L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Free mind (233)

Lisa Biasci
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Nel cuore del quartiere Parioli, Villa Glori si estende per 25 ettari, imponendosi come uno dei polmoni verdi più ampi di Roma. Paragonabile per grandezza a Villa Borghese e Villa Ada, poiché questo parco pubblico, Villa Glori, è oggi conosciuto per la sua quiete, le installazioni d’arte contemporanea e il panorama che offre sulla città, ma ciò che molti ignorano, è che sotto i suoi viali alberati si cela un mondo misterioso, un cenote romano, una cavità sotterranea profonda oltre cinquanta metri ed in parte invasa dall’acqua. La storia di Villa Glori è intrisa di memoria e patriottismo. L’area fu teatro degli scontri del 1867 tra i garibaldini e le truppe papaline, durante i quali Enrico Cairoli perse la vita nei pressi del casale, oggi ancora visibile nel parco. Per questo, fu inizialmente conosciuta come Parco della Rimembranza, in onore dei fratelli Cairoli. Solo in seguito, passata di proprietà alla famiglia Glori, assunse l’attuale denominazione. Nel 1924 il parco venne ristrutturato e arricchito con opere d’arte contemporanea, mantenendo però il fascino selvaggio di alcune sue aree meno battute. Ed è proprio in una di queste zone, vicino ai resti di un antico tempio e seminascosto tra la vegetazione, che si trova l’ingresso del cenote, la cui moderna

  il cenote

riscoperta si deve all’archeologo e speleologo Carlo Pavia nel 1992.

Il termine “cenote” proviene dalla lingua dei Maya e indica una cavità naturale colma d’acqua. Sebbene legato al continente americano, il fenomeno è presente anche a Roma, dove queste voragini sotterranee venivano utilizzate, già in epoca antica, come luoghi sacri e depositi votivi e proprio all’interno del cenote di Villa Glori, l’archeologo Pavia recuperò parecchi ex voto romani, oggi studiati come testimonianza di riti antichi e dimenticati. Il celebre archeologo ha raccontato la sua esplorazione nel volume “Nel ventre di Roma. Dall’abisso Charlie ai sotterranei della Capitale”, dove battezza questa cavità con il nome di Abisso Charlie. Il nome, volutamente evocativo, si rifà al gergo speleologico e militare per indicare luoghi estremi o difficili da esplorare. “Charlie”, infatti, è anche la lettera “C” nell’alfabeto fonetico NATO, probabilmente usata per codificare il sito in modo non convenzionale. Il cenote di Villa Glori non è un caso isolato. A Roma si conoscono altre cavità simili, come quella sotto l’Ospedale San Camillo, nota come abisso di Monteverde-Forlanini, ma il primato assoluto per profondità spetta al Pozzo del Merro, nel comune di Sant’Angelo Romano, il cui abisso naturale raggiunge oltre 400 metri di profondità, secondo gli studi condotti dall’Università di Tor Vergata. Pertanto, Roma, ancora una volta, si rivela una città a più livelli, dove accanto alla bellezza visibile si nasconde un mondo sotterraneo fatto di misteri, riti e storia millenaria. Infatti, Villa Glori, con il suo cenote dimenticato, ci ricorda che ogni angolo della Capitale ha ancora molto da raccontare, basta saper scavare.


“Premio Italia diritti umani 2025” ®

Dedicata alla memoria dell’ex Vice-presidente della Free Lance International Press Antonio Russo.
via Ulisse Aldrovandi 16 c/o Unar - ROMA



ROMA 18 Ottobre 2025


Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.

              
In collaborazione con  -

 

                                                         

 

 

Modera e presenta il premio: Neria De GiovanniFree Lance International Press
Presidente dell’associazione Internazionale dei Critici Letterari

Saluti del Pres. della Free Lance International Press Virgilio Violo e Antonio Masia Pres. dell’UnAR - Ore 15. 50

Interventi

Patrizia Sterpetti – Wilpf Italia APS
– ore 16.20

”il naufragio dei diritti umani e idee di riparazione”


           Antonio Cilli – Ceo di Cittanet – ORE 17,00
“L’intelligenza artificiale e l’informazione”

Ore 17,20 - Ferdinando Maddaloni presenta

HO PROVATO UN MARE DI VERGOGNA


di & con Ferdinando Maddaloni




      PREMIAZIONE ore 18,00   

 

 consegnano i premi e leggono le motivazioni gli attori:

Diego Verdegiglio, Giulia Giordano, Anastasia Busetto.
 

PREMIO ITALIA DIRITTI UMANI 2025


Donate opere degli artisti:
Stefania Pinci, Elisabetta Martinez, Monica Osnato

 Brindisi con i premiati ore 19,30

per prenotarsi: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

 

Non passa giorno che qualche professorone o semplice opinionista tuttologo esprima, a difesa della libertà, della modernità e del progresso tecnologico, il proprio fermo dissenso nei confronti del provvedimento ministeriale che estende agli ultimi tre anni degli istituti scolastici superiori il divieto  di impiego del cellulare durante lo svolgimento delle lezioni.

Si dice che vietare non è educare, che occorrerebbe insegnare ad usare il cellulare invece che riporlo in un armadietto, che gli attuali smartphone rappresentano un prodigio meraviglioso della tecnologia e che ci permettono di fare a meno dei dizionari, delle enciclopedie e che potrebbero essere utilizzati sotto la guida del docente per ottime finalità didattiche, ecc …

Tutti discorsi non privi di una qualche dose di verità, certamente. Ma a tutti e tutte costoro che tanto si rattristano e si amareggiano sfugge una cosa semplicissima: l’obiettivo del Ministero non consiste tanto in una crociata palafitticola contro i demoniaci telefonini, bensì un atto oltremodo necessario (nonché assai tardivo), di indispensabile e legittima quanto doverosa difesa dell’attività dell’insegnamento, della dignità del docente, e, soprattutto, della salute psicofisica del discente. Quello che non si comprende (o che si finge di non comprendere) è che la dipendenza dei nostri alunni dal cellulare ha raggiunto livelli estremamente allarmanti e che l’uso selvaggio e incontrollato che tendono a farne li induce a continue distrazioni, li disabitua sistematicamente all’attenzione, all’ascolto, al dialogo, al ragionamento autonomo, allo sforzo personale di studio e di ricerca e di confronto critico fra differenti punti di vista e interpretazioni, ecc.

Indubbiamente auspicabile sarebbe, comunque, se, nel caso di attività didattiche ben programmate e ben strutturate, venisse concesso di ricorrere proficuamente all’utilizzo individuale o di gruppo dello strumento-smartphone, come normalmente accade con lo strumento-pc.

Ma il principale difetto del provvedimento ministeriale, a voler essere rigorosi, è soprattutto un altro: quello di riferirsi esclusivamente ai discenti e non anche ai docenti, alcuni dei quali capacissimi di ricevere e fare telefonate in classe e di inviare e ricevere messaggini durante le lezioni.

Ed il divieto andrebbe esteso, per essere democraticamente egualitario, anche alle sedute degli organi collegiali e alle commissioni esaminatrici,  in cui non sono certo rari i casi di docenti ed anche di dirigenti scolastici che, senza alcunissimo pudore,  trafficano alacremente con il proprio inseparabile apparecchio telefonico.

Ma la cosa più bella, educativa e democratica sarebbe se, ai nostri studenti,  l’esempio provenisse ancora da più in alto: grazie all’applicazione del divieto di smartphone anche alla Camera e al Senato, equiparando, così, aule scolastiche ed aule parlamentari!

 

Quando Aurora venne al mondo, in ospedale si respirava un silenzio carico di timori. Peraltro, non solo per la salute della neonata, ma anche per quella della madre, Giulia, 22 anni, la sindrome di Down ed una certezza che non tremava mai poiché avrebbe cresciuto sua figlia, anche da sola. Il padre era scomparso nel nulla, e attorno a lei si levava un muro di dubbi. I vicini la osservavano con pietà, gli assistenti sociali la seguivano con occhio critico, e persino la sua famiglia la pregava di ripensarci. Ma Giulia, ogni volta che stringeva la sua bambina, sussurrava: “Guardami!” Non aveva la patente, né un titolo accademico. Non aveva soldi, né l’approvazione del Mondo. Ma aveva ciò che molti dimenticano l’amore tenace e la volontà instancabile. Si svegliava ogni due ore per allattare, imparava favole a memoria, riempiva il frigorifero di disegni, tabelline e piccoli sogni.

Metteva da parte ogni centesimo per comprare un telescopio giocattolo, e, quando, Aurora le chiedeva del padre, Giulia rispondeva con dolcezza: “…Non ti serve un missile per volare lontanissima. Ti occorre solo una buona piattaforma di lancio…”. Quelle affermazioni, che sembravano solo tenere, divennero profetiche. Aurora vinse la fiera della scienza a dieci anni, grazie ad un modello solare fatto con materiali riciclati. A sedici anni entrò come stagista in un osservatorio astronomico. A ventuno si laureò in Ingegneria Aerospaziale con il massimo dei voti e prima del suo corso. Ed il giorno in cui mise piede per la prima volta alla NASA, non lo fece da sola, la madre Giulia era accanto a lei, mano nella mano. Il direttore guardò negli occhi Giulia e disse: “…Tua figlia è una delle menti più brillanti che abbia mai visto…” e Giulia, con le lacrime agli occhi, rispose: “…Ho sempre saputo che avrebbe raggiunto le stelle, ma non avrei mai immaginato di vederle così da vicino…”. Oggi Aurora lavora nello spazio e in ogni missione, tra le immagini della Terra e delle galassie lontane, ce n’è una che non manca mai, quella di lei bambina, stretta tra le braccia giovani di sua madre, avvolta in un maglione di seconda mano ed in un amore che nessuno voleva riconoscere come “abbastanza”. Il Mondo disse a Giulia che non poteva essere madre, che non ce l’avrebbe fatta, ma sua figlia, che oggi vola sopra quel Mondo, ripete ovunque vada: “…Se sono qui, è solo grazie a mia madre…”.

 Nel linguaggio dei conflitti armati, soprattutto quando si parla di guerre ad alta intensità come quella tra Israele e Hamas, le parole diventano strumenti fondamentali per comprendere e giudicare ciò che accade. Due termini ricorrenti in questo contesto sono genocidio e carneficina. Entrambi descrivono forme estreme di violenza collettiva, ma le loro implicazioni, soprattutto dal punto di vista giuridico e politico, sono profondamente diverse, anche se descrivono eventi di gravissima entità. Il genocidio è uno dei crimini più gravi riconosciuti dal diritto internazionale. È definito dalla Convenzione ONU del 1948 come un atto commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Non si tratta solo di massacri: anche la deportazione forzata di bambini, l’impedimento alla nascita di nuove generazioni, o il danneggiamento sistematico delle condizioni di vita di un gruppo possono costituire atti genocidari, se motivati da un intento distruttivo. Ogni azione, dall’uccisione diretta fino alla sterilizzazione forzata, passando per la deportazione dei bambini, può rientrare nella definizione di genocidio se inserita in questa strategia d’annientamento. L’elemento chiave, quindi, non è solo il numero delle vittime, ma l’intenzione deliberata e pianificata di annientare un’intera Comunità.

La carneficina, invece, è un termine più generico, privo di una definizione giuridica precisa. Indica una strage, una uccisione di massa, spesso caotica e brutale, che può avvenire per molte ragioni: vendetta, negligenza, strategia militare, o totale indifferenza per la vita dei civili. Una carneficina può essere il risultato di bombardamenti indiscriminati, di combattimenti urbani senza regole, o di operazioni militari che non distinguono tra obiettivi legittimi e popolazione innocente. Anche se non sempre motivata da un intento genocidario, una carneficina resta una tragedia di proporzioni enormi. È comunque una tragedia umanitaria, ma senza l’elemento chiave del genocidio che implica la volontà deliberata di annientare un gruppo specifico. Nel conflitto tra Israele e Hamas, questa distinzione non è solo semantica. Le accuse che emergono da varie parti, comprese organizzazioni umanitarie, giuristi internazionali e istituzioni politiche, oscillano tra la denuncia di una carneficina e la più grave accusa di genocidio. I bombardamenti su Gaza, le migliaia di vittime civili, la distruzione di infrastrutture essenziali e l’assedio prolungato hanno spinto alcuni osservatori a parlare di crimine contro l’umanità o addirittura di genocidio. Altri, invece, sottolineano che, in assenza di prove chiare di un’intenzione sistematica di distruggere il popolo Palestinese, si tratta piuttosto di una carneficina causata da strategie militari estreme e sproporzionate. In entrambi i casi, la sofferenza della popolazione civile è enorme. Ma chiamare un evento genocidio implica accuse gravissime che comportano responsabilità politiche e giuridiche a livello internazionale. Serve quindi cautela, rigore e chiarezza. Confondere i termini, o usarli in modo emotivo, rischia di compromettere non solo la comprensione dei fatti, ma anche la possibilità di giustizia e responsabilità. Peraltro, comprendere la differenza non significa minimizzare l’orrore, ma occorre mantenere la chiarezza concettuale e quella giuridica, e soprattutto quando le parole influenzano la percezione pubblica e le risposte delle Istituzioni globali. In guerra, la verità è spesso la prima vittima e il linguaggio ne è la prima arma.

Giuseppe, per tutti Josef, nasce più a sud della Sicilia, a Pachino in provincia di Siracusa. In un contesto di grande crisi e silenzio assordante, dove l’indifferenza sembrava essere diventata la norma,  decide di alzare la voce. Pachino, la sua città natale, era avvolta in un velo di disillusione: le problematiche locali, come l'abbandono del territorio e la mancanza di servizi essenziali, venivano ignorate. Era come se ci si fosse arresi a vivere in una realtà stagnante, e questa situazione a Josef pesava profondamente. Decise di farsi sentire, di rompere quel silenzio; così iniziò il suo percorso come Josef Nardone, non solo blogger ma anche influencer e attivista cittadino.

La scelta di comunicare attraverso i social media si rivelò un'arma straordinaria. Sebbene non fosse stato un giornalista, ma solo un cittadino attivista autodidatta, capì che la sua missione era quella di raccontare la verità con semplicità, passione e coraggio. Con queste armi riuscì a entrare nelle case delle persone e, soprattutto, nei loro cuori, creando un legame autentico con la comunità. Col tempo scoprì che i suoi messaggi risuonavano tra i molti. Le sue denunce, le sue proposte, e le sue condivisioni iniziarono a superare le barriere, raggiungendo chi viveva ogni giorno una realtà caratterizzata da frustrazione e speranza.

Uno dei traguardi più significativi che raggiunse fu quello di diventare un punto di riferimento per i più giovani. I bambini, i futuri cittadini del mondo, cominciarono a conoscere Josef Nardone, il cittadino attivo che si batte per la sua comunità. Quando lo incontravano per strada, spesso si avvicinavano con entusiasmo, segnalandogli problemi come perdite d’acqua, rifiuti abbandonati o zone buie. Questo per Josef  rappresentava un motivo di orgoglio immenso: significava che era riuscito a trasmettere loro l’importanza di avere una voce e di essere attivi nel migliorare il proprio ambiente: il primo passo per costruire un futuro migliore.

Tuttavia, il suo approccio non si limitò a evidenziare problemi. Comunicare è una responsabilità enorme. È fondamentale farlo con rispetto e integrità, senza sfruttare le difficoltà degli altri per fini personali o per ottenere visibilità. Josef non si sentiva in competizione con nessuno; anzi, vedeva molti attingere dalle sue idee e dal suo stile. Ma c'era qualcosa che non si poteva imitare: l’empatia e l’amore profondo che nutriva per il suo territorio. Questi elementi formarono la base del suo lavoro e ne determinarono l’efficacia.

Quando parlava di Pachino, parlava di casa sua, della sua gente e dei suoi affetti. Ogni post, ogni video che pubblicava era carico di un’affezione sincera e genuina. La sua voce si distingueva perché autentica. Era una voce che nasceva dal basso, che parlava chiaro e che non aveva paura di dire ciò che altri tacevano. Questo è il motivo per cui molti lo consideravano "la voce fuori dal coro". La sua missione era chiara: portare alla luce ingiustizie, evitare che i problemi venissero sepolti dall’indifferenza e stimolare una riflessione collettiva.

Passano gli anni e si cominciarono a intravedere alcuni cambiamenti positivi nel paese. Il coinvolgimento della comunità iniziò ad aumentare e il nostro Josef poté finalmente dire che l’attenzione verso i problemi da lui sollevati iniziavano a dare i loro frutti. Sapeva, comunque, che il cammino era ancora lungo. La road map del cambiamento era piena di ostacoli e sfide che necessitavano perseveranza, determinazione e, soprattutto, amore costante per la propria terra e per i propri concittadini.

Josef ne concluse che ogni voce, anche la più debole, poteva avere un impatto significativo. La sua esperienza gli aveva insegnato che ognuno di noi ha il potere di contribuire al bene della propria comunità e che insieme si può costruire un mondo migliore. Così continuò a camminare con coraggio per le strade della sua Pachino, ascoltando e dando voce a chi non l’aveva, perché la vera forza di un attivista sta nella sua capacità di far suonare il coro della comunità, anche quando le note sono discordanti. Con determinazione e amore, siamo tutti capaci di scrivere nuove storie di speranza e cambiamento.

Oggi, In un'epoca in cui le voci locali possono facilmente perdersi nel frastuono del digitale, Josef Nardone si erge come un faro luminoso per la comunità siciliana e oltre, con un'incredibile comunità di 52.000 follower. Ogni giorno, il suo profilo Facebook diventa un punto di riferimento fondamentale, un luogo dove l’informazione e l’interazione si intrecciano in modo significativo.

Josef è molto più di un semplice comunicatore; è un cittadino attivo impegnato a dare voce ai suoi concittadini. I suoi contenuti visivi ad alto impatto, tra video panoramici, dirette e stories, offrono prospettive uniche sul territorio, rendendo le bellezze della Sicilia accessibili a tutti. La sua capacità di interagire costantemente con i follower crea un’atmosfera di partecipazione autentica, dove ogni commento e ogni suggerimento vengono accolti e discussi con attenzione.

In un periodo in cui la disinformazione può diffondersi rapidamente, Josef si distingue per l’impegno sociale dimostrato: non solo promuove eventi e notizie dalle sue terre, ma denuncia anche disservizi e valorizza le eccellenze locali. Le sue segnalazioni sono così credibili e incisive da attirare l’attenzione degli uffici istituzionali, contribuendo a smuovere acque torbide e a portare cambiamenti tangibili.

Con oltre 20 milioni di visualizzazioni ogni 28 giorni e picchi virali che testimoniano il suo impatto, Josef sa come coinvolgere e motivare le persone attorno a lui. Non si limita a informare, ma si propone di educare e responsabilizzare, iniziando dai più piccoli, affinché diventino cittadini attivi e consapevoli. Un giorno, questi giovani saranno il nostro futuro migliore, e grazie al nostro Josef freelance, saranno pronti a costruirlo.

 

 

In un’epoca in cui le relazioni umane sono messe alla prova da trasformazioni profonde, tecnologiche e culturali, il ruolo della scuola come presidio educativo va oltre la semplice trasmissione del sapere. È sempre più urgente riconoscere che l’educazione non può limitarsi a discipline tradizionali, ma deve includere fin dalle prime fasi del percorso scolastico un’attenzione concreta e strutturata all’educazione sentimentale, affettiva e digitale. Solo così è possibile costruire una società più giusta, consapevole e capace di affrontare le sfide del presente, a partire dal contrasto agli stereotipi di genere fino alla promozione del rispetto e del consenso nelle relazioni. L’educazione sentimentale, intesa come percorso volto allo sviluppo della consapevolezza emotiva e relazionale, è uno strumento indispensabile per accompagnare bambine, bambini, adolescenti e adolescenti nella comprensione di sé e degli altri. Imparare a riconoscere e nominare le proprie emozioni, saperle gestire senza reprimerle né lasciarsene sopraffare, è una competenza fondamentale per costruire relazioni sane, basate sulla reciprocità e sul rispetto.

L’empatia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, si sviluppa solo se viene coltivata, valorizzata, allenata: non è innata né automatica, ma frutto di un’educazione paziente e consapevole. Parallelamente, l’educazione affettiva permette ai giovani di riflettere sui legami che costruiscono, sulle dinamiche di potere che possono attraversarli, sul significato profondo del consenso, del rispetto dei confini e dell’identità dell’altro. Parlare di affetti in classe significa anche sfidare modelli culturali radicati, smontare pregiudizi e stereotipi di genere che, fin dall’infanzia, influenzano la percezione di sé e dell’altro, e che troppo spesso sono alla base di comportamenti discriminatori, sessisti o violenti. Accanto a tutto questo, è ormai imprescindibile un’educazione digitale che affronti in modo critico l’uso delle tecnologie e dei social media. Viviamo in una società iperconnessa, dove le relazioni passano sempre più spesso attraverso schermi e piattaforme digitali. Ma se da un lato il digitale offre nuove opportunità, dall’altro espone i più giovani a rischi significativi: cyberbullismo, dipendenza dai social ed esposizione a contenuti tossici o espliciti.

Un’educazione digitale ben strutturata deve fornire strumenti per muoversi con responsabilità e consapevolezza in questi ambienti, imparando a riconoscere e denunciare comportamenti dannosi, proteggere la propria privacy, e soprattutto mantenere un atteggiamento critico verso ciò che si consuma e si condivide online. Non si tratta di delegare alla scuola un compito che spetterebbe solo alla famiglia, ma di riconoscere che educare è una responsabilità collettiva. Le istituzioni scolastiche hanno il dovere e l’opportunità, di creare spazi di confronto, ascolto, e formazione che aiutino a crescere liberi, rispettosi, capaci di amare senza possedere, di comunicare senza aggredire e di scegliere senza subire. Investire nell’educazione sentimentale, affettiva e digitale non è un lusso, ma una necessità. Peraltro, è l’unico modo per costruire una società in cui le relazioni siano fondate sul rispetto, sulla parità, sull’ascolto e sulla libertà. Infine, una società dove nessuno venga giudicato per ciò che è, ma accolto per ciò che prova, pensa e sogna.

Quanto accaduto a Viterbo, in occasione della solenne celebrazione della Festa di Santa Rosa, il 3 settembre, ieri, è la testimonianza concreta ed eloquente di quanto il nostro sistema di sicurezza sia oggi in grado di rispondere con efficacia ed intelligenza operativa a minacce gravi e potenzialmente destabilizzanti per la sicurezza nazionale. Erano in procinto di commettere, due uomini di origine turca, pesantemente armati e, loro malgrado, già attenzionati dagli apparati di sicurezza, sono stati arrestati grazie ad una brillante operazione condotta dalla DIGOS in collaborazione con le unità operative territoriali, e con il supporto attivo delle due principali agenzie di intelligence italiane l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (AISE) e l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (AISI). È fondamentale sottolineare come il risultato sia frutto di un lavoro di sinergia finalmente efficace tra intelligence interna ed esterna e, peraltro, hanno operato con coordinamento impeccabile, condividendo informazioni tempestive e agendo con riservatezza, lucidità, e tempismo. Il successo dell’intervento è figlio di un approccio preventivo, ma non reattivo. Si è intervenuti prima che il piano, potenzialmente terroristico, si concretizzasse, scongiurando una possibile tragedia e preservando la sicurezza di migliaia di cittadini presenti all’evento.

Non possiamo che esprimere un ringraziamento profondo ed istituzionalmente doveroso a tutto il comparto della sicurezza, in particolare alla DIGOS, alla Polizia di Stato, ai NOCS, alle unità cinofile e ai servizi di sorveglianza territoriale che hanno garantito, nonostante l’altissima tensione, il regolare svolgimento della manifestazione. Presente alla celebrazione anche il Ministro degli Esteri, Vicepresidente del Consiglio e Segretario Nazionale di Forza Italia Antonio Tajani, mentre l’ambasciatore israeliano Jonathan Peled, atteso tra gli ospiti, ha scelto con prudenza di non partecipare, a causa di informazioni di rischio emerse nelle ore precedenti. Questa scelta prudente e il contesto in cui si inserisce, testimoniano quanto simbolicamente rilevante potesse essere l’obiettivo di colpire rappresentanti istituzionali italiani e stranieri, durante una festa popolare religiosa, con conseguenze umane e politiche devastanti. In questo quadro, è lecito parlare di un attentato sventato non solo sul piano operativo, ma anche su quello simbolico. Colpire in una cornice religiosa, di festa, di tradizione condivisa, avrebbe significato attaccare il cuore stesso della coesione civile, la fiducia nelle istituzioni e la libertà di partecipazione pubblica.

È un segnale chiaro che il terrorismo, in forme dirette o ibride, è ancora una minaccia concreta per l’Italia, e non solo nei grandi centri urbani o durante eventi internazionali. Il bersaglio può essere ovunque anche in un piccolo comune, durante una processione e in un momento di fede. Questo impone una riflessione collettiva e un rinnovato impegno sulla cultura della sicurezza. Il successo dell’operazione di Viterbo deve ora essere valorizzato come modello operativo con un rapido scambio informativo tra le agenzie, il coordinamento, senza gelosie, istituzionale, la capacità investigativa sul territorio e l’uso integrato delle tecnologie, e degli apparati locali. Ed, peraltro, è anche la dimostrazione che l’Italia, se vuole, può esprimere eccellenze non solo nella reazione a fatti compiuti, ma specialmente nella prevenzione intelligente e strategica. Il lavoro delle intelligence italiana, sia sul fronte interno che su quello estero, merita il massimo rispetto ed apprezzamento da parte delle istituzioni democratiche. Operano nell’ombra, ma sono la prima linea di difesa del nostro Stato di diritto. A loro, alla DIGOS, alle forze speciali e a tutti gli operatori coinvolti, va il mio grazie. Senza di loro, oggi staremmo raccontando un’Italia ferita. Invece, possiamo raccontare un’Italia che ha saputo proteggersi, in silenzio, ma con fermezza.

Borgo Faiti una frazione del comune di Latina fondata durante la bonifica nel periodo fascista, non è una località  dormitorio, si vive bene  e la sua popolazione è gente laboriosa e attiva. Presso la Parrocchia della Chiesa della Beata Vergine del S.S. Rosario c’è anche un attivo centro sociale con oltre 300 iscritti, provenienti anche da zone limitrofe, che riesce ad adempiere a diversi impegni sociali. In questo centro di periferia collocato tra l’incrocio della  SS7  con la SS 156 dei Monti Lepini,  sono presenti alcune attività di ristorazione, dove si possono gustare  ottime prelibatezze culinarie.

Oltre agli aspetti positivi di una convivenza piacevole e tranquilla immersi nella natura,  si ritrovano però situazioni che rendono difficoltosa la vita quotidiana. Tra poco  ci sarà l’apertura della scuola e quando arriverà il maltempo causato dalle giornate di pioggia, si riproporranno  dei disagi già vissuti negli anni passati, quando i genitori si trovavano nell’impossibilita di portare i figli a scuola. Considerato che la scuola elementare e media di Borgo Faiti conta di un totale  di circa 300 alunni  che vengono regolarmente accompagnati dai loro genitori, tutti sono soggetti a sottostare ad un ferreo regolamento: devono aspettare l’apertura del cancello principale e non si può entrare neanche nelle giornate di pioggia. Quando la situazione metereologica volge al peggio e le situazioni dei canali sono a rischio, nella provincia di Latina è sufficiente una pioggia più durevole del solito per mettere in ginocchio strade e campi. I genitori non possono  entrare in quello spazio enorme  all’interno della scuola e devono permanere con i loro bambini in mezzo alla strada, con i loro ombrelli aperti, sotto temporali e fulmini. e con i piedi dentro l’acqua.  Ad aggravar ancor più la triste realtà c’è il fatto che secondo voci attendibili non si possono portare neanche i vestiti di ricambio agli alunni a scuola.  Nei paraggi dell’ istituto scolastico ci sono anche dei grossi alberi  ubicati  su strada che eventualmente dovesse verificarsi una raffica di vento, possono cadere  e creare un disastro.

Nel comprensorio della  scuola si scorge un’altra struttura facente  parte delle  Medie. Doveva essere la parte dove si dovevano installare i nuovi uffici per la Presidenza  del Circolo Didattico. L’appalto era stato affidato ad una ditta nel 2011  ed erano cominciati subito dopo i lavori, invece nel 2014  e non si sa per quale ragione, hanno bloccato tutto  e a rammentare a tutti l’incompletezza, sono rimasti i pilastri abbandonati da anni. E’ veramente inaudito come durante gli anni, da quando è stato chiuso il cantiere, tutto è stato abbandonato.

Nei pressi del comprensorio scolastico, c’’è una strada che non si sa se appartenga  alle Case Popolari o al Comune la quale finisce in via Docibile, davanti ad una pizzeria e subito dopo inizia una strada bianca. Sono circa quindici anni che esiste questa strada non asfaltata e non è mai stato portato un camion di breccia, per tappare le buche che si sono formare sulla strada tutta brecciata dove iniziano le case popolari. Si può soltanto immaginare cosa potrebbe succedere se qualcuno dovesse rimanere impantanato con l’automobile nel fango, provocato dalle piogge.  

Uno sconsolato cittadino di Borgo Faiti ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “La sera siamo  soli ed abbandonati, di passaggio nel nostro borgo non c’è nessuno, nessun vigile o un carabiniere, sembra una località abbandonata a se stessa”.  La stessa sensazione si ha nei riguardi dei monumento delle Forze dell’Ordine, un’opera di alto valore  sociale, con l’erba che è talmente alta  da coprire ogni percezione visiva.

 

 

 

E’ davvero un G20 dell’informazione. ll 12 settembre in Campidoglio a Roma si riuniscono i vertici dell’informazione mondiale. Lo fanno in occasione del World Meeting on Human Fraternity giunto alla terza edizione e che si svolge nell’ambito del Giubileo 2025. Il programma è stato presentato giorni fa in Vaticano per proporre al mondo un orizzonte di fraternità come “ chiave di volta per un possibile nuovo ordine politico, economico e sociale dell’esistenza umana ”. L’informazione, la libera stampa, evidentemente sono parte essenziale di questo orizzonte. La Chiesa con questo incontro è vicina ai tormenti di milioni di persone private della conoscenza e dell’approfondimento. I mezzi di comunicazione di massa servono a unire non a dividere, come sanno fare bene certi dittatori o leader finti democratici. Verità, dignità, libertà, sono le tre parole che saranno messe davanti a big dell’informazione globale. Il vertice si svolgerà nella Protomoteca del Campidoglio e sarà coordinato da padre Enzo Fortunato, Direttore della Comunicazione della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano. Un tavolo specifico è quello su Comunicazione e Informazione, dove si esprimeranno tanto i giornalisti quanto i proprietari delle testate.  “Il senso dell'incontro è mettere insieme più voci e soprattutto dire che un'informazione bella, buona e vera è possibile” ha spiegato Padre Fortunato. Tra gli spunti di riflessione i dati del World Press Freedom Index 2025 , secondo cui 4,25 miliardi di persone  vivono in paesi classificati come “zone rosse” per la libertà di stampa. Una teoria di violenze fisiche e mentali verso chi pratica il giornalismo. Le guerre in corso con centinaia di reporter uccisi o impediti di svolgere il proprio lavoro, aggravano il contesto.

Aver messo al centro del G 20 tre parole cardine- verità, dignità, libertà - vuol dire cambiare approccio, metodi di lavoro e di diffusione delle notizie  ? La parola cambiamento non è contemplata ma è essenziale per capire se si discuterà senza mettere nuove basi. Vogliamo essere ottimisti. La verità è negata in tanta parte del mondo, ma tutti ci accorgiamo di come la propaganda e una certa subcultura cerchino di manipolarla. I giornalisti sono i guardiani della democrazia ? E come si fa quando questa è calpestata e i cronisti sono visti come nemici da far tacere ? Tutte le agenzie sociali sono utili in questa fase a rompere pregiudizi mostruosi, schieramenti culturali, antipatie verso i giornalisti del Paese che guida ?  La dignità e la libertà sono valori civili essenziali, l’espressione di relazioni autentiche con lettori, telespettatori. I Paesi che limitano la libertà di stampa e di manifestazione del pensiero sono su un crinale pericoloso che minaccia la convivenza tra le persone e può incitare ad azioni violente. Si, fa bene la Chiesa a promuovere una riflessione attenta e adeguata al brutto momento che viviamo. Mettere sull’avviso i giornalisti e i loro editori anche dal non cedere alle lusinghe dei poteri, spesso abituati ad usare la stampa a proprio piacere. I cittadini da un’altra parte.

 

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