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Lo chiamavano Jeeg Robot, primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, scritto da Nicola Guaglianone e Menotti, e presentato alla Festa del cinema di Roma, trae spunto dai supereroi americani. Protagonista è Claudio Santamaria, nei panni di Enzo, un introverso e ombroso ladruncolo di borgata, che vive a Tor Bella Monaca. Il contatto accidentale con una sostanza radioattiva procura ad Enzo una forza sovraumana, che inizialmente vuole sfruttare per le sue quotidiane attività criminali. L’incontro con Alessia cambia radicalmente la sua vita e la sua prospettiva. Alessia, interpretata da Ilenia Pastorelli, è una ragazza fragile a causa di un passato difficile, che per sfuggire alla realtà si rifugia in un mondo fantastico, popolato di supereroi. Enzo con i suoi superpoteri si materializza così nel suo eroe preferito:Jeeg Robot d’acciaio. Con l’aiuto di Alessia, Enzo capisce come sfruttare al meglio le sue nuove facoltà, aiutando i più deboli. Ma ogni eroe che si rispetti ha il suo antieroe, che nel film è Lo Zingaro, interpretato da uno straordinario Luca Marinelli, che nell’impronta caricaturale rende credibile il personaggio: un piccolo boss di una banda con velleità da “Padrino”. Nel cast troviamo ancheStefano Ambrogi, Maurizio Tesei e Francesco Formichetti.
Un film originale, onesto, divertente e intelligente, sull’irrealtà del reale. Tra intrattenimento e azione, la storia si dipana in equilibrio lungo un filo sottile, dove l’assurdità diventa credibile.
Claudio Santamaria |
Senza falsi moralismi o ipocrisie, senza gli effetti speciali a cui ci ha abituato il cinema americano, ma concentrandosi e soffermandosi maggiormente sull’indagine introspettiva dei personaggi, la pellicola, attraverso un accurato lavoro di regia e una sceneggiatura mai banale, dipinge con fantasia e realismo il momento storico attuale, riuscendo a raccontarlo con leggerezza e profondità.
Dopo il successo ottenuto con il cortometraggio Tiger Boy, vincitore del Nastro D’Argento 2013, Gabriele Mainetti conferma il suo talento con un film dai connotati internazionali, ma al tempo stesso profondamente e orgogliosamente italiano.
Lo chiamavano Jeeg Robot uscirà nelle sale il 18 febbraio 2016.
Tratto da una raccolta di racconti dell’autrice francese Cécile Aubry, le avventure del piccolo Sébastien e della sua inseparabile amica Belle, un enorme cane simil maremmano, tornano al cinema. Dopo la serie tv e il cartone animato giapponese, dalla Francia è arrivato nel 2013 il live action Belle e Sébastien, applaudito da pubblico e critica. Ma non finisce qui. Per la gioia dei più piccoli e non solo è infatti in uscita per le feste natalizie il sequel: Belle e Sébastien, L’avventura continua. La storia è ambientata un paio d’anni dopo le vicende narrate dalla prima pellicola. La guerra è ormai conclusa e Sébastien vive felice tra le montagne con il nonno e la sua enorme amica a quattro zampe. Insignita di una medaglia al valore per i servizi resi durante il conflitto, Angelina sta per fare ritorno a casa. Sébastien è in fermento e non vede l’ora di riabbracciarla, ma nel giorno tanto atteso Angelina rimane vittima di un terribile incidente aereo, al confine tra Francia e Italia, nel cuore della foresta transalpina. Data per morta dalle autorità locali, Sébastien e il nonno non si rassegnano all’idea di non rivederla più. Decidono così andarla a cercare. Durante la spedizione, Sébastien incontra il burbero Pierre Marceau, che li aiuterà nell’impresa. Pierre in realtà è il padre di Sébastien. La vicinanza obbligata tra padre e figlio, sarà l’occasione per instaurare un bellissimo rapporto.
Dopo il primo film diretto da Nicolas Vanier, ora la palla è passata al canadese Christian Duguay, che prende le distanze dal testo della Aubry, con una sceneggiatura originale. Nuovi personaggi accompagneranno il protagonista, interpretato dal bambino prodigio Félix Bossuet, nella sua avventura. Più azione condita da una maggiore ironia, per una trama che si basa principalmente sul rapporto padre-figlio, dove l’amicizia con l’enorme cane, tema centrale nel precedente capitolo, ora fa da sfondo alla storia. La natura, gli animali, i paesaggi, il valore dell’amicizia, i sentimenti, in un’atmosfera magica da favola, rimangono elementi caratterizzanti e parte integrante del racconto, ma il secondo capitolo si sofferma maggiormente sull’indagine psicologica dei personaggi, in una visione più intima e introspettiva.
Nel cast anche Tchéky Karyo, Margaux Chatelier, Thierry NeuviceUrbain Cancelier, il film è prodotto dalla Radar Films e distribuito dalla Notorious Pictures.
Presentato in anteprima mondiale in occasione dell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, all’interno della sezione Alice nella Città,Belle e Sébastien uscirà nelle sale a partire dall’8 dicembre 2015.
Bestia da Stile di Pier Paolo Pasolini è andato in scena al Teatro Studio Eleonora Duse di Roma dal 9 al 16 Novembre 2015 con la regia di Fabio Condemi, al suo debutto nel saggio per l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Bestia da Stile, un testo autobiografico al quale Pasolini lavorò a più riprese dal 1965 al 1974, rappresenta un’acuta riflessione sulla difficoltà di raccontare i conflitti della modernità e l’impotenza del poeta.
Protagonista della pièce è il giovane Jan Palach, interpretato da un intenso Gabriele Portoghese, doppio del poeta e ispirato allo studente cecoslovacco che si diede fuoco durante la Primavera di Praga. Sul palco, allestito con pannelli trasparenti in movimento su cui vengono incise le parole “Viva lo stile” e “Abbasso lo stile”, scorre la vita di Jan in una Boemia che rappresenta il Friuli. Si ripercorrono così le tappe della vita del poeta: la formazione, la giovinezza, i conflittuali e difficili rapporti familiari, gli ideali politici, le persecuzioni, la guerra, l’invasione sovietica di Praga, la degradazione e dispersione degli affetti. Gli attori ruotano attorno al protagonista, quasi a rappresentare un coro da cui prendono vita alcuni personaggi, parte integrante dell’esistenza di Jan. Il ritmo è scandito da musica, corpo e parole. Si rimane per tutto il tempo con gli occhi fissi sulla scena, colpiti da versi che oltrepassano il palco e giungono allo spettatore, che osserva inerme, come il poeta, il fluire inesorabile della storia. Fuori dalle regole, dalla forma e dallo stile, si va dritti all’essenza della parola stessa, dove la materia si unisce alla forma, afferma e smentisce allo stesso tempo. Realtà e poesia: il significato del verbo emerge con tutta la sua forza e diventa messaggio per chi ascolta. Nell’ombra le figure del padre e della madre. Si rimane colpiti dallo struggente, dissacrante, sarcastico monologo della madre, interpretata con straordinaria bravura e padronanza scenica da Valeria Almerighi. La profezia del tramonto di un’epoca, il ritratto intimo dell’autore, la lucida analisi politica sempre attuale, emergono con estrema chiarezza dalla rappresentazione. Riduttivo definirlo saggio, è uno spettacolo vero e proprio: emozionante, coinvolgente, armonico nei contrasti. Decisamente bravi gli interpreti a rendere il senso profondo di un testo insidioso, oscuro, controverso, con un sottotesto egualmente rilevante, dove la parola è protagonista. La messa in scena riesce a trasmettere, grazie ad una regia acuta, intelligente e sensibile, le emozioni, il cuore lacerato da sentimenti contrastanti, con una passione che va oltre il personaggio che ne è pervaso, creando una profonda empatia con lo spettatore. La parola diviene paradosso, angoscia esistenziale di un corpo diviso dalla sua anima.
Il prossimo 12 Dicembre a Berlino si svolgerà la ventottesima edizione degli Oscar Europei: European Film Awards. L’Italia sarà rappresentata con Paolo Sorrentino, che fa il pieno di candidature, Nanni Moretti e il documentario di Ivan Gergolet “Dancing With Maria”.
“Youth”, il film del Premio Oscar Paolo Sorrentino sul valore della giovinezza e sul trascorrere del tempo, conquista cinque nomination: European film, European director (Paolo Sorrentino), European Actor (Michael Caine), European Actress (Rachel Weisz), European Screenwriter (Paolo Sorrentino). Nanni Moretti è in corsa per la miglior regia con la pellicola “Mia Madre”, che si aggiudica, con Margherita Buy, anche la candidatura come miglior attrice. Sventola inoltre bandiera italiana, nella categoria documentari, “Dancing with Maria” diretto da Ivan Gergolet.
Altre quattro nomination vanno alla commedia surrealista “A pigeon sat on a branch reflecting on existence” (Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza) dello svedese Roy Andersson, nella rosa del premio come miglior regista e sceneggiatore, candidata come miglior film e miglior commedia. Mentre “The Lobster”, diretta dal greco Yorgos Lanthimos, tragicommedia dell'assurdo di fantascienza, sarà tra i candidati al miglior film, miglior regia, sceneggiatura e miglior attore, Colin Farrell.
Il tedesco “Victoria”, diretto da Sebastian Schipper, ha ottenuto le nomination come miglior film, miglior regia e miglior attrice, la spagnola Laia Costa.
Le altre opere in corsa per la miglior pellicola europea sono: l'islandese “Hrútar” (Rams) di Grímur Hákonarson; la franco-turca “Mustang”, debutto di Deniz Gamze Ergüven. La miglior commedia andrà invece ad una delle seguenti opere: la francese "La famiglia Bélier" di Eric Lartigau e la belga “Dio esiste e vive a Bruxelles”, diretta da Jaco Van Dormael.
Fra i registi, oltre Moretti e Sorrentino, è candidata anche la polacca Malgorzata Szumowska per “Cialo” (Corpo). Il premio miglior attore sarà conteso tra Michael Caine (Youth), Colin Farrell (The Lobster), Tom Courtenay (45 anni),il francese Vincent Lindon (La legge del mercato) e Christian Friedel (13 minuti). Tra le migliori interpreti femminili: Laia Costa (Victoria), RachelWeisz (Youth), Charlotte Rampling (45 anni), Margherita Buy (Mia madre) e Alicia Vikander (Ex Machina).
Queste le candidature. Ora non resta che aspettare la data del 12 Dicembre per sapere chi saranno i vincitori degli European Film Awards.
È uscito il 5 Novembre al cinema Alaska, il nuovo lavoro di Claudio Cupellini con Elio Germano e l’attrice francese Astrid Bergès Frisbey, nota al grande pubblico per aver vestito ipanni della sirena Serena nel film “Pirati dei Caraibi: oltre i confini del mare”.
La pellicola, girata tra Francia e Italia, è stata inserita nella selezione ufficiale della decima edizione della Festa del Cinema di Roma. Ambientato a Parigi, il film racconta la storia dell’amore disperato e tormentato tra Fausto, un cameriere italiano che lavora in un hotel di lusso, e Nadine, una ventenne aspirante modella. I due ragazzi si conoscono sulla terrazza di un albergo della “Ville Lumière”. Un tragico avvenimento porterà ad un susseguirsi inarrestabile di eventi, che vedrà i due giovani perdersi, ritrovarsi, soffrire e amarsi. Dopo aver provato l’esperienza del carcere, Fausto imboccherà la strada del crimine mettendo in piedi, con un socio, un locale alla moda chiamato Alaska. Nadine, dal canto suo, è ossessionata dall’incessante inseguimento di un sogno da vivere. Un amore difficile, una passione travolgente, un futuro troppo lontano, tra inseguimenti, fughe e avventure, si racconta una storia d’amore epica, mostrando uno spaccato della nostra società.
Diretto da Claudio Cupellini, regista di “Lezioni di cioccolato” e della serie “Gomorra”, Alaska è un film romantico, con echi drammaturgici del romanzo di formazione, su un amore in fuga, che avanza oltre ogni limite, impetuoso e incontenibile, travolge ogni singolo attimo, tra sofferenze, sogni infranti e un futuro inafferrabile, sui contorni indefiniti di una favola che sfuma tragicamente e inevitabilmente nella realtà.
I protagonisti, affamati di vita, si rendono lentamente conto dell’importanza dei sentimenti. Due cuori alla deriva, apolidi, soli, alla disperata ricerca di un luogo sicuro, di una felicità che sembra irraggiungibile, in una sorta di corsa all’oro che li metta in salvo dal vuoto delle loro fragili esistenze.
Reduce dal successo de “Il giovane favoloso”, ritroviamo Elio Germano in splendida forma affiancato dalla bellezza eterea di Astrid Bergès Frisbey, una delle stelle più promettenti del cinema francese. Nel cast anche Valerio Binasco, Elena Radonichich, Antoine Oppenheim e Marco D’Amore, protagonista della serie televisivaGomorra.
Il film, scritto dallo stesso regista insieme aFilippo GravinoeGuido Luculano, è prodotto da Indiana Production Company con Rai Cinema, in coproduzione con la francese 2.4.7. Films, e realizzatocon il sostegno della Bls - Film Fund & Commissione dell’Alto Adigee ilcontributo del MiBACT(Interesse Culturale).
Le “dee indiane arrabbiate” (“Angry indian godesses”), belle ragazze, modelle e fotografe che vivono nel mondo della moda e che disdegnano gli approcci maschili perché non vogliono sentirsi trattate da oggetti, rappresentano una già vista parodia del marketing. Snobbano tutte le sfaccettature del facile successo perché si sentono bellissime ed originali, ma non ne sanno fare a meno. I loro discorsi sono scontati e, aldilà di qualche piccola gag, il film risulta una commedia mediocre. Evidentemente il pubblico italiano del 2015 desidera la commedia facile a lieto fine e non vuole saperne di implicazioni intellettuali e di enigmi da risolvere per capire una storia. Peccato che i registi italiani siano quasi tutti di quest’ultima tendenza. Bisogna scegliere quindi un film che non sia italiano se si vogliono fare delle spensierate risatine.
Ma non c’è bisogno di essere banali per affascinare il pubblico che non vuole impegnare il cervello. Basta guardare il delicato humour di “Distancias cortas”, una commedia messicana che affronta il tema dell’isolamento e della bruttezza fisica con molta ironia ma con molto buon senso. Il regista è Alejandro Guzman Alvarez ed il protagonista (Fede) è il bravissimo Luca Ortega. Fede è gravemente obeso ma prende con filosofia il suo stato disagiato che gli impedisce di uscire, di muoversi, persino di allacciarsi le scarpe. E quando vede la macchina fotografica di suo cognato desidera uscire dal suo torpore che lo ha rinchiuso in casa per tanto tempo. Le fotografie sono il contatto con l’esterno, e spingono la sua curiosità verso una vita nuova. Fa amicizia con il commesso del negozio di foto, ragazzo apparentemente diversissimo da lui, un punk dalla vita scombinata ma inaspettatamente generoso e disponibile. Il film, con pochi attori e poche ambientazioni riesce ad essere veloce, essenziale e gradevole allo stesso tempo e trasmette un chiarissimo quanto profondo messaggio di umanità e sensibilità senza inutili intellettualismi. Originale nella trattazione, è ottimo, da non perdere.
Drammatico, ma fino a un certo punto, e con qualche piccolo tratto di humour, è il film “La delgada linea amarilla”, del regista messicano Celso R. Garcia. La storia comincia con una triste situazione: un guardiano viene licenziato e sostituito con un cane. Ma il problema della disoccupazione e della solitudine non è il nocciolo della storia: ben presto viene sostituito da sentimenti come la solidarietà, la correttezza, la sincerità. Originale il soggetto, che tratta di una avventura di operai della strada che vengono assunti per tracciare una linea gialla di mezzeria , lunga 200 km, nella strada che collega due città. I protagonisti provengono da storie molto diverse e in queste due settimane di lavoro in cui si trovano spesso a fronteggiare spiacevoli imprevisti ed arrabbiature creano dei rapporti umani molto profondi, come la solidarietà e la correttezza. Allora si risvegliano le speranze e i desideri che stanno nel cuore di ogni persona, ed anche brevi momenti di sogno e di felicità. La fine non è scontata: un muro di antiche incomprensioni tra padri e figli viene abbattuto. Film da non perdere.
A proposito del rapporto tra padri e figli, in un ambito di isolamento, il film – documentario “The Wolfpack”, della regista statunitense Crystal Moyselle, racconta la strana storia , vera, di una famiglia in cui sette figli sono costretti da un padre dispotico a vivere segregati in una casa, a New York. Il padre, peruviano e convertito hari krishna , pensa che la sua famiglia non debba subire le impure contaminazioni della metropoli. Ma poi anche lui si ubriaca ed è un violento. La storia è paradossale ma vera ed il documentario ci illustra come questi sette fratelli riescano a conoscere tutto ciò che avviene al di fuori della loro casa soltanto attraverso la televisione e i film.
Il tema dell’isolamento si presenta anche nel film “Room”, del regista irlandese Lenny Abrahanson. Strana storia, quella di una giovane madre con il suo bambino (Jack) che vivono segregati in un capanno per cinque anni, vittime di un rapimento. Ed il bambino non conosce né il mondo esterno né le parole di quel mondo. Conosce solo il lavandino, il lucernaio, il letto e l’armadio. E in quell’armadio si rifugia quando Old Nick (il sequestratore) si mette a letto con la sua mamma. Quando mamma e figlio riescono a scappare da quell’orrido squallore, oltrepassando quella porta blindata con il codice, Jack vede meravigliato il sole, gli alberi ed un intero mondo mai visto prima, con oggetti di cui paradossalmente non sa il nome. Molto lento e poco chiaro nella prima parte, il film riesce a snellirsi e a spiegare il suo significato solo dopo una buona mezz’ora. Ma forse è proprio quella l’intenzione del regista: un’ostinata illustrazione della violenza e della costrizione all’isolamento in un luogo squallido. Molto interessante.
Sempre a proposito del rapporto tra padri e figli, il film “Amama, When a tree falls”, del regista spagnolo Asier Altuna, racconta una storia ambientata in una fattoria rurale nei Paesi Baschi. E’ la storia di una famiglia, del conflitto tra campagna e città, tra passato e presente, genitori e figli, attaccamento alla tradizione e modernità. Ad ogni componente della famiglia viene associato un albero : e questa piccola superstizione è il filo conduttore del film.
Anche il film “Ville Marie”, del regista canadese Guy Edoin, racconta della spaccatura tra madre e figlio. Lei, un’attrice famosa, interpretata da una inedita Monica Bellucci, va a Montreal per le riprese di un film ed approfitta per rincontrare suo figlio, il quale non è mai riuscito a conoscere la vera identità del padre. La verità è nel film che lei sta girando. La sceneggiatura appare costruita in modo posticcio e lo svolgimento dei fatti risulta frammentario. Inoltre Monica Bellucci , trasformata in una bionda con gli occhi neri, non sembra affatto un personaggio azzeccato né disinvolto.
E che dire dei genitori perduti e ritrovati? Nel film brasiliano “Campo Grande”, (Sezione “Alice nella Città”) di Sandra Kogut, due bambini vengono abbandonati dalla madre alla fermata di un autobus, vicino alla casa di una signora benestante, Regina (Carla Ribas). Regina cerca di accogliere in casa sua questi due bambini piuttosto irrequieti, che si ostinano ad aspettare la loro mamma. Dopo vari tentativi di lasciare i due fratellini in un orfanotrofio decide di ospitarli e di aiutarli a cercare la loro mamma. Ma la mamma non arriva mai. Un giorno Regina si trasferisce, lasciando l’appartamento. Dopo qualche giorno una ragazza suona al citofono di quell’appartamento, dicendo di essere la figlia di una donna di servizio che aveva lavorato da Regina…. Non è chiaro, all’inizio, come si incontrano Regina e i due bambini. E non è chiara la fine. Il film è abbastanza interessante ma poco chiaro in molti punti.
“Spotlight” , film del regista americano Tom Mc Carthy, presentato in settembre al 72mo Festival del Cinema di Venezia , fuori concorso, racconta la storia vera di una inchiesta svoltasi in merito agli abusi che i preti cattolici hanno praticato su molti minorenni, a Boston, la città con il più alto numero di cattolici negli Stati Uniti,.
Il film si ispira al Watergate cattolico del 2002: una lunga serie di abusi perpetrati da molti preti su decine di minori a Boston. Un abominio che è andato avanti per decenni, sempre accuratamente nascosto, prima che arrivasse un’inchiesta giornalistica del “ The Boston Globe” a scoperchiare lo scandalo. L’indagine fece vincere al quotidiano il premio Pulitzer di pubblico servizio nel 2003.
Furono scritti più di 600 articoli per raccontare le oltre 1000 violenze subìte dai bambini e mai venute fuori fino allora. Il profilo delle vittime era sempre lo stesso: quasi tutti provenivano da famiglie povere, con padri e madri assenti e tanto disagio. Quello che subirono fu un abuso fisico ma anche spirituale. I bambini erano smarriti e non sapevano a chi rivolgersi , le loro famiglie non erano in grado di comprendere e facevano quello che i preti volevano fosse fatto.
Nel film l’inchiesta è condotta da alcuni intrepidi giornalisti del quotidiano “The Boston Globe”, fortemente determinati a scoprire i segretissimi ed occultati carteggi relativi ai numerosi abusi sessuali perpetrati dai preti cattolici nei confronti di molti minorenni.
I giornalisti, protagonisti assoluti del film sono decisi a rivelare quello che per trent’anni era accaduto nell’omertà generale: la pedofilia tra i preti di Boston e soprattutto lo scandalo della copertura della Chiesa. Un giorno scoprono che anche il direttore di redazione , Walter Robinson, (interpretato da Michael Keaton) aveva già avuto tra le mani materiale che avrebbe potuto far scoppiare il caso anni prima, ma trascurò la cosa. Così come le alte sfere hanno taciuto e le vittime hanno preferito non denunciare.
Questo straordinario gruppo di giornalisti investigativi, aggregati sotto il nome di “Spotlight” riesce a raccogliere prove contro settanta preti pedofili e a dimostrare che da parecchio tempo esisteva la pratica diffusa in base alla quale, quando il vescovo di Boston, Bernard Francis Law, veniva a sapere di denunce fatte dalle famiglie dei ragazzini abusati, patteggiava con i familiari un rimborso, spostava di parrocchia il religioso colpevole, per poi rimetterlo, dopo poco tempo, al suo posto. Senza mai prendere provvedimenti drastici contro il prete pedofilo.
In una città in cui regna il falso perbenismo e in cui si nascondono i misfatti di quelli che dovrebbero essere i portatori della religione cattolica l’inchiesta di qualche giornalista è scomoda per qualcuno ed è un’ impresa veramente ardua che incontra sbarramenti sin dall’inizio: dalle perplessità del capo redazione alle reticenze dell’avvocato che ha trattato tutti i casi. Per non parlare dell’incredulità iniziale della popolazione. I giornalisti infatti si scontrano spesso con numerosi e invisibili ostacoli sociali, politici e burocratici, rappresentati da rinomati avvocati che hanno scelto, sotto scambio di denaro, di nascondere e non denunciare e da familiari che chiudono le porte, impauriti e reticenti.
Per non parlare del cinismo di alti esponenti della Chiesa Cattolica, che, come se niente fosse, fingono che non sia mai successo niente, sprezzanti dei diritti umani e della dignità delle persone che hanno subìto le conseguenze negative dei loro misfatti. Paradossale è anche la loro pretesa di voler insegnare il bene alla comunità.
Tutto parte dalla coraggiosa testimonianza di un giovane che si presenta in redazione deciso a raccontare, finalmente dopo tanti anni, le violenze subìte da bambino, da parte dei preti: fatti che lo avevano disastrosamente scioccato e che lui non aveva mai avuto la forza di raccontare a nessuno. I giornalisti, strabiliati, pensano subito ad un grosso scoop ma contemporaneamente desiderano portare un prezioso servizio alla società, mettendola al corrente dell’esistenza di inquietanti verità.
Dopo la pubblicazione di centinaia di fascicoli colmi di testimonianze di orrori e violenze – anche su bimbi di 10 anni - , nel 2004 il cardinale Bernard Francis Law , arcivescovo di Boston dal 1984 al 2002, fu costretto a dimettersi in seguito allo scandalo per avere sempre fatto insabbiare i fatti e per non aver mai denunciato pubblicamente novanta sacerdoti dei quali quasi sessanta furono costretti poi a lasciare l’incarico. Law venne incredibilmente trasferito a Roma, alla Basilica di Santa Maria Maggiore, da Giovanni Paolo II. E tuttora vive lì indisturbato, a 6437 chilometri dai brutti ricordi.
Non sono mai state erogate delle vere e proprie sanzioni penali, come accade invece per tutti i cittadini che commettono un reato.
“Spotlighi” è un film cinematograficamente molto efficace perchè è sorretto da un cast di attori perfettamente aderenti al ruolo e perché afferma un dato di fatto incontrovertibile: la Chiesa Cattolica, grazie ad alcuni suoi esponenti collocati ai più alti livelli della gerarchia, ha creduto di salvare la fede dei molti nascondendo la perversione di pochi. Ha invece ottenuto l’effetto contrario creando il sospetto nell’opinione pubblica.
Thomas Mc Carthy presenta un film di denuncia, che è anche un omaggio al giornalismo di inchiesta perché vuole riconoscere importanza al giornalismo investigativo. Il film è veloce, d’azione, senza inutili esitazioni, ma essenziale, pregnante e ben costruito. E soprattutto racconta scottanti verità.
Jolanda Dolce
Tra i più interessanti film del 72mo Festival del Cinema di Venezia, è senza dubbio “Marguerite”, del regista francese Xavier Giannoli. E’ interessante perché è romantico senza stancare.
Marguerite Dumont (la bravissima attrice Catherine Frot) è la protagonista assoluta del film, che è ambientato negli anni ’20, periodo delle grandi rivoluzioni culturali e delle ribellioni alle regole.
Elegante, affascinante e ricca signora cinquantenne, Marguerite Dumont vive con il marito (interpretato da Andrè Marcon) in un castello nei pressi di Parigi. Appassionata di musica, Marguerite ama cantare e dedica alla musica ogni sua energia. Ma sfortunatamente non si accorge di essere stonata. Quando canta lo fa con tale passione e con tale comunicativa che sembra un peccato interromperla.
Il marito la ama molto, la capisce e cerca di accontentarla sempre, ma non trova mai il coraggio di dirle che è stonata.
Lei crede così tanto nelle sue doti da non rendersi minimamente conto che non è affatto dotata. Guardando quei suoi occhi grandi, teneri e sognanti, quasi smarriti, nessuno riesce a dirle la verità.
Marguerite tiene concerti nei salotti tra un gruppo di amici e conoscenti che la ascoltano incuriositi e per educazione fingono di apprezzarla e la applaudono. C’è sicuramente una buona componente di ipocrisia dell’ambiente “bon ton”, che preferisce applaudire sorridendo falsamente piuttosto che affrontare una spiacevole verità.
Dopo qualche tempo i cari “amici” si allontaneranno ed escluderanno la coppia Dumont dal loro giro. E, a parte gli apprezzamenti di uno stravagante giornalista, a Marguerite restano solo la stima e l’amore di suo marito. Anche il suo maggiordomo la capisce e la apprezza.
Quando lei decide di prendere lezioni di canto fa disperare il maestro con le sue stonature grottesche. Ma anche il maestro di canto, che vorrebbe detestarla, non trova il coraggio di dirle la verità.
Marguerite non è una persona presuntuosa o piena di sé: è così coinvolta ed allo stesso tempo inconsapevole, quando canta, che fa tenerezza ed è veramente difficile fermarla . Nei suoi concerti lei vive con tanta passione la parte del personaggio che interpreta, si sente un’eroina. E’ generosa, sul palco, vuole “dare” al pubblico qualcosa di bello , ha un fascino enorme. Canta per il pubblico, non per se stessa.
Soltanto con l’ ardito esperimento di registrarla , un giorno, mentre canta, e di incidere un disco da farle poi riascoltare, si arriva alla dura verità. Ma quando lei si riascolta non ci crede: pensa che quella del disco sia un’altra persona. Nel frattempo si ammala di tisi e spesso mentre canta deve fermarsi per un dolore alla gola.
Il giorno del suo ultimo concerto, in un grande teatro, lei promette al marito che canterà per lui. Inizia, come suo solito, stonando, poi guarda il marito nel pubblico e in quel momento dal suo corpo esce una voce bellissima che improvvisamente strabilia ed incanta tutto il pubblico. Ma Marguerite, dopo pochi secondi è costretta a fermarsi in preda ad un forte attacco di tosse. Il concerto si ferma, il marito sale sul palco e lei cade tra le sue braccia come se fosse una vera eroina pucciniana.
Il film è una romantica storia d’amore: amore tra marito e moglie ed amore per la musica. Ma non è melense o scontato, anzi, è del tutto originale nella trama e veloce nella sceneggiatura, con qualche gradevole tocco di humor.
Il regista ha vinto a Venezia il premio Taddei per la capacità di esprimere autentici valori umani con il miglior linguaggio cinematografico.
Discontinuità, varietà e qualità: le tre parole chiave che caratterizzano la decima edizione della Festa del Cinema di Roma, che si svolgerà dal 16 al 24 marzo all’Auditorium Parco della Musica e in altri luoghi della Capitale. Discontinuità rispetto al passato, varietà di proposte, di genere e di provenienza, qualità dei 37 film della Selezione Ufficiale. Un’edizione all’insegna di importanti novità. La prima è la trasformazione del Festival in Festa, com’era nell’idea originale, dando risalto alla scoperta e alla celebrazione del cinema, che torna alla sua autentica essenza: la condivisione, all’interno di uno spazio buio, di un’emozione generata da una narrazione sul grande schermo. Una decisione che vuole essere, come spiega il Direttore Artistico Antonio Monda, una risposta alle osservazioni mosse in questi ultimi anni: la mancanza di identità della rassegna. Una sala in meno, un giorno in meno di programmazione, un budget ridotto e meno film. Sembrerebbe una festa del cinema sottotono rispetto agli anni passati, in realtà il Direttore Artistico ha tenuto a precisare, in conferenza stampa, la volontà di puntare a pellicole eccellenti e di qualità, anche a scapito della passerella sul red carpet o dicendo dei “no” dolorosi.
Altra importante novità è la cancellazione del concorso, delle giurie, delle cerimonie di apertura e chiusura e dei premi, con l’eccezione di quello del pubblico, per sottolineare l’elemento di condivisione popolare, e il premio “Virna Lisi” alla miglior attrice dell’anno. Ogni film sarà così vincitore nel momento stesso in cui viene invitato alla kermesse. Alcuni dei titoli presenti nella Selezione Ufficiale: in apertura Truth di James Vanderbilt, sul controverso rapporto tra giornalismo e politica; l’anteprima di The Walk in 3D di Robert Zemeckis; The Confessions of Thomas Quick di Brian Hill; Eva No Duerme di Pablo Aguero, sul conflitto scaturito dal corpo senza vita di Evita Peròn; dagli Stati Uniti arriva Experimenter di Michael Almereyda; Junun, il film musicale di Paul Thomas Anderson; il documentario francese in 3D Hurricane, su uno degli eventi più devastanti del nostro pianeta, l’uragano atlantico. Non mancheranno ovviamente anche i film italiani: Alaska di Claudio Cupellini, un melodramma estremo e fiammeggiante incalzato dall’interpretazione di Elio Germano; il documentario di Gianni Amelio, Registro di Classe Parte Prima 1900 – 1960, un lungo viaggio per raccontare la storia della scuola dell’obbligo, tra grandi aspettative e profonde delusioni; Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, con Claudio Santamaria nel ruolo di un pregiudicato di borgata che, entrando in contatto con una sostanza radioattiva, scopre di avere una forza sovraumana; Dobbiamo Parlare di Sergio Rubini, una commedia divertente e tagliente che procede inarrestabile tra colpi di scena che scavano senza pietà nei protagonisti. Infine due serie tv: Fargo – seconda stagione, che sarà trasmessa su Sky Atlantic dal 22 dicembre; l’israeliano Fauda, che racconta la storia da entrambi i punti di vista del conflitto israelo-palestinese.
Cambiata anche la sigla che precede i film, che vedrà una serie di sequenze di scene di festa tratte da celebri pellicole. Altro elemento di discontinuità rispetto al passato sono le anteprime mondiali, europee e soprattutto italiane, grazie anche all’alleanza con il Festival di Londra, con cui si alterneranno le date delle anteprime nelle rispettive città. Nei nove giorni di programmazione saranno presentati: musical, documentari, thriller, melodrammi, commedie, animazioni, film d’azione, serie televisive e opere di ricerca personale. Un altro segno importante di rottura con le precedenti edizioni sarà la divisione dell’evento in tre fasce: i film della Selezione Ufficiale; le retrospettive; una serie di incontri e omaggi ai grandi maestri del cinema contemporaneo e del passato. Le tre retrospettive, curate da Mario Sesti, saranno dedicate ad Antonio Pietrangeli, grande autore italiano troppo spesso dimenticato; Pablo Larraìn, cineasta tra i più significativi dell’attuale panorama internazionale; la Pixar, una delle realtà più importanti e rivoluzionarie degli ultimi anni. Gli incontri, organizzati ogni sera nelle sale dell’Auditorium, vedranno salire sul palco alcune grandi personalità del mondo dell’arte, dello spettacolo e della cultura che racconteranno l’influenza del cinema nelle loro vite. Tra i protagonisti degli incontri: Jude Law, Wes Anderson e Donna Tartt, William Friedkin e Dario Argento, Paolo Sorrentino con la proiezione, durante l’ultima serata, de “La Grande Bellezza”, con quaranta minuti di scene inedite. E ancora, Carlo Verdone e Paola Cortellesi, Renzo Piano che illustrerà il rapporto tra architettura e cinema, Riccardo Muti e Paolo Villaggio con la proiezione della versione restaurata di Fantozzi. Il programma della decima edizione rende inoltre omaggio, attraverso anteprime, proiezioni, restauri, dibattiti ed eventi, ad alcune figure chiave della storia del cinema italiano e internazionale, tra cui: Ettore Scola, con la proiezione de “La terrazza” in versione restaurata; Paolo e Vittorio Taviani; Francesco Rosi, Ingrid Bergman, Luis Buñuel e Stanley Kubrick. Infine, Ricordando Pasolini: a quarant’anni dalla scomparsa la Festa del Cinema ricorda con una serie di eventi il più importante e controverso intellettuale, poeta e regista dell’Italia del dopoguerra.
La Festa coinvolgerà, oltre l’Auditorium, diversi punti della città e alcune tra le più prestigiose Istituzioni, come il MAXXI e la Casa del Cinema.
In contemporanea con la Festa del Cinema di Roma, dal 16 al 20 ottobre, si svolgerà MIA, il nuovo Mercato Internazionale dell’Audiovisivo, diretto da Lucia Milazzotto. Per la prima volta in Italia, un Mercato si occuperà di tutti i segmenti del prodotto audiovisivo: cinema, tv series, documentari, videogiochi.
Nel manifesto della Festa del Cinema di Roma, la grazia, la bellezza e l’eleganza di una delle più grandi attrici italiane e internazionali: Virna Lisi.
Il 10 Settembre si sono accesi i riflettori sulla 40esima edizione del Toronto Film Festival, la grande kermesse internazionale sul cinema. Prosegue fino al 20 settembre con una ricca programmazione, che spazia da grandi produzioni a film indipendenti, con oltre trecento lungometraggi, di cui ben sette italiani: Sangue del mio sanguedi Marco Bellocchio, Youthdi Paolo Sorrentino, L’attesa di Piero Messina,Mia madredi Nanni Moretti, Bella e perdutadi Pietro Marcello, Louisianadi Roberto Minervini e Exit/Entrance or Trasumanardi Federica Foglia.
La nuova edizione è iniziata con un colpo di scena: il ritorno sul grande schermo del re dei documentari, Michael Moore. Dopo Bowling a Columbine, Capitalism – A Love Story e il campione di incassi Fahrenheit 9/11, il regista e autore premio Oscar torna a far parlare di sé con un nuovo documentario, cui ha lavorato in gran segreto dal 2009: Where to invade next. La costante ricerca di un nemico da combattere che mantenga e alimenti l’industria bellica americana, ha spinto Moore a dedicarsi a questo nuovo progetto, da lui stesso definito “epico”. Where to invade nextè un’aspra critica alla politica estera americana, perennemente e opportunisticamente orientata al conflitto: se il nemico non c’è, bisogna inventarlo. Il regista, con il suo stile inconfondibile e il suo graffiante sarcasmo, si appresta a invadere il Mondo per conto dell’America, prima fra tutti l’Europa. Si tratta però di un’invasione atipica, volta alla conoscenza di quello che si ritiene essere il “nemico”. È un’indagine sulla quotidianità, sulle contraddizioni e sulle usanze dei vari Paesi. Nonostante i tempi difficili, lancia un messaggio positivo: basta problemi, è arrivato il momento di trovare soluzioni. Girato in tre continenti, Moore viaggia portando con sé la bandiera americana che puntualmente pianta in ogni luogo in cui si reca, nella disperata ricerca del cosiddetto “american dream”. Una “commedia” provocatoria in cui si racconta l’America, stavolta però uscendo dal suo territorio e osservando gli altri Paesi, che da “nemici” diventano fonte di crescita e arricchimento.
Quello di Moore è un cinema di inchiesta e di denuncia, con importanti messaggi sociali conditi da una buona dose di ironia.
Il documentario, della durata di due ore, sarà proiettato a ottobre durante il New York Film Festival. Non è stata ancora resa nota la data di uscita nelle sale cinematografiche, che si vocifera essere entro la fine dell’anno. Chissà che questa nuova pellicola non porti a Michael Moore anche un altro Oscar.
“Looking for Grace” , film in Concorso della regista australiana Sue Brooks, è il viaggio di due genitori in cerca della loro figlia, un po’ scapestrata, che si è allontanata da casa all’improvviso. Grace, la protagonista inquieta , è interpretata da Odessa Young, giovane attrice che compare anche nel cast del film “The daughter”, di Simone Stone ( presente alla Mostra nella sezione “Giornate degli Autori”). Carina, ma di una bellezza molto standard, ha sfilato sul red carpet i primi giorni della Mostra . Il film racconta la storia di una ragazzina sedicenne che decide di partire,insieme alla sua amica, per raggiungere la città dove si terrà un concerto della sua band preferita. E lascia ai suoi genitori soltanto un enigmatico biglietto. Durante il viaggio Grace fa di tutto per fare conoscenza con un ragazzo carino , che vede sul pullman. Le intemperanze di Grace scoraggiano l’amica, che, a metà viaggio, decide di tornare indietro. E l’avventuretta che Grace ha con il bel ragazzo si dimostrerà deludente. Nel frattempo i suoi genitori – Dan (Richard Roxburgh) e Denise (Radha Mitchell) - si mettono in cerca di lei, in auto, per le strade deserte australiane. Il contesto dei luoghi non è mai ben chiaro ed inoltre la tecnica di scomporre i tempi, e sovrapporre passato e futuro, già trita, ha reso il film sconclusionato ed incomprensibile, oltre che frammentario. Il film si perde nella descrizione di tutti i personaggi, e questo distoglie lo spettatore dall’azione principale.
Poi, per giustificarne la “drammaticità” la regista ha inventato che alla fine la madre di Grace finisce all’improvviso sotto un camion. Il marito e la figlia Grace, attoniti, assistono alla scena con una tiepida espressione di distacco. Reale , surreale o insignificante?
“Beasts of non nation” (“Bestie senza una patria”) è un film in concorso del regista statunitense Cary Fukunaga, basato sul libro “Bestie senza una patria”, di Iweala Uzodinma. Il tema è quello dei bambini che vengono addestrati alla guerra. In un paese dell’Africa, non ben definito, scoppia una guerra civile. Il protagonista è Agu (Abraham Attah), un bambino che, dopo la distruzione del suo villaggio, erra, disperato, provato dalla fame, e terrorizzato dalla violenza, e finisce per arruolarsi con i mercenari guidati da un brutale comandante (interpretato da Idris Elba). Agu è costretto, per sopravvivere, ad assistere ad ogni tipo di atrocità e ad uccidere nei modi peggiori. L’argomento, che rappresenta una cruda e risaputa realtà di certi paesi, è stato già più volte trattato, e nel caso di questo film, non si vede nulla di nuovo.
“Winter on fire”, del regista russo Evgeny Afineevsky, presentato nella sezione “Fuori Concorso”, è un documentario, ma più una cronaca, sui novantatre giorni che hanno sconvolto l’Ucraina tra il 2013 e il 2014: la sanguinosa rivolta per i diritti civili svoltasi nella centrale Piazza Maidan di Kiev, la lunga e ostinata protesta popolare contro il presidente Viktor Janukovic. Una storia vera che cattura l’attenzione dello spettatore fino all’ultimo minuto, senza mai cedere in momenti di lentezza o di opacità.
Il giovane regista ha spiegato che non si sono potute ottenere le migliori inquadrature, perché l’obiettivo principale era quello di registrare in diretta scene scioccanti come i violenti attacchi della polizia contro i civili disarmati, e contemporaneamente scene che dimostravano quanto il popolo ucraino, fiero di essere tale, stesse cambiando definitivamente il Paese. E’ fantastico vedere così tanta gente, così unita e così determinata, disposta a soffrire per novantatre giorni consecutivi , a resistere al gelido inverno e ai soprusi della polizia, per un ideale di patria e di paese libero e moderno. Un documento imperdibile che passerà alla storia e che è importante conoscere. Bellissimi commenti musicali.
Jolanda Dolce
Dopo il grande successo del debutto nel 2013 al Théâtre du Châtelet di Parigi, arriva al Teatro dell’Opera di Roma in Prima Nazionale: I was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky (Stavo guardando il soffitto e all’improvviso ho visto il cielo), “song play” in due atti del noto compositore statunitense vincitore del Premio Pulitzer, John Adams, su libretto di June Jordan. Un’opera rock contemporanea con tre tastiere, chitarra e basso elettrico, sax, clarinetto e batteria, composta da elementi dell’Orchestra del Teatro dell’Opera e diretta dal Maestro australiano Alexander Briger, con la regia di Giorgio Barberio Corsetti. Uno spettacolo brillante dalla raffinata
Giorgio Barberio Corsetti |
originalità in cui confluiscono differenti generi musicali, dal rock al jazz, passando in rassegna Stan Getz, Miles Davis, John Coltrane, Pink Floyd e Michael Jackson, in linea con lo stile complesso di Adams che “misura la potenza espressiva e l’autenticità paradossale delle musiche commerciali”.
“I was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky – spiega il compositore Adams – è la frase pronunciata da uno dei sopravvissuti al terremoto di Northridge del 1994, una catastrofe che ha devastato un’ampia parte del nord di Los Angeles. La lesse il librettista June Jordan sul Los Angeles Times e mi offrì il titolo perfetto per quello che volevo fosse uno spettacolo stile Broadway”.
Definito “un dramma sullo sfondo di un cielo blu”, racconta l’intensa e commovente storia di sette giovani ventenni di Los Angeles, diversi per etnia ed estrazione sociale, le cui vite cambieranno radicalmente all’indomani del devastante terremoto. Sette giovani adulti che si interrogano sull’amore e sul senso della vita, tra desideri, pulsioni e paure vengono affrontati temi molto attuali come il
John Adams |
conflitto razziale, i rapporti con la polizia e l’autorità, la persecuzione degli immigrati e l’identità sessuale. “Sulla scena saranno presenti quattro parallelepipedi – afferma il regista Giorgio Barberio Corsetti - come fossero quadri in movimento raffiguranti luoghi e città in cui confluiscono le aspirazioni dei vari personaggi, che si sviluppano con dinamismo e in sintonia con le parole e la musica”. Interpreti internazionali per questa avvincente storia d’amore “polifonica” dallo stile shakespeariano: Daniel Keeling (Dewain); Jeanine De Bique (Consuelo); Joel O’Cangha (David); Janinah Burnett (Leila); Grant Doyle (Mike); Patrick Jeremy (Rick); Wallis Giunta (Tiffany).
I was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky sarà al Teatro dell’Opera di Roma dall’11 al 17 Settembre 2015.
Maggiori informazioni su www.operaroma.it
La Mostra del Cinema quest’anno si apre il 2 settembre e si concluderà il 12. In programma 21 film in Concorso, 16 Fuori Concorso e 18 nella sezione “Orizzonti”. Le opere prime sono 23, di cui due di registi italiani: Piero Messina, con il film “L’attesa” (in Concorso) e Alberto Caviglia con “Pecore in erba” (sezione Orizzonti). I film italiani in Concorso sono 4: “Sangue del mio sangue”, di Marco Bellocchio (vincitore del Leone d’oro alla Carriera e del Premio Speciale della Giuria), “Per amor vostro”, di Giuseppe M. Gaudino, “A bigger splash”, di Luca Guadagnino e “L’attesa”, di Piero Messina.
Le sale di proiezione, le tecnologie e la logistica sono state rinnovate, e lo spazio adiacente al Casinò è stato migliorato con una nuova comoda struttura che permette di raggiungere più velocemente tutti i punti principali del villaggio.
Film di apertura è ” Everest” , del regista islandese Baltasar Kormàkur. La pellicola, che fa parte della sezione “fuori concorso”, è prodotta in Gran Bretagna e racconta la storia vera di due spedizioni di scalatori intenzionati a sfidare la montagna più alta del modo. Attingendo alle varie memorie dei sopravvissuti, il regista ricostruisce i fatti riguardanti due spedizioni del 1996 che non ebbero la fortuna sperata perché molti di loro furono travolti da una violenta ed improvvisa bufera.
La tensione e l’emozione sono sempre alti, anche per il merito del 3D, che ravvicina le maestose creste innevate e le imponenti stalagmiti di un paesaggio mozzafiato. L’entusiasmo, la passione e il coraggio dei protagonisti si trasformeranno poi in una strenua lotta per la sopravvivenza. E qualcuno non ce la farà.
Il regista ha voluto girare il film senza troppi effetti speciali e la scelta è stata ottima perché tutte le scene sono già cariche di emotività. Girato in parte in Nepal ed in parte in Alto Adige (le bellissime Dolomiti della Val Senales), il film riesce a ricreare le ovattate atmosfere dell’altitudine: l’aria rarefatta, i crepacci, i precipizi profondissimi. Gli attori principali sono: Jason Clarke (nella parte di Rob Hall, capo spedizione), Jake Gyllenhaal (nella parte di Scott Fischer, altro capo spedizione), Josh Brolin (Beck Weathers), John Hawkes (Doug Hansen). Nonostante l’avventura presenti diversi ostacoli, la gioia degli scalatori non viene mai meno e il senso del gruppo si fa sempre più forte. Ma sulla via del ritorno una catastrofica tempesta di neve ed una roboante valanga provocano un lungo fragore assordante mescolandosi alle urla degli scalatori travolti. E poi il silenzio: la neve ricopre tutto. Avvincente, avventuroso, emozionante. Gli attori tutti molto bravi e il film non manca dell’effetto thriller.
Apre la sezione Orizzonti il film messicano “Un monstruo de mil cabezas” (Un mostro dalle mille teste), del regista Rodrigo Plà. E’ un adattamento del romanzo di Laura Santullo e racconta la storia di una donna che è costretta ad affrontare numerose peripezie contro una compagnia assicurativa negligente e corrotta, per ottenere una cura vitale per suo marito, malato terminale di cancro. Il film, lontano da ogni intento patetico, ma veloce, intrigante e con una buona dose di suspence, è interpretato dall’attrice Jana Raluy (nella parte della protagonista Sonia Bonet). Praticamente è lei la figura portante della storia, una donna che viene esasperata dalle infinite complicazioni burocratiche che le crea la compagnia che assicurava le spese per la salute di suo marito. Praticamente la compagnia non intende pagare alcun risarcimento: anzi, Sonia scopre che la dirigenza seguiva la strategia di eliminare senza scrupoli una certa percentuale di polizze dal diritto di risarcimento. Disperata per il peggioramento della malattia del marito, Sonia si chiede per quale motivo il medico dell’assicurazione non prescrive una cura più efficace (e probabilmente più costosa) e non si fa mai trovare, e perché è impossibile ottenere un appuntamento. Ma Sonia, con decisa ostinazione e con una pistola tra le mani, è disposta a cercare e rincorrere a tutti i costi i responsabili di queste negligenze, che hanno praticamente portato suo marito vicino alla morte. Tutto diventa una sfiancante corsa contro il tempo, e Sonia, con estrema determinazione, riesce a farsi consegnare i documenti che le servono per fare causa alla compagnia assicurativa. Ma il “mostro” non ha una sola testa, ne ha … mille, ed una ennesima complicazione dell’ultimo minuto, creata da una socia proprietaria della compagnia, attira la polizia. Sonia, ferita nella sparatoria, finisce in ospedale e quando si riprende non trova più la sua cartellina dove teneva tutti i preziosi documenti. Morale? Vince il male. La sopraffazione delle grosse società nei confronti della gente comune è una cosa molto frequente ed abominevole, soprattutto se si tratta della vita di una persona. Ottima l’interpretazione di Jana Raluy, protagonista che si presenta dignitosa nella sua presenza ma semplice e con poco trucco in viso, preoccupata solo della vita di suo marito e di scoprire le ingiustizie. In molti punti il regista sceglie di non far vedere allo spettatore la scena in sé ma di farla immaginare attraverso un ambiente esterno. Ed il risultato è molto interessante e ben riuscito. L’espressività degli attori è grande, ma è avvincente anche il solo sentire le parole, senza vedere la scena. Film da non perdere.
Jolanda Dolce
Attrice di origini marchigiane, da anni impegnata nel sociale, Chiara Pavoni spazia dal teatro al cinema, dalla televisione alla fotografia come modella, con disinvoltura e professionalità. Dopo un percorso iniziale nella danza studia recitazione, canto e percussioni fino a diventare un’icona del cinema thriller. Da oltre un anno è in scena con un monologo contro la violenza sulle donne “Tragicamente rosso”, diretto da Giuseppe Lorin e sta lavorando a nuovi progetti rivolti a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Dare voce ad una tematica come il femminicidio attraverso il teatro che cosa comporta nel panorama culturale attuale?
“Nonostante la sempre più evidente espansione di altre forme di comunicazione che hanno generato i media cine-televisivi e l’universo del web, un immenso mare di immagini e messaggi in cui spesso si perde la concretezza e l’emozione artistica, il teatro ha un ruolo ancora molto importante nella società, poiché è tuttora in grado di suggestionare ed plasmare emotivamente ogni anima del pubblico.”
Come viene recepita la violenza dagli spettatori?
“In questo anno in cui le repliche di Tragicamente Rosso si sono susseguite in giro per l’Italia grazie alla bellezza del testo e alla sapiente regia di Giuseppe Lorin ho avuto la possibilità di raccontare una storia verosimile e toccante che sempre ha raggiunto l’anima degli spettatori facendoli commuovere e riflettere su questo tema tanto tragico, scottante e attuale.”
Il mondo femminile raccontato attraverso l’arte. Saranno sempre le donne al centro dei tuoi prossimi spettacoli? Qualche anticipazione.
“Prevalentemente mi piace raccontare attraverso il teatro il mondo femminile e nei prossimi mesi continuerò a portare in scena storie di donne, ad ottobre sarò ospite del Premio Italia Diritti Umani della Free Lance International Press e avrò modo di dare voce con l’arte a tematiche delicate, come la violenza e i diritti negati. Continueremo a girare l’Italia con Tragicamente rosso e chissà magari arriveremo anche ad Ischia!”
Michela Zanarella