L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Free mind (189)

Lisa Biasci
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Il presente elaborato, ha lo scopo di analizzare quanto appreso dalle videolezioni del corso di giornalismo investigativo organizzato dalla Free Lance International Press, con la realizzazione finale di un articolo dal taglio di giornalismo investigativo. Ho scelto di occuparmi del caso Donato Bergamini, giovane promessa del Cosenza calcio, che per quasi tre decenni, fatto passare per suicidio.

 

 

Premesso che l’Italia, in particolare, non è un Paese abituato all’inchiesta. Eppure, nonostante tutto, non sono pochi gli ardimentosi giornalisti che intraprendono il malagevolo sentiero dell’inchiesta. Il giornalismo d’inchiesta ha temperamenti ben specifici, e prima di ogni cosa non va confuso con la cronaca giudiziaria: essa semplicemente divulga un’inchiesta svolta da altri organi, come, per esempio, la magistratura.

Gli ingredienti del giornalismo d’inchiesta sono pochi ma importantissimi:

Il primo, è la curiosità. Una buona parte di occhio interessato e critico porta a voler scavare in profondità i fatti del nostro sentire quotidiano, se la loro superficie non è limpida come dovrebbe.

Secondariamente, le altre fondamentali materie prime sono le fonti. Quanto più dirette e confidenziali possibili, le fonti rappresentano per ogni giornalista d’inchiesta la base del lavoro e la prova di veridicità riguardo le tesi sostenute. La materia di indagine si ricava tramite ricerca in database pubblici, attività di ricerca presso Enti dello Stato fino ai contatti con i diretti interessati, in cui il giornalista non manca di giocare d’astuzia per ottenere le informazioni che suppone esistere. La ricerca della verità passa anche attraverso il bluff e sottili espedienti, che permettono spesso al giornalista di crearsi da sé le fonti necessarie.

A grandi linee, va aggiunto il coraggio. Il coraggio di indagare e denunciare i “poteri forti”, che siano essi lo Stato, la Chiesa o la mafia; ma soprattutto il coraggio di assumersi personalmente tutte le variabili del rischio. Infine, come per ogni cosa, è la passione che unisce il tutto. Benché i titoli delle grandi inchieste tormentino le nostre menti a causa della ripetitività con la quale sono riportati nei giornali e alla tv, spesso non conosciamo chi ha contribuito a portare alla ribalta questi scandali.

Capita perché il giornalista d’inchiesta è per sua natura silenzioso, lascia che sia il suo lavoro a imporsi e parlare per lui. Ha compreso, prima degli altri, che fare rumore è caratteristica delle buone notizie, non dei buoni giornalisti. Ecco perché, rivalutando il giornalismo investigativo, potremo riscoprire l’essenza più genuina e profonda del giornalismo stesso.

Allora Perché dovrebbe interessarci il giornalismo d’inchiesta? Discuterne significa riflettere sul passato, ma più di ogni altra cosa sul presente e sul futuro del mondo della comunicazione giornalistica. Il giornalismo d’inchiesta è diverso dal normale giornalismo d’informazione in quanto ipotizza un lavoro di ricerca della “notizia” con un approfondimento ben superiore a quello che è necessario nel trattare qualsiasi altra notizia o evento di cronaca. E’ quel giornalismo che non si salda ai comunicati stampa e alle dichiarazioni ufficiali, ma scava in profondità alla ricerca di notizie importanti per la collettività.

Il giornalismo per essere investigativo, deve essere approfondito e legato all’indagine del cronista, il quale deve analizzare documenti e intervistare testimoni. Quello che più conta, tuttavia, è l’attendibilità delle dichiarazioni: l’autore di un’inchiesta raccoglie più fonti possibili per mettere insieme elementi inconfutabili su un tema di rilevanza pubblica di cui, spesso, qualcuno vuole tenere segreti alcuni particolari. Certo, non mancano i professionisti che sostengono che tutto il giornalismo sia per sua natura investigativo, in quanto la ricerca delle notizie implica la ricerca dei fatti.

In realtà, la differenza esiste. Infatti, il termine inchiesta implica un’indagine approfondita, volta a carpire quanto normalmente sfugge alla cronaca e il giornalismo investigativo si caratterizza proprio per la volontà di rivelare vicende nascoste. A tutto ciò si aggiungono altri fattori che rendono il giornalismo investigativo particolarmente difficile, quali la necessità di avere a disposizione molto tempo, un’adeguata preparazione, disponibilità finanziaria della testata, nonché un solido editore di riferimento.

Per capire meglio la differenza si potrebbe affermare che mentre il lavoro del reporter ordinario è riportare che qualcosa è accaduto, la sfida del reporter investigativo, al contrario, sta nello scoprire il perché. Il giornalista d’inchiesta ha come punto di riferimento il lettore al cui servizio si pone con l’unico fine di fornirgli un’informazione approfondita, puntuale e corretta, fatta di dati oggettivi, ma anche di notizie analizzate, in base ai costumi della società del momento.

Il fatto che il giornalista d’inchiesta si ponga come obiettivo principale quello di essere al servizio del lettore significa che egli, pur indagando e acquisendo documentazione su quanto è oggetto del suo interesse, non è un inquirente e non può e non deve sostituirsi alle forze di polizia giudiziaria né tanto meno alla magistratura. Il suo fine, infatti, è promuovere una presa di coscienza dell’opinione pubblica riguardo ad una particolare situazione o vicenda, al fine di far maturare in essa una certa capacità critica di discernimento della realtà.

 

Luigi Schiavone

  

Dopo il crollo, a Genova, del Ponte Morandi, sembra che all’improvviso si sia risvegliato l’interesse per lo stato delle infrastrutture nel nostro Paese. Come al solito, purtroppo, solo una tragedia (spesso drammaticamente annunciata) riesce a smuovere gli animi e, soprattutto, le istituzioni. Ancora peggio che il giusto risalto ai problemi si debba consegnare all’operato di trasmissioni televisive, piuttosto che a quello degli specialisti del settore, che da sempre si occupano di monitorare e denunciare il degrado di strade e ponti (ma non solo). Un mal costume tutto italiano che in quest’occasione vogliamo “rovesciare”, chiamando in causa un attivista da anni in prima linea con progetti che si occupano della tutela ambientale, con un occhio di riguardo all’Abruzzo dell’ormai famigerata Strada dei Parchi, Augusto De Sanctis.

Augusto, chiariamo subito la questione A24/A25, il rischio di crolli è davvero così imminente e probabile, come abbiamo scoperto in queste ultime settimane?

Noi abbiamo un enorme problema, che in termini economici ha una rilevanza pari a circa tre miliardi di euro. I viadotti in questione non sono adeguati alle nuove normative antisismiche, come d’altronde moltissime altre infrastrutture sparse per l’intero territorio nazionale. Purtroppo molti piloni sono al momento degradati, perché le opere furono edificate negli anni ’70 e da allora non sempre sono state sottoposte a un’adeguata manutenzione. I necessari lavori hanno ovviamente bisogno di una certa tempistica che è condizionata proprio dallo stato attuale dell’usura. Eventuali terremoti, di conseguenza, potrebbero fare al momento danni laddove la manutenzione è stata finora insufficiente. Attualmente le autostrade in questione, nei tratti sottoposti a verifica da parte del gestore, hanno valori dell’indice di sicurezza in molti casi di poco superiori al minimo e in tre casi addirittura al di sotto. Dati, peraltro, ritenuti non attendibili dai tecnici del Ministero.

Come si è potuti arrivare a una tale, catastrofica, situazione?

Bisogna precisare che noi ci occupiamo delle autostrade già da molti anni, impedendo il mega progetto che avrebbe bucato tutte le montagne abruzzesi per un nuovo tracciato. I cittadini ci avevano già segnalato alcuni viadotti fatiscenti, come quelli di Isola del Gran Sasso, ma solo pochi giornali locali ne avevano divulgata la notizia. Poi c’è stato il crollo del Ponte Morandi, che ha creato un effetto mediatico tale da far muovere anche le testate più famose, come la trasmissione Le Iene. Io mi sono recato personalmente a visionare questi viadotti, con un nostro ingegnere e tornando a casa, benché sia abituato a seguire situazioni notoriamente dolorose, come la mega discarica di Bussi, devo ammettere che mi sono sentito sconvolto. Anche le immagini, che pur da sole fanno indignare, non possono traumatizzare quanto toccare con mano il calcestruzzo e vederlo sgretolare. Oltre all’impatto emotivo, va rilevato che si solleva anche un moto di rabbia, perché queste autostrade furono realizzate dai nostri padri, a fronte di enormi investimenti di denaro pubblico. Vederle ridotte in tali condizioni, tra l’altro con pedaggi così esosi, indigna parecchio. Si è discusso molto dell’operato di Danilo Toninelli, ma chi dovrebbe dare delle risposte sono soprattutto i suoi predecessori. L’attuale ministro ha però parlato di situazione eccezionale, dopo aver inviato i suoi ispettori, come se questi controlli non si potessero eseguire, ma non è così, basta leggere la convenzione per appurare che, in fondo, chiunque si poteva recare, in qualsiasi momento, a visionare lo stato delle infrastrutture. A nostro avviso ora il Ministero dovrebbe ordinare una verifica da parte di un organismo completamente pubblico.

Qual è quindi la prospettiva futura per questi tratti?

Visti gli indici di rischio citati, ammesso e non concesso che descrivano l’esatto livello di sicurezza, certamente c’è bisogno di un intervento radicale. Che la manutenzione ordinaria sia mancata è sotto gli occhi di tutti, quindi il fattore tempo incide parecchio, perché non possiamo sapere quando il territorio sarà sottoposto a un nuovo terremoto. In Abruzzo ciclicamente avvengono scosse telluriche che possono raggiungere anche i 7.5° della scala Richter, molto rare in verità, mentre più frequenti sono quelle al di sotto dei 6°, per cui la questione è sapere se anche in seguito a queste le strutture potranno cedere. Oltretutto il degrado non si arresta mentre noi ne stiamo discutendo, ma proseguirà finché non s’interviene, di conseguenza appare evidente come i rischi aumentano, per l’appunto, con il trascorrere del tempo. Ecco perché la tempistica degli interventi a mio avviso sarà fondamentale. Auspico quindi un nuovo e motivato impegno civile da parte di tutti i cittadini, se davvero si voglia provare a risolvere questa e altre drammatiche situazioni. Non si può pensare che il peso, vi garantisco molto oneroso, di denunciare tutto ciò che non

 
 Augusto DeSanctis (a sin.)  e Fabio Rosica

funziona, debba passare solo attraverso il lavoro delle associazioni, ormai gravate di un peso eccessivo, visti anche i tanti impegni cui bisogna far fronte.

I recenti avvisi di garanzia che la Procura di Teramo ha emanato nei confronti di sei tecnici, hanno definitivamente legittimato la necessità di fare chiarezza sui supposti inadempimenti manutentivi delle autostrade A24 e A25. Dalle parole di Augusto De Sanctis, comunque bilanciate e avulse da facili speculazioni di carattere “spettacolare”, che evidentemente non gli appartengono, abbiamo percepito quali e quanti siano i rischi che stiamo correndo. Infatti, oltre a quelli, facilmente immaginabili, che ci inducono a temere altre tragedie annunciate, ci sono le possibili ripercussioni economiche e sociali, dovute a un’eventuale chiusura, anche se temporanea, di quei tratti. Lì dove transita una linea ferroviaria con un unico binario, è facile immaginare che tale prospettiva riporterebbe l’Abruzzo e gran parte del Centro-Sud Italia, indietro nel tempo fino agli anni ’50. Anche da parte nostra, pertanto, l’invito rivolto alle istituzioni e ai concessionari si concentra in quest'unica frase: fate in fretta e fate bene.

 “Occorre avere la modestia e la prudenza di riconoscere che non tutto è per noi spiegabile”

                 

Tra Etruschi e Appiani - Da qualche tempo a questa parte, a seguito delle precisazioni sempre più a carattere stringente sulla arbitrarietà della decisione di trasformare l’ipogeo di Marciana in una fantasmagorica zecca del Principato di Piombino, appare del tutto evidente che le azioni che la Pubblica Amministrazione della Provincia e della Regione dovranno intraprendere saranno quelle di ripristinare un patrimonio archeologico del nostro Paese, sottraendolo all’uso a cui finora è stato destinato. Anche nella passata stagione estiva i fantasmi dei Principi Appiani, evocati dagli artefici della zecca, hanno guidato i visitatori a pagamento, all’interno del museo colà allestito, dove di sicuro gli accompagnatori avranno saputo illustrare la storia di questa fucina nella quale venivano coniate le preziose monete.

 

Chi ha contribuito direttamente o indirettamente a mantenere le cose come stanno all’interno dell’ipogeo in cui è stato allestito il museo della zecca, è il Prof. Luigi Donati, che com’è noto è un esperto di archeologia etrusca, il quale è stato incaricato dalla Soprintendenza di Firenze di esprimersi sulla natura dell’ipogeo di Marciana.

Egli si è quindi recato in trasferta all’isola d’Elba prendendosi il tempo necessario per esprimere in modo compiuto il risultato della sua indagine tecnica e, aggiungeremo noi, logica del suo pensiero.

L’ esperto incaricato - Che cosa poteva mai rappresentare oltre la stessa evidenza, anche agli occhi del professor Donati quel luogo tetro a Marciana, nella rievocativa via della Tomba, scavato nel profondo del durissimo granito e  improntato evidentemente dal committente alla indistruttibilità, per non dire all’eternità? Sembrava, infatti, una delle solite formalità da confermare piuttosto che da analizzare, a meno che non fossero subentrati ulteriori dettagli che al momento non sono conosciuti e che hanno indotto il Prof. Donati a decidere di non decidere.

Dalla lettura di alcuni passi della sua relazione e di un suo articolo su questo argomento,           si evince infatti che egli sia stato colpito da una sorta di sindrome di Stendhal in negativo, tanto da non saper esprimere ciò che per le sue formali qualità professionali, è stato ritenuto capace di gestire nell’interesse pubblico in qualità di segretario generale dell’Istituto di Studi Etruschi di Firenze.

In conclusione egli inoltra alla Soprintendenza di Firenze una sorta di relazione nella quale, dopo aver avuto la possibilità di vedere e rivedere in lungo e in largo tutti i particolari architettonici – compresi i graffiti di Fig. 2 - all’interno delle pareti, non si pronuncia. Proprio il contrario di quanto ha fatto il Prof. Michelangelo Zecchini in una mirabile opera di archeologia comparata, nella quale ad esempio, vengono confrontati, finanche nell’orientamento, i particolari architettonici della tomba etrusca di Castellina in Chianti, più uguale che simile a quella di Marciana, Fig 3.

La ratio del quesito - ll Prof. Donati, si è soffermato sui dettagli che non ha visto, anche se avrebbe potuto in qualche modo osservare un po’ meglio, ma che non superano come dimensioni circa il 5%, dell’intero ipogeo, per affermare: «Forse, da un'accurata esplorazione degli ambienti che esistono sul lato sinistro del complesso (che non ho potuto visitare) potrebbe venire qualche ulteriore informazione”.

 

Ma quell’ altro 95% comprensivo dei particolari architettonici e decorativi che invece ha visitato, non è stato sufficiente? Lo stesso Prof. Donati è divenuto così, modestamente insicuro da non essere in grado di riferire sulla natura dell’ipogeo?

Egli tuttavia qualcosa fa, riportando il pensiero di altri secondo cui, l’ ipogeo potrebbe essere un luogo di conservazione della neve, ovvero una neviera, tralascia di indicare, come superflui, i particolari e le caratteristiche tipiche di una neviera come qui in Fig.1; caratteristiche che avrebbero sicuramente dissuaso con raccapriccio molti altri dal riportare un’ ipotesi di questo genere.

Ma non finisce qui. Il Prof. Donati, non riuscendo a esprimersi nella sua materia, per la quale è stato inviato all’Isola d’Elba, riferisce anche di un’altra tesi, secondo cui l’ipogeo in questione, scavato a mano nel granito sicuramente in molti anni di duro lavoro, poteva essere stato concepito ad uso di “un approntamento, una sorta di caveau, facente parte della locale zecca” Fig. 1.

Ovviamente, si potrebbe anche aggiungere che a prescindere dalla porta, le pareti dell’ ipogeo sono a prova di furto e non solo; avvalendosi infatti, della forma tipica degli ambienti costruiti per questo scopo, alla fine del corridoio vi è anche la scelta preferenziale della cella di destra o di quella di sinistra che danno maggior senso all’architettura per depositare in una il materiale da conio e nell’ altra le monete realizzate; Fig.3.

Neviera, zecca o tomba di pari dubbio - Per le ragioni viste sopra, il Prof. Donati impronta alla prudenza il suo pensiero, dando appunto la medesima probabilità di errore ai suoi “dubbi che in definitiva hanno ragione di esistere ma che non sono più circostanziati e numerosi di quelli che impediscono ad un etruscologo di riconoscere un monumento di sua competenza”.

Per renderci conto quali siano i particolari architettonici che esprimono per il Prof. Donati il medesimo livello di dubbio interpretativo, basta osservare la differenza architettonica tra l’ipogeo di Marciana e una tipica neviera; poi la differenza tra l’ipogeo e una zecca dove all’ interno poteva esserci, come detto sopra, una sorta di caveau e infine, l’ipogeo di Marciana e la tomba etrusca di Castellina che al Prof. Donati ha suscitato i medesimi dubbi del caveau della zecca e della neviera.

Sono proprio questi amletici scrupoli professionali, per i quali egli conclude con questa responsabile decisione che ricorda quella che nei tempi di Cristo a Gerusalemme divenne celebre, e che egli esprime in questi termini : “In conclusione, di fronte a casi complessi come questo, occorre avere la modestia e la prudenza di riconoscere che non tutto al momento è per noi spiegabile, nella speranza che qualche confronto o qualche novità fortunata portino altri elementi chiarificatori».

Abbia speranza il Prof. Donati.

Perché le banche non fanno la concorrenza alle fondazioni e alle case d'asta sul mercato dei dipinti del 900?

 

 

Le banche sembra abbiano poca visione del futuro. In Italia, per esempio non ve ne è una che sia in grado di concorrere sul mercato dei dipinti del 900. Eppure potrebbero guadagnare di più. E allora?

Facciamo delle considerazioni chiarificatrici, tanto per sgombrare il campo da ogni dubbio.

In Italia ed in Europa, ma non negli Usa, fondazioni e comité di artisti del 900 hanno il potere di sentenziare, in esclusiva, su quadri e sculture di artisti del periodo, perché, altrimenti, senza una loro approvazione le case d'asta non accetterebbero la vendita delle opere.

Le fondazioni sono gestite dai parenti degli autori, che le hanno fondate, e fanno il buono e cattivo tempo sul mercato, con esperti scelti da loro stessi. Perché?

Le case d'asta, invece, che hanno i loro esperti, non contano nulla, se non solo per indicare il valore di vendita dell'opera. Ma come è possibile che ciò accada?

Cosa succede, quindi, se per caso si eredita un'opera del 900 non autenticata, e le case d'asta si rifiutano di venderla, anche se si presentano attestati di esperti d'arte nazionali o internazionali?

Che gli esperti esterni alle fondazioni sembrano non contare nulla.

La legge italiana sulle fondazioni è ancora ferma al periodo del fascismo, per cui avrebbe bisogno di una bella revisione, ma tra i vari parlamentari, a nessuno interessa. Perché?

Giochini di potere. Qualche piccola casa d'asta, in presenza di attestati di primari esperti, provano a vendere l'opera a quattro soldi rispetto al reale valore di mercato, se ci fosse l'avallo della fondazione di riferimento. Poi, può accedere che su segnalazione alla fondazione di competenza, questa acquisti l'opera sottobanco, ancor prima di essere messa all'incanto, e successivamente approvi l'opera stessa per poi rivenderla al di mercato, guadagnandoci un sacco di soldi.

E su queste storture del mercato, forse, sarebbe necessario l'intervento della magistratura.

Negli Usa, invece, le fondazioni, per legge, non possono rilasciare alcuna autenticazione , ma solo promuovere le opere degli autori di loro pertinenza, con convegni, esposizioni,ecc.

Dunque, il mercato, italiano ed europeo, risultano drogati dal potere che hanno le fondazioni, senza alcun merito, e da case d'asta accondiscendenti che seguono come cagnolini il loro padrone.

E le banche? Se si dessero una smossa, forse il mercato dell'arte potrebbe essere più fiorente, e scalzare il potere delle fondazioni.

Come? Facendo valutare le opere da propri esperti, scavalcando le fondazioni stesse, ed inoltre, su stime fatte dai loro esperti, concedere un anticipo sul valore presunto a chi lo richiede.

Ma come sopravvivono le fondazioni? Per ogni quadro, già catalogato da loro, e che viene venduto all'asta ricevono il 4% sul valore di acquisto, praticamente a vita.

Chi è in grado di spezzare questa catena dell'arte?

Dulcis in fundo. Le opere ante 900, dove non esistono fondazioni, si vendono all'asta solo con l'avallo degli esperti qualificati esistenti sul mercato.

E' bene ricordare che recentemente un'opera attribuita a Leonardo da Vinci è stata venduta negli Usa a 450 milioni di dollari, proprio da una casa d'asta internazionale. E se per caso, ci fosse stata una fondazione, l'opera poteva anche valere quattro soldi.

Ed allora, perché le fondazioni debbono avere l'esclusiva del mercato?

Dove non ci sono fondazioni gli esperti valgono, altrimenti no. Qualcuno è in grado di interrompere questo gioco delle parti?

                   

“Premio Italia diritti umani 2018” ®

Dedicata alla memoria dell’ ex Vice-presidente della Free Lance International Press Antonio Russo.
Aula Magna della facoltà valdese di teologia
Via Pietro Cossa  40  (piazza Cavour) ROMA

ROMA 14 Ottobre 2018

Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.

 

In collaborazione con - Amnesty International – sezione italiana e Cittanet

 

PROGRAMMA

Moderatrice e presentatrice del premio: Neria De Giovanni, Free Lance International Press, Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari.

Interventi



Antonio Cilli: Cittanet founder
Mobile e video, un nuovo modo per fare giornalismo - Ore 16.10

Emanuela Scarponi - agenzia di stampa Africanpeople
Diritti umani in Africa - Ore 16,20 –
Maria Elena Martini – Presidente Ass. Arte e Cultura per i Diritti Umani
Educare ai Diritti Umani - Ore 16.30

Riccardo Noury - Portavoce Amnesty Italia
Le periferie dimenticate del mondo - Ore 16,40

Buffet ore 16.50 
Ore 17.10 - L’associazione Artisti civili presenta un estratto da
“Denunciami pure”
 di e con Ferdinando Maddaloni e Katia Nani  
ore 17,30
PREMIO ITALIA DIRITTI UMANI 2018

- Consegnano i premi e leggono le motivazioni gli attori:
 Elena Di Cioccio, Alessandra Izzo, Domenico Macrì, e lo scrittore Paolo Di Orazio 
Donate opere degli artisti:
Isabella Scucchia, Nastasya Voskoboynikova, Liliya Kishkis Marotta, Guia Muccioli


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Tel./fax ++6-96039188 - 32111689                                       e mail:
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 Quello che ci insegna il chirurgo di Lanciano         

               

Non ringrazieremo mai abbastanza Carlo Martelli, il chirurgo di Lanciano che, dopo la feroce aggressione in casa da parte di una banda di criminali, dal suo letto di ospedale, parlando a fatica, è stato in grado, con grande naturalezza, di pronunciare parole prive di odio, parole di salutare razionalità. Le armi in casa - ci ha detto - meglio lasciar stare. Non possono veramente aiutare a difenderci, ma possono solo renderci peggiori e più vulnerabili. Meglio confidare nelle forze dell’ordine e mettere da parte le pericolose pulsioni alla “giustizia fai da te”…

Bellissima la sua capacità di resistere alla tentazione della rabbia. Bellissimo il suo pacato ragionare non alterato, non imbrattato e incattivito dalle violenze subite.

Certo, non pochi giornalisti e direttori di giornali forcaioleggianti ci saranno rimasti piuttosto male (magari censureranno, manipoleranno, stravolgeranno). Anche per questo, bisognerebbe continuare a fargli interviste. Bisognerebbe invitarlo, una volta ristabilito, in tutti i programmi televisivi dove si urla e si inneggia ad un sempre maggiore uso della “forza”, sempre più vista e invocata come unica panacea.

Qualcuno ci disse che sarebbe meglio non aver bisogno di eroi (che, tra l’altro, spesso hanno pure combinato non pochi guai). D’accordo, facciamone pure a meno. Ma di persone così, che anche in situazioni estreme, che, anche nei panni di vittime “umiliate e offese”, non intendono rinunciare ad avere fiducia nel prossimo, nella giustizia fondata sul diritto, nella ragione che non vuole smettere di operare in maniera “chiara e distinta”, di persone così abbiamo tutti un immenso bisogno …

Per non essere risucchiati nel gorgo delirante e astuto dell’odio e della paura, nelle trappole di chi, in nome della difesa dei nostri corpi e (soprattutto) dei nostri portafogli, rischia di riuscire (giorno dopo giorno) a rubarci l’anima.

È difficile anche con la fantasia arrampicarsi sugli specchi per sostenere a lungo il tentativo. Auspicato l'intervento della Regione Toscana 

Le zecche italiane

Nel 2011 oltre 60 studiosi di tutto il mondo contribuirono con la loro scienza numismatica a ‘costruire’ due ponderosi volumi per un totale di 1664 pagine che - citiamo da IBS - “raccolgono la documentazione relativa a tutte le zecche italiane dal V secolo d. C. fino all'unità d'Italia. Si tratta di una ingente massa di dati ampiamente documentati, qui raccolti per la prima volta in un'unica opera, che offrono una comprensione ampia e comparativa delle attività delle zecche italiane... Non esistono lavori simili in ambito europeo”. Tale opera, che uscì con il titolo “ Le zecche italiane fino all’Unità”, fu pubblicata dall’Istituto Poligrafico dello Stato e fu curata dalla Prof.ssa Lucia Travaini dell’Università di Milano, considerata a ragione, dovunque, un’autorità in fatto di numismatica e di sedi di zecche, ma di Marciana non se ne fa menzione.

Orbene: nel mese di novembre 2017 intervistai la Prof.ssa Travaini sulla storia delle zecche. L’ ultima domanda riguardò la discussa veridicità della zecca di Marciana, ubicata in un ipogeo che il Comune ha dotato di allestimento museale, aprendolo a pagamento al pubblico.

La risposta bocciò ampiamente e con decisione, l’ipotesi di una zecca a Marciana. La stessa intervista fu pubblicata in significative riviste di archeologia e numismatica nazionali ancora reperibili on line, oltre alla sintesi, pubblicata come resoconto sulla stampa on line dell’Elba, affinché ne fosse informato anche il Comune di Marciana.

L’ aspettativa in primo luogo, era che il Comune, proprio perché allo scopo aveva speso qualche decina di migliaia di euro, verificasse le affermazioni contenute nell’intervista sentendo la Prof.sa Travaini o comunque esperti diversi da quelli locali a suo tempo retribuiti per il progetto zecca; in secondo luogo gli amministratori di questa suggestiva cittadina, che non ha bisogno di attrarre visitatori con invenzioni storiche perché trasuda di storia ‘vera’ da ogni casa che si osserva e da ogni via che si percorre, prendesse le determinazioni opportune.

L’eccesso di sicurezza

Niente però di tutto questo è avvenuto. Il museo della zecca   è stato riaperto nella stagione estiva senza verifiche scientifiche. Il Comune continua a diffonderne le notizie sul suo sito ufficiale. La pubblicità non si è fermata; i turisti hanno continuato a entrare a pagamento seguendo l’insegna di “una zecca che non c’è mai stata”.

Nel caso che, come sembra, i finanziamenti per il progetto zecca di Marciana provengano anche dalla Regione Toscana, considerata l’ insensibilità sul tema da parte del Comune, si renderebbe necessario l’intervento della Stessa Regione per chiarire come stanno le cose. Proseguendo infatti, su questa via, non si fa un bel servizio né a Marciana, né all’Elba, né alla Toscana, né agli ignari visitatori di un museo fondato sulla pubblica credulità di questa fantasmagorica zecca e tanto meno al nostro Paese che vive della autenticità del proprio patrimonio artistico e della credibilità del mondo intero.

Dal generico al concreto

Ecco cosa scrive nel suo sito ufficiale il Comune di Marciana che però, non disponendo di alcun supporto storico che possa dimostrare quanto sostiene, con le sue affermazioni conduce a un travisamento della realtà.

“La Zecca di Marciana venne fatta realizzare dalla famiglia Appiani intorno agli ultimi anni del Cinquecento. Il paese di Marciana infatti, fu utilizzato dai Principi di Piombino come residenza estiva, collocata nell’attuale “palazzo Appiani”. Le motivazioni della scelta di Marciana anziché in altro centro dell’isola sono molto verosimilmente da ricercarsi nella relativa vicinanza con Piombino, nell’esistenza, in prossimità del palazzo, di una struttura fortificata e nell’essere Marciana l’unico paese elbano in contatto visivo con Piombino. Originariamente la Zecca era composta da tre ambienti adibiti alla coniazione di monete emesse nel Principato di Piombino, in cui si apriva un cunicolo scavato nella roccia granodioritica usato come probabile deposito monetario.”

E’ appena il caso di osservare che:

  • non esiste alcun documento che comprovi la realizzazione della zecca a Marciana alla fine del XVI secolo o in qualsiasi altro momento;
  • a Marciana non esiste un palazzo Appiani, ma solamente la casa di Grimaldo Bernotti, majordomo degli Appiani;
  • Marciana non era sicura, come dimostra il fatto che il pirata Dragut la devastò intorno alla metà del Cinquecento: la sua ‘ struttura fortificata” (la Fortezza) non era adatta a sostenere i terribili attacchi barbareschi;
  • da nessuna parte c’è scritto che la zecca era composta da tre ambienti e da un cunicolo usato come deposito monetario: non è assolutamente credibile che il Principe di Piombino fosse tanto “illuminato” da far scavare nel duro granito un’opera ciclopica per impegno e fatica al fine di realizzare un luogo di coniazione di monete in mezzo al mare, ossia all’isola d’Elba, poiché in caso di attacco piratesco il ricorso liberatorio più rapido e conveniente sarebbe stato solo…….. quello del pianto;
  • la narrazione di questa fantasmagorica zecca riesce ancora a stupire con fantasie come questa del cunicolo ad uso di cassaforte. Usando però la stessa moneta della fantasia, si potrebbe aggiungere che il cunicolo (e le due camere adiacenti) potrebbero essere state ispirate alle “camere della morte” di qualche tonnara della vicina costa piuttosto che al tipico ambiente della zecca. Una morte per affumicazione sarebbe stata più che certa per qualsiasi malcapitato destinato per qualche minuto, in stanze sotterranee, a quel genere di lavoro;
  • non c’è alcuna motivazione per la quale una piccola zecca, com’era quella di Piombino, gravata peraltro da seri problemi, dovesse creare una succursale a Marciana;
  • nessuno ha mai visto o descritto, per il semplice fatto che non esistono, le monete coniate a Marciana.

“Tutti gli uomini del Presidente”

A supporto della indifendibile ostinazione a favore di questo genere di zecca, il Comune ricorre infine ad una citazione mirata, chiamando in causa un numismatico del Settecento:

“Guido Antonio Zanetti, nel volume Nuova raccolta delle monete e zecche d’Italia (1779), così la descrive riferendosi ai Principi di Piombino” : «Questi le fecero coniare nella propria Zecca che avevano fatto erigere sì in Piombino in luogo vicino alla Cittadella, ove ancora si conserva la fabbrica sebbene negletta, che in Follonica, come pure nell'Isola d'Elba oltre Rio, ed anche in Marciana restando oggidì denominata una stanza di ragione della Casa Bernotti la Officina della Zecca”..

Il fantasioso numero di zecche cosparse nel piccolo Principato di Piombino (Follonica, Rio e Marciana) non regge il confronto con la reale disponibilità monetaria della Famiglia Appiani.

A tale proposito è sufficiente riportare il parere della Prof.ssa Travaini che così si esprime: “Vorrei però ricordare che questa trattazione sulle monete di Piombino dello stesso Zanetti fa parte di una grande dedica dell'intero volume all’eminentissimo e reverendissimo Principe Cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi dei principi di Piombino eccetera eccetera. Benché lo Zanetti fosse uno studioso di grande serietà, il fatto di aver inserito questa nota in chiusura della sua trattazione sulle monete di Piombino (posta in apertura al volume e da lui redatta) può lasciar pensare a una lieve sfumatura di ostentazione nell'enfasi elogiativa”.

Non tutto è evanescente

Un’altra citazione dello stesso Comune Marciana ricorda che: “il Museo della Zecca di Marciana è stato inaugurato nel 2014 su progetto degli architetti Silvestre Ferruzzi e Luciano Giannoni”.

A questo punto, per meglio capire come sono andate le cose, si rende opportuno chiedere a terzi in causa per quale motivo ufficiale sono stati richiesti e ottenuti dalla Pubblica Amministrazione i fondi utilizzati per la progettazione e l’allestimento di quel luogo a dimostrazione di zecca. Tale domanda si reputa legittima in quanto questo Museo oltre ad aver sottratto al patrimonio archeologico del nostro Paese un luogo di notevole valore storico e rappresentativo dell’epoca etrusca a cui viene attribuito, i fondi utilizzati per l’altra finalità rappresentano una distrazione di pubblico denaro a scopo (senza entrare in dettagli) non certo previsto dalla legge.

- Tra gli assolti in un processo a carico di sette persone con l'ipotesi di traffico di materiale 'dual use' in violazione dell'embargo, conclusosi ieri a Como, figura anche il corrispondente per l'Italia Hamid Masoumi Nejad dell'Irib, il network di stato della Repubblica islamica, nonché socio della Free Lance International Press.

Hamid è un giornalista della Stampa estera, molto noto in Iran per i suoi servizi dall'Italia. Su di lui è stato di recente scritto anche un libro per denunciare i lunghi anni passati senza una sentenza, e per il trattamento ricevuto - compreso il carcere in isolamento - per il sospetto di essere una spia. "E' la fine di un incubo” ci ha raccontato il nostro collega, vittima innocente di giochi di potere che passano sulle teste di tutti noi – Noi che conosciamo bene il collega e lo abbiamo sostenuto in tutti questi anni, consapevoli della sua estraneità ai fatti, non abbiamo mai avuto modo di dubitare della sua onestà intellettuale e  grande professionalità. Nell'ordinanza c'era scritto che non era giornalista e l'associazione dei giornalisti lo sospese solo sulla base delle notizie dei giornali. Il collega in tutti questi anni ha solo chiesto una sentenza. Ora chiede una notizia, perché : ” quando mi hanno arrestato sono finito in prima pagina e ora che sono stato assolto spero in un trafiletto per la dignità della mia professione".

Dopo che il grande scandalo del tir di prosciutti scomparso e misteriosamente ritrovato vuoto sotto l’abitazione dell’onorevole Quattroganasce, fu aperta un’ interrogazione parlamentare nell’intento di chiarire la faccenda.

Il primo a parlare fu il Ministro dell’Interno Il quale, visibilmente imbarazzato, disse:  “Onorevoli colleghi, quantunque le concomitanze suppositive portino incontrovertibilmente all’ anamorfosi congetturale, si presume, con assoluta certezza, che la sindrome del dubbio possa avocare la  prodromica reiezione delle lutulenti azioni lubridiche del reo“.

“Che ha detto!?”chiese il Segretario della Lega. Ha detto che stanno indagando, rispose un compagno di partito.

Allora, presa la parola, il Ministro di Grazia e Giustizia disse: “I sofismi dell’anacoluto postulato inficiano l’ipocondria latente dell’elusivo solipsismo pragmatico mentre il paradigma della  scrasia criptica obbliga a trascendere l’oggettivismo apologetico della sinapsi procedurale”.

L’onorevole Calogero Scalia mormorò al compagno che gli era accanto: “Ma ‘anacoluto’ parola offensiva è? Aah!?” Nooo! rispose sicuro e persuasivo il suo collega.

A questo punto intervenne il Ministro della Pubblica Istruzione che così si espresse: “Se la metonimia analogica edulcora il pregenetico antropofagismo tendenziale la catàbasi icastica della congettura avulsiva induce a confutare le inconsulte supposizioni obnubilate nel repente dileguarsi del tabulo bottino”.

Alcuni annuivano tra loro ostentando l’aria di chi ha capito tutto altri avevano in faccia l’espressione di chi è stato colto con le mani nel sacco.

“Ma l’hanno trovati i prosciutti?” chiese il senatore Pansagrossa. Pare di no, rispose sconsolato un suo collega.

S’era fatta ormai l’ora di cena quando qualcuno disse sottovoce che il pranzo a mensa era servito.

Non si sa come ma tutti capirono all’istante ed in un baleno si disperse l’assemblea.

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