
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
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Renato Rovetta (Il " leone di Brescia") |
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la redazione del mensile Free Lance International Press News da sinistra in alto: Antonio Russo, un collega croato, Andrea Franchini, Aldo Parmeggiani, Virgilio Violo, in basso: Giorgio Ferraresi, Paola Pepere, Alessandra Gesuelli, Leo Reitano |
Sono le organizzazioni criminali che si avvalgono soprattutto sul mare di nuovi espedienti per trasformare un piano deliberato a tavolino in un intervento di emergenza in nome della solidarietà umana
I clandestini
E’ ormai più che chiaro l’ accanimento anche di certe Autorità che si avvalgono di un vero e proprio sistema ideato per immettere il maggior numero possibile di clandestini nel nostro Paese senza regole, se non quelle improvvisate in nome della emergenza telecomandata e della umanità invocata ad arte.
I mezzi più utilizzati sono le navi delle ONG, inviate per far confliggere con le Istituzioni del nostro Paese e per raccogliere sovvenzioni in beffa, anche da parte degli stessi italiani; navi delle quali si avvalgono sia i noti Stati europei attualmente intenti alla disgregazione politica e economica italiana, sia i nemici interni corrosi da odio politico che supera il sentimento di difesa della territorialità nazionale.
Gli uni e gli altri si propongono di creare una indebita ingerenza in Italia attraverso i “salvataggi” dei così detti “naufraghi” prelevati dagli zatteroni allestiti allo scopo, poco più lontano dalle coste libiche.
Vi sono infatti le note ONG che con ogni pretesto si trovano per caso, naturalmente, nelle condizioni di raccogliere immigranti in difficoltà sulle zattere in partenza dalla Libia.
Ciò avviene in modo che per ragioni di sicurezza questi siano soccorsi e trasferiti direttamente in Italia al fine di creare e acuire lo scontro politico con la bagarre.
E’ vero che nel momento del trasbordo la documentazione fotografica parla chiaro sullo stato di imminente affondamento. Ma forse neppure i più creduloni personaggi delle fiabe potrebbero pensare che con un semplice coltello non si possa sventrare un imbarcazione pneumatica, inscenando il naufragio al momento opportuno. Si noti la coincidenza del trasbordo con lo sgonfiamento dei gommoni.
Corsi e ricorsi storici
Visto e considerata la stretta relazione tra i soccorritori di questo genere e i flussi migratori indagati dalla Magistratura nel modo contraddittorio a cui abbiamo assistito, è stato ora escogitato un altro sistema.
Si tratta del “soccorso terzo”, ossia , di coloro che per caso si imbattono in barche o gommoni di emigranti e che segnalano a loro volta questa presenza alle navi che con sorprendente tempestività si recano sul posto, raccolgono gli immigranti e li trasportano nei nostri porti.
E’ questo un vecchio trucco che in Italia e in particolare le Istituzioni marittime preposte al controllo dovrebbero ben riconoscere. L’ espediente consiste nell’ “avvistamento per caso”, così come quando nell’ultima guerra, la flotta e l’aviazione inglese ha “per caso”, distrutto con cronologica puntualità, le nostre più prestigiose navi da guerra e da trasporto.
Sia consentita una piccola digressione per spiegare quanto sopra.
L’ Inghilterra dopo aver penetrato il codice segreto di guerra adottato dalla Regia Marina, utilizzava il trucco dell’ aereo da ricognizione a cui venivano date le coordinate navali di rotta per incrociare le nostre navi; si trattava di un aereo che sorvolava “per caso” naturalmente, gli obiettivi navali.
Mentre veniva così fatto credere all’Autorità italiane che da quel momento in poi, il ricognitore avrebbe segnalato la presenza navale italiana alla formazione aero-navale inglese, quest’ ultima invece che da tempo attendeva bene impostata il passaggio delle nostre navi, appariva all’ improvviso nel luogo più vulnerabile.
Tali avvistamenti venivano imputati dallo Stato Maggiore italiano a strane coincidenze della ricognizione aerea ed erano pertanto, imprevedibili e giustificati solo dalla malasorte dell’ imprevisto.
La catena di Sant’ Antonio”
È così che adesso le ONG non intervengono direttamente ma attendono la segnalazione “per caso fortuito” di un segnalatore di passaggio, della presenza di queste zattere, e il gioco del braccio di ferro delle opposizioni con il governo è subito innescato.
A questo punto si scatena l’asfissiante attacco alle Istituzioni con l’immancabile ipocrisia di certi ambienti italiani ed esteri, ormai specializzati in questo genere di cose. E a molto poco potranno, ai fini utili delle indagini sulla responsabilità diretta delle ONG, le Procure di Palermo o di Catania o di Ragusa o di Trapani. Non solo, ma lo scaricabarili della prima conoscenza della posizione in mare delle bagnarole destinate a imbarcare acqua a poche miglia della costa, si avvarrà nel futuro di sub organizzazioni sempre più piccole, ingannevoli e sfuggenti; organizzazioni collegate con un semplice cellulare in una sorta di “Catena di Sant’ Antonio” per le quali se non verranno impartite alla radice nuove disposizioni di indagine, sarà sempre più difficile individuare l’ origine dell’ invasione del nostro Paese.
Di nome e di fatto gli “Orologi del mare” si presentano con cronologica puntualità davanti ai porti del nostro Paese per scaricare il fardello politico anti italiano delle violazioni in dispregio alle leggi; leggi che però, troveranno sempre il livore politico della interpretazione contro l’attuale “Nemico” da abbattere.
Premessa della situazione
Si sostiene per scagionare le intenzioni del capitano della Sea Watch, di non aver compiuto alcun atto ostile nei confronti dell'Italia in quanto la forzatura dell’ approdo da parte di una nave che trasportava profughi non può rappresentare alcuna minaccia; ragion per cui questa o altre navi che ancora si presenteranno con loro carico nei porti italiani, potranno attraccare senza problemi poiché tutto ciò è stato reso regolare.
Le obbiezioni
La prima obiezione da fare è che una ONG come la Sea Wacth, predisposta proprio a questo scopo non può prescindere dalla responsabilità dei ruoli del personale di bordo e di terra e dalla premeditata consapevolezza di violare con la forza il preventivo divieto di approdo di uno Stato sovrano.
La seconda obiezione è di carattere interpretativo così come interpretativa è stata la giustificazione giuridica a favore della Sea Wacth fino adesso ottenuta, per ammantare di legalità lo sbarco delle persone trasbordate.
Ma ricercare per mare imbarcazioni di clandestini destinati in Europa e trasferire a bordo tutti quanti per dirigersi nel nostro Paese, malgrado il tassativo divieto delle Autorità italiane, significa mettere in atto una sorta di trasferimento pilotato di clandestini che oltretutto, potevano essere diretti altrove. Si tratta quindi di una fattispecie di violazione che non può avere qualità diverse da quelle che scaturiscono da una invasione di gruppo oltre il fatto che la Sea Wotch ha approdato in porto in condizioni di scontro fisico con navi militari che ne impedivano l’ ingresso.
La reiterata intenzione
Il fatto non è avvenuto casualmente per eventi naturali e imprevisti, ma attraverso la pervicace volontà del comandante, di andare prima a cercare per mare i passeggeri delle imbarcazioni partite dalle coste africane (questo è il compito) per trasferirli poi, a bordo, iniziando così la forzatura politica e militare delle nostre direttive costiere.
Era di recente avvenuta la incresciosa imposizione dell’accoglienza in un porto italiano della nave Diciotti; fatto questo che ha rappresentato per la politica interna e internazionale la messa in accusa del Ministro delI‘Interno e la logorante contrapposizione politica tra Parlamento e governo sottratto alle consuete attività costituzionali.
Ecco che certamente con intenzioni ostili nei confronti del Governo italiano, si presenta per lo stesso scopo ora, una nave olandese con comandante tedesco che dall’oceano transita nel Mediterraneo. Questa si mette alla ricerca dei “naufraghi” che si trovavano ancora in terra d’ Africa e che naufraghi non erano, neppure quando dalla loro imbarcazione erano stati trasbordati sulla Sea Watch.
Infatti, quando la Rackete li ha prelevati dall’ imbarcazione che li trasportava, questi non si trovavano affatto in difficoltà di navigazione e tanto meno pericolo di vita; quindi il trasbordo è avvenuto senza alcuna emergenza che lo esigesse.
D’ altra parte le intenzioni del comandante dopo l’ imbarco di venire ad approdare in Italia si evincono chiaramente per essere rimasto in attesa davanti alle coste italiane per due settimane , mentre avrebbe potuto dirigersi ovunque, in questo stesso tempo.
La Rackete quindi non ha agito in stato di necessità o di pericolo o di forza maggiore previsti dal codice penale per l’impunibilità in queste circostanze. Ha agito invece sotto la premeditata ostinazione di trasportare i clandestini in Italia con il pretesto zoppo di adempiere ad un dovere da lei stessa creato, a danno e in beffa delle istituzioni del nostro Paese.
Non si tratta di capricci
Dopo i ripetuti dinieghi delle autorità portuali, il comandante Carola Racketeha continuato la serie delle disobbedienze fino allo speronamento di una nostra nave da guerra (motovedetta) del blocco navale che le autorità marittime avevano predisposto per evitare lo sbarco.
Il divieto infatti, va commisurato al contesto politico di sicurezza demografica che il governo italiano aveva predisposto a tutela degli attuali interessi di Stato; divieto di approdo divulgato ai naviganti italiani e stranieri.
Il diniego è correlato al pericolo che le ONG in particolare, ma anche altre associazioni di dubbia qualifica etica, che si stanno concretizzando con il prelevamento degli immigranti da imbarcazioni precarie sui più comodi mezzi navali dotati di quanto necessita per affrontare il viaggio collettivo verso il nostro Paese.
La domanda che alcuni avanzano alle Autorità politiche per ottenere una risposta scontata di loro comodo, è questa: “Come è possibile che una nave che trasporta naufraghi in Italia costituisca una presenza ostile?”
Come al solito per chi formula una domanda di tal genere, la risposta ovviamente dovrebbe essere scontata, nascondendo però, dietro un dito il resto della frase che viene omessa.
Per dare l’ idea
Facciamo un esempio di fantasia per rendere più chiaro il dilemma.
Se vi fosse una nave carica di dolci che attraccando in un porto intendesse regalare per liberalità, zuccherini a tutti quanti, l’ atto sarebbe certamente gradito.
Ma se queste stesse circostanze accadessero in un contesto sociale abitato da una popolazione ad alta percentuale di diabetici a cui lo Stato dedica ogni possibile risorsa terapeutica contro questa dilagante patologia, allora si tratterebbe di un atto ostile.
Di atto ostile infatti, si tratta quando il capitano della Sea Watch, consapevole della situazione dell'immigrazione nel nostro Paese e del conflitto sociale in corso su questo tema, si pone ostinatamente davanti al porto fino a forzare lo sbarramento che le Forze Armate avevano allestito; sbarramento che era stato eretto proprio per impedire alla nave l’ approdo in banchina.
Ma allora perché lo sbarco nel porto di Lampedusa non costituisce un reato per violazione di legge, attribuendo invece al capitano Carola Racketela qualifica di irresponsabile del reato consumato in dispregio delle leggi del nostro Paese?
Dopo tanti timori, ansie e brontolii, eccoci qui ad archiviare questa prima esperienza dell’Esame di Stato riveduto e corretto.
Che bilancio possiamo farne? In un’ottica di grande magnanimità, direi che è stato possibile registrare qualche innovazione positiva all’interno di un progetto globale assai discutibile.
Fra le cose positive indicherei, innanzitutto, il rilevante incremento di peso (divenuto pressoché determinante) del credito scolastico, cosa questa che consente a tutti i candidati di affrontare le prove di esame con maggiore serenità e che garantisce, in particolar modo, una maggiore raggiungibilità della soglia minima per i candidati più fragili, e un minor pericolo di spiacevoli imprevisti per i candidati più meritevoli, aspiranti a voti di eccellenza.
Direi pure non male la scomparsa della cosiddetta “tesina”, pensata, all’alba della riforma del vecchio esame, come centro nevralgico di un colloquio ariosamente inter/pluridisciplinare, ma, nel corso degli anni, mestamente retrocessa a spento rituale da celebrarsi nei primissimi minuti di un colloquio inesorabilmente destinato a precipitare in una penosa somma di tanti esamini monodisciplinari. Trattavasi, tra l’altro, frequentemente, non di vere “esperienze di ricerca” (come richiedeva l’ignoratissimo testo ministeriale), bensì di pateracchi raffazzonati, spesso pure scopiazzati o riciclati, in cui si tentava disperatamente di appiccicare insieme, con qualche vaga parvenza di logicità, poveri frammenti di programmi assortiti.
L’aspetto tragicamente negativo di questa minirivoluzione è stato, però, che, a rimpiazzare la logora e incartapecorita “tesina”, menti perverse, probabilmente più a loro agio con la dimensione dei quiz televisivi che con quella di una sana pedagogia, hanno partorito l’ideona dell’oramai celebre busta misteriosa!
Ovvero, il povero candidato-condannato, dopo essersi accomodato davanti alla commissione esaminatrice, si ritrova a dover scegliere fra tre buste proposte, contenenti ciascuna un qualche documento (artistico, storico, letterario, ecc.) da utilizzare per organizzare, in tempi assai rapidi ed in base a più o meno sensati e/o strampalati processi associativi, una sorta di itinerario multidisciplinare. Operazione questa che sembrerebbe voler verificare e premiare più la prontezza di spirito e la capacità di improvvisazione che lo spessore culturale e la serietà delle reali conoscenze e competenze acquisite.
Ma la colpa più grande e decisamente imperdonabile imputabile a coloro che hanno concepito e imposto questo nuovo esame è senza dubbio il fatto che tutto sia stato compiuto all’insegna della fretta e dell’ improvvisazione, obbligando studenti e professori a cercare affannosamente di rimodellare, nell’arco di pochi mesi ed in una condizione di grande e nebulosa indeterminatezza, metodi di lavoro collaudati nel corso degli anni.
Così facendo, anche un’innovazione indubbiamente apprezzabile, come quella di voler conferire un posto importante, nell’ambito del colloquio, a tematiche attinenti alla cosiddetta “Cittadinanza e Costituzione”, ha finito per scivolare sul piano dell’approssimazione e dell’arbitrarietà, generando soprattutto ansia ed incertezza …
Auguriamoci, in definitiva, che, in vista del prossimo anno scolastico, le regole del gioco siano ben chiare fin dall’inizio e che sia possibile, pertanto, programmare, da parte dei docenti e dei rispettivi consigli di classe, una didattica ragionata e ben ponderata che possa consentire di sintonizzarsi, sul piano pratico, senza dover compiere grotteschi giochi di prestigio, con quanto verrà poi richiesto ai nostri studenti alla fine del loro percorso di studi.
“...Gli eventi che hanno portato alla decadenza di Pignataro e alla nomina di Basile consentono di dare una chiara chiave di lettura alle vicende sopra riportate sui concorsi nei diversi dipartimenti, nonché sulle alleanze e le dinamiche all'interno dell'Ateneo catanese e degli organi collegiali rappresentativi, riportate in maniera esaustiva nella richiesta del Pm a cui si rinvia.
La sentenza del C.g.a
Con la sentenza n.150 del 27.02.15 -il C.G.A della Regione Sicilia annullava lo Statuto dell'Ateneo catanese del 28 novembre 2011, imponendo al Rettore la immediata ricostituzione degli organi statutari. Alla luce della perdurante inerzia del Rettore, in data 29 luglio 2016, il C.G.A. -accogliendo il ricorso della Prof. Elia Febronia- definiva tale inerzia ingiustificata e imponeva allo stesso Rettore di dare avvio alla procedura per la ricostituzione dei suddetti organi statutari con la previsione di una eventuale nomina di un commissario ad acta in caso di non ottemperanza (v. sentenza, all. n 72). Appresa la decisione del C.G.A, Pignataro, da un lato, provvedeva all'indizione delle elezioni per la nomina del Senato Accademico, ma, al contempo, presentava al C.G.A. un ricorso al fine di comprendere le modalità di ottemperanza alla sentenza, con particolare riguardo all'aspetto se la decadenza degli organi statutari vada estesa anche alla carica di Rettore.
Dopo il deposito del ricorso al C.G.A., si assiste a diversi tentativi di contatto fra Pignataro e Zucchelli Claudio, nato..., Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana.
Tali contatti culmineranno in un incontro tra i due in data 7 settembre 2016 nel corso del quale il Presidente Zucchelli anticipa al Pignataro quale sarà il contenuto della sentenza emessa sulla base del ricorso presentato dallo stesso Pignataro.
Pignataro comunica a Di Rosa i particolari della futura decisione del CGA, come appresi da Zucchelli, con la decadenza del Rettore, conservando tuttavia la possibilità di una nuova candidatura. Pignataro decideva in un primo tempo di ricandidarsi limitatamente al biennio residuo del mandato, sia pure nell'ottica di un'alleanza con Basile...
Il 25 novembre 2016 veniva diffusa la motivazione della sentenza del CGA, che ricalca tutto quanto anticipato dal Presidente Zucchelli.
Si ricostruisce la vicenda indicando le fonti di prova.
In data 5 agosto 2016 Pignataro viene informato dall'avvocato Scuderi Andrea che il ricorso presentato per comprendere se la decadenza degli organi statutari coinvolga anche il Rettore sarebbe stato deciso da un collegio presieduto dal presidente dell'organo amministrativo ovvero Zucchelli Claudio...
Il Rettore si premura quindi di contattare Catanoso Pasquale, Rettore della Università di Reggio Calabria, il quale gli suggerisce di parlare con il “Presidente” concordando un appuntamento per il tramite di Lapecorella Fabrizia, Direttore Generale del Ministero dell'Economia e Finanze...
Pignataro, seguendo il consiglio del collega, contatta Fabrizia Lapecorella (che nel corso della conversazione afferma di conoscere molto bene il magistrato Zucchelli), alla quale riferisce che aveva interesse ad incontrare Zucchelli il prima possibile, non facendo mistero di voler discutere con Zucchelli proprio del suo ricorso al C.G.A...
Le conversazioni appena riportate attestano dunque come Pignataro abbia intenzione di incontrare il Presidente del C.G.A. Prima della decisione sul ricorso relativo all'eventuale decadenza dello stesso Rettore.
2. In data 9 agosto 2016, Lapecorrella comunica a Pignataro che il Presidente Zucchelli potrebbe incontrarlo il successivo 7 settembre, nelle ore pomeridiane, a Palermo...
La P.G. Delegata effettivamente attesta che il 7 settembre presso il C.G.A di Palermo Pignataro ha avuto un incontro con Zucchelli...
L'intercettazione e l'annotazione di servizio documentano inequivocabilmente l'avvenuto incontro tra Zucchelli e Pignataro.
Dopo il colloquio con Zucchelli, Pignataro comunica al Di Rosa (professore ordinario presso il Dip. di giurisprudenza) i particolari della futura decisione del C.G.A. Per come appresi dallo stesso Presidente (il Rettore sarebbe stato dichiarato decaduto conservando però la possibilità di una nuova candidatura).
Il tratto maggiore di interesse, sotto riportato, è particolarmente significativo perchè documenta la condotta di Pignataro il quale -dopo avere illecitamente appreso da Zucchelli il contenuto della sentenza ancora non pubblicata- contatta gli altri associati e getta le basi per la sua candidatura anche alle successive elezioni...
Nello stesso senso la conservazione tramite Sms con Alessandra Gentile (il prorettore di Pignataro). Il Rettore, alla domanda “com'è?”, risponde: “prepariamoci per il 29 settembre, io sono ricandidabile”. Convergono poi sul “silenzio assoluto”....”
Facciamo presente che il Presidente Claudio Zucchelli (che non firma la sentenza) non è indagato nell'inchiesta, al pari dell'avvocato Andrea Scuderi, del professore Di Rosa, della professa Alessandra Gentile, della dottoressa Fabrizia Lapecorella, del Rettore Pasquale Catanoso.
Sottolineiamo che questo articolo ci pare doveroso per la gravità dei fatti esposti: interesse pubblico che dovrebbe essere sempre primario nel giornalismo.
di iena giudiziaria Marco Benanti
Per gentile concessione della testata "Le jene sicule"
Vivere nel fungo e' come vivere in un eterno sogno dove la realtà e la fantasia si interpongono, creando stadi di inconsapevolezza e dove la percezione avverte, stimola, illude, reagisce,copia, si rinnova, crea e neutralizza per poi ascendere in una catarsi di illusioni e passioni e si concretizza in miraggi di estasi senza alcun rimpianto per poi trovare finalmente il Nirvana.
Vivere in wonderland, in una favola misteriosa, vivere il torpore soporifico degli alcaloidi contraddistinti e ben specifici per vari scopi, ricerche e culti.
Gli anni 70 avevano aperto le porte a queste sostanze allucinigeniche che crogiolavano nell'alambicco di Timothy Leary e di Albert Hofmann per psicoterapie mirate ad esplorare il proprio io, o si estirpavano e venivano sintetizzate organicamente nelle tende del deserto di Sonora in Messico dagli Jaqui Masters,i grandi shamani, maghi dell'universo parallelo, sofisti del Metzcal e del Peyote,adoratori delle ombre e del vento,della luce, della notte e del silenzio.
In Amazzonia piante psicotropiche e magic mushrooms, ti innalzavano nel dominio della libertà e sugli ziggurat di Teotihuacan, ceremonie trascendenti dedicate a Quetzalcoatl, l'idolo serpente, ti facevano oltrepassare quella soglia laddove l'uomo diventa un Dio, il viaggio iniziava e terminava o nella nostra realtà od oltrassava la soglia.
Il viaggio avveniva in vari modi e comunque era un rituale che affrontato con saggezza, consapevolezzza e forza, per resistere a tentazioni e salvaguardarti dal pericolo, ti apriva il terzo occhio, come un falco in perlustrazione.
Fare il viaggio era anche un modo per dimostrare coraggio ed essere accettato dalla tribù.
Sotto acido, LSD, STP o Mescalina ti ritrovavi in surrealistici panorami dove la fantasia ed il tuo subconscio giocavano un ruolo da protagonisti; attraversare questi stati della materia cerebrale alterata da una corsa caotica dove i tuoi atomi all'impazzata si scindono in un minuetto rock entrando in collisione fra loro per poi dopo svariate ore ricongiungersi al ceppo di origine, richiedeva una intensa energia interiore e volontà per poi uscirne incolumi; lo scopo finale era comunque quello di avvicinarti il piùpossibile al tuo ego ed al tuo Dio,entrare in contatto col medesimo, interagire e viverne il suo splendore assoluto.
Il viaggio era inoltre quello scalzo,a piedi nudi, in autostop, on the road (Jack Kerouac) in bici o caravan, con charter jets o pipers, treni e bus per condurti in luoghi sperduti alla ricerca del tuo Io, la tua identità e la ragione per la quale esisti.
Luoghi vergini il più delle volte,dove credenze e tradizioni sconosciute, barlumi dell' immaginazione presistente, prendevano forme e davano accesso fino ad allora a verità inespugnate, verità da venerare ed osannare, per poi essere rivelate durante il girovagare nel mondo alle comunita Hippyes; questa tipologia di giovani si radunava in case comuni, dette le Comuni, dove si divideva tutto: fra di loro l'acido e le anfetamine erano di grande uso mentre l'alcool non era una necessità primaria. Il loro comunionalismo e le politiche libertarie sono le radici della nostra Cyberivoluzione.
Questi paradisi artificiali che ti proiettavano in una concreta iperealtà venivano idealizzati e trasmessi con arte su pannelli dipinti a macchia o con splash di colori distribuiti molto spesso con i piedi o le sue dita ed erano i rifugi preferiti di questi giovani ribelli della mia generazione, ribelli poiché andavano contro il federalismo ambiguo del momento.
Paracelso li strumentalizzava col rilancio di benzodiazepine da consumarsi con whiskey o rum, le downers o black bombers si prendevano dopo il come down o risveglio dall'acido, mai farti mancare un Mandy o mandrax dalla tua sacca possibilmente acquistata in Nepal o Perù sulle Ande (dove vi si trasportavano foglie di coca): pillole che ti davano quel senso di lost in the air or float and fly (perso nell'aria o galleggia e vola).
L'efficacia o no di farmaci triciclici fino a quel momento utilizzati per terapie specifiche era ora studiata per essere messa alla prova in strada a mo’ di consumo di Superdrug: dal farmaco al sostantivo droga il passaggio era breve anzi velocissimo. Sostanze da assuefazione e letali incalzavano e la protesta era un pericolo per il sistema di potere che voleva avanzare senza incontrare ostacoli e questi giovani costituivano il più grande ostacolo, bisognava reprimerli.
L'eroina trascurata dal periodo del free jazz, riprendeva a ruota la sua fama incontrastata: lo smack ti dava tutto e di più anche se ti lasciava recalcitrante tra dolori inverosimili durante i periodi di astinenza e ti corrodeva tutto dai denti al fegato e nel sangue; era una brutta scimmia ricca di tante atrocità eppure grazie ad una mafia coercitiva continuava ad espandersi a macchia d'olio e a mietere milioni di vittime: la guerra dei tossici era iniziata. Jimmy Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison hanno scelto questa morte come ultimo traguardo del loro successo.
Il chasing the dragon era di moda per i più snob che invece di iniettarsela, la fumavano bruciandola su carta stagnola mentre ne aspiravano i fumi con una banconota arrotolata a mo di cannuccia.
Lo stato di Peshauer era una meta ambita per la morfina più pura mentre la cocaina e l'oppio appartenevano ad una classe dominante e dirigente, un dietro le quinte di una falsa facciata.
La temple ball, quel tipo di hashish super organica era molto diverso dalla speed ball, un mix di speed e downers che spesso portava a far scoppiare il cuore.
I Sultani dello swing primeggiavano e dal beatnick con il suo monkey time al rock, al folk, all'hard rock l'urlo di Allen Ginsberg spaziava tra questi giovani disperati in cerca di droga rabbiosa, dove la loro ricerca di identità e libertà ormai contaminata ma pur sempre viva si manifestava in un proselitismo del rock ed esultava all'idolo imitandolo e seguendolo ovunque come un guru maestro di vita in uno start rucking tour senza fine......
Continua...
La secolare storia della mafia e la sua identificazione territoriale nonché la mancanza di individuazione degli scopi evolutivi: questi i punti emersi nell’apertura del dibattito.
“Mafia” dunque un marchio che entra a far parte del linguaggio corrente e negli atti giudiziari a partire dal 1863 ma bisogna aspettare ancora due anni per capire (se capire si può) cosa fosse e come operasse.
Era il 1865 quando il prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualterio definì con il termine “mafia” l’associazione malandrinesca che si caratterizzava per gli “stretti collegamenti che aveva stabilito con alcuni partiti politici”.
Un disegno chiaro sin dai suoi primi esordi.
Un disegno che, nell’ipocrisia critica comune, ha trovato quell’humus favorevole all’attecchimento dei nuovi Fiori del Male.
Già nel 1890/5 si può vedere nella pratica dello “scrocco” l’antesignana della moderna estorsione.
E’ nel 1893 il primo vero eccellente omicidio di mafia, quello di Emanuele Notarbartolo, prestigioso Direttore Generale del Banco di Sicilia.
E’ il paradosso “Fiero di essere mafioso”, quell’intervento raccontato su “L’Ora” del 28 luglio 1925 dove Vittorio Emanuele Orlando al cinema di Via Ruggero Settimo, in sintesi traduce la parola mafia con quelle caratteristiche imprescindibili dell’essere siciliano, con una “strizzatina d’occhio” ad un potere riconosciuto.
E così fu! Da Rizzotto in poi.
Inosservanti neanche del loro credo, della loro morale, del loro codice (che non tocca donne e bambini), non ci si è fermati laddove necessità ha richiesto il sacrificio di innocenti.
108 ad oggi la stima circa le piccole vittime della mafia.
Alcune ancora in grembo.
In un contesto in cui la carenza di strumenti interpretativi di un fenomeno tangibile e, nel contempo, sconosciuto, induce il Cardinale Ernesto Ruffini, nella sua pastorale che porta data 1964, a negare l’esistenza della mafia.
Ma le stragi del dopoguerra sono la netta ed evidente negazione di ciò.
“Portella della Ginestra” definita dal Pubblico Ministero Scaglione, nel 1953, un “delitto infame” perpetrato verso i contadini intuendo la natura anticomunista dell’eccidio e dove accreditò come principali moventi “la difesa del latifondo e dei latifondisti”, la lotta ad oltranza contro il comunismo che Salvatore Giuliano mostrò sempre di odiare ed osteggiare.
I banditi si presentavano dapprima come “debellatori del comunismo” per poi usurpare i poteri dello Stato.
Già dalla seconda metà del XIX secolo, nonostante le apparenti novità apportate dall’unificazione, in Sicilia continuò a mantenersi il sistema feudale che vedeva le grandi proprietà nelle mani di pochi baroni e la nascita di una nuova classe emergente, quella dei “burgisi”.
E la mafia nasce come mediatrice di un rapporto conflittuale e travagliato signore-bracciante.
La mafia nasce in un contesto di assoluta povertà ma presto si espande al Nord e poi addirittura negli Stati Uniti.
Ma l’America ce la riporta a casa con i suoi carri armati quando nel dopoguerra gli Americani misero i mafiosi a capo delle amministrazioni locali considerandoli sicuri antifascisti.
Necessità storica vuole che siamo i figli (orfani) della seconda guerra.
E ancora ne paghiamo il prezzo.
E così, mentre cosa nostra conferma la sua struttura verticistica, lo Stato non dispone di mezzi adeguati a fronteggiare il fenomeno.
La Palermo degli anni ’60-’70 è una città insanguinata: Impastato, Ievolella, Mattarella, Lo Russo, La Torre, De Mauro, solo alcuni di tanti nomi, di un lungo triste elenco.
Già lo storico Francesco Renda, a proposito degli omicidi Scaglione e Lo Russo parlò di terrorismo politico- mafioso contro la magistratura e la stampa.
Nel 1962 a Palermo esplode la prima guerra di mafia fra i due clan Ciaculli-La Barbera, nell’inconsapevole ironia giornalistica che ha assimilato Palermo alla Chicago anni ’20. Epilogo di questa feroce, suburbana lotta il terribile 30 giugno di Palermo che vide la morte di 7 uomini delle Forze Armate e sancì il passaggio dalla lupara al tritolo. Si ipotizza che i boss possano avere utilizzato artificieri esperti dell’OAS reduci dalla stagione di attentati in Algeria.
Dopo Ciaculli la repressione. Arrestato Luciano Liggio della cosca dei corleonesi.
A suo carico l’omicidio Rizzotto che gli valse la latitanza.
Dicembre 1969 strage di Viale Lazio che pone fine alla vita del boss Michele Cavataro detto “il cobra”. Imputati Riina e Provenzano. La vicenda sancisce l’ascesa dei corleonesi all’interno di cosa nostra. Ma l’errore umano, pur non contemplato, si verifica provocando la morte di Calogero Bagarella, cognato di Riina, scomparso nel nulla.
Settembre 1970 omicidio del giornalista De Mauro.
1982 Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
29 luglio 1983 il turno del giudice Chinnici, padre del pool antimafia Falcone e Borsellino.
Il lungo martirologio che chiude una fase della triste cronaca nera.
Per un periodo l’azione punitiva di cosa nostra nei confronti dello Stato si arresta.
Si arriva poi al primo grande pentito della storia, Tommaso Buscetta, che permise di svelare per la prima volta i meccanismi dell’organizzazione mafiosa dopo l’altra sanguinosa guerra tra le cosche, a cavallo degli anni ’70-’80.
Da questo momento, grazie alle confessioni del “boss dei due mondi” si comincia a parlare di cupola mafiosa.
I segreti rivelati a Falcone permisero l’istruzione del processo simbolo dei rapporti tra cosche e palazzo.
Immagine simbolo di tale collusione il misterioso incontro fra l’ex leader dc, Andreotti, e il boss dei boss, Riina. Il maxiprocesso di Palermo, svoltosi nell’Aula bunker del Carcere Ucciardone di Palermo tra il 1986 e il 1987 fu la prima, vera reazione dello Stato italiano a cosa nostra, conclusosi con 19 ergastoli e 396 rinvii a giudizio.
Purtroppo la risposta arriva il 23 maggio 1992 a Capaci e il 12 luglio 1992 a via D’Amelio.
E questa è storia nota anche oltreoceano.
Tuttavia la legge Rognoni-La Torre n°646 del 13 settembre 1982 introduce per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione” di tipo mafioso (art.416 bis) e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali.
Dalla mafia arcaica a quella moderna (includendo sotto quest’ultima dicitura un arco temporale molto più vasto che quello dell’oggi).
Dalla divisione degli appalti a tavolino, al traffico di stupefacenti, alle strategie stragiste.
Da quella che fu la cabina di regia, ossia S.Giuseppe Iato, oggi la mafia è in rete avendo individuato i tortuosi meandri della globalizzazione in cui incanalare il traffico di armi.
Meno intimidazioni quindi e la conseguente percezione di una diminuita presenza sul territorio (solo il 38% della popolazione ritiene la mafia un fatto preoccupante) che è solo illusoria. Perché la mafia è una piovra che alterna momenti di potenti efferate esternazioni a momenti di apparente regressione.
Per dirlo con Dalla Chiesa:”la mafia è cauta, lenta, ti misura”.
E ancora con Falcone: un fenomeno sempre diverso e sempre uguale a se stesso che unisce valori arcaici alle esigenze del presente.
Una profezia già sentita in quell’icona di sicilianità che è il Gattopardo.
E in quel lungo lasso di tempo che fu quello della Prima Repubblica la mafia divenne un cancro pervasivo capace di insediarsi in ogni forma di attività sociale.
Del 2013 la legge sul riciclaggio di denaro.
Il 2017 rappresenta un ribaltamento per la vicenda storica mafiosa: da mafia export made in Italy (più precisamente made in Sud) si trasforma in mafia import. Sudamericani, cinesi, nigeriani, albanesi ad alimentare la già lunga schiera di “cattolici perplessi”.
Narcotraffico, prostituzione, riciclaggio nel nome di una comune, ritrovata non belligeranza: questo lo scenario in cui si trovano ad operare le piovre d’oltralpe.
L’emergenza terrorismo e criminalità organizzata ha imposto la ricerca di nuove risposte: Trattato di Lisbona.
Dal locale al globale.
Dal 2013 si parla di crimine transnazionale.
Ora la mafia ha nuovamente cambiato volto (e qui la metafora si fa più reale).
L’ultimo grande affare delle mafie di oggi: la tratta degli esseri umani che presenta un ulteriore, enorme vantaggio rispetto agli affari precedenti, l’eventuale perdita della merce non comporta danno economico.
Quando a morire sono vite umane che, con mille impossibilità, hanno già comunque pagato un viaggio che esso vada a buon fine oppure no.
E sempre in Sicilia, in questa terra vessata, diffamata e violentata, terra di conquista, ieri come oggi, preda di vecchi e nuovi barbari, bacino di voti per il Sud come per il Nord, si rifugiano le nuove vittime sacrificali di un dio onnisciente.
Quella Sicilia che ha pianto il sangue dei “picciotti”, “carusi” e picconieri nella vicenda delle preistoriche miniere baronali, ogni “Rosso Malpelo” di verghiana memoria.
Un fosco passato e un presente negato.
E l’organizzazione dell’evento di oggi nel tentativo di dare una risposta a quella domanda posta in essere dalla dott.ssa Imbergamo: “Perché ancora se ne parla?”
Nel clima di agitazione di questi giorni che pone il dubbio su eventuali depistaggi sull’attentato di via D’Amelio, la risposta emerge sottesa, in quell’Aula dove lo spirito di Falcone è una presenza e non un ricordo, una risposta che tante altre apre e in se’ racchiude: “Perché ancora non è stata resa giustizia”.
In nome di Falcone, Borsellino e di tutti gli altri morti forse meno “eclatanti” ma sicuramente non meno “eccellenti”, nel giorno del 36° anniversario dell’omicidio del capitano D’Aleo a Monreale, alla presenza dei familiari di alcune delle vittime, si è tenuto il 13 giugno scorso a Palermo, presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il Convegno: “L’evoluzione criminale di cosa nostra”.
Presenti il dott. Matteo Frasca, Presidente Corte d’Appello, il dott. Salvatore Di Vitale, Presidente del Tribunale, alte cariche militari, è stato osservato un momento di silenzio in memoria del già citato omicidio D’Aleo dietro suggerimento del moderatore dott. Antonio Scaglione, già Vice Presidente del consiglio della magistratura militare.
Relatori il dott. Fabio Iadeluca, sociologo e criminologo, la dott.ssa Franca Imbergamo, della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, la dott.ssa Francesca Mazzocco, Sost. Proc. della Repubblica, il dott. Calogero Ferrara, Procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo.
Scatta la protesta dei collaboratori, la prima in oltre 70 anni di storia de “La Sicilia”
17 Maggio 2019 - «Non abbiamo avuto alcuna risposta sui mancati pagamenti degli anni passati né garanzie sulle collaborazioni più recenti. Di fronte al silenzio dei vertici amministrativi della “Domenico Sanfilippo Editore”, vogliamo fare sentire la nostra voce di giornalisti che svolgono attività con professionalità e dedizione. Per questo annunciamo fin da ora azioni eclatanti, senza escludere "scioperi" con l'interruzione a scrivere articoli e a proporre le nostre segnalazioni alla redazione».
Lo annunciano i collaboratori della provincia di Catania del quotidiano “La Sicilia”. Una protesta senza precedenti nella storia ultra settantennale del quotidiano catanese di viale Odorico da Pordenone della famiglia Ciancio, ora gestito –come è noto– in amministrazione straordinaria.
«Una scelta –spiegano i “corrispondenti” da ogni parte della provincia– che finora abbiamo evitato perché fiduciosi in risposte precise a istanze prima ben note alla proprietà e poi conosciute dai commissari straordinari. Risposte, però, mai arrivate, al di là di vaghi e generici impegni».
Viene ancora puntualizzato: «Noi corrispondenti, ogni giorno impegnati a raccontare la cronaca della provincia, compresa quella su fatti di mafia e criminalità organizzata, non riceviamo i compensi che ci sono dovuti da troppo tempo. Ci sono colleghi che attendono arretrati anche da anni. La liquidazione è avvenuta a singhiozzo, senza peraltro ricevere i cedolini di avvenuto pagamento (dettaglio che crea parecchio confusione). Ci sono corrispondenti che –nonostante la loro puntualità a consegnare mensilmente le note di collaborazione– avanzerebbero anche svariate migliaia di euro. Eppure nessuno ci ha dato alcuna garanzia né per le spettanze passate né per quelle maturate dall’insediamento dei commissari straordinari. C’è chi segnala, inoltre, che dai prospetti personali Inpgi non figurerebbero versamenti dei contributi previdenziali relativi agli ultimi anni».
Una situazione ritenuta ormai insopportabile. Ne va della credibilità aziendale e della qualità dell’informazione, che in mancanza dell’apporto qualificato dei “corrispondenti” verrebbe, di fatto, inzuppata di comunicati di palazzo o note copia-incolla, mortificando una sezione del giornale (quella delle pagine provinciali) che è fonte di richiamo dei lettori. Un rischio che i collaboratori si augurano di scongiurare. Già da tempo parecchi corrispondenti hanno interrotto il rapporto di collaborazione o ridotto drasticamente l’attività proprio per i mancati pagamenti. Chi ha continuato, lo ha fatto per senso di responsabilità.
«Finora siamo stati comprensivi (il momento storico, la crisi del settore, il calo degli introiti pubblicitari…) ma è chiaro –viene sottolineato– che non possiamo continuare a lavorare gratis. Sì, di questo si tratta. Non possiamo lavorare senza risolvere quei crediti che vantiamo, generati da molte mensilità di compensi, peraltro già bassi rispetto all’impegno e alla qualità professionali che garantiamo quotidianamente. Un lavoro essenziale per l’uscita in edicola de “La Sicilia”, che tuttavia non sembra ci venga riconosciuto. Se poi siamo ritenuti non “necessari”, ci venga detto chiaramente e ognuno farà le proprie scelte. Ecco perché ci sentiamo costretti ad annunciare azioni di protesta. Con l’auspicio che possa servire ad intraprendere un dialogo serio e fattivo con l’amministrazione de “La Sicilia”».
Per gentile concessione di Assostampa Sicilia
Treni annullati anche ieri. Passeggeri abbandonati allo sbando, senza assistenza. Ritardi catastrofici di quasi tre ore per i viaggiatori pendolari per tornare a casa con i servizi sostitutivi di Trenitalia. Nuova giornata di ordinaria “follia” ieri sulla linea ferroviaria Marsala – Trapani. Cose che in un paese ottava “potenza” del mondo non sarebbero accettabili!
Partenza prevista da orario, ore 19:25. Pochi minuti prima, però, l’altoparlante della stazione ha annunciato che il treno che da Marsala doveva collegare il capoluogo Trapani non sarebbe arrivato, che era stato annullato. Dal “lancio” di un giornale online locale, TP24.it, apprendevo che un autovettura aveva colpito ed abbattuto un passaggio a livello nel tratto precedente della linea. Lo stesso altoparlante mi rassicurava: i passeggeri si rechino nel piazzale antistante la stazione dove è in partenza il servizio sostitutivo con un bus messo a disposizione da Trenitalia. Uscito dalla stazione, trovavo altri due ragazzi in attesa ma nessuna traccia del bus.
I minuti passavano e quella stancante attesa si protraeva. Il ragazzo, che con me condivideva l’attesa, era un pendolare e mi allertava: tutto normale, mettiti comodo che ci sarà da aspettare un bel po’. Sicuramente il suo avviso era il frutto di esperienza. Provavo a rientrare dentro la stazione di Marsala: il bar era già chiuso e non era presente alcun distributore automatico che potesse offrirmi qualche bevanda o un un qualche alimento. I bagni erano chiusi. Nessun tabellone elettronico era presente nella sala d’attesa per indicarmi i tempi di attesa del fantomatico bus sostitutivo. Nessun impiegato di Trenitalia era presente in stazione a darci assistenza.
Fatto buio, poco prima delle venti e trenta, la ragazza che attendeva con noi veniva prelevata da un amica giunta in auto da Trapani, distante appena 30 chilometri, per raggiungere la prevista destinazione. Nel frattempo l’altoparlante della stazione tornava a gracchiare: in italiano e pure in inglese, anche il treno delle 20 e 28 che sarebbe dovuto giungere da Trapani per proseguire per Castelvetrano è annullato. Un’altra ragazza e, poi, un altro ragazzo che erano giunti nel frattempo in stazione e avevano fatto il biglietto per quella destinazione parlano con qualcuno al cellulare e vanno via.
Ero isolato, nessun familiare poteva avere notizie di me e sapere perché stessi ritardando tanto. Il mio cellulare si era scaricato, ma nella sala d’attesa della stazione non trovavo alcun punto di ricarica. Finalmente, circa alle 21 e 15 l’ombra di un mini bus appariva davanti a me: era quella del bus sostitutivo di Trenitalia. A bordo un’altra decina di passeggeri, raccolti nelle stazioni precedenti. Alle 22 giungevo davanti la stazione ferroviaria di Trapani. A quell’ora, nel capoluogo, il servizio di trasporto urbano è già stato sospeso. Mi aspettano solo una trentina di minuti a piedi per arrivare a casa …
Questo il racconto di una giornata sulla linea ferroviaria Trapani – Castelvetrano.
Una giornata iniziata alle 16.01 col viaggio d’andata da Trapani a Marsala fatto a bordo di uno stipatissimo convoglio formato da un’unica automotrice Aln 668. Il mezzo, costruito a partire dal 1956 e fino all’inizio degli anni ottanta (il trapanese Aln 668.3024 risale a quest’ultimo periodo), è alimentato da un motore diesel ed è privo di aria condizionata (e, anche se siano solo a inizio maggio, si sentiva!). I 30 chilometri tra i due centri erano stati percorsi in appena 25 minuti (all’eccezionale velocità di 83 Km/orari).
Devo precisare che mi è andata bene.
La linea Trapani-Palermo è chiusa per una frana dal 2013. Il giornale TP24.it ci assicura che i lavori di ripristino inizieranno entro il 2020: non è ancora conosciuta, tuttavia, la data di completamento e riapertura della tratta. Sembra che, in quell’ipotetico futuro in cui riaprirà la tratta ferroviaria, saranno cambiati anche i convogli e sostituiti con mezzi elettrici.
Anche sulla data d’inizio, in verità, non c’è da stare sicuri. La senatrice trapanese Pamela Orrù (PD), nel giugno 2017, dopo rassicurazioni del ministro Graziano Delrio (PD) e un incontro con RFI, aveva annunciato che i lavori sarebbero iniziati entro il successivo settembre 2017.
Il precedente non fa ben sperare: è del 17 febbraio 1956, infatti, l’interrogazione dell’on. Cuttitta al ministro dei trasorti on. Angelini per chiedere il raddoppio della linea ferrata Trapani-Palermo e la sua elettrificazione. Ancora oggi attendiamo la realizzazione di quanto chiesto all’epoca dal parlamentare.
Nel 2015, si calcolava in 6 ore e 14 minuti il tempo per giungere da Trapani a Palermo via Castelvetrano, vista la chiusura della tratta via Milo. Nulla mi sembra oggi essere cambiato per percorrere i poco più di 100 chilometri che ci sono tra le due città siciliane.
La Cisl, a febbraio 2014, in merito alla tratta ferroviaria Trapani-Palermo, denunciava: «Non si capisce come mai non si trovano le risorse per riaprire questa linea ferroviaria strategica per il collegamento delle due città. E’ giunto il momento, per evitare la completa desertificazione, di intervenire e dare risposte ai cittadini che si spostano per lavoro e studio».
Nel frattempo, altrove si parla di TAV …
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
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Giorgio Fornoni |
"Questi sono i miei pensieri scritti di getto. Non guardate la forma ma la sostanza"
Giorgio Fornoni
Figlio di una terra di boscaioli e montanari, tanto aspra quanto bella, Giorgio Fornoni, nel corso della sua lunga e affascinante carriera, ha denunciato e documentato traffici illegali, disastri ambientali, violazioni dei diritti umani e intervistato premi nobel, capi di Stato e leader di guerriglia ben prima che vi arrivassero i grandi canali di informazione. Per le sue capacità di inviato nei luoghi più delicati del mondo, nel 1999 Fornoni viene notato da Milena Gabanelli, che lo vuole nella redazione di Report, per la quale realizza molti servizi e dove gli viene dedicato uno speciale dal titolo "L'altra faccia del giornalismo". Nel 2003 entra poi nella Free Lance International Press, dove cinque anni dopo diventa vice presidente.
Uomo verace, schietto e sincero, amico di personaggi come Allende e Fidel Castro, oltre che reporter di rara abilità, Fornoni ha risposto alle nostre domande al rientro da un suo viaggio in Messico, dove si è recato spinto dalla sua inesauribile ricerca della verità.
E.F.C: Cosa vuol dire oggi essere reporter in zone difficili?
G.F: "Vuol dire andare dove la tua coscienza ti spinge e spingersi più in là dove c’è devastazione e sofferenza per dare voce a chi non ha voce; la miseria è silenziosa, è solo disperazione.
Essere reporter vuol dire cercare di denunciare il non senso della guerra, vuol dire cercare la verità, vuol dire mettere un piede nella storia, vuol dire non mettere la testa sotto il cuscino soffocando la coscienza"
Nell'epoca di internet, dei social network e delle notizie ormai trasmesse quasi in tempo reale, che senso ha ancora il lavoro del reporter di guerra, di colui che si reca sul campo a vedere di persona quel che accade?
"Innanzitutto andare libero e non come inviato, vuol dire non dovere dare conto ad un padrone. Tante cose assurde ho visto, contrarie a quelle che tante volte i media scivono...e solo pochi mesi fa in Siria ne ho avuto come sempre una spietata conferma.
Come diceva l’amica Anna Politkovskaja “Io scrivo ciò che vedo”. Come fa un giornalista a capire la disperazione, la distruzione, la sofferenza e la paura di una prima linea senza andarci? Come fa a sentire l’odore della morte?"
Si dice che un reporter debba essere sempre imparziale e non prendere nessuna posizione. Ma secondo lei è possibile rimanere imparziali anche in zone di guerra, dove un reporter vede con i propri occhi i diritti umani, soprattutto quelli dei civili, continuamente violati?
"Il lavoro del Reporter è una missione seria, almeno pari al rischio che affronta, per raccontare la “verità”.
Un vero Reporter deve sempre e comunque raccontare la verità… e questa non è solitamente né da parte dei governi né da parte della guerriglia… sta sempre in mezzo, sta dalla parte dei civili che vittime senza colpa, pagano per il solo motivo di abitare a casa loro.
Nel momento della scelta è la coscienza che deve essere seguita. La libertà deve essere guidata dalla coscienza e questa deve però essere retta e ben formata se si vuole cercare di essere credibili e onesti"
Nel mondo ci sono numerose guerre ancora in corso, ma i media sembrano concentrarsi sempre sugli stessi 5 o 6 conflitti più famosi. Perché c'è questa tendenza a parlare poco di molti altri conflitti, pur gravi?
"Purtroppo anche in questo caso, essendo il mondo mediatico in mano ai poteri forti, sotto i riflettori rimangono quelle situazioni che maggiormente possono determinare i propri interessi.
Esempio, come prima accennato, il caso Siria…ora il Venezuela…sono appena tornato dal Messico… ho percepito che la disumanizzazione, unita alla paura, crea nella testa e nel cuore dei più deboli un ribollire dell’odio… annullando frequentemente ogni possibilità di ragione"
Con le incertezze in ucraina, gli interessi di Russia, Cina e America, e le migrazioni da africa in Europa a causa di numerosi conflitti locali, come vede il futuro dello scenario geopolitico in Europa?
"Finché l’Europa avrà la forza e la capacità di rimanere unita, avremo una garanzia economica e di pace… anche se le tre superpotenze tendono a dividerla per renderla vulnerabile. Sta al popolo decidere chi far governare ma siamo in un periodo delicato. La Russia di Putin pretende di ritornare ad essere un impero (e lo vediamo nei conflitti in atto), ed è supportata dalla ricchezza di materie prime che ha nel suo sottosuolo (gas e petrolio in particolare).
La Cina è un’altra superpotenza...la sua non è una guerra con armi, anche se si sta silenziosamente rifornendo, ma economica. È riuscita a conquistare molti mercati del mondo ed accaparrarsi il diritto di sfruttamento della materie prime; in particolare in Africa (alcune mie inchieste per Report lo possono dimostrare).
L’America, sappiamo del suo ruolo nel mondo. Esporta armi innescando conflitti…si erge a poliziotto globale…vediamo con la guerra in Siria, il suo silenzioso atteggiamento in Venezuela, il contenzioso con la Corea del Nord e il braccio di ferro con la Cina guerra dei dazi…e con la Russia sempre in contesa…pronta a spartirsi il dominio"
Quando un reporter si trova in zone di guerra, o quantomeno in territori difficili, si trova sempre a decidere: da una parte se spingersi un po' più in là rispetto ai suoi colleghi, pur di trasmettere al suo giornale uno scoop in esclusiva o almeno un pezzo importante, a prezzo però di un rischio maggiore, dall'altra parte deve invece decidere se rimanere appena un passo indietro, relativamente al sicuro, ma con il rischio di trasmettere alla redazione un pezzo che manchi di quel qualcosa in più per essere davvero incisivo rispetto alla concorrenza. In base alla sua esperienza, come fa un reporter a capire quale è il limite da non superare per non mettere seriamente in pericolo la propria incolumità?
"Io penso che andare un passo più in là, ti avvicina sempre più alla verità.
Ho lasciato molti amici morti sul campo: Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Andrey Mironov, la stessa Anna Politkovskaja anche, è stata uccisa sulla porta di casa a Mosca…Importante è anche, oltre all’esperienza, credere in se stessi, ognuno deve capire il proprio limite. Certo, a volte, per il pericolo e le brutture che si incontrano andando un po’ più in là, molti miei colleghi sono rimasti completamente devastati da quello che hanno visto e incontrato.
Come diceva giustamente Kapuscinski: -...il cinico non è adatto a questo mestiere-"
La paura è un sentimento costante nel lavoro del reporter di guerra, inutile fingere di non averne. Questo comprensibile stato d'animo come potrebbe essere gestito sul campo?
"È la forte motivazione che ti spinge…solo spingendoti oltre puoi veramente essere, ritrovare te stesso capire e il tuo proprio limite. È la passione per l’uomo, e la ricerca della verità che non ti ferma perché è là che devi andare.
In prima linea non devi gareggiare con nessuno…devi seguire quel che ti dice il cuore…non devi star a pensare alla paura…quella viene dopo…
In prima linea non puoi barare…sono molti i fattori che ti spingono ad andare sempre avanti…come già detto, la forte passione per la verità, la passione per l’uomo, la curiosità, l’inquietudine, il desiderio di raccogliere immagini, di fatti e notizie di prima mano per poi scrivere, documentare e denunciare ciò che vedi.
La paura è tua compagna…devi fartela amica la paura.
È solo dando un senso a quel che fai che non ti fa vergognare quando alla sera ti guardi davanti ad uno specchio. La paura è un tuo limite. Non esiste fondo chiuso se credi in te stesso"
Quali sono i contatti locali che un reporter di guerra dovrebbe sempre mantenere?
"Un interprete, una guida…nel mio caso i missionari sparsi per il mondo… loro sono stati indispensabili…mi hanno dato ospitalità, suggerimenti e conforto….
I missionari, sappiamo che vivono alle periferie del mondo, a contatto della sofferenza umana, frequentemente in mezzo ai conflitti…è l’amore verso l’”uomo” che li fa essere coraggiosi e talvolta oltre ogni limite….
Anche loro vivono un passo più in là"
Ha ancora senso recarsi in zone di guerra al seguito dei militari, ben sapendo che le informazioni che questi ci fanno reperire possono essere distorte o filtrate? Come si può, in questi casi, tentare di ottenere informazioni e materiale autentici e verificati?
"Questi sono gli embedded…sono quei giornalisti che frequentemente “fanno comodo” ad una parte o a volte anche perché stando al seguito dei militari si prendono meno rischi…è comunque una possibilità per capire una parte del conflitto"
Oltre alla scrittura come valvola di sfogo, quali altri meccanismi permettono a un reporter di guerra di resistere psicologicamente al ricordo degli orrori di cui è stato testimone?
"Come corrispondente di guerra, non puoi avere una vita normale.
È storia di vita pericolosa. Alcuni amici sono rimasti sul campo, altri sono rimasti vittime di alcool e droghe, altri ancora sono spariti ritirandosi in luoghi di silenzio e solitudine…altri cambiando totalmente tipo di vita….
Sono riuscito a non esaurirmi inserendo di tanto in tanto viaggi che mi portassero il cuore lontano, ritagliando spazi di un’umanità diversa.
Esempio: dopo la guerra in Ertitrea e camminando in mezzo a tutti quei morti insepolti, sono partito per un mondo lontano viaggiando fino allo stretto di Bering, sull’Isola Ratmanova dove c’è l’ultimo avamposto militare russo, là dove per primo nasce il giorno.
Dopo l’inchiesta sulla pena di morte per Report, durata un anno e mezzo dentro una sofferenza incredibile, mi hanno ospitato in Cile all’osservatorio ESO, il più grande al mondo nella banda ottica, per condividere gli sguardi verso un infinito universo e capire quanto piccolo è l’uomo;
Dopo altre prime linee ho frequentato ben 12 campagne archeologiche nel deserto del Neghev alla ricerca del monte Sinai biblico…
… e così altri ed altri posti ancora come la discesa del Rio delle Amazzoni e del fiume Mekong, fino alla scalata sull’Himalaya.
Ma la ricerca che maggiormente mi acquieta, è quella spirituale.
Da anni inseguo, cerco conoscenza accostandomi allo studio della varie religioni. Un lavoro, che ho chiamato “Le Vie del Cielo” dove ho avuto la fortuna di incontrare personaggi straordinari: monaci ed eremiti (dal Dalai Lama al sopravissuto dei monaci di Thiberine, da eremiti ed abati) un mondo che dona serenità"
Il modo di fare giornalismo è molto cambiato negli ultimi anni, soprattutto grazie alle nuove tecnologie. Ma una cosa sembra non cambiare mai: la complessità e le motivazioni della figura del reporter di guerra, che sembra avere dentro di sé qualcosa in più rispetto ai suoi colleghi che si occupano solo di cronaca locale. Secondo lei in cosa consiste questo "Qualcosa in più" ?
"Come già detto: l’amore verso il prossimo, la passione, la curiosità, l’inquetudine…
Per quanto mi riguarda è il ricercare la verità…sento forte il senso e la ricerca di giustizia…dare voce alle miserie e sofferenze del mondo; raccogliere ed assumere il dolore dell’altro dà senso alla vita"
Nelle zone difficili del pianeta, quali benefici pensa che possa portare alle popolazioni locali il lavoro di ben fatto di un reporter di guerra?
"Denunciare il male è la cosa più importante affinché la gente lo rigetti.
Non è facile smantellare i poteri forti, ma denunciando gli scandali, raccogliendo prove e testimonianze, entrare nei fatti è importante per scuotere le coscienze dell’uomo…e perché la gente capisca che il benessere non è esclusivo per chi ce l’ha, ma appartiene a tutti… ad ogni essere vivente"
I civili sono spesso una fonte più attendibile in una zona di guerra, rispetto a fonti militari, politiche o dei palazzi del potere. Come dovrebbe comportarsi un reporter che intende guadagnarsi la fiducia della gente del posto?
"Stare con loro, condividere momenti di vita con loro. Ricordo Antonio Russo, giornalista di radio Radicale quale forte esempio. Quando ero in Georgia, nella valle del Pankisi dove a migliaia si erano rifugiati profughi, donne, uomini, bambini e vecchi per sfuggire ai bombardamenti su Grozny e sulla Cecenia intera, la gente che incontravo per raccogliere le loro sofferenze mi dicevano: ti concedo questa intervista perché sei amico di Antonio Russo…lui viveva qui con noi, lui aveva ben capito il nostro dramma, lui era la nostra voce.
Lo stesso quando ancora era rimasto l’unico giornalista occidentale a Pristina sotto i bombardamenti per condividere i momenti di disperazione con quel popolo…
La stessa Anna Politkovskaya che ho intervistato e ben conoscevo, addirittura era stata l’unica a poter entrare al teatro Dubrovka quando i guerriglieri ceceni si erano asseragliati, con il teatro strapieno di quasi mille persone, e tentare una mediazione per la liberazione degli ostaggi. Lei era talmente seria e di grande coscienza nello scrivere e denunciare il non senso di quella guerra che non solo il popolo ceceno ma persino i guerriglieri ceceni si fidavano di lei.
Questi reporter raccoglievano su di loro i drammi. Perché vai al pericolo, chiedevano i figli di Anna Politkovskaja alla madre… e lei rispondeva: “...se non io chi?”. Sapeva caricare su di sè i drammi degli altri, dei più deboli.…
Quando in un’intervista le ho chiesto: ma non hai paura del Cremlino? Lei rispondeva: “Tutti hanno paura ora. Ma paura o no questa è la tua professione…perché lì muore la nostra gente quindi, paura o no, è il rischio di questa professione”
C'è un episodio preciso che ha fatto scattare in lei la molla del reporter?
"Un tempo, da giovane amavo l’archeologia, la storia passata dell’uomo. Ma incontrando sofferenze e drammi ho potuto presto comprendere che valeva e dovevo di più conoscere l’uomo nella sua storia attuale.
Sì, volevo capire il perché delle guerre. Ho visto in Vietnam, a Saigon, quando stavano allestendo il museo degli orrori e dei crimini di guerra, bambini e feti in vasi di formalina, morti a causa del Napalm. Possiamo capire la guerra?
Ho subito un dirottamento aereo da New Delhy- Amritsar, il 4 e 5 agosto 1982 a causa dei Sikh che pretendevano la liberazione di alcuni di loro, dirigenti rinchiusi nelle prigioni indiane;
La guerra che si stava preparando fra Iraq e Iran… anni 1978/1979.
… guerra in Angola, in Afganistan, in R.D. del Congo, in Sudan, ecc…tutto questo mi ha spinto ma è stando vicino ai missionari che ho sentito maggiormente il dovere e ho imparato a denunciare sofferenze e ingiustizie.
Milena Gabanelli si accorse di me e con Report ho potuto dire e denunciare ad alta voce questi mali del mondo"
Lei ha visitato, come reporter, decine di luoghi nel mondo, molti dei quali pericolosi e difficili da gestire. Dopo aver visto tanto male, guerre e sofferenza, conserva ancora un senso di ottimismo per il futuro dell'umanità?
"Sono convinto che il bene vincerà sul male…anche perché è troppo forte lo spirito di sopravvivenza che l’uomo ha dentro di sé.
Ho visto e assistito di recente a gesti di totale gratuità. Donne che da 24 anni porgono da bere e da mangiare ai migrantes indocumentados che viaggiano su “La Bestia” (così chiamano il treno merci), che rincorrono e salgono aggrappandosi prendendo posto tra un vagone e l’altro, per attraversare il Messico e tentare di andare al di là del muro di Trump, per entrare negli USA…in cerca di fortuna.
Sono conosciuti questi indocumentados, perché sono sconosciuti. Sono gesti di poveri che aiutano altri poveri e questi gesti ci regalano tanta speranza.
Ho visto medici e volontari in giro per il mondo che spendono la loro vita per l’”altro”…e finché ci saranno queste generosità, non crescerà mai il deserto.
La verità, non è partire da sé ma dagli altri"
C'è un episodio in particolare nella sua carriera che le ha fatto vedere una speranza per l'umanità, o si tratta di un processo che ha richiesto del tempo?
"Ad ogni conflitto corrisponde il desiderio di pace, ad ogni bruttura, la ricerca del bene…è qualcosa che l’uomo, come dicevo, ha dentro di sé…che fa rimarginare come una ferita, le cattiverie.
Certo è che siamo alle soglie di pericoli tremendi, causa forze meccaniche e tecniche (come diceva il mio amico Pomerance, sopravvissuto ai gulag, amico si Solgenitsin e di Shalamov)…è per questo che bisogna ridare forza ai veri valori di vita: priorità alla cultura…bisogna creare un uomo più umile, più buono e dal cuore aperto…tutto deve essere
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Fornoni con Sem |
indirizzato a questo"
Con quale criterio sceglie le storie da raccontare?
"In particolare scelgo quelle storie che i media raccontano male e poco….
Esempio: guerre dimenticate o di bassa intensità…ce ne sono molte, troppe.
Ma non solo guerre, esempio: la domanda che mi pongo: “Perché in un paese così ricco la gente è così povera?” ecco che è nata l’inchiesta “Furto di Stato” fatta per Report nella R.D. del Congo, con la storia del Coltan e il traffico di oro e diamanti…attraverso le miserie umane.
Oppure lo scandalo del petrolio sul Delta del Niger…volevo capire quali bugie i media raccontano (o mezze verità)…con l’inchiesta per Report ho messo in evidenza l’inquinamento del Delta e le cause della guerriglia.
…e questo non è altro che la conseguenza di affari fatti tra multinazionali e governi corrotti…tutte ricchezze rubate alla povera gente che non ha accesso alla sanità e alle scuole causa l’avidità di potenti corrotti, ci dirottano direttamente le risorse sui propri conti personali"
Per finire, quali consigli si sente di dare a un reporter che si reca per la prima volta in una zona delicata per prepararsi a livello fisico, mentale, professionale e culturale?
"Primo, credere nei propri valori senza essere esaltato. Se un giovane, che è attratto e si incammina per questo “destino”, raccoglie buon materiale e testimonianze importanti e i “media” non danno o danno poca considerazione…allo stesso dico: sforzati a non sentirti frustrato, non deve essere delusione ma motivo di sprone per continuare a fare sempre meglio, per andare oltre…
Questo significa, in poche parole, credere nella propria missione"
Emiliano Federico Caruso