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Ha debuttato il 23 novembre alla Casa del Cinema in Roma il docufilm di Esther Barroso Sosa, nell’ambito della XII Mostra del Cinema Iberoamericano - promosso dall’Istituto Cervantes e prodotto da Cubavision. Protagonista la cantante e compositrice italo-cubana Monica Marziota, autrice anche della colonna sonora: “Se la vita fosse un libro”. In una sala pienissima e dentro un sacrale silenzio le immagini hanno aleggiato riportandoci poetici scorci di Roma, Sanremo e L’Avana. Filo conduttore le lettere magicamente scritte da Calvino che, una dietro l’altra, raggiungono la protagonista. Poesia e letteratura che si fanno cinema mentre sposano la musica, questi gli ingredienti che compongono l’ omaggio inusitato a Calvino. Cosa lega Calvino alla splendida protagonista Monica Marziota? Cuba e Santiago de las Vegas mentre realtà e immaginazione s’intrecciano sapientemente; mentre mondi e generazioni incontrano sostanze simili e le chimiche moltiplicano la creatività.
E così conosciamo Calvino da un intrigante nuovo aggraziato punto di vista. Camminando sui suoi passi in terra di Cuba, tra i luoghi e le persone che ha frequentato. Esiste, dunque, un surplus di meraviglia che sa far lievitare e fare più grande ciò che definiamo poesia, ciò che chiamiamo letteratura, ciò che è il cinema e i suoni della musica. C’è un surplus di meraviglia in input-output allorché le immagini vengono impastate con la sostanza del cuore! E’ la maniera raffinata di scrivere in immagini un documentario-film che ha conferito alla letteratura, alla musica e al cinema stesso un altro importante metodo, in verità più che di metodo, forse è più corretto parlare di ricetta che ha utilizzato qualcosa di assoluto, la sostanza urgente e preziosa che surclassa tutto il tecnicismo del mondo, anche quello ancora da venire, e la protagonista possiede quella sostanza.
Monica Marziota, infatti, trasmette un tasso d’empatia ed una qualità empatica che -frammista a quella Sua personalissima componente emozionale- la fa nobile, talchè nobilita la pellicola e consente alle immagini di profondersi con una semplicità destabilizzante ed estasiante insieme! Quel suo camminare dentro i luoghi, lungo le strade, dentro le citta’, quel toccare le pagine, l’adagiare le note sui pentagrammi mentre il suo piccolo bambino emette le prime sillabe e sgambetta nella carrozzina, quel camminare dentro la vita dello scrittore, dentro la scrittura, e dentro la scrittura di un grande della scrittura, quel camminare elegante alla scoperta e, soprattutto, quel “ricevere”, il saper ricevere intimo, il saper leggere il ricevere e riceverlo intimamente, il generoso ricevere, il rispettoso ricevere QUELLE LETTERE! Lettere e ricevere che vanno finanche molto oltre quello che mostra la fabula cinematografica e la magistralità della regista, sto parlando del ricevere la vita e farsene carico, meravigliosamente; accogliere il fatto della vita e “ricercare” per saperla, per capirla, per farne tesoro nel mentre le cammina dentro… perché è quel camminare che serve a sapere di più e meglio.
Camminare nella vita! Camminare nelle altre vite e continuare a camminare anche dopo che la storia ha esaurito i fatti che l’hanno fatta “essere”. Camminare dentro le parole e i gesti con rispetto e consapevolezza profondissimi. Il gioiello più prezioso del docufilm? E’ l’aver incastonato, centellinato, qua e la’, con sapiente dosaggio, la madre: il seno originario, una delle terre della sua origine - la stessa del Calvino narrato - perché Monica Marziota non interpreta un personaggio, assolutamente no, Monica Marziota è Monica Marziota, è se stessa nel film come nella vita; lei che incastona il frutto di Monica-donna-madre, Agostino, e incastona il compagno di Monica-donna-sposa: Michele, il Michele che lascia sulla pellicola e rinvia al pubblico e alla storia una frase, un’importantissima piccolissima domanda: come stai? Rivolta a Monica. E’ il compagno di vita che chiede alla sua compagna di vita: come stai? Prova di consapevolezza del camminare di Monica, e nello stesso tempo del suo esserci e dell’esserci stato sempre vicino a Lei, pur a migliaia di km di distanza; prova di consapevolezza del camminare di Monica dentro la vita, dentro la parola, la letteratura, la citta’, la strada, il mondo da cui Monica, a sua volta, non ha escluso, non ha lasciato fuori nessuno. C’è una rituale intensa spiritualità in questa pellicola e mi piace finanche usare questo materico artistico termine: pellicola…sa di epidermicità. Di sensibilità più autentica e concreta, finanche tattile, e ci serve anche questo per comprendere di più Calvino, il suo essere nato a Cuba e aver compiuto la magia…le lettere spedite da chissà dove ma nella certezza che sarebbero arrivate proprio in quella cassetta postale, la cassetta di Monica Marziota… nata in terra cubana come Lui.
Diversi e contrastanti i giudizi della critica a proposito di Parthenope, l’ultimo film di Sorrentino. Di intonazione prevalentemente severa quelli della stampa internazionale, mentre fondamentalmente positivi, con impennate di estatico entusiasmo, quelli di casa nostra. Nell’insieme, comunque, nonostante il prevalente quanto ricorrente italico conformismo, la tavolozza delle opinioni fin qui espresse si presenta assai ben variegata:
esaltato come capolavoro di sublime bellezza, considerato uno spottone ridondante e barocco, oppure erotico e seducente, fonte di stupore e commozione, esuberante e magnetico, rassegna di luoghi comuni, dissacrante e blasfemo, spudorato e pieno di dolore.
Qualcuno ha saggiamente consigliato di evitare di mettersi nell’ottica del “che vorrà mai significare”, per lasciarsi invece abbandonare al mero flusso del gioco pirotecnico di un estetismo bizzarro, ricercato e morbosamente intrigante. Forse la spaccatura fra i due fronti scaturisce proprio dalla basilare differenza di atteggiamento e di prospettiva:
chi si pone troppe domande sul cosa potrà mai voler dire questo e cosa quell’altro probabilmente rimane deluso, insoddisfatto e pure infastidito; chi invece si lascia trasportare dalla sarabanda delle immagini, degli sguardi e delle invenzioni scenografiche, probabilmente finirà per sentirsi sommerso da un bombardamento di forti emozioni.
Al di là dei differenti approcci e punti di vista, credo comunque che su alcune cose, almeno, sia possibile non nutrire troppe incertezze.
In Sorrentino, infatti, a dispetto dei ricorrenti e alquanto forzati confronti, ben poco possiamo incontrare dell’ indagatrice religiosità di Federico Fellini, del suo serissimo senso della trascendenza e della sua attenzione-attrazione verso la sfera dell’Oltre. Il mondo ecclesiastico e quello della pietas popolare finiscono, nella Napoli sorrentiniana, per essere grottescamente ridotte e ricondotte ad un variopinto minestrone di molto terrene pulsioni ancorate alla dimensione dell’ ”Avere”.
Nel complesso, il mondo umano rappresentato è un mondo imbevuto di amara infelicità, oscillante fra lusso sconfinato e atavica miseria, immerso in una becera realtà materialistico-edonista, a cui soltanto si riescono a contrapporre, come unica via di salvezza, la forza della cultura e la serietà della ricerca accademica.
Come a dirci che, dal nichilismo etico e dalla rassegnazione alla inesorabilità del male di vivere, potrà salvarci, allora, la sola intelligenza (educata nello studio) capace di “vedere” al di là delle apparenze?
Ma sarà forse questo, poi, il vero (forse l’unico degno) messaggio di Parthenope?
Confesso.
Dopo aver subìto due ore di pesante tribolazione, ero intenzionato a buttare giù, senza stare a perdere troppo tempo, una stroncaturina gelida e perentoria.
Il film di Maura Delpero, infatti, il Vermiglio osannato e premiato dalla critica, mi era apparso, sì, un lavoro costruito con passione, con grande cura ed impegno, certamente un prodotto di indubbia serietà, ma, al contempo, lo avevo patito come una narrazione impregnata di sofferenza atavica, di millenaria pena di vivere, esteticamente attraente solo quando qualche immagine sembrava ricalcare (non certo per caso) le pennellate di Segantini o quando le note di Chopin e di Vivaldi riuscivano a far entrare qualche sprazzo di infinito in quel mondo cupo e dolente di misera vita di montagna.
Confesso.
La tentazione della fuga, già dopo una decina di minuti di massacranti dialoghi dialettali sottotitolati, è stata forte.
Forse arginata soltanto dalle sapienti parole di uno dei protagonisti spese in elogio della “vigliaccheria”, sanamente e santamente apprezzata (forse invocata) come efficacissimo antidoto per tutte le guerre.
Insomma, visti i riconoscimenti e gli elogi apologetici di tanta critica verbosa ed erudita, nella speranza che qualcosa di particolarmente significativo irrompesse, prima o poi, sullo schermo, sono riuscito ad approdare ai titoli di coda.
Rientrato in casa, ho preso fiato, cercando di riflettere meglio in profondità e cercando anche di raccogliere tutte le informazioni utili in circolazione sul web.
Che dire, a questo punto, di Vermiglio?
Dal marasma pirotecnico di tante recensioni raffinatamente cerebrali inneggianti ad un “film dell’incanto”, “ammaliante” e dal “valore universale”, ad un film di “pura poesia”, di “secca poeticità”, anzi addirittura definibile come “sinfonia ipnotica e ascendente”, gli unici aggettivi degni di essere salvati e utilizzati sono:
sincero, onesto, intimo, sentito.
Sì, si tratta di un lavoro fatto con grande sincerità di interessi e di affetti;
onestissimo nel suo volerci parlare di una umanità lontana e dimenticata, senza ricorrere a finzioni, senza abbellimenti e senza alcuna indulgenza;
intimo perché capace di mettere a nudo speranze, sogni e timori di cuori grandi e di cuori piccoli;
sentito perché costruito con autentica empatia e delicata pietas.
Qualità belle che certamente rispecchiano con fedeltà la dimensione interiore di Maura Delpero.
Tutto questo, però, non può bastare a trasformare in un capolavoro un film implacabilmente noioso e mai in grado di suscitare, nel malcapitato spettatore, un vero coinvolgimento emotivo.
Vermiglio, pur con i suoi indubbi meriti culturali di ordine storico-antropologico e nonostante l’ amorevolezza (sincera, onesta, intima e sentita) di cui è impastato, resta un film che si vede e si sopporta a fatica, un film che, soprattutto, non si ha minimamente voglia di ritornare a vedere.
Chiara Françoise Charlotte Mastroianni si è raccontata così, ieri,alla Festa del Cinema di Roma. Il suo racconto è quello di una figlia verso un papà “grande”, scomparso quando lei aveva ventiquattro anni e grande attore di fama internazionale. E non solo. Nelle sue vene scorre il sangue di Catherine Deneuve, ça va sans dire.
Nel centenario dalla nascita del padre, l’attrice si racconta in un dialogo affettuoso, ironico, che va dai racconti delle telefonate che riceveva dal papà, quando era piccola soprattutto, agli incontri a Cinecittà con il grande regista Federico Fellini, amico del padre.
“La vita di mio padre era il lavoro. La vita da set era la sua vera casa, dove si sentiva al sicuro. In vacanza, si annoiava non prendeva il sole, non faceva il bagno, era sempre nervoso”.
E poi, “mi telefonava tanto, troppo, ma non voleva essere rintracciato”.
”Amava il telefono, gli piaceva comprare sacchetti di gettoni perché telefonava sempre. A me anche tre, quattro volte al giorno. Mi chiamava anche per avere una copertura per la sua vita sentimentale complicata. Che tempo fa a Parigi? Piove? Lo faceva per crearsi un alibi. Mi diceva sempre, solo un po’ scocciato: purtroppo bisogna mentire, mentire, sempre mentire anche se è complicato”.
Il padre di Chiara non era un padre qualunque: era uno degli attori italiani più famosi della Dolce Vita, romano di nascita e forse diremo romano nel suo DNA, se la romanità fatta di ironia, del non prendersi troppo sul serio e dell’ indolenza può essere considerata un marchio di fabbrica.
L’indolenza, appunto, “era una specie di grasso che lo proteggeva perché pensava che fosse abbastanza non fare troppo, ed era abitato anche da una certa malinconia per cui il cinema l’ha molto supportato”.
Era rimasto toccato dalla guerra, “c’era in lui l’inquietudine per quello che era successo a mio nonno che aveva avuto una piccola falegnameria, una cosa modesta. Poi arrivò Benito Mussolini, lui non prese la tessera perché era antifascista e perse tutto il poco che aveva”.
Marcello Mastroianni aveva talento, bellezza, fascino e non amava l’idea del mito. Gli davano piacere le cose semplici, che gli ricordavano le sue origini semplici. Modeste.
Il suo legame con Federico Fellini e Sofia Loren restano due costanti della sua vita. Con il regista della Dolce Vita, condivide il tormento, la difficoltà di essere uomini, molto lontani dal mito del maschio italiano. Erano due uomini con vite pazzesche e pieni di malinconia.
Con Sofia Loren, il grande attore condivise, una vera amicizia, la semplicità di mangiare insieme un panino sul set, di ritrovarsi in famiglia. La loro bellezza non li aveva allontanati, anzi, nel loro caso li aveva fatti avvicinare con la semplicità dei loro bisogni, del loro stile di vita, lontano dalle star del cinema americano.
Semplicità e discrezione e gentilezza d’animo, sono state le caratteristiche di quel padre.
Chiara Mastroianni conclude la sua chiacchierata, dicendo che il padre sarebbe stato imbarazzato da tutto questo clamore, da questo gran parlare di lui, per cui, nell’eleganza del suo stile, avrebbe concluso soffermandosi sul rendere omaggio non certo a sé stesso ma alla grandezza del cinema italiano.
Viva il cinema italiano. Grazie.
Simona Dascalu è un’attrice di teatro che nel passato ha recitato anche nel cinema. Anni fa ebbe una piccola parte in “ Dolcemente complicate” poi partecipò ad un paio di fiction e di cortometraggi. La sua grande passione è il teatro ed entro breve sarà in scena con il suo nuovo spettacolo, ideato e scritto in collaborazione con lo scrittore Sandro Arista. Si intitola " chi è l'ultimo" e in questa nuova Commedia Simona Dascalu è protagonista oltre che come attrice anche come regista. E’ uno spettacolo dove emergono diverse componenti: dal comico tendente al serio, per poi arrivare al dramma. Ecco la trama in sintesi: Nella sala d’aspetto di uno studio psicoanalitico si incontrano 4 personaggi: Olindo un tipo poco socievole e dal carattere scorbutico, Luciano sentimentale, emotivo e romantico, Teresa una donna avvocato, altolocata e distinta e Ricky dall’aria sfigata anche troppo loquace. L’interazione dei quattro durante l’attesa, scatena una serie di conflitti, tra loro causati dai loro differenti modi di intendere la vita. Con l’arrivo in ritardo di Wanda la psicologa “la più fuori di testa di tutti”, sembra ristabilirsi l’ordine, ma è solo apparenza. La seduta di gruppo farà emergere aspetti in ognuno di loro insospettabili, che capovolgeranno drasticamente ogni cosa.
Ho incontrato Simona Dascalu che ho avuto il piacere di conoscere già da qualche anno ed è sorta una piacevole conversazione.
Simona Dascalu |
Simona quali sono gli aspetti più esilaranti di "chi è l'ultimo?"
La vicenda è tutta nello studio psicoanalitico dove collabora una segretaria un po' distratta e “impicciona” che fornisce lo stesso orario a quattro pazienti. Nella commedia io sono una psicoanalista che amo tanto anche l'arte e cioè cantare, recitare, ballare. Dal momento che arrivo tardi in studio e trovo tutti i pazienti insieme, mi devo inventare una storia, così nascono una serie di battute originali e di grande impatto. Questi personaggi nel loro monologo trattano dei loro problemi, così gli spettatori apprezzeranno uno spettacolo molto divertente dove oltre a recitare si canta e si balla. L'aiuto regia è di Renato Porfido che seguirà la commedia con attenzione dall’esterno e sarà anche lui coinvolto a sorpresa. Alla fine sceglierò di dedicarmi solo all'arte e dal momento che abbandono l'attività, lascio i pazienti nelle mani di un altro collega.
Quali sono le tue sensazioni al momento di presentare la tua nuova commedia teatrale?
Sono emozionata ma nello stesso convinta che il pubblico apprezzerà la commedia che andrà in scena al teatro Anfitrione dal 24 ottobre alla domenica del 27 ottobre. La locandina è molto graziosa e rende l’idea di uno spettacolo divertente.
Come ti sei trovata in questo ruolo, rispetto alla commedia dell'anno precedente “Condominium”?
Sono personaggi diversi, in quella ero un avvocato, sempre un po' in conflitto con il mio compagno, in questa invece, sono una psicanalista e anche un'artista. Noi attori riusciamo spesso a cambiare la nostra personalità e ci immedesimiamo nel giusto ruolo. Nel passato ho fatto avanspettacolo e ho preso parte a ruoli sia comici che drammatici. Nel campo artistico riesco a fare un po' di tutto, ma preferisco il genere comico e questo lo si deve probabilmente, perché nei nostri giorni viviamo un mondo difficile con tanto nervosismo, pertanto ritengo che la gente abbia bisogno di evadere. Questo non significa che se dovessero propormi un ruolo drammatico non mi sentirei ugualmente a mio agio.
Simona quali sono i tuoi prossimi progetti futuri?
Ho pronto nel cassetto la trama di un film o cortometraggio che spero prima o poi di portare a compimento. E' la storia di una donna che ha una serie di disavventure e poi si innamora del suo carnefice. Recentemente ho scoperto che mi piace anche cantare e su You tube si possono trovare alcune mie interpretazioni. Sto completando una canzone, che poi farò ascoltare per la prima volta in teatro insieme ad altre due canzoni composte da me. Quest'anno ho avuto la fortuna di incontrare sul red carpet al Festival del cinema di Roma, questo splendido uomo, Renato Porfido che è poi diventato il mio compagno. A me serviva un attore per i miei video clip, quindi dal momento che abbiamo avuto l'opportunità di frequentarci, si è accesa la scintilla e ci siamo innamorati. E’ bello avere qualcosa da condividere con una persona speciale e noi due abbiamo le stesse passioni.
Grazie Simona Dascalu
Il Teatro Arcobaleno è per così dire “specializzato” in proposte a tema storico. Propone spesso e volentieri testi di classici greci o latini, o che parlano di personaggi storici come questa stasera. Il testo è di Giovanni Antonucci, uno dei più grandi studiosi del grande ed intramontabile Ettore Petrolini, artista che ha ispirato molti attori venuti dopo di lui.
La sua simpatia e bravura arrivò a colpire anche il duce, tanto che Petrolini era l’unico che nelle sue performance poteva imitare e schernire il dittatore senza che se ne prendesse a male, anzi, dimostrava di apprezzare particolarmente le performance di Ettore. Attore, cabarettista, cantante, drammaturgo, sceneggiatore, compositore e geniale scrittore specializzato nel genere comico. Petrolini però, viene ricordato quasi esclusivamente per il filone comico, mentre era molto di più. Meno conosciuto è infatti il suo lato più profondo e “popolare”, o quello osannato da Marinetti, che lo proclamò “grande attore futurista”. Marinetti scriveva: “Il teatro di Varietà è il solo che utilizzi la collaborazione del pubblico; questo non rimane statico, a guardare, ma partecipa rumorosamente all’azione, cantando, accompagnando l’orchestra, comunicando con motti imprevisti e dialoghi bizzarri con gli attori. Il pubblico collabora con la fantasia degli attori, l’azione si svolge contemporaneamente sul palcoscenico, nei palchi e nella platea…”.
È ovvio che i Futuristi trovassero in Petrolini un interprete che poteva dare vita ai loro ideali di “rivoluzione teatrale”. Petrolini in parte ebbe alcune convergenze ideologiche con il Futurismo, ma rimase estraneo al movimento, la sua poliedricità e continua evoluzione non potevano essere intrappolate in degli stereotipi.Come dice lo stesso Avallone nella pièce, Petrolini aveva già creato i suoi personaggi prima che questa corrente di pensiero emettesse i primi vagiti. Furono i Futuristi a riconoscersi nella sua arte e non certo il contrario.
Si dedicò a creare parodie, macchiette, caratteri e personaggi che attraverso la loro spontaneità e semplicità popolare, negavano e criticavano i sentimentalismi rifiutando le mode del tempo ed evidenziando l’idiozia umana. Davanti alle critiche del tempo che lo definivano stupido, lui rispondeva “ci vuole intelligenza per rappresentare la stupidità…”
Tutte le sue trovate, le battute, i nonsensi devono essere interpretati come una metafora della perdita di senso di cui la sua società era preda; rovesciava così il suo ruolo di comico che nel far ridere faceva emergere una denuncia, una critica, una satira pungente nei confronti di quella stessa società che alla fine tanto lo amava.
Nel testo di Antonucci troveremo una forte comicità frammista ad elegante malinconia, che riportano tra realtà e finzione in scena questo mostro sacro a 140 anni dalla sua nascita. Chi meglio del geniale Antonello Avallone poteva vestire gli abiti ed esaltare la figura di questo originale artista?
Avallone è un attore poliedrico e particolarmente dotato, si impossessa del palco e rapisce l’attenzione del pubblico con la sua grande personalità. Rimasi particolarmente colpito da lui quando lo vidi nella sua interpretazione di “Novecento” di Baricco. Eccolo di nuovo in un impegnativo monologo che mette a nudo tutte le sue capacità intrattenendoci, anzi ipnotizzandoci.
Interpreta un Petrolini negli ultimi giorni della sua vita, entra in teatro e dà vita ad un malinconico e romantico quanto poetico canto del cigno. L’artista rivive e ripropone i passi fondamentali della sua vita, dagli esordi nei teatri baracconi, quando comincia a dare vita alle sue prime macchiette, fino ad arrivare ai suoi grandi successi. Avallone ci restituisce un Petrolini visibilmente afflitto da quella che lui chiama la “Signora Embolia Flebite”; malconcio e claudicante, ci porta con classe e maestria in questo racconto profondo e sentito che ci permette di palpare l’essenza più intima di Petrolini. Ogni personaggio presentato si dimostra pura energia che ritempra l’artista facendogli dimenticare tutti gli acciacchi e i malanni e facendogli recuperare tutto il suo passato splendore.
La vita dell’attore ha tre fasi, ci dice: la prima quando è preso in giro dal pubblico, la seconda quando è lui a prendere in giro il pubblico, la terza quando guarda dal di fuori queste due parti prendersi in giro… ascetico.
Bella e ponderata la scelta delle musiche, divertenti e mai invadenti, alternate ad altre che trasmettono la giusta tensione per esaltare i momenti più drammatici o introspettivi. Suggestivo l’ uso delle luci che creano un’atmosfera onirica ed eterica.
Le freddure, le battute, le canzoni, i balletti come le macchiette sono quelle: Gastone, Fortunello, Lyda Borelli, Nerone… Antonello ci regala una vera e propria perla teatrale. Un immenso Avallone che interpreta Petrolini senza volerlo imitare e in cui troviamo tutta la sua professionalità, la sua personalità e bravura. Qua e là uno spruzzo di Macario, di Rascel, di Totò, lasciano in bocca un gradevole sapore dal gusto retrò. Ha saputo giocare bene le sue carte, bilanciando la parte nostalgico drammatica con quella comico satirica della pièce senza eccedere nell'una o nell'altra, esaltando il testo di Antonucci di cui ha egregiamente curato anche la regia.
La scenografia scarna esalta la parte più malinconica, lo fa attraverso due bauli che contengono tutta la vita del protagonista insieme alle emozioni, i sogni, le speranze. Da quei due scrigni escono tutte le “pelli” dell’artista, un alternarsi di bellissimi costumi che Avallone indossa per trasformarsi ed interpretare tutti quei personaggi che hanno fatto grande questo favoloso attore.
Uno spettacolo che intenerisce, diverte con le sue battute da avanspettacolo che, se anche hanno fatto ormai il loro tempo, ci restituiscono quella genuinità e semplicità con cui i nostri nonni si divertivano ridendo a crepapelle, ricreando magicamente l'atmosfera di un teatro ormai dimenticato.
La regista Maura Delpero e l’attore Tommaso Ragno |
Con la mia famiglia si andava verso Ortisei, in Trentino Alto Adige negli anni Sessanta, per il viaggio sul trenino della Val Gardena, condotto dal sig. Toffoli e nei cartelli stradali nella Val di Sol, vicino il torrente Noce, leggevamo l’indicazione per Vermiglio, verso il passo del Tonale. Un nome poi addormentato nella mia mente!
Ed eccomi, per forza del destino, ad assistere ad un film del ricordo, un lungometraggio, Vermiglio, di Maura Delpero. Lentamente, quel
Pietro, Giuseppe De Domenico, stringe la mano a Lucia,
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dialetto, Solànder, come ricordava mio padre, tornava alla memoria. Ed ecco nello schermo quei posti incontaminati, quei boschi di abeti imbiancati in inverno e verdi dalla primavera in su. Il racconto cinematografico si dipana magistralmente come un ricordo lontano, una carezza di piuma, verso la fine dell’ultima guerra.
Ai margini del bosco appare un soldato, Pietro, interpretato da Giuseppe De Domenico, portato lì in montagna da un altro soldato scampato alla tragedia della seconda guerra mondiale, Attilio, Santiago Fondevila, figlio del borgo di Vermiglio.
Pietro, soldato siciliano, sconvolge la tranquillità della famiglia del maestro Cesare, Tommaso Ragno, mentre Lucia, Martina Scrinzi, la maggiore delle sue figlie, alla fonte, dopo qualche titubanza, lo bacia, se ne innamora, resta incinta e decide di sposarlo.
Di profilo il maestro Cesare, Tommaso Ragno |
Lucia e la piccola Antonia |
Alla fine della guerra Pietro torna in Sicilia e Lucia dà alla luce Antonia. In famiglia si apprende dal giornale che Pietro Riso, che era già sposato con una donna siciliana, viene da questa ucciso per onore.
Lo smarrimento psichico di Lucia, induce una sua
Maura Delpero premiata con il Leone d’argento
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sorella, fatta conversa, a prendersi cura della piccola nell’orfanotrofio mentre Lucia si allontana dal borgo per arrivare in Sicilia; vuol essere rassicurata.
Le sue indagini la portano ad una casa circondariale dove la vera moglie di Pietro è in cortile, vestita a lutto, quel lutto da lei stessa procurato, Salvo, il loro bambino gioca ma si accorge che una donna è triste, Lucia viene incoraggiata dalla donna che le chiede se ha figli.
Lo sposalizio tra Pietro e Lucia |
Lucia arriva alla tomba del marito. Il suo animo si acquieta depositando, accanto alla croce, la coroncina del loro amore.
Torna a Vermiglio ad abbracciare Antonia riprendendo le sue facoltà mentali.
Linea di scrittura cinematografica ineccepibile, montaggio che anticipa i dialoghi della scena seguente, interpreti veri nella loro interpretazione, il maestro magistralmente bravo in tutte le sue sfumature.
Il cast al completo |
Vermiglio di Maura Delpero è stato presentato in anteprima mondiale il 2 settembre 2024, alla 81ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il Leone d'argento.
Selezionato per rappresentare l'Italia ai Premi Oscar del 2025 nella sezione del miglior film internazionale.
Felice di aver assaporato questo film degno di un Oscar!
D- Buongiorno Francesco, dopo un anno ricco di tante performance di successo in giro per numerosi teatri italiani sei di nuovo il pole position per nuovi spettacoli. Sarai presente come attore e come regista.
R-Sì sono stato molto fortunato quest'anno e saranno in scena addirittura sei spettacoli di cui ho curato la regia e in due sarò anche protagonista in scena e tutto questo mi riempie di orgoglio e gioia.
D- Ci saranno varie commedie e atti teatrali con nomi conosciuti del cinema e del teatro come Lorenzo Flaherty protagonista in “il visitatore” di Eric Emmanuel Schmitt. In questa precisa commedia tu sarai il regista.
Vuoi parlarmene?
R- IL VISITATORE di Erick Emanuel Smith è un testo straordinario che pone al centro della storia la figura di Sigmund Freud e ha come temi fondamentali il rapporto con Dio, la spiritualità, la scienza, la ragione e molti conflitti che attanagliano e che riguardano anche l'uomo moderno; un testo straordinario di grande tensione morale e mi auguro che abbia il successo che merita.
D-In quali teatri verrà ospitato?
R-IL VISITATORE debutterà il 19 e 20 ottobre all’ Auditorium Pierluigi di Palestrina e poi sarà in tournée nel Lazio, in Toscana e Lombardia e in molte altre regioni italiane.
D- Un altro spettacolo che prenderà il via sarà “l’onorevole, il poeta e la signora” di Aldo De Benedetti; una commedia esilarante dove tu, Isabella Giannone e Lorenzo Flaherty sarete i protagonisti e tu, anche qui sarai il regista oltre che un protagonista.
Vuoi anticiparci qualcosa?
R- "L'ONOREVOLE, IL POETA E LA SIGNORA" è un testo di Aldo De Benedetti straordinario e dalla irresistibile comicità ma che ha anche la capacità di portare in scena dei personaggi molto attuali e magnificamente descritti dalla penna magistrale dell'autore, è uno spettacolo di grande comunicabilità e il divertimento è assicurato e inoltre sono convinto che sarà molto apprezzato dal pubblico. Erano anni che volevo portare in scena un testo di Aldo De Benedetti e finalmente è capitata l'occasione ed inoltre sono entusiasta di dividere la scena con Lorenzo Flaherty e Isabella Giannone. Inoltre sono estremamente felice che lo spettacolo abbia una tournée veramente lunga e prestigiosa davvero in ogni parte della penisola.
D- Non è finita qui, altri eventi spettacoli faranno parte di un anno ricchissimo di performance teatrali;
uno molto promettente di successo sarà sicuramente “tre sul terrazzo “di Patrizio Pacioni scrittore di successo di romanzi, saggi, drammi e raccolte di racconti. In questo spettacolo ci sarà la bravissima Nadia Rinaldi e il preparatissimo Salvatore Buccafusca oltre che Andrea Zanacchi. Qui sarai regista e addetto alla scelta costumi,
Parlaci di questo spettacolo e di ai nostri lettori perché merita andarlo a vedere?
R- TRE SUL TERRAZZO con Nadia Rinaldi è uno spettacolo sul mondo della televisione molto divertente dalla comicità molto acuta e tagliente; i personaggi sono delineati in maniera straordinaria e sono estremamente divertenti ma ci fanno anche molto riflettere sul mondo dei rapporti e sul nostro presente così difficile.
D- Presente in teatro anche la commedia “Senza respiro” di David Norisco con Pamela Prati e Simone Lambertini che tu con la tua regia la renderà sicuramente magica e intensa. In quale teatro potremmo vedere questo spettacolo? Vuoi dirci qualcosa su questo spettacolo?
R- SENZA RESPIRO di David Norisco con Pamela Prati sarà uno spettacolo di grande fascino, unirà il giallo, il Thriller e ci sarà anche un pizzico di erotismo unito alla commedia; un mix che credo sarà davvero esplosivo. Lo spettacolo sarà in tournée in tutta Italia nei maggiori teatri.
D- Ho visto con piacere che torneranno di nuovo in visione nei teatri “Una come me” con Matilde Brandi, Salvatore Buccafusca e Andrea Zanacchi dove tu ne sei il regista. Verrà riproposto di nuovo anche lo spettacolo “Cose di ogni giorno” con la brillante Danny Mendez, un bravissimo Francesco Branchetti e la partecipazione di Isabella Giannone e José De La Paz . Anche in questo caso tu sarai attore e regista.
Un anno carico di grandi spettacoli per ogni gusto.
R- Si tornano in scena ancora un'altra stagione UNA COME ME con Matilde Brandi e Salvo Buccafusca e Cose di ogni giorno di David Norisco e sono estremamente felice quando gli spettacoli hanno la possibilità di continuare a vivere stagione dopo stagione nei teatri perché questo significa che negli anni precedenti sono stati graditi dal pubblico e questo è un grande riconoscimento per il mio lavoro.
D- Da sempre lascio uno spazio bianco a chi intervisto e qui vorrei che tu parlassi con i nostri lettori di queste novità che tu e le tue compagnie intraprenderete nei nostri teatri per farci trascorrere ore spensierate e ricche di emozioni.
R- Per concludere vorrei dire che sarà un anno di grandi emozioni e che finalmente sembra che un po' di ripresa ci sia per il teatro e mi auguro che finalmente possa tornare quella normalità che aspettiamo con ansia dai terribili anni del covid ed è un augurio che faccio a me ma anche a tutti i teatranti che con me hanno affrontato questi anni così difficili ed inoltre vi ringrazio per l'attenzione costante che dedicate sempre al mio lavoro.
D- Buongiorno Francesco, dopo un anno ricco di tante performance di successo in giro per numerosi teatri italiani sei di nuovo il pole position per nuovi spettacoli. Sarai presente come attore e come regista.
R-Sì sono stato molto fortunato quest'anno e saranno in scena addirittura sei spettacoli di cui ho curato la regia e in due sarò anche protagonista in scena e tutto questo mi riempie di orgoglio e gioia.
D- Ci saranno varie commedie e atti teatrali con nomi conosciuti del cinema e del teatro come Lorenzo Flaherty protagonista in “il visitatore” di Eric Emmanuel Schmitt. In questa precisa commedia tu sarai il regista.
Vuoi parlarmene?
R- IL VISITATORE di Erick Emanuel Smith è un testo straordinario che pone al centro della storia la figura di Sigmund Freud e ha come temi fondamentali il rapporto con Dio, la spiritualità, la scienza, la ragione e molti conflitti che attanagliano e che riguardano anche l'uomo moderno; un testo straordinario di grande tensione morale e mi auguro che abbia il successo che merita.
D-In quali teatri verrà ospitato?
R-IL VISITATORE debutterà il 19 e 20 ottobre all’ Auditorium Pierluigi di Palestrina e poi sarà in tournée nel Lazio, in Toscana e Lombardia e in molte altre regioni italiane.
D- Un altro spettacolo che prenderà il via sarà “l’onorevole, il poeta e la signora” di Aldo De Benedetti; una commedia esilarante dove tu, Isabella Giannone e Lorenzo Flaherty sarete i protagonisti e tu, anche qui sarai il regista oltre che un protagonista.
Vuoi anticiparci qualcosa?
R- "L'ONOREVOLE, IL POETA E LA SIGNORA" è un testo di Aldo De Benedetti straordinario e dalla irresistibile comicità ma che ha anche la capacità di portare in scena dei personaggi molto attuali e magnificamente descritti dalla penna magistrale dell'autore, è uno spettacolo di grande comunicabilità e il divertimento è assicurato e inoltre sono convinto che sarà molto apprezzato dal pubblico. Erano anni che volevo portare in scena un testo di Aldo De Benedetti e finalmente è capitata l'occasione ed inoltre sono entusiasta di dividere la scena con Lorenzo Flaherty e Isabella Giannone. Inoltre sono estremamente felice che lo spettacolo abbia una tournée veramente lunga e prestigiosa davvero in ogni parte della penisola.
D- Non è finita qui, altri eventi spettacoli faranno parte di un anno ricchissimo di performance teatrali;
uno molto promettente di successo sarà sicuramente “tre sul terrazzo “di Patrizio Pacioni scrittore di successo di romanzi, saggi, drammi e raccolte di racconti. In questo spettacolo ci sarà la bravissima Nadia Rinaldi e il preparatissimo Salvatore Buccafusca oltre che Andrea Zanacchi. Qui sarai regista e addetto alla scelta costumi,
Parlaci di questo spettacolo e di ai nostri lettori perché merita andarlo a vedere?
R- TRE SUL TERRAZZO con Nadia Rinaldi è uno spettacolo sul mondo della televisione molto divertente dalla comicità molto acuta e tagliente; i personaggi sono delineati in maniera straordinaria e sono estremamente divertenti ma ci fanno anche molto riflettere sul mondo dei rapporti e sul nostro presente così difficile.
D- Presente in teatro anche la commedia “Senza respiro” di David Norisco con Pamela Prati e Simone Lambertini che tu con la tua regia la renderà sicuramente magica e intensa. In quale teatro potremmo vedere questo spettacolo? Vuoi dirci qualcosa su questo spettacolo?
R- SENZA RESPIRO di David Norisco con Pamela Prati sarà uno spettacolo di grande fascino, unirà il giallo, il Thriller e ci sarà anche un pizzico di erotismo unito alla commedia; un mix che credo sarà davvero esplosivo. Lo spettacolo sarà in tournée in tutta Italia nei maggiori teatri.
D- Ho visto con piacere che torneranno di nuovo in visione nei teatri “Una come me” con Matilde Brandi, Salvatore Buccafusca e Andrea Zanacchi dove tu ne sei il regista. Verrà riproposto di nuovo anche lo spettacolo “Cose di ogni giorno” con la brillante Danny Mendez, un bravissimo Francesco Branchetti e la partecipazione di Isabella Giannone e José De La Paz . Anche in questo caso tu sarai attore e regista.
Un anno carico di grandi spettacoli per ogni gusto.
R- Si tornano in scena ancora un'altra stagione UNA COME ME con Matilde Brandi e Salvo Buccafusca e Cose di ogni giorno di David Norisco e sono estremamente felice quando gli spettacoli hanno la possibilità di continuare a vivere stagione dopo stagione nei teatri perché questo significa che negli anni precedenti sono stati graditi dal pubblico e questo è un grande riconoscimento per il mio lavoro.
D- Da sempre lascio uno spazio bianco a chi intervisto e qui vorrei che tu parlassi con i nostri lettori di queste novità che tu e le tue compagnie intraprenderete nei nostri teatri per farci trascorrere ore spensierate e ricche di emozioni.
R- Per concludere vorrei dire che sarà un anno di grandi emozioni e che finalmente sembra che un po' di ripresa ci sia per il teatro e mi auguro che finalmente possa tornare quella normalità che aspettiamo con ansia dai terribili anni del covid ed è un augurio che faccio a me ma anche a tutti i teatranti che con me hanno affrontato questi anni così difficili ed inoltre vi ringrazio per l'attenzione costante che dedicate sempre al mio lavoro.
Chi come me è cresciuto a fumetti della Marvel e della DC, dovrà fare qualche sforzo per riuscire ad immaginare dei supereroi che si esprimono con un forte accento napoletano, tutti partoriti dalla prolifica fantasia di Alessandra Merico, che continua a sfornare a cadenza regolare fragranti pièce teatrali gradevoli e divertenti con cui intrattenere il suo pubblico facendosi accompagnare da un cast ormai più che rodato e dotato.
Questa proposta, mi diceva la stessa Alessandra, è una metafora sul mondo dello spettacolo e della vita. I personaggi sono ispirati a quegli artisti sulla via del tramonto; attori che dopo essere stati famosi ed acclamati, all'improvviso cadono nel dimenticatoio. Ma nella pièce si affrontano anche altri temi, come il trasformarsi delle abitudini e la fatica di adeguarsi, con l’età, ai nuovi trend. E poi la vecchiaia che porta con sé tutti i suoi acciacchi, a cui neanche un supereroe è indenne. Una commedia velatamente pungente che induce, almeno a fine spettacolo, ad una riflessione, un modo diverso e più umano di vedere in questi miti degli antieroi.
Avete presente gli “Incredibili”, quei buffissimi supereroi ideati dalla Pixar diventati un vero problema per la società per i danni perpetrati durante le loro azioni contro il crimine? Vengono messi al bando, costretti a nascondere le loro doti e a vivere vite banali sognando il grande ritorno.
Ecco, Alessandra sceglie di presentare il lato più umano dei supereroi: bonaccioni, sempliciotti, poveri diavoli frustrati che non sono riusciti a conservare la loro notorietà e che vivono solo di ricordi. Vecchie glorie squattrinate che palesano difetti tipicamente umani amplificati dai loro poteri. Per adattarsi sono costretti a sopravvivere in un covo che più che altro sembra uno scantinato, di cui non riescono neanche a pagare l'affitto. Mentre sognano di ritornare in auge, divengono preda dei loro difetti che non sanno più dominare; triste eredità della loro forzata inattività che li ha sprofondati nell’apatia.
Detto così sembra un dramma, ma come dicevo, Alessandra li presenta in una chiave edulcorata per farne delle macchiette assolutamente esilaranti. L’autrice, come il deus ex machina di una tragedia greca, arriva nei panni di una eroina neofita ed inesperta che presenta a tutti un'occasione di riscatto dallo stato di misera accettazione. Lei è Super Chic, una eroina partorita dai social; Alessandra la trasforma in una parodia che neanche troppo velatamente denuncia e schernisce il mondo del web, dove dei semplici “nessuno” con espedienti risibili si affermano sulla rete conquistando l’attenzione di migliaia di followers.
È proprio questa la chiave di Alessandra, che con la sua Super Chic tenta di aumentare la visibilità e notorietà, poi di far ritornare alla loro fama questi poveri dimenticati, formando con loro i “Super 5”, nome più adatto ad una band musicale dance degli anni ’70 che non a dei supereroi.
Divertendoci con questa spassosissima proposta, mette a nudo senza calcare troppo la mano, la dipendenza del mondo moderno nei confronti dei social. Tema estremamente contemporaneo e preoccupante, soprattutto quando regala notorietà in breve tempo e la toglie altrettanto velocemente.
Tra le tante risate, le battute, le gag divertenti, spiccano le buffe tutine in lycra, nascoste da pigiamoni e parannanze indossate da questi improbabili supereroi con fisici non propriamente statuari (donne a parte, Beatrice e Alessandra sono davvero deliziose, anche se buffe). Li troviamo impegnati in faccende domestiche e in puerili litigi tra una ripicca e l’altra che divertono molto, mentre vivono però una vita che ha poco di super e molto di mediocre. Sono ex-supereroi molto diversi sia per carattere che per poteri, e si impegnano alacremente in folli situazioni per divertire il pubblico, che ride molto. Paradossalmente, l’entrata in scena di Super Chic dimostra il rovesciamento dei valori del mondo di oggi, dove i supereroi sembrano essere gli influencer, persone senza formazione particolare che riescono a raggiungere la notorietà mentre tanti con notevoli competenze tecniche e artistiche rischiano ogni giorno l’oblio o fanno fatica ad affermarsi.
Due diverse generazioni si fronteggiano scatenando risate in una sequela di situazioni oltremodo esilaranti. Ma sta per accadere qualcosa di imprevisto che coinvolgerà questi malconci e improbabili eroi: la terra deve essere salvata da una terribile minaccia. Riusciranno Big Mind (Gianni Ferreri), Fast Man (Giuseppe Cantore), Strong Man (Enzo Casertano), Electric Girl (Beatrice Fazi) e Super Chic (Alessandra Merico) nella loro doppia impresa? Riusciranno a tornare eroici e a salvare la terra?
I nostri si muovono in una fantastica scenografia che ripropone il loro covo-abitazione futuristico ma piuttosto sgangherato ed impolverato come la loro fama, realizzata con attenzione meticolosa nei dettagli. Un monitor viene utilizzato sia come TV per i notiziari che tengono informati i nostri, sia come supporto per la storia. Qui il pubblico può seguire dei video con spezzoni di film famosi in tema con la storia, o delle animazioni con i nostri personaggi animati ben realizzati ed originali. Ingegnosi effetti scenici permettono ai protagonisti di sollevare oggetti molto pesanti, usare il teletrasporto, produrre scariche elettriche e tanto altro. Davvero esilarante. Qualcosa di veramente innovativo sia per le pièce a cui Alessandra ci ha abituato, che per il teatro. Luci, effetti scenici e musiche tratte da film su questo genere completano il resto.
Il cast, neanche a dirlo, è sempre padrone del palco, non vacilla neanche davanti a qualche piccolo problema tecnico; anzi, dimostra un grande spirito di adattamento che questi magnifici artisti, diretti dalla impeccabile regia di Luigi Russo, hanno.
Sono spassosissimi, la triade maschile che volutamente sottolinea la propria provenienza partenopea è qualcosa di travolgente. Insieme sono fantastici, esplosivi: battute azzeccate, trovate originali, tanta espressività e gestualità ispirata al teatro partenopeo. Quanto alla coppia femminile, Alessandra entra in scena con un vestitino delizioso che la fa sembrare una Winx, burrascosa ed eccentrica, buffa e divertente. Beatrice interpreta un doppio ruolo e ancora una volta dimostra tutta la sua versatilità artistica nei panni di due caratteri in antitesi tra loro seppur con dei punti in comune. Lei è Electric Girl, figlia d’arte di un altro noto eroe Marvel, ma ha una scarsa dimestichezza dei suoi poteri che perlopiù agiscono in maniera nefasta sugli impianti elettrici.
Insomma, un soggetto che fa riflettere nelle vesti di uno spettacolo brillante che alla fine raggiunge, attraverso una progressiva escalation, l’apice del divertimento. Brioso, ricco di idee, impetuoso, trascinante, irresistibile, comico. Avrete modo di divertirvi insieme agli attori, visibilmente entusiasti di interpretarne i protagonisti.
“Super” di Alessandria Merico, regia Luigi Russo
Con Alessandra Merico, Beatrice Fazi, Giuseppe Cantore, Enzo Casertano e Gianni Ferreri
Posso senza dubbi dire che è stato un Festival degno della migliore Venezia e del miglior cinema. Straordinari i film, gli interpreti, le storie e gli abiti che hanno scintillato lungo tutto il percorso. Do’ un voto altissimo a Peter Weir che sdrammatizza e fa leggerezza con l’eleganza strepitosa e l’impeccabile Borsalino.
Bellissimo ed elegante Seydou Sarr. Sconvolgente il rosso-napoletano di Cristina Donadio; sorprendente e ammaliante Stella Maxwell in un bianco sirena meraviglioso com’è meraviglioso il tailleur severamente femminile di Anna Foglietta. Buca lo schermo Kasia Smutniak e lascia senza fiato! Buca anche il rosa dell’abito di Almodovar e la colata d’oro fuso su Julianne Moore, oltre all’abito di polvere lieve di Tilda Swinton; affascina l’animalier Balenciaga luxury della Huppert che poi esploderà nel bianco luminosissimo, sarà il faro della serata celebrativa. Ma vengo ai Premi: il Leone d’oro dell’81º Festival del cinema di Venezia è andato a The room next door, di Pedro Almodóvar, protagoniste Julianne Moore e Tilda Swinton; adattamento cinematografico del romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez, primo lungometraggio in inglese del regista spagnolo. Il Leone d’argento per la miglior regia per The Brutalist è andato al regista statunitense Brady Corbet. Vincent Lindon e Nicole Kidman hanno vinto i premi come migliore attore e migliore attrice; la Coppa Volpi è andata rispettivamente per Jouer avec le feu e Babygirl. Il Gran premio della giuria è andato a Maura Delpero per Vermiglio (una coproduzione italo-franco-belga), mentre quello per la miglior sceneggiatura lo hanno vinto Murilo Hauser e Heitor Lorega per Ainda estou aqui, con la regia di Walter Salles.
Il Premio speciale della giuria è andato ad April, di Dea Kulumbegashvili - coproduzione franco- georgiana. The new year that never came, di Bogdan Mureșanu, ha vinto il premio come miglior film della sezione Orizzonti, dedicata a film e corti rappresentativi di nuove tendenze estetiche, mentre il Premio Marcello Mastroianni, che viene assegnato a un attore o un’attrice emergente, è stato vinto da Paul Kircher per Leurs enfants après eux; il Premio Leone del futuro per la miglior opera prima è stato assegnato a Familiar Touch di Sarah Friedland, che ha anche vinto il Premio Orizzonti per la migliore regia. Isabelle Huppert ha presieduto la Giuria, l’attrice francese che per ben due volte è stata vincitrice della Coppa Volpi come miglior attrice, oltre che del Leone d’oro alla carriera.
Componenti la giuria: il regista italiano Giuseppe Tornatore, l’attrice cinese Zhang Ziyi e una serie di altri registi e sceneggiatori: il britannico Andrew Haigh (il suo ultimo film è Estranei, dell’anno scorso), la polacca Agnieszka Holland, il mauritano Abderrahmane Sissako e la tedesca Julia von Heinz. La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ha visto scintillare il Lido di Venezia; è organizzata dalla Biennale di Venezia, tra le più importanti istituzioni culturali europee. Il Festival (come la si chiama) è il più antico festival cinematografico del mondo – fu fondato un paio d’anni dopo gli Oscar, che sono però solamente premi, non prevedono, come per i festival, la proiezione dei film e il coinvolgimento allargato.
Il nostro è il più importante Festival, secondo solo a Cannes. Quanto al film di Almodovar: vede due antiche amiche, sempre estremamente franche, mai dette mezze verità: Ingrid è una scrittrice di successo il cui ultimo libro racconta la sua incapacità di capire e accettare la morte. Martha, una corrispondente di guerra affetta da un tumore alla cervice, forse curabile con una terapia sperimentale, ma, al momento intenta a prepararsi all’idea della morte, finanche di procedere con la pillola acquistata sul dark web. Infastidita dall’idea di morire da sola, chiederà ad Ingrid di accompagnarla quando deciderà di abbandonare la vita. In questo suo primo lungometraggio in inglese, il regista Almodovar sebbene affronti di petto lo scabroso tema, condisce poi il tutto con un grande pudore e una magistrale misura di ironia e leggerezza, Per quanto il tema della nostra impermanenza, la scelta di dire adesso basta siano difficilissimi, il regista spagnolo compone pagine nitide e rigorose riuscendo anche a mettere a confronto le due straordinarie attrici: Julianne Moore e Tilda Swinton, utilizzando finanche al meglio le loro differenze (l'una piccola e tenera, l'altra alta e algida).
Peculiare è il personaggio di Martha che è una donna che non ha mai aderito al modello di femminilità corrente, di fatto va in guerra come un uomo e non la vedremo fare ciò che ci si aspetta da una madre, insomma è una donna che non ha aderito ai canoni normalmente associati al suo genere. Le musiche di Alberto Igleasias, ricche di archi e di reiterazioni ossessive, caricano il pathos, la magnifica fotografia è di Eduard Grau. E’ un film denso di cultura letteraria, pittorica, musicale, cinematografica pur restando fedele ai volti e ai vissuti delle due protagoniste che pare non abbiano mai fatto uso di chirurgia estetica.
Weir |
E’ il Festival cinematografico che nello storico Palazzo del Cinema, sul Lungomare Marconi, si celebra al Lido e nella Laguna di Venezia. Manifestazione cinematografica più antica al mondo, vide la prima edizione tra il 6 e il 21 agosto del 1932. La Mostra del Cinema di Venezia va inquadrata nella più vasta attività della Biennale di Venezia, istituzione culturale fondata nel 1895 che, a far data da quell’anno, organizza l’Esposizione Internazionale d’Arte Contemporanea e dal 1930 il Festival Internazionale di Musica Contemporanea. E’ il Leone d’oro il Premio più importante che viene assegnato, onora il simbolo della città, ossia il Leone di San Marco. La critica internazionale lo classifica tra i più importanti Premi del mondo assieme alla Palma d’oro di Cannes e l’Orso d’Oro di Berlino. Ogni anno a Venezia si contano ben 140 Titoli proiettati tra lungometraggi, documentari e progetti speciali. In questo anno siamo all’81esima edizione dacchè la pensò il Conte Giuseppe Volpi insieme allo scultore Luciano De Feo (già fondatore dell’Unione Cinematografica Educativa-a quel tempo direttore dell’Istituto Internazionale per la cinematografia educativa, emanazione della Società delle Nazioni con sede in Roma) che sposò l’idea di svolgere al Lido di Venezia la rassegna e ne divenne il primo direttore-selezionatore. Quella 1^ edizione si tenne sulla terrazza dell’Hotel Excelsior; non vi fu competizione, solo la presentazione delle opere al pubblico e vantò titoli di grande importanza per la Storia del Cinema: “Proibito” del grande regista cinematografico Frank Capra, il primo Frankenstein di James Whale, Gli uomini, che mascalzoni di Mario Camerini, A me la libertà di Renè Clair e via ancora con tanti grandi registi del calibro di: Raoul Walsh, Ernst Lubitsch, Maurice Tourneur, Anatole Litvak e ancora. Le stars presenti: Grata Garbo, Clark Gable, James Cagney, Ioan Crawford, Jonh Barrymore, Leretta Young, i grandi Vittorio De Sica e Boris Karloff (passato alla storia per aver interpretato il mostro del
primo Frankenstein). Il primo film proiettato? Il dottor Jekill (Dr. Jekill and Mr. Hyde) di Rouben Mamoulian - nella sera del 6 agosto 1932. Alla proiezione seguì un grande ballo nei saloni dell’Hotel Hexcelsior. Il primo film italiano? Gli uomini, che mascalzoni di Camerini alla sera dell’11 agosto. Mi fermo alle luci
della prima edizione per fare un salto fino al 2024 in cui trionfa un glamour scintillante che mi fa pensare subito ed insistentemente ad una rinascita del Cinema nella forma e modi dei migliori tempi. Da quel lontano 1895, quando i fratelli Lumière inventarono la macchina magica, l’immaginazione del mondo è andata esplodendo grandemente e il cinema è diventato uno dei massimi miti dell’epoca contemporanea che neppure la soverchiante luce dei cellulari e dei tablet riesce a scalfirne la magnifica luminescenza. E’ il Cinema ad aver fotografato, da sempre, rivoluzioni e catastrofi, da sempre ha prestato volti e gesti agli eroi della storia e della letteratura incarnando ogni tipo di storia possibile.
Il Cinema è un rito che incanta ancora, è arte della luce e delle ombre che affascina e continua a segnare il costume e i comportamenti fino ai modi di pensare e a plasmare nuove forme sempre più sfaccettate del sentire, facendo tutto con più pregnanza che qualunque altro strumento espressivo. Il Cinema compone altre realtà, disegna fantasmi che entrano nelle nostre vite e fa diventare nostri familiari attori che non abbiamo mai conosciuto personalmente. Il cinema ci affranca dalla noia e fa battere più forte il cuore, accelera i battiti della vita in noi e tutt’attorno a noi. Nutre la nostra fantasia il Cinema e ci porta le storie dall’altro emisfero del pianeta, alla nostra umanità aggiunge l’umanità di altri, da noi lontanissimi, che piano piano vengono a comporre -incredibilmente- la nostra memoria e aggiungendo colori, arditezza e possibilità finanche ai sogni. Sa far passare davanti ai nostri occhi tutto il possibile e l’impensabile, nella tragedia e nella violenza, nel crudo e nel soave, il fantascientifico si fa profetico e lo storico rivela verità taciute. Insomma muove tutte le nostre emozioni, soprattutto quelle che non potremmo mai provare poiché quelle circostanze non accadranno mai nella nostra vita…allora il cinema aumenta il numero di vite vissute? In qualche modo, si. Espande il tempo, moltiplica la meraviglia, ci fa vivere la realtà d’un sogno. Vale la pensa, dunque, guardarlo anche nello scintillìo di questa edizione spettacolare e grandiosa, diretta da Alberto Barbera il quale ha dichiarato: Arte, spettacolo e industria in uno spirito di libertà e dialogo con una sezione dedicata alla valorizzazione di operazioni di restauro di film classici per contribuire a una migliore conoscenza della storia del cinema, in particolare a vantaggio del pubblico dei giovani. I film vengono proiettati nella lingua originale con i sottotitoli in italiano e inglese. I Premi saranno assegnati nella serata conclusiva del 7 settembre, intanto il Leone d’Oro alla carriera è andato a Peter Weir (1944, Sydney, Australia), regista e sceneggiatore australiano (L’attimo fuggente, The Truman Show, Master & Commander) che della Mostra di Venezia ha dichiarato: è nell’immaginario di coloro che fanno il mestiere del cinema. E Alberto Barbera di Lui: cinema audace, rigoroso e spettacolare in cui c’è la costante di una sensibilità che gli consente di affrontare tematiche eminentemente moderne, come il fascino per la natura e i suoi misteri, la crisi degli adulti nelle società consumiste, le difficoltà dell’educazione dei giovani alla vita, la tentazione dell’isolamento fisico e culturale, ma anche il richiamo degli slanci avventurosi e l’istinto della salutare ribellione…un percorso artistico che ha saputo conservare la sua integrità di fondo sin dentro il successo commerciale dei film realizzati…”. ll Premio Cartier Glory to the Filmaker - dedicato a una personalità che abbia segnato in modo particolarmente originale il cinema contemporaneo- va a Claude Lelouch (1937, Parigi, Francia) (Un uomo, una donna; Una donna e una canaglia; La belle histoire)- grande regista, sceneggiatore e produttore francese; il premio gli è stato consegnato ieri, 2 settembre, in Sala Grande-Palazzo del Cinema, prima della proiezione Fuori Concorso del suo nuovo film, Finalement. Lelouch è regista ambizioso i cui film illustrano le più grandi passioni dell'uomo: l'infanzia, gli incontri, l'amore, l'amicizia, i rischi, l'ingiustizia, la morte, la reincarnazione, il ritorno a casa, i viaggi...Il cinema è sempre stato per lui una storia d'amore, un elemento indissolubile dalla vita stessa.
Alberto Barbera, di Claude Lelouch ha detto: è uno dei maggiori autori del cinema francese, molto prolifico, avendo diretto oltre sessanta lungometraggi. Cinefilo precoce, autore di corti e video musicali, direttore della fotografia, sceneggiatore, attore e produttore, raggiunge il successo internazionale nel 1966 con il film Un uomo, una donna (Un homme et une femme) vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes e di due Premi Oscar nel 1967, come miglior film straniero e per la migliore sceneggiatura originale. La colonna sonora di Francis Lai diventa refrain leggendario di un'epoca- “Chabadabada” è stata canticchiata da un’intera generazione e fa parte del mito musicale del cinema. Lelouch segna in modo indelebile il cinema, soprattutto incontrando il gusto e il favore del pubblico. Autore anomalo e
Lelouch |
inclassificabile, predilige la contaminazione dei generi (drammi, commedie, polizieschi, film d’avventura e western, fantascienza e musical, film di guerra e d’ambientazione storica), le cui convenzioni non esita a scompaginare ricorrendo a strutture narrative e temporali irrituali. Restano indimenticabili alcuni suoi successi come L'avventura è l'avventura (L'aventure, c'est l'aventure, 1972), Una donna e una canaglia (La bonne année, 1973), Una vita non basta (Itinéraire d'un enfant gâté, 1988), La belle histoire (1991), modelli di un cinema stilisticamente sofisticato, sensibile ai temi melodrammatici e alla commedia corale, dalla proverbiale capacità affabulatoria.
E’ tecnicamente all'avanguardia il cortometraggio L'appuntamento (C'etait un rendez-vous, 1976), 9 minuti di piano sequenza in steadicam sfrecciando su una Mercedes per Parigi, resta un punto di riferimento per chiunque abbia con la macchina da presa un rapporto “fisico”. In oltre 60 anni di attività, Claude Lelouch ha saputo creare con attori e attrici di eccezionale talento – da Anouk Aimée a Jean-Louis Trintignant, da Françoise Fabian a Lino Ventura, da Belmondo a Fabrice Luchini – la geografia moderna di un cinema dei sentimenti…La sua filmografia si estende per oltre sessantaquattro anni, con molti film premiati, tra cui il mitico duo formato da Jean Louis Trintignant e Anouk Aimée, che incarnano -per l’eternità- la coppia romantica. I personaggi di Lelouch sono incredibilmente umani, le sue storie di vita rimangono impresse nella nostra mente, in particolare la sua incrollabile ossessione per le belle storie d’amore. Come farebbe l’Amore, senza Claude Lelouch, a esprimere la sua forza inarrestabile? Dal 2021, Cartier collabora con La Biennale di Venezia quale main sponsor della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, contribuendo allo stesso tempo a sostenere la produzione del cinema contemporaneo. L’arte e la cultura sono sempre state intimamente legate alla storia di Cartier. In questo caso la si basa sugli impegni duraturi della Maison, volti a preservare l’eredità culturale e a sostenere la produzione artistica contemporanea. Oggi che una moltitudine alluvionale di immagini ci arriva da piccoli schermi tra le nostre mani, lo schermo di una sala cinematografica ci restituisce la vera dimensione del Cinema e soprattutto delle storie che ci regala insieme all’atmosfera che si crea solo dinanzi-dentro a quel grande schermo. Ho tanta voglia di dire e lo dico: Evviva il Cinema!
Sulla Torre dell’Orologio è andato in scena il “Melusiando”, su un palcoscenico naturale tra le vette di Orsomarso, a pochi chilometri da Scalea, territorio interno di una Calabria che ha ancora molto da dire e soprattutto da scoprire di se stessa. Orsomarso è lo storico piccolo Comune in cui si è tenuta la 1^ Edizione di “CRIVU Festival dei paesaggi straordinari e delle rive sconosciute” ideato e posto in essere da Monica Marziota e Michele Gerace. Orsomarso è una perla incastonata tra i contrafforti occidentali dell’Appennino calabrese e il Tirreno, dentro la Valle del Fiume Argentino e nel Parco Nazionale del Pollino. Cuore del Mercurion, è stato uno dei maggiori centri del misticismo dell’Italia Meridionale. Monica Marziota, Artista cosmopolita cresciuta tra l’Avana, Toronto, Gran Canaria e Roma, soprano, musicista, performer e musicologa con Michele Gerace, Avvocato, divulgatore scientifico e culturale della Scuola “cento giovani” nonchè Presidente dell’Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l’Occupazione, coppia nella vita col figlio Agostino di soli due anni, che pensano alla roccia, alla rupe, alla verticalità, all’immanenza e alla trascendenza e ne fanno una realtà tutta da vivere e sperimentare dal 2 al 4 agosto, è davvero una notizia. In quella verticalità si è situata la pièce di Antonella Pagano. Si son dovuti salire 115 ripidi scalini per giungere sulla spianata della Torre e poterla ascoltare.
Lassù in cima sorgeva il monastero, proprio come i monasteri delle Meteore in Grecia, a 200 chilometri da Salonicco; oggi il monastero non c’è più, e neppure ci sono più la fortificazione longobarda e la roccaforte romana, si sono anche dissolti i pregevoli affreschi che ornavano l’ultima parete esposta per oltre un millennio ai sette venti, perciò le quinte sono state le lussureggianti montagne mentre il fondale è stato l’illuminata frattura tra quegli orizzonti ricamati. Il “Melusiando” è andato in ridotto su quella spianata per poi andare in integrale nella sottostante Piazza dell’Orologio. E’ lassù, dove il cielo è più cielo e la terra più terra, che la Pagano ha evocato i suoi mentori, gli stessi che hanno suggerito il Festival: roccia, rupe, onda, immanenza, trascendenza, quella che la Pagano chiama la femminil sostanza. Vi convoco tutte! Ha cantato, voi tutte Melusine già invocate da Goethe e Alvaro. Ha auspicato il melusinovivere in verticalità piuttosto che la minimale oriozzontalità. Ha composto un’Ode alla Calabria melusina abbracciata dal Maschile Mediterraneo con tutti i suoi fertili abissi! Ha inneggiato alla Calabria melusina solida d’Appennino, sostanza maschile che l’attraversa.
CalabriamelusinamelusinaCalabriamelusina la sua innamorata litania insieme all’ormai noto Calla bellezza calla Kalos cantate il canto che il vento orchestrò- Calla bellezza calla Kalos canta il canto che il vento cantò! Grazie a questo poetico canto la leggenda s’è incastonata con maggiore significazione tra quelle vette; Melusina, che quel gran Maestro che fu il rivoluzionario Medioevo, da donna-uccello la volle donna-pesce, ha convocato a sua volta tutte l’ardite immortali Melusine…fate d’Acqua, donne or serpenti or draghi! Attraverso queste presenze mitiche la Pagano -drammaturga e interprete- ha inteso dire ai contemporanei che vi sono territori che non tutti possono attraversare, quelli che dividono i due mondi; e che conoscere il soprannaturale è rompere il tabù, è rompere il patto con la divinità.
Occorre di fatto, dirà nella Pièce, che non si approdi casualmente, brutalmente, poiché è indispensabile che prima ci si alleni in tre esercizi, in quei tre termini spirituali e culturali di cui è maestro il Prof. Claudio Strinati: la Conoscenza, il Riconoscimento e la Partecipazione. Solo attraverso quest’umana accurata ‘ginnastica’ si potrà attraversarli rispettosamente, sia i territori fisici che i territori dell’anima. Melusiando, dunque, benchè consapevole d’essere in controtendenza, tenta, suggerisce con parole, musica, testi e nenie la via maestra che sta proprio lì, nella controtendenza. L’interprete, facendosi Melusina, narra del suo castello infinito, che ha stanze su tutti i territori del pianeta e che in questi primi giorni di agosto abita la stanza della Calabria, regione femminile abbracciata da due mari! 115 scalini da salire, in ripida ascesa fino a dominare il susseguirsi di vette per un Teatro che trova il suo palcoscenico più straordinario anche perché vive l’INCONTRO più autentico con la Natura, la Cultura e il possibile Sviluppo.
E’ il palcoscenico dello stare IN: dentro le cose, dentro il mondo, dentro l’Umanità; CON: Tutti e con il Tutto che è magistrale nel bene e nel male; TRA: gli alberi che disegnano i labirinti forestali e i gomitoli di strade e straderelle che s’insinuano in Orsomarso, come in tutti i piccoli paesi di questa Italia delle mille e mille Italie, facendo scoprire, incontrare e percepire i palpiti dei cuori altri e delle anime nuove e antiche. Melusiando è stato scritto in poesia, prosa poetica e musica appositamente per Orsomarso, per il suo peculiare altrove e per l’insieme generato dall’organizzazione che ha coinvolto tanti meravigliosi cuori e luminose anime che hanno fatto crescere il forziere di tesori di quel territorio; Melusiando invita anche ad incontrare l’altrove che sta nel profondo di noi stessi là dove attende che ce ne occupiamo; Melusiando è il canto di gratitudine verso tutta la Bellezza che è data a tutti nella più assoluta delle gratuità.