia, volle visitare i luoghi del miracolo, sentendo poi il bisogno d’erigervi un tempio. Su questo sorse in seguito la chiesa della Mentorella. E nei pressi, in grotta, fu eremita Benedetto da Norcia. Il santuario - uno dei più antichi d’Italia - vanta pure l’affezionata frequentazione di Giovanni Paolo II.
Santissima Trinità – Vallepietra (Roma)
L’adorazione dei buoi o la fuga dei ravennati?
Sembra che un contadino, mentre arava un terreno sul colle della Tagliata, vide precipitare nel vuoto i due buoi con tutto l’aratro. Portatosi verso il basso, trovò incredibilmente incolumi gli animali nei pressi d’una grotta con un affresco della SS. Trinità. Nel dipinto del secolo XII le tre figure divine benedicenti sono raffigurate del tutto identiche, un’eccezione rispetto all’iconografia relativa. Ma sull'apparizione del quadro della SS. Trinità c’è anche un testo letterario disinvoltamente corredato d’anacronismi: due ravennati residenti a Roma fuggirono sul monte Autore per sottrarsi alla persecuzione di Nerone. Qui - dopo la visita degli apostoli Pietro e Giovanni e d’un angelo premuroso addetto al vettovagliamento - apparve appunto la SS. Trinità per la consacrazione del monte Autore. All’altezza di ben 1.337 metri il santuario è raggiungibile in circa due ore, in pellegrinaggio a piedi dal paese di Vallepietra. Caratteristica tradizione della festa della SS. Trinità è il Pianto delle Zitelle, sacra rappresentazione animata da giovani del paese che rievocano alcuni episodi della Passione.
Madonna del Buon Consiglio – Genazzano (Roma)
La Madonna albanese
Nel secolo XV, iniziandosi in Genazzano i restauri dell'antica chiesa parrocchiale di S. Maria, una vedova locale (nota come la beata Petruccia) vendette i pochi beni posseduti per contribuire in qualche modo alle spese previste. Presa in giro in paese per tale comportamento, sostenne d’aver avuto notizia d’una venuta imminente della Madonna in paese. Infatti il 25 aprile 1467, alle ore 16 e 15, apparve affrescata su di una parete della chiesa ancora incompiuta l'immagine della Madonna del Buon Consiglio. Secondo due pellegrini albanesi presenti in paese l’icona era giunta da Scutari, in Albania e aveva attraversato anche il mare senza alcuna imbarcazione, fuggendo poco prima che la città fosse presa dai Turchi! La miracolosissima immagine della Vergine col Bambino sembra però da attribuire ad Antonio Vivarini, maestro della Scuola Veronese della prima metà del Quattrocento.
Ricordate la delusione della Nazionale italiana di calcio (Campione in carica 2006) ai successivi Mondiali del 2010 in Sudafrica? Un dis-astro, d’accordo, sotto un cielo però con tante storie di stelle…
A chi giunge dall’Atlantico al promontorio sudafricano di Buona Speranza, oltre la baia e la “dinamica” ciambella del “Green Point Stadium” si presenta - inclusa nella Città del Capo - la sagoma quasi innaturale della “Montagna della Tavola” (Table Mountain): cima piatta evidentemente, a poco più di 1000 metri s.l.m., frequentata da una nuvola bianca detta “Tovaglia” perché l’altopiano le fa proprio da mensa, per tre km circa verso la Città.
Più di 2 secoli e mezzo prima del debutto calcistico dell’Italia campione (con débâcle finale), l’astronomo francese Nicolas L. de Lacaille si trovò ad attendere, in questo magnifico ambiente naturale, alla redazione della sua carta del cielo australe (1751-1752).
All’orografia particolare del “Tafelberg” (la “Tavola” in “afrikaans”) fu certo molto sensibile il Lacaille; tanto da immortalarne il nome in una delle 14 nuove costellazioni create per l’orientamento, in cieli evidentemente non “letti” dalle antiche mitologie euroasiatiche. Dette così il nome latino di “Mons mensae” (Montagna della Tavola) a un settore circumpolare di firmamento visibile da poco a nord dell’Equatore fino al polo Sud, dotato di stelle deboli ma pure di qualcosa d’interessante.
Si estende infatti in esso parte della “Grande Nube di Magellano”, l’oggetto extragalattico più luminoso tra quelli visibili col solo occhio nudo: uno scrigno di miliardi di stelle come fu scoperto però in seguito (1834-1838) dall’astronomo inglese John F. W. Herschel, che aveva proseguito le osservazioni “in loco” con strumenti di livello superiore.
Particolarissima nuvola insomma, che non poteva non richiamare quella più vicina alla terra, che scende a rivestire la “Tavola” della Città del Capo. Forse anch’essa un po’ stordita in quel particolarissimo Inverno australe, riscaldato dal concerto delle “vuvuzelas” nel sito poco lontano del “Green Point Stadium”.
Domenico Ienna
Preambolo
Per comprendere appieno in “Domani mi vesto uguale” - come nei romanzi investigativi ottocenteschi d’Alexandre Dumas - “la femme” che vi è fulcro narrativo, occorre “chercher” però “l’homme”: cogliendolo virtuale nei difficili personaggi ”amanti/amati” Ernesto, Marco, Pierre e Karl
“La vita di Ernesto appariva un fortino francese nascosto tra le dune del Sahara”,
oppure reale nel padre dell’Autrice - per dolorosa “absentia” posto in dedica
“A mio padre, nel ricordo vivo di lui…Ai i suoi angoli acuti e all’innata fierezza. Alla sua cupa allegria” -
che sembra far capolino in qualche modo però anche nel testo, come punto fermo di vita a Sara protagonista
“…ho smarrito tutti gli uomini che ho incontrato. Mio padre è l’unico uomo che non ho smarrito mai”.
Se – come trova a dire comunque proprio la stessa a io narrante
“Lascio un pezzo di me da qualche parte…mi piacerebbe che qualcuno raccogliesse quel pezzo, facendolo parte integrante di sé. Magari capita proprio così, ma in tanti anni nessuno è mai venuto a…chiedermi: ‘Scusi ho con me il suo pezzo. Se le manca sono pronto a restituirglielo” -
gli amanti/amati hanno ognuno evidentemente un pezzetto importante di lei; Sara non può fare a meno di “chercher” dunque queste parti smarrite, anche se tutte le tessere del domino erano in custodia certo solo del padre, “unico uomo” appunto “smarrito mai”.
Il titolo e la chiusa
Due i motivi - di forma e di contenuto - che possono mettere il lettore a proprio agio di fronte al titolo, tratto da una battuta in intimo della protagonista che fa da sigillo, in pratica, allo scritto
“Penso di botto: ‘Domani mi vesto uguale’. E sparisco nella luce del giorno, mischiandomi ai particolari invisibili”:
“in primis” l’utilizzo d’una espressione colloquiale, con aggettivo al posto del corrispondente avverbio di modo; poi soprattutto la considerazione che il narrato sembra promettere ricerca - se non addirittura rivelazione – di certezze esistenziali creabili/rintracciabili in qualsiasi contesto quotidiano.
Il “racconto” - come definisce la sua fatica Elvira Morena, caso non raro di medico scrittore - risulta a nostro avviso per nulla “leggero”, come potrebbe apparire saggiando solo in superficie termini e espressioni, o qualche scena di narrazione relativa.
Paradossalmente nulla di meglio - per la definizione dell’opera - che saltare dal titolo al “post scriptum” in ultima pagina, dove l’Autrice viene a confessare ciò che non ha inteso pretendere dall’opera sua: essenzialmente “navigare contro corrente”, indagare “sull’edonismo e sulla società dei consumi”, celebrare “la solitudine e il femminismo”, far la morale a “persone di sesso maschile” e disprezzare infine “il marketing e … non per questione di marketing”; invitando così a gustare piuttosto il racconto “nudo e crudo”, proprio come in contenuti e forma creati e presentati.
Ma se Morena fa bene a giocare su tali non-intenzioni per liberare il suo veliero narrativo da bonacce programmatiche o burrasche, fa bene pure il critico a queste navigato a non lasciarsi ammaliare da tale vezzo di Sirena. Legatosi allora per resistere come Odisseo – nella fattispecie non all’albero della nave ma a tante notazioni fatte a bordo pagine in corso di lettura, egli non può non cogliere che tra intriganti relais, ricchi calembours e paragoni-shock tra cose, eventi, persone e sensazioni, il narrato costituisce sguardo attento e malinconico, permeato d’ironia, d’una società “liquida” di rapporti: legami, certezze e radici da reinventare; globalizzazioni e glocalizzazioni per “non luoghi” dell’anima…
“Lo incontro quando posso e quando vogliamo entrambi. La nostra relazione non conosce convenzioni, contratti e obblighi formali…Ha come unico collante il desiderio”.
Tutto bene ma, in “liquidità”, occorre saper calcare ad ampio spettro anche modi e forme di Solitudine: non evitata, voluta, scelta, tollerata, oppure - a un certo stadio della filiera che la produce – necessariamente pure subita…
Così al riguardo, se in periodo festivo “lo psicoanalista non riceve, anche lui è fuori a fare shopping”, “Esiste sempre un buon motivo per sentire qualcuno di notte”; e proprio alle brutte, “In ogni caso, il display si illumina d’immenso” a fare comunque orizzonte, e progetto d’esistenza.
Il sottotitolo che non c’è
In sottotitolo non avremmo visto male il termine “Amores”, nell’accezione però non solo d’incontri realizzati, ma dell’ampia tipologia di rapporti e percorsi in tale ambito possibili, da solitudini a sogni, da inseguimenti a innamoramenti, da passioni a tradimenti…
Delle dinamiche sentimentali di Sara descritte, quante e quali da Elvira vissute, oppure solo sognate? Il corpo in passione comunque è per nulla virtuale ma proprio vissuto, tanto d’essere quasi in grado di lasciare la carta, come in questa scelta crescente d’espressioni narrative:
“Sento il seno di pietra. Sui capezzoli dritti come chiodi ci puoi appendere gli abiti”,
“Mi sento biologicamente umida…a 50 anni e passa è una benedizione celeste”,
“Iniziò a sfiorarmi in ogni parallelo e dopo aver toccato l’equatore, avanzò una proposta…”,
“Feci l’amore con Marco e non ero sola. Partecipò all’amplesso una folla di oggetti di design”!
Certo “la vita o si vive o si scrive” diceva - per evidenziare tempi opportuni a ogni cosa - chi ha saputo concepire “Uno, nessuno e centomila”, “Il fu Mattia Pascal”, “Sei personaggi in cerca d’autore” e quant’altro… Elvi Morena mostra di averla vissuta/viverla proprio scrivendola, sottoponendosi a quel lavoro onirico indispensabile a chi vuol mettersi a “fare storie”: operando cioè in una “second life” fuori della sua Salerno - da Napoli al mondo – la mutazione alchemica della sua medicina in arte musica, eseguita dall’ironico e riflessivo suo avatar di fiducia Sara Ferrara.
La vita di questa – snodandosi tra malinconie e realismi
“La vita è oggi, il domani non arriva mai”
“il destino gode di una sua ineluttabilità che, a conti fatti, è una gran comodità”
è vissuta comunque da protagonista - non solo ovviamente letteraria del racconto - ma pure esistenziale nella “seconda vita” in questo rappresentata. Una vita che ha bisogno a volte d’essere “presa di petto”
“Allora, afferrai uno scialle e scesi in strada…”
“Indossai l’impermeabile e agguantai l’ombrello come si agguanta la spada”
per provare a sentirsi compiutamente violino, e non solo archetto di strumento e d’esistenza.
La struttura e le forme
La trama “esterna” (interna al testo, ma fuori-mente della protagonista) in fondo è secondaria, come piace a noi…L’azione d’interesse principale si svolge infatti negli ampi spazi di riflessione di Sara. Provare per credere: il racconto può essere piacevolmente letto partendo da qualsiasi pagina, a patto di ricordare qualche nome o spostamento essenziale…
E perfino a noi - fan dell’”oratio obliqua”, del discorso indiretto - sono piaciuti i dialoghi, in cui le parole della violinista soprattutto sembrano conservare, invisibile, un filo di seta che le fa emanazioni in sospiro d’anima narrante.
Che brulichio poi di paragoni arditi, comunque mai banali
“Questa donna sarà andata parecchie volte in bianco! Tanto da rimanerne segnata nel colore”
“…smunto e foderato di nero come il sacchetto dell’umido”
“…in America, dove ‘okay’ è la cera lacca che sigilla ogni discorso”,
contro cui non mostreremmo mai pollice verso, neanche quando l’Autrice sembra piacevolmente esagerare in massaggi “turchi”
“pari nelle movenze allo shafak esperto di sabunlu”.
Anche con trama al minimo, il tessuto narrativo dunque regge, non occhieggiando né lettore né critico; così che il consenso l’Autrice lo guadagna col solo piacere, palese, di fare scrittura; strapazzando con “nonchalance” pure regole severe, di tempo, di luogo e d’azione…
Che tempi…
Le riflessioni di Sara - fermando o dilatando appunto i tempi d’azione – scandiscono come canzoni il tenue racconto d’un musical, avvolgendo di “flash back” e “medias res” lo stupito lettore aggrappato a lancette da ”consecutio temporum”.
Ma se c’è tempo di trama, c’è pure trama di tempo (vissuto), con momenti suggestivi di racconto dietro quinte di teatro
“Nella corsa di tutti i giorni uguali, i pasti sono fast, le emozioni pur sempre fast, i minuti last. Il tempo, invece, è short”
“A quell’ora tarda in molti erano svegli a programmare il futuro”.
Locations
Ma quali quinte, quali scene, quali teatri per “Domani mi vesto uguale”? Lungo aerovie pure d’anima
“gli aerei sono la mia casa sospesa”
ancor più che d’azione, è di riflessione esistenzial-amorosa l’affaccio su tanti fondali mobili: ambienti urbani o superurbani di Gerusalemme, New York, Parigi, Napoli, Istanbul, o siti romantico-esotici più limitati per fughe d’anime quali Procida, Playa del Carmen, Capri, Sinai…Tra tanti luoghi visitati o di “memento” – pieni d’ansie di vita e d’“amores” - facile immedesimarsi allora in spaesamenti notturni di Sara protagonista: che s’interroga a volte nel buio “liquido” di certezze ambientali – in quale tappa di concerti o vita sta tentando appunto, inquieta sola, di prendere riposo…
Gli altri, neanche tanti…
Sugli attori d’“amores” e qualche amica della protagonista, s’esercita l’antica vocazione antropologica che non può mancare sotto camice di qualsiasi medico, sotto quello neppure d’Autrice; in com-passione e sim-patia, sempre in professione tra vite dolori dei propri simili…
Oltre a questi, rari gli sfioramenti d’altri alla sfera prossemica di Sara; al di là, generici sfondi umani che s’integrano più o meno bene con ambienti, architetture ed eventi proposti all’occasione in narrazione
“Il buffet è un formicaio di cibi decorati e uomini decorati uguale che vanno, ritornano e rivanno”.
All’orizzonte, più lontano eppure prossimo d’effetti, la società si propone come “marketing” impersonale: sistema che - regolando in combinazioni sentimenti, interessi e poteri contrattuali - occhieggia costantemente sulle vicende come realistica/moderna/cosmica fatalità.
Presentazione del racconto lungo di
Elvira Morena
“Domani mi vesto uguale” (Nocera Inferiore-SA, Oèdipus editore, 2016)
Conclusioni
Infine – e in fine di racconto - rimane dolce malinconia, nostalgia… in accezione proprio di languore da ritorno: essenzialmente dell’anima protagonista a se stessa, dopo tanto peregrinare narrativo.
Per la dott.ssa Morena buona la prima, s’attende riscontro in altra opera che sia “seconda” però solo nel tempo; dove saprà mostrarsi certo più smaliziata, e depistare meglio i critici che s’“incatenano”, divertiti a smentire il suo gioco letterario di presa distanza da possibili fini, e reali contenuti.
Domenico Ienna