L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Essere disoccupato a 28 anni e sentirsi un rifiuto della società. Un lettore di L43 scrive alla testata e punta il dito contro una selezione disumanizzante. «Vorrei un posto. Per essere vivo. Chiedo troppo?».
Mi chiamo Luca Biondi, ho 28 anni e non faccio niente: non studio e non lavoro, ma la cosa peggiore è che ho quasi del tutto perso le speranze di trovarlo, un lavoro decente, che possa effettivamente farmi sentire vivo e un cittadino normale, mentre ora sono solo un “peso” per la famiglia e uno scomodo intruso nella società. Forse un lavoro non lo voglio nemmeno più trovare: ne ho trovati troppi e troppi ne ho persi. Mi sono stancato. Qualcosa dentro di me si rifiuta di andare avanti. La chiamano depressione, ma è piuttosto voglia di fuggire lontano da tutti e da tutto.
Stavo per scrivere la solita lettera piena di rabbia e delusione, però vorrei essere più costruttivo rispetto ai tanti altri che hanno provato a parlare di questa forma di disagio. La mia storia è inutile che ve la racconti, già potete intuirla: è simile a quella di tanti precari che sono passati da un lavoretto all'altro senza mai trovare nulla di sicuro, nulla che potesse farli sentire parte attiva e viva di questa società, nonostante le tante illusioni e promesse mai mantenute. Ed è così che anno dopo anno si arriva al punto in cui si capisce che dietro a tutta questa ricerca e speranza di un posto non c'è altro che... il nulla.
Tutto il proprio percorso è basato su un foglio di carta, chiamato curriculum, che rappresenta una sorta di passaporto tra un'azienda e l'altra, ma che in realtà è l'essenza della nullità della nostra generazione: abbiamo continuamente bisogno di presentarci, parlare di noi, di far sapere al prossimo chi siamo e se siamo in grado di non deludere le sue aspettative. In poche parole ci sottoponiamo al giudizio altrui con una complicità sconcertante.
Il nostro carnefice è il selezionatore che improvvisamente diventa giudice di una condanna inappellabile da cui dipendono mesi di apparente serenità (in realtà sacrifici e sfruttamento) oppure di disperazione e depressione. Abbiamo sempre più bisogno di un lavoro e sempre meno possibilità di trovarlo (si va in pensione più tardi e ogni anno dalle scuole escono decine di migliaia di diplomati e laureati senza che vi sia crescita economica).
E SE SONO IO A ESSERE SBAGLIATO? Perché non si è stati in grado di superare il colloquio? Perché hanno preso un altro? Cosa ho sbagliato? E se sono io a essere sbagliato? Sono queste le domande che si rincorrono nella testa di chi il lavoro non riesce a trovarlo, e vi garantisco che pesa molto sulla propria psiche dubitare continuamente di se stessi. Ma è un dubbio instillato dall'altro, da uno sconosciuto che occupa una posizione di vantaggio e di forza.
«Le cose vanno così bene... Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto», dice, rivolgendosi al marito, Valeria Bruni Tedeschi nel film Il capitale umano. Fabrizio Gifuni, interpretando un rampante uomo d'affari, risponde: «Abbiamo vinto!». Eh sì perché mentre chi dava l'allarme che le cose si stavano mettendo male per una minoranza, la maggioranza si voltava dall'altra parte e ignorava il problema, senza pensare che un giorno anche essa avrebbe dovuto conoscerlo il problema.
Anni di politiche lavorative e industriali fallimentari hanno devastato l'Italia, ma le prove non bastano per dimostrarlo: solo chi detiene il potere ha la possibilità di cambiare direzione, chi non ce l'ha rimane in attesa. Dovrebbe essere vietato maltrattare psicologicamente le persone in questo modo e invece siamo noi stessi a cercare e a volerci sottoporre all'ingiurioso “processo” dei selezionatori pur di sperare di ottenere ciò a cui aspiriamo tanto: un semplice posto di lavoro.
Il sistema è disumano e disumanizzante poiché fondato sulla selezione, concetto in antitesi all'armonioso e naturale sviluppo psicofisico di una persona.
Sappiamo che è sbagliato, la prova ne è l'ansia che proviamo di fronte al selezionatore. Quella scomoda posizione di “candidato” ci riguarda da vicino, a livello personale, e l'ansia che proviamo, se ripetuta nel tempo, diventa uno stress esagerato che porta poi a depressioni e nevrosi. Se posso dare un consiglio ai tanti giovani che per la prima volta si mettono a cercare lavoro è quello di valutare attentamente, a loro volta, il selezionatore: se esso non vi piace alzatevi e andatevene. Non state al suo gioco: egli non può avere tutto questo potere su di voi. C'è altro là fuori e modi assai migliori di spendere il proprio tempo.
Il sistema è chiaramente disumano e disumanizzante poiché fondato su un concetto alienante: la selezione. Questo concetto è completamente in antitesi all'armonioso e naturale sviluppo psicofisico di una persona, in un contesto evoluto, inserito in una società democratica. Il modus operandi che continuano a propinarci è infatti anche contrario ai principi espressi nella nostra Costituzione (L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro... La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori...).
Penso piuttosto che questo sistema assomigli a quei pochi e spregevoli concetti su cui si basa l'ideologia nazista: l'uomo forte che prevale sul più debole. Solo la perfezione può essere accettata e solo colui che si annulla in nome dell'ideologia (in questo caso missione aziendale) è degno della considerazione del sistema. Si perde la propria accezione di persona per diventare una macchina, un servo, che desidera servire e desidera un padrone senza il quale è perso poiché non più in grado di tornare persona, le cui qualità non verrebbero comunque apprezzate ne considerate all'interno di una società alienata che si è svenduta di dignità e di autentiche relazioni umane.
Giovani e non più giovani “mangiati vivi” da aziende che in loro non ripongono più alcuna fiducia, ma che esigono tutto e anche quando hanno tutto non si fermano.
Allora mi io chiedo, da disoccupato, ma ancor prima da cittadino, se è è giusto continuare ad alimentarlo, questo sistema malato. Non si rende conto nessuno di quanti danni stia facendo? Il consumo di psicofarmaci tra i giovani ha raggiunto livelli mai prima sondati. Giovani e non più giovani “mangiati vivi” da aziende (esistono le dovute eccezioni) che in loro non ripongono più alcuna fiducia, ma che da loro esigono tutto e anche quando hanno tutto non si fermano: la minaccia di lasciare a casa incombe come una scure su quei poveri disgraziati.
Eccola, la “generazione usa e getta”: siamo pronti a tutto pur di evitare la disoccupazione, ma forse quella in fondo è il male minore. Trovare il tempo per ascoltarsi, capirsi e rialzarsi è un privilegio che solo i cittadini di Paesi in cui esiste il reddito di cittadinanza possono permettersi. Per tutti gli altri se sei fuori non vale la pena puntare su di te, anzi è giusto guardarti con sospetto: «Cosa ha fatto per meritarti di essere disoccupato?». Non voglio soldi, non voglio posizioni di prestigio, cerco solo di sentirmi vivo. Chiedo che mi si rispetti, chiedo semplicemente di lavorare. Chiedo troppo?
Lettera inviata alla testata “Lettera 43”
La società odierna è maleducata, disorganizzata: un pessimo esempio per tutti i giovani professionisti che puntano ad una carriera brillante poiché i valori fondanti la società stessa sono poco meno che concreti, materia effimera: esaltano la forma ed escludono per lo più la sostanza. Se volessimo considerarla un sostegno alle nostre potenziali capacità, la società dovrebbe ergersi su pilastri di moralità e ingegno: l’uno per essere giusta e l’altro per essere maestosa, onnipotente. Ed invece allo stato attuale i professionisti, sono sorretti dal subbuglio totale: non è chiaro come procedere ed organizzarsi per “spiccare il volo”. Ci si avvale della convinzione che possedere un titolo sia l’unico e solo strumento per farsi valere, per imporsi ed imporre: tutto ciò viene meno quando ci si scontra con la realtà, poiché Il titolo di studio altro non rappresenta che una peculiare attribuzione a cui devono susseguire azioni che lo convalidino.
Per restare in “AUGE” con il mio scritto, farò specifico riferimento alla professione di avvocato. Mi rendo conto che maggior parte dei laureati si sentono “formati” già solo con il conseguimento del titolo, ignorando che quest’ultimo altro non è che il punto da cui dover rigorosamente partire per avviare un nuovo percorso in linea con la giurisprudenza che, com’è ben noto, è sempre in continua evoluzione. L’avvocato non può esercitare sulla base di nozioni che già possiede, non deve fregiarsi come titolo d’ arrivo che ha acquisito con il percorso universitario se, il suo obbiettivo, è quello di una carriera longeva ed impeccabile. È noto: talvolta questi “professionisti” non possiedono la necessaria preparazione per svolgere il ruolo conferitogli a causa di studi non approfonditi o “percorsi agevolati” che non illustrerò in questo articolo, ma di cui sono certa, ne avrete bene in mente. Di conseguenza se la base da cui partire per svolgere una professione è fatiscente, non sarà difficile ipotizzare il risultato a cui si perviene: una prestazione che sarà per certo retribuita ma ben lontana dal risultato auspicato. A tal riguardo sarebbe opportuno capovolgere i capisaldi su cui poggia la società moderna per indirizzare i giovani laureati allo svolgimento di una professione eccellente.
Immaginiamo una società che esorti i professionisti alla crescita professionale mediante corsi di formazione anche gratuiti, che conceda loro gli strumenti idonei ed essenziali allo svolgimento della prestazione. Dunque ,cosa s’intende per formazione? Il Consiglio Nazionale Forense con regolamento n° 6 del 16 luglio 2014, “pone a carico dell’avvocato l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia, adotta un regolamento che disciplina le modalità e le condizioni per l’assolvimento dell’obbligo di formazione continua da parte dell’avvocato o del tirocinante abilitato al patrocinio nonché la gestione e l’organizzazione delle attività formative .(…) Le attività di aggiornamento sono prevalentemente dirette all’adeguamento e all’approfondimento delle esperienze maturate e delle conoscenze acquisite nella formazione” . Ad integrazione della disciplina regolamentare interviene la sentenza n° 24739/2016 S.U. della Cassazione per cui “il professionista che non partecipa ai corsi e non accumula i crediti imposti dalla legge e dalla deontologia rischia una sanzione disciplinare, nel caso di specie è stata individuata nella censura che consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione”. Integrazione fondamentale che non lascia margine di discrezionalità: la formazione diviene obbligatoria. In Italia, l’Accademia Universitaria degli Studi Giuridici Europei Onlus, con sede a Roma ( AUGE,http://www.accademiauge.com) si prefigge lo scopo di diffondere la cultura giuridica nel contesto sociale attraverso la promozione di attività culturali e varie attività di formazione. I corsi di formazione sono finalizzati rispettivamente alla preparazione e formazione costante del Professionista. L’elevato livello della Scuola è confermato dal corpo docenti, costituito da Professori ordinari di ruolo, Consiglieri di Stato, Magistrati ordinari e amministrativi, e dal contenuto dei programmi strutturato in modo tale da affrontare in maniera sistematica ed organica le principali tematiche inerenti ai concorsi. In particolare, è prevista una serie di lezioni frontali, completate da continue prove pratiche, che hanno lo scopo di preparare adeguatamente i discenti in vista del superamento del concorso. Il Rettore dell’Accademia, Prof. Giuseppe Catapano, ci offre uno spunto prezioso che ho personalmente tratto dal suo discorso tenuto in occasione della puntata “Giudicate voi in tour” presso la sede di rappresentanza della Regione Abruzzo a Bruxelles, svoltasi con il Patrocinio dello Spoleto Meeting Art Bruxelles, diretto e curato da Paola Biadetti con la presidenza del Prof. Luca Filipponi. Il prof. Catapano ha più volte ribadito il termine “Vergogna!” con tono forte e deciso di un uomo, oltre che professionista, amareggiato dal comportamento dei colleghi che, se fossero mossi dal suo stesso spirito combattivo non avrebbero esitato un solo istante a condannarsi, a redimere un atteggiamento ambiguo, tipico di chi prova a sponsorizzarsi ma fallisce, miseramente. D’altronde un professionista serio dovrebbe essere un tutt’uno con la coerenza. Ne vale la sua figura: perde credibilità, genera sfiducia agli occhi di chi assiste ed ha assistito a tal modo di fare. Il titolo attinge precisamente dal discorso del Rettore ed è evocativo di una realtà compatta su cui puntare i riflettori perché non sia consentito che determinate categorie di professionisti,o pseudo tali, passino inosservati paragonati a chi è realmente formato, a chi pratica la professione e non a chi, semplicemente, razzola.
Al termine della puntata mi avvicino al Rettore per porgli qualche domanda in relazione al suo intervento, dinamico e trasparente, di critica efferata, nei confronti di uno strano comportamento adottato da una associazione di giovani professionisti riguardo, per l’appunto, l’argomento formazione .
D. Egregio Rettore Giuseppe Catapano, le domando: la vergogna che lei ha sottolineato con doverosità nel suo intervento, cosa intende precisamente richiamare?”
“Vergognatevi, non ha un destinatario specifico ne indirizzato ad un soggetto in particolare .Vergognatevi,è rivolto a tutti quelli che non sono pronti e niente fanno per far decollare i giovani professionisti che sono il vero polmone delle Professioni, è per loro e con loro che ci dobbiamo affacciare e condividere percorsi nuovi di far professione.Vergognatevi: Perche i giovani professionisti ci chiedono affiancamento; noi con gli anni più avanti sappiamo bene che non è facile in questo momento iniziare un nuova attività professionale in linea principale per giovani che non hanno ereditato studi avviati o formazioni di accompagnamento familiare.
Allora ripetoVERGOGNATEVIa tutti: a chi non fa niente per rendere più agevole il percorso di avviamento all’attività professionale di un giovane laureato.
Mi rivolgo a tutte le associazioni regolarmente costituite presso gli ordini professionali, ad un solo grido “FORMAZIONE per avvio al Lavoro “ non formazione per adempimento obbligatorio…..
I giovani ci chiedono di essere accompagnati per il percorso formativo perché ambiscono ad offrire il meglio della consulenza e dell’assistenza, perché il mondo delle professioni si indirizza verso una figura sempre più specializzata.
Vergognatevia chi non si adopera, a chi crede che l’associazione di una categoria professionale è il punto di aggregazione per iniziare un percorso politico, dialogando le problematiche di una categoria in un Bar oppure in un locale per feste.
Diceva un noto personaggio che quando per la porta entra la politica, la giustizia esce dalla finestra.
Con Auge (www.accademiauge.it), ho assunto l’onere di organizzare un percorso nuovo per fare formazione, ci rivolgiamo a tutti i professionisti, una formazione con accompagnamento, una formazione pratica con affiancamento nello svolgimento delle pratiche; una piattaforma per presentare nuovi clienti ai giovani professionisti. Docenti formatori che accompagnano il giovane professionista nella strategia difensiva. Auge non organizza incontri per vendere programmi di calcolo, ne per chiedere pagamenti, ne sollecita di vendere corsi a pagamento, ne chiede una quota per iscrizione: Auge è una ONLUS, si autofinanzia con i fondi di partecipazione dei soci fondatori e dei contributi spontanei di enti-istituzioni e imprese.
Vergognatevi, a chi cerca di non far passare questo messaggio e si nasconde dietro finte parole di perbenismo…”
D. Ho apprezzato il Suo intervento, come me tutti coloro che hanno colto l’essenza del suo discorso . Ma Lei è certo che in questo modo potrà “risvegliare le coscienze”? Si augura che, in futuro, gli avvocati prenderanno parte ai corsi di formazione, con dedizione e senza avanzare pretese?
“Come in tutto quello che faccio ce la metto tutta, al mio fianco ho una squadra di giovani professionisti che mi seguono con impegno, senza vedere ostacolo e muri ma per costruire ponti. In merito agli avvocati, le posso confermare che nella mia attività di docente Formatore in Nola, precisamente nella sala convegni del Hotel Belsito, nel 2013, nel 2014 e nel 2015 ho tenuto insieme ad altri colleghi corsi di formazione con una folta presenza di avvocati, e la gran parte sono attualmente aderenti e collaborano con assicont (www.assicont.eu).
Non posso che augurare alle Associazioni professionali di ritrovare la convinzione che fare squadra è il presupposto principale delle associazioni…La formazione, così importante, se vista da sola non resta che una cultura da applicare nella pratica da soli…Con AUGE, diciamo, siamo la formazione che applichiamo, nel caso pratico, insieme al Giovane professionista.
Invito a seguire il corso gratuito “
Se immaginassimo una massa di umani nudi in una cerimonia religiosa, politica o in qualunque evento mondano, li vedremmo come realmente sono, ci accorgeremmo che sono i paramenti, gli abiti o le divise a differenziare le persone: il capo di stato, il religioso, il regnante, il generale di qualunque armata non si distinguerebbe dall’operaio o dalla massaia, come non si distingue il capo di una qualunque specie animale, eccetto solo, forse, l’ape regina. In una simile circostanza emergerebbe solo la bellezza
fisica, l’energia di un organismo giovane.
Non è la divisa, l’ornamento, il posto a sedere a rendere grande un uomo, ma i suoi valori interiori, la sua saggezza, il suo equilibrio, la sua bontà d’animo, ma soprattutto la volontà di superare i propri limiti ed uniformarsi a ciò che è giusto, positivo e armonico nella vita. Non è la ricchezza, il titolo di studio, la posizione sociale a rendere unico nell’universo un essere vivente, ma il suo far parte, in modo insostituibile, del tutto nel piano dell’esistenza. Ma questo non deve farci dimenticare la relatività delle cose, di ognuno: se la specie umana si
estinguesse non si scalfirebbe l’ordine naturale dei sistemi; allo stesso modo se il pianeta terra si dissolvesse nel nulla questo non causerebbe la purché minima crepa nel mare cosmico.
In natura non c’è nulla di superfluo, di meno importante ai fini della manifestazione della Vita. Il Tutto funziona in virtù della differenza formale e funzionale delle diverse realtà che lo compongono. Senza voler ridurre ad un esagerato appiattimento di valore, la realizzazione di un concerto sinfonico richiede la presenza di tutti i differenti componenti dell’orchestra e il violino, ai fini del concerto, non è meno determinante del musicista.
L’uomo non dovrebbe mai umiliarsi, genuflettersi, piegarsi davanti ad un altro uomo; non dovrebbe mai accettare di essere servo di qualcuno, né mai dovrebbe accettare che un suo simile si manifesti in modo servile. Ogni essere umano, e non solo umano, ha dignità regali per il semplice fatto di appartenere alla folla dei viventi, di essere portatore del miracolo strabiliante della vita, per essere portatore di pensiero, sentimento, spirito. Ogni essere nasce per essere libero, non servo o sottomesso a qualcuno. Ma senza umiltà non c’è vera grandezza.
Mai umiliarsi nel chiedere la concessione di un diritto, che ci sia elargito come dono ciò che possiamo conquistare con la volontà e il sacrificio: la dignità è la sola vera ricchezza, il mezzo attraverso cui l’essere umano dimostra il suo valore e per questo non dovrebbe mai cadere in errore per non doversi poi umiliare nel pentimento. Né mai l’uomo dovrebbe degradare se stesso fino di essere succube dei propri impulsi, schiavo dei propri vizi, vittima dei propri piaceri.
Ma quando le esigenze vitali dipendono dagli altri l’uomo diviene debole e lo spirito di sopravvivenza lo costringe a soffocare la parte migliore di se stesso. Le contingenze estreme non dovrebbero mai costringerlo ad umiliarsi per mancanza di risorse, di lavoro, e su questo pesa inesorabilmente la responsabilità dello Stato, della comunità che non cura capillarmente i bisogni dei suoi cittadini.
Forte e libero è chi ha la possibilità e la volontà di essere artefice del proprio destino; chi non affida passivamente a terzi il bene supremo della propria salute, della propria anima; chi cerca la propria realizzazione con l’impegno e il sacrificio di se stesso attraverso le potenzialità che Madre Natura ha elargito ad ogni suo componente e che aspettano di emergere nell’impulso evolutivo della vita.
Riccardo Orioles è un giornalista antimafia, vittima di un’ingiustizia che oggi non gli permette di avere accesso a una pensione dignitosa per continuare le cure per le sue patologie cardiache e gli acciacchi dovuti all’età.
«La sua carriera vissuta da scrittore e giornalista con la “schiena dritta” non gli ha riconosciuto una pensione degna di questo nome», scrive il giornalista Luca Salici.
Il suo appello:
Mi chiamo Luca Salici e sono un giornalista nato a Catania 34 anni fa. Vivo e lavoro a Roma da un decennio. Ho un bimbo di 9 mesi, una splendida moglie e oggi mi sento sereno, anche se per la nostra generazione contraddistinta da una profonda precarietà – economica e quindi esistenziale – subisco gli alti e bassi di un Paese che ogni tanto dimentica di offrire sostegno ai suoi cittadini.
Da tempo non sopporto un’ingiustizia ai danni di una persona che reputo un grandissimo professionista, un maestro di vita per tanti giovani, un uomo che tutto lo Stato e il popolo italiano dovrebbero riconoscere come un grande intellettuale e scrittore. Mi riferisco a Riccardo Orioles, 67 anni, giornalista e fondatore de “I Siciliani” insieme a Pippo Fava – direttore della testata, ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984 – e ad una serie di “carusi” (giovani) nati e cresciuti alle pendici dell’Etna. [la storia del giornale > http://bit.ly/pippofava].
Riccardo Orioles oggi vive a Milazzo, sua città natale, con una pensione di vecchiaia che non gli consente di continuare le cure per le sue patologie cardiache e gli acciacchi dovuti all’età. La sua carriera – vissuta da scrittore e giornalista con la “schiena dritta” come si suol dire tra quelli che pensano a lui ogni tanto e magari gli danno anche una pacca sulla spalla – purtroppo non gli ha riconosciuto una pensione degna di questo nome: Riccardo ha ottenuto contributi pensionistici solo per quattro anni di lavoro.
La verità è che la libertà ha un prezzo, e quella di Riccardo – forse una delle penne (ancora in vita fortunatamente) più importanti d’Italia – è costata a lui più di qualunque altro, come racconta benissimo il videodoc di Elena Mortelliti (http://bit.ly/videodoc-orioles). Certamente le scelte professionali di Riccardo Orioles sono state diverse da tutte quelle dei suoi colleghi. Ma nessuno credo possa ritenerle giuste o sbagliate. Riccardo dal 6 gennaio 1984 ad oggi lavora per formare nuove generazioni di giornalisti: da Nord a Sud dell’Italia centinaia di cronisti, direttori e redattori di varie testate hanno trovato in lui un maestro della professione, della deontologia, dell’inchiesta. Soprattutto antimafia.
In questi anni a poco sono serviti gli appelli all’Ordine dei Giornalisti e alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Riccardo continua a non arrivare a fine mese, sebbene continui a “lavorare”, svolgendo un prezioso incarico di formazione e consulenza per tanti colleghi giornalisti. In un cassetto conserva solo quei quattro anni di lavoro retribuito e “in regola” che ha avuto nella vita: un giornale importantissimo per l’antimafia e il nostro Paese come “I Siciliani” – prima e dopo l’uccisione di Pippo Fava – non ha mai avuto la stabilità finanziaria ed economica sufficiente per regolarizzare le posizioni di tutti i redattori e collaboratori.
Per questo Vi chiedo di far accedere Riccardo Orioles alla “Legge Bacchelli”, norma che ha istituito un fondo a favore di cittadini illustri che versino in stato di particolare necessità. Sarebbe l’unico modo per far usufruire di un contributo vitalizio utile al suo sostentamento. Il giornalista milazzese gode di tutti i requisiti per accedere all'aiuto: la cittadinanza italiana, l'assenza di condanne penali irrevocabili, la chiara fama e meriti acquisiti nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, dell'economia, del lavoro, dello sport e nel disimpegno di pubblici uffici o di attività svolte. Come lo scrittore Riccardo Bacchelli, per il quale è stata approvata la legge n.440 dell’8 agosto 1985.
Mi piacerebbe che le Istituzioni riconoscessero in vita il valore di un intellettuale come Orioles, e non lo facciano ipocritamente solo dopo la sua morte.
Luca, de "i carusi" di Orioles
PS. E brindiamo «alla faccia dei cavalieri».
PS2. Qui ci coordiniamo www.facebook.com/groups/mandiamoinpensioneorioles/
Grazie,
Luca Salici via Change.org
In origine, il titolo di questo articolo era quello su riportato. Rivelatosi poi un po’ generico, si è evoluto da se in “Come si capisce se un sito di stampa alternativa sia valido?”
Col passare dei giorni, mi sono reso conto che, alcuni dei punti con cui ho sviluppato questo discorso, si potevano applicare alla stampa in toto.
Poiché questo articolo sarebbe la trascrizione di un intervento, recente, che ho fatto nel corso del Premio sui Diritti Umani 2016, della Flip, il primo vero punto da cui sono partito, sono proprio i diritti umani.
Parlando di verità o veridicità dell’informazione – che sia essa istituzionale o alternativa – è chiaro che il sostegno ai diritti umani non possa in alcun modo prescindere da questo aspetto che, dovrebbe, in primis, informare i media: la verità di quanto riportato da un giornale, di carta stampata, o sito internet che sia, indica la misura con cui “le parole sono il paragone dei fatti”.
E se non lo sono, non c’è alcuna buona causa da sostenere, perchè significa che l’informazione è diventata propaganda.
Ad ogni modo, qualunque disamina di elementi che riguardino la qualità dell’informazione, non può prescindere dal contesto in cui ci stiamo muovendo.
Oggi, il contesto si chiama “iper-neoliberismo”.
Alcuni affermano che esso sia l’evoluzione del liberismo, ma è falso: il liberismo si rifaceva al concetto chiave nella teoria macroeconomica, di “concorrenza perfetta”: il “mercato”, in quel caso, non può essere influenzato da alcun singolo operatore, poichè è il mercato stesso che fa il prezzo, ed il beneficio per il consumatore e l’utente, diventa evidente.
Nell’iper-neoliberismo invece sono alcuni grandi oligopoli che muovono le pedine fondamentali del mercato, col risultato di una distorsione continua dei prezzi e dei valori in campo, e lo snaturamento delle democrazie.
Come sta accadendo palesemente ai giorni nostri, con i vari “Patriot Act”, “Jobs Act”, che altro non sono, se non delle demolizioni controllate di diritti civili, ottenuti dopo decenni di lotte per ottenerli.
Si pensi, ad esempio, che nell’analisi di alcuni autori, negli Stati Uniti, tutti i media e i provider internet, farebbero capo, in ultimo, alla proprietà di soli sei grandi gruppi: alla faccia della concorrenza e della libertà d’informazione!
(Fonte http://www.businessinsider.com/these-6-corporations-control-90-of-the-media-in-america-2012-6?IR=T)
Quello che conta comunque, per l’informazione, è che, dietro al concetto di iper-neoliberismo, si celi ciò che Jean-Francois Kahn, in primis, e poi Serge Latouche (che ha sviluppato nei suoi libri il concetto) hanno definito come “pensiero unico”.
Dietro al pensiero unico, riportato incessantemente dalla stampa main-stream, nella sua famelica“agenda-setting”, si occulta la mancata applicazione, sistematica, direi, della “libertà di stampa”.
D’altra parte ci sarà un perché, dietro al fatto che l’Italia (per limitarsi giusto al nostro paese) si trovi al 73° posto nella classifica della libertà di stampa?
Un aspetto banale, bisogna aggiungere, ma mai sufficientemente riportato, sta poi nel fatto che “chi ha la tromba più grande, emette anche il suono più forte”, sovrapponendosi alle trombette più piccole.
Mi riferisco ovviamente a piccoli e grandi media.
La cosa incide sui cosidetti “bias” che ci costruiamo col tempo, i filtri fatti dalle conoscenze e dalle esperienze pregresse, che ci impediscono di cercare la verità (sui giornali, in questo caso) con la dovuta limpidezza mentale.
Tony Cartalucci, autore di “Come sopravvivere sul campo di battaglia della guerra di informazione” (comparso su controinformazione.info, il 31 marzo 2016), dice in proposito :” prima di tutto, bisogna che le persone si dedichino personalmente ad inseguire la verità, non importa dove, avendo il coraggio di accettare una realtà che potrebbe non necessariamente coincidere con la loro attuale percezione delle cose.”
Prima di tutto dunque, armarsi in proprio dello spirito di ricerca della verità.
Partiamo ad esaminare i punti che ci potrebbero aiutare ad individuare la bontà di una notizia comparsa su un sito di controinformazione, o cultura alternativa che sia, da una considerazione su Google.
Google, nel lavoro di indicizzazione del suo motore di ricerca, ha messo a punto un sistema (che ha dietro degli uomini, non solo algoritmi), che gli consente di proporre ai suoi utenti dei risultati utili, quanto più vicino possibile agli intenti che muovono la ricerca iniziale.
Ora, capire la validità di un sito d’informazione, può prendere le mosse da quel metodo, poichè è indispensabile individuare dei criteri, quanto più oggettivi possibili, per identificare il nostro obiettivo.
L’indicizzazione di Google ha l’obiettivo di fornire, da un lato, dei risultati coerenti con la ricerca e, dall’altro, quello di riportare le migliori pagine web che se ne occupino.
Capire se un sito di stampa alternativa sia valido, deve partire necessariamente dal capire la validità del sito internet stesso, ancor prima di mettere a fuoco se quanto riportato nei contenuti dei suoi post sia veritiero.
Ecco che siti pieni di pubblicità, mal impostati graficamente e sopratutto siti in cui sono assenti i nomi e cognomi di chi pubblica, già, è ovvio che hanno solo l’intento di “lanciare il sasso e nascondere la mano”..
Il punto successivo sta nel chiedersi, leggendo un articolo sul web, quale effetto esso voglia realmente ottenere?
Così come è sempre esistita la pubblicità occulta, purtroppo, in un certo senso esiste anche “l’informazione occulta”, una informazione cioè che ha fini diversi, rispetto a quelli proposti in prima battuta al lettore.
“Gli spettatori avranno notato quante volte nel film si faccia riferimento alla rivolta, alla lotta, alla rivalsa popolare. Personalmente in alcuni frangenti non ho potuto fare a meno di pensare ad un'autentica istigazione alla sommossa violenta.”, dice questo articolo (http://www.anticorpi.info/2010/03/controinformazione-ed-istigazione.html)comparso su Anticorpi, facendo riferimento a quanto avviene nel cinema.
Ebbene, il concetto è lo stesso per gli altri media: se un articolo, un post, un video, mira, in ultimo, a sostenere una qualche forma di rivolta popolare, è chiaro che si tratta di fuffa, e va bannato all’istante, dato che non può essere mai la rivolta popolare, il vero fine del divulgatore.
“Ciò che personalmente temo è che il sistema stia alimentando e strumentalizzando la controinformazione per istigare una reazione da parte della base sociale, una reazione violenta capace di giustificare l'adozione di contromisure altrettanto violente e radicali che costituiscano un ulteriore giro di vite sulla repressione delle libertà individuali.”, dice ancora l’autore dell’articolo su citato.
La riflessione va a braccetto con la ricognizione del contesto suddetto, il sistema iper-neoliberista: uno stato ormai influenzato dalle elite finanziarie, che mira solo ad ottenere leggi liberticide, per decapitare ulteriormente i diritti civili, con qualsiasi mezzo, compresa questa forma ormai diffusa ma occulta di “divulgazione finalizzata” .
Entrando nel discorso delle fonti di informazione, dopo anni di lavoro, di lettura e di attenzione di siti di informazione alternativa, ritengo che non ci sia una sostanziale differenza, in prima battuta, sulla bontà e veridicità delle fonti.
Non è vero, come afferma sbrigativamente qualcuno, che nei siti di controcultura non ci sarebbero le fonti, anzi, spesso si fa riferimento ad ottime fonti, persino istituzionali, che sono però al di fuori di quelle usate e riusate dai grandi media. (Si veda questo video che segue, come esempio: http://www.redflagnews.com/headlines-2016/un-peace-council-the-us-media-is-lying-to-the-american-people-the-war-in-syria-is-not-a-civil-war-its-a-proxy-invasion-by-the-united-states)
Il focus qui, comunque, deve andare alla disamina obiettiva delle fonti e del loro valore.
Anche qui, per brevità, rimando alla lettura dell’articolo citato in testa di Cartalucci, il quale ricorda di prendere in considerazione innanzitutto la fonte originale, cioè mettendo da parte (cestinando) la fonte “presunta” o “trapelata”, su cui si appoggia effettivamente la disinformazione.
Così come importante è seguire “la traccia dei soldi”, vero e proprio bastione del giornalismo investigativo.
Cartalucci cita a modello di ottimo giornalismo che segue le regole di cui sopra, un articolo sul New Yorker del 2007, intitolato “Il reindirizzamento“, del giornalista emerito Seymour Hersh, da cui – aspetto tutt’altro che secondario – si spiega da dove ha preso le mosse la fatidica “guerra al terrore”, con cui oggi i telegiornali riempiono i loro spazi, omettendo peraltro, sistematicamente, parecchi elementi utili, come si vedrà.
C’è ancora un altro punto chiave su cui riflettere: la disinformazione travestita da controinformazione, che forse è la piaga più grande che attraversa longitudinalmente tutto ciò che compare sui media, che siano istituzionali o meno, che vadano in tv o sul web.
Dice infatti l’autore di questo articolo:” Come non mi sono mai illuso che la realtà sia quella rappresentata dai mass media, non mi illuderò che un personaggio stipendiato per dissentire sui mezzi di persuasione di massa, potrà mai venirmi a parlare dei veri problemi del mondo”
E aggiunge:” teniamo la mente bene aperta, perché stiamo inoltrandoci in una fase in cui sempre più spesso la disinformazione ci sarà somministrata sotto forma di controinformazione, e sarà sempre più difficile distinguere le denunce in buona fede da quelle che si spacciano come tali, ma che in effetti servono interessi occulti.”
(Si approfondisca il concetto dei “leftgatekeep” sul suo articolo http://www.anticorpi.info/2010/02/i-left-gatekeeper.html)
Infine, dopo l’analisi e la “critica”, concludo con una proposta.
Si potrebbe creare un ente indipendente, che abbia il compito precipuo di verificare e riportare agli utenti la verità nei media!
E stilare, ad esempio, dei rapporti, con un” indice di veridicità” di un articolo o di un programma televisivo.
Non so se questo sarebbe mai auspicabile, certo è che, se si è arrivati a concepire un’idea del genere, questo è dovuto ad un sistema dei media poco trasparente ed indipendente, ma la domanda che sorge spontanea è: ciò, non renderebbe ancora più complicato il sistema?
E, di seguito: chi dovrebbe presiedere questo ente? E ancora: quali potrebbero essere le regole obiettive, alla base dei suoi rapporti sul lavoro dei media?
Quanto ho scritto in questo articolo, è chiaro che dovrebbe essere oggetto di ben più ampia trattazione, ma spero aiuti l’utente, quanto il professionista dei media ad aprire gli occhi su una realtà che ha molti più strati di quanti non si vedano ad un primo sguardo.
il giornalista free lance non credeva negli ordini professionali, era uno spirito libero
Oggi Antonio Russo avrebbe avuto 56 anni se non fosse stato ucciso la notte tra il 15 e il 16 ottobre in Georgia, dove si trovava in qualità di inviato di Radio Radicale per documentare la guerra in Cecenia. Il suo corpo venne ritrovato torturato, ai bordi di una stradina di campagna a 25 km da Tblisi. Antonio Russo era stato per molti anni freelance e reporter internazionale di Radio Radicale. Tra le sue corrispondenze quelle dall'Algeria, durante gli anni della repressione, dal Burundi e dal Ruanda, che hanno documentato la guerra nella regione dei grandi laghi, e poi dall'Ucraina, dalla Colombia e da Sarajevo.
Russo fu inoltre inviato di Radio Radicale in Kosovo, dove rimase – unico giornalista occidentale presente nella regione durante i bombardamenti NATO – fino al 31 marzo 1999 per documentare la pulizia etnica contro gli albanesi cossovari. Nel corso di quelle settimane collaborò anche con altri media e agenzie internazionali. In quell'occasione fu protagonista di una rocambolesca fuga dai rastrellamenti serbi, unendosi a un convoglio di rifugiati kosovari diretto in treno verso la Macedonia. Il convoglio si fermò durante il percorso e Antonio Russo raggiunse Skopje a piedi. Di lui non si ebbero notizie per due giorni, nei quali lo si diede per disperso.
Perquisita dalla polizia georgiana, la sua abitazione fu ritrovata in soqquadro, mentre il telefono satellitare, il computer, la videocamera e il materiale di Russo inerente gli eccidi in Cecenia era stato sottratto. Le indagini della procura di Roma e della Digos, supportate anche da fonti del quotidiano The Observerer, dell'Ansa e del Corriere della Sera, collegarono l'omicidio di Russo con le sue scoperte giornalistiche. Aveva infatti cominciato a trasmettere in Italia notizie circa la guerra, e aveva parlato di una videocassetta contenente torture e violenze dei reparti militari russi ai danni della popolazione cecena. Secondo alcuni suoi conoscenti, Russo aveva raccolto prove dell'utilizzo di armi illegali contro bambini ceceni, con pesanti accuse di responsabilità del governo di Vladimir Putin.
Giornalista freelance, non si era mai iscritto all'ordine dei giornalisti italiano perché, come anche il gruppo dei radicali italiani di cui faceva parte, era ad esso contrario. Questo il ricordo di un collega Claudio Gherardini incaricato di visionare villaggi albanesi distrutti dai miliziani serbi per conto di una ONG. “Lo conobbi nel dicembre del 1998 , stavo concludendo la mia permanenza nei Balcani iniziata nel 1996. Ho passato una settimana con lui a Pristina. Ancora me lo vedo a tavola in pizzeria con i suoi ragazzini di strada, affamati e che mai sarebbero stati ammessi nel locale se non per lui. Mi pento solo di non averlo fotografato, chissà cosa mi avrebbe detto. Avevo un fuoristrada scassatissimo ma andammo un po’ in giro assieme. Uno che sentii subito come un fratello. Antonio metteva di buon umore subito. Era uno spirito libero e non aveva paura di niente.” Nel 2001 gli è stato assegnato postumo il premio Saint Vincent di giornalismo e il premio della Free International Press è dedicato alla sua memoria.
“L’automobile dava le spalle al mare; il lato del conducente era attaccato al muro del terrapieno; il colpo di pistola è stato esploso dietro la nuca; la pistola viene rinvenuta ai piedi del guidatore; il sedile del medesimo reclinato all’indietro”. Questi i rilievi del RIS sulla scena del ritrovamento del cadavere del brigadiere dei carabinieri Enrico Solinas, in forza presso il comando territoriale dell’Arma di Sanremo. Ciò che ci lascia però perplessi è che questa morte è sia stata repertoriata come “suicidio”, visti gli indizi. Ma partiamo dall’inizio della Storia.
Enrico Solinas, 49 anni, brigadiere dei carabinieri, ligio al dovere tanto da non lasciare mai la caserma prima di aver portato a termine il proprio impegno quotidiano, sempre meticoloso, preciso, quasi maniacale nel seguire i particolari dei compiti affidategli, il 3 giugno del 2012, lo confermano le stesse telecamere di sorveglianza, lascia l’ufficio ad ora tarda, le 22.00, solo dopo aver consegnato tutti i verbali di cui era stato fatto carico. La sua compagna lo aspetta a casa propria, dove ha già preparato una cena romantica per il loro anniversario. Il brigadiere però l’avvisa che farà tardi: deve incontrare un informatore. Si reca quindi con la propria auto a Pian di Poma, una zona di Sanremo al limite del centro urbano che si affaccia a ridosso del mare, località assai nota per essere scenario di molti delitti irrisolti. Giunto sul posto, si accende una sigaretta e attende.
Verranno ritrovati circa dieci resti di cicche di sigarette della marca di quelle fumate solitamente dal militare ed altrettante senza marca, di quelle in uso al contrabbando minore. Quest’ultimo, però, è un l’elemento importante che, insieme al quel colpo alla nuca del quale abbiamo già riferito, apre ad altri scenari.
Da tempo il militare si stava occupando di un traffico di stupefacenti, tanto da aver individuato anche una pista ma, presupponiamo, ignaro di essersi ritrovato così rapidamente in una vicenda dalle proporzioni di gran lunga superiori alle aspettative del momento, non aveva pensato a maggiori precauzioni.
Gli altri mozziconi di sigarette, quelli senza marca, ritrovati tutti insieme e distanti dalla vettura, lasciano presagire l’attesa di un probabile killer. “Ipotesi”, dicono gli inquirenti, solo ipotesi, e rimangono saldamente “aggrappati” alle conclusioni che a loro avviso conducono “unicamente” al suicidio.
Unicamente ...? Strano, molto strano ...! C’è un altro elemento della vicenda di cui ancora non abbiamo parlato ... Quando gli inquirenti giungono sul luogo del ritrovamento del corpo del brigadiere, non trovano solo quanto finora detto ma anche, e soprattutto, quanto rimane di un rovinoso incendio che ha avvolto la vettura ed il corpo ormai esanime del militare.
Viene allora spontanea la domanda: primo, chi è capace di suicidarsi, sparandosi da solo un colpo d’arma da fuoco (oltretutto le pistole in dotazione all’Arma sono pesanti e voluminose) alla nuca e poi di darsi fuoco con tutta la vettura? Secondo, non sarebbe più ovvio pensare che l’assassino, per cancellare le tracce dell’incontro col Solinas, abbia successivamente, a omicidio avvenuto, fatto ricorso all’incendio risolutore?
Secondo la ricostruzione fatta dal magistrato, invece, Solinas si sarebbe prima dato fuoco per delusioni amorose e poi, successivamente, mentre il suo corpo bruciava, sia risalito a bordo della vettura e si sia suicidato. Come ci fosse riuscito, visto che l’automobile era parcheggiata pressoché a filo del terrapieno, ci viene difficile da capire!
Ma... l’abbiamo detto prima ...: Pian di Poma vive la strana “maledizione” dei casi irrisolti: quello della “sconosciuta di Bordighera”, ora quello del brigadiere Solinas come, con quel nome molto simile a quello di Roma “Via Poma”, ne subisce ... tutto il clima nefasto del maleficio occulto, del destino di un “coldcase” !
Nella sala del Refettorio della Camera dei Deputati venerdì 22 Luglio 2016 si è tenuto il Seminario "Nuovi Rapporti con le istituzioni Europee e l'Importanza degli Enti No Profit nel processo di Governace dell'EU”. Di seguito la presentazione dell'accademia universitaria degli studi Giuridici Europei “AUGE”.
Il weekend alla Camera dei Deputati è iniziato con un evento culturale che ha coinvolto oltre 300 persone provenienti da tutta Italia: personalità di spicco del panorama formativo, politico, imprenditoriale e giornalistico.
Al seminario dal titolo: "Nuovi Rapporti con le istituzioni Europee e l'Importanza degli Enti No Profit nel processo di Governace dell'EU” è proseguito il battesimo dell'accademia universitaria degli studi Giuridici Europei “AUGE”, rappresentata dal Senato Accademico nelle persone del Presidente Coordinatore prof. Luca Filipponi, dal prof. Francesco Petrino, dal prof. Umberto Gianmaria, dal prof. Antonello Secchi e dal prof. Angelo Sagnelli.
All'unanimità il senato accademico ha eletto Rettore il prof. Giuseppe Catapano, docente universitario e autore di diverse pubblicazioni; proprio in questi giorni è in uscita la seconda edizione del suo libro “Banche e Anomalie”, di gran successo.
Il rettore, dopo un saluto e un ringraziamento al senato accademico e a tutti gli autorevoli ospiti in sala, ha precisato che il suo ruolo si colloca in un momento difficile per la formazione, sia per la carenza di fondi, sia per la crisi sociale che attraversa L'Europa.
L’iniziativa si è conclusa con la presentazione da parte del neo rettore della sua “squadra”; tutti professionisti in diversi settori: il prof. Cesare Cilvini, Accademico Tesoriere. La prof.ssa Caterina Areniello, Accademico Formatore, avvocato del Foro di Nola aderente All’ AIGA NOLA esperta in materia di contenzioso assicurativo,il prof. Francesco Sepe, Accademico Formatore Architetto, l’avv. Alberto Pastore, Accademico Formatore del Foro di Nola aderente all’ AIGA NOLA, esperto in materia di contenzioso tributario e titolare di Cattedra nel corso di Assistenti nel contenzioso. L’avv. Salvatore Soviero, Accademico Formatore del Foro di Nola aderente all’AIGA NOLA, esperto in materia di contenzioso e titolare di cattedra nel corso di assistenti nel contenzioso. Daniele Orefice, Accademico Formatore, Medico Chirurgo. L’avv. Assunta Catapano, accademico Formatore, del Foro di Nola aderente all’AIGA NOLA, esperta in materia di Contenzioso Societario e titolare di Cattedra nel corso di Assistenti nel contenzioso. La dottoressa Mariarosaria Rusciano, Accademico Formatore, consulente tributario ed esperta in materia di contenzioso tributario, titolare di cattedra nel corso di Assistenti nel contenzioso. L’avv. Francesca Pizza, Accademico Formatore del Foro di Nola aderente all’ AIGA NOLA, esperta in materia di contenzioso del diritto bancario e titolare di cattedra nel corso di Assistenti nel contenzioso. L’avv. Francesco De Florio, Accademico Formatore del Foro di Taranto, esperto in materia di contenzioso e "sdebitazione" , titolare di cattedra nel corso di assistenti nel contenzioso. L’avv. Massimo Passero, Accademico Formatore del Foro di Avellino, esperto in materia di contenzioso, la Dott.ssa Maria Luisa Buono, Accademico Formatore, magistrato, esperta in materia di contenzioso. Il dott. Claudio Noschese, Accademico Formatore, commercialista, esperto in materia di contenzioso. Il prof. Massimo Zavoli, Accademico Formatore docente di ruolo, esperto in materia d’ arte. La dott.ssa Paola Biadetti, Accademico Formatore, giornalista, esperta in materia di comunicazione.
I nuovi accademici, con un breve saluto hanno ringraziato il rettore per la fiducia accordata ribadendo la ferma intenzione di affrontare al meglio la sfida della formazione.
Ha salutato per ultimo il Professor Petrino, Toga d'Oro dell'accademia, il quale ha preannunciato un seminario Full immersion per il corpo insegnante da tenersi nei primi giorni di settembre, ovvero prima dell'incontro programmato per gli accademici presso il Parlamento Europeo.
Il concetto di alienazione è estremamente vicino al nostro tempo. Sembra una contraddizione il fatto che in una società ricca ed evoluta possiamo trovare tanto malessere interiore, al punto da cercare una via d’uscita nella fuga dalla realtà. Ed invece è proprio a partire dalla rivoluzione industriale che tale disagio inizia a farsi sentire al punto da diventare oggetto di indagine non solo della letteratura ma anche della filosofia e, successivamente, della psicanalisi e del cinema.
Ognuno di noi è investito di un ruolo all’interno della società, un ruolo a cui adegua i propri comportamenti e in cui si identifica, al punto da diventare ciò che gli altri credono o vogliono che sia. Ma il contrasto tra ciò che avvertiamo e ciò che ci viene imposto, tra ciò che crediamo e ciò che ci viene imposto magari in maniera sotterranea porta l’uomo a sentirsi smarrito, frustrato, alieno, estraneo anche a se stesso.
In un tempo di democrazia e libertà tutti, ma soprattutto i giovani, tendono a uniformarsi anziché voler essere diversi, unici. Tutti vestiti nello stesso modo, stesso linguaggio, stessi atteggiamenti. Tutti uguali.
Ma l’essere omologati rende schiavi, chi è diverso è tagliato fuori, è strano, è fuori dal gioco.
Ma nessuno è felice senza un’identità propria. Così si cercano alternative, rifugi effimeri. Internet, i social, in cui ognuno pubblica se stesso e si perde e si immagina anche quello che non è, più bello, più forte, migliore degli altri e di come si vede. Ore ed ore trascorse a costruirsi una storia che non è reale, a mostrarsi, a raccontarsi, a sbirciare le vite degli altri.
Un tempo le grandi domande, chi sono, dove sto andando, formavano le menti di grandi filosofi o pensatori o portavano alla follia. Nel nostro tempo neppure la psicanalisi, secondo uno studio americano, ha più grande successo, Freud, Jung, hanno perso di attualità in un mondo in costante cambiamento, e molti si avvicinano o ritornano allo studio della filosofia, piuttosto che alle religioni.
Un ultimo e infelice riferimento al fatto che spesso, soprattutto i giovani, cercano un’evasione da una realtà che non conoscono e che sembra inafferrabile, nell’uso delle droghe. Ma queste non fanno che uccidere il pensiero, ed anche questo spesso diventa un atto di omologazione, per cui l’alienazione diventa ancora più forte. Fuggire dalla realtà per poi ricaderci dentro frastornati, storditi, peggiori.
Sembra quasi che l’uomo assieme alle macchine abbia inventato un modo per allontanarsi dal senso della vita, da tutto ciò che è naturale, da tutto ciò che conta.
Credo che solo ritornando ogni giorno, nei piccoli gesti, a qualcosa di semplice, vero, pensieri, piccole azioni, ecco, credo che solo guardandosi allo specchio e cercando di conoscersi e riconoscersi davvero, possiamo rientrarci, nella realtà, e starci bene.
A Mamerto
IL MINISTERO DELLA SALUTE CONFERMA IL VALORE E LA SUPERIORITA’ DELLA DIETA VEGAN
Nel mese di ottobre 2015 c’è stata la pubblicazione ufficiale da parte del Ministero della salute di un dossier (inerente la salute), redatto dagli esperti più noti in Italia, dedicato ai regimi vegetariani e vegani. Tra le
altre si legge: “ E’ noto che una dieta vegetariana conferisca protezione dalle malattie cardiovascolari, da alcuni tipi di neoplasie, e sia associata ad una riduzione della mortalità per tutte le cause. Inoltre: “Rispetto alla diete vegetariane la dieta vegana sembra offrire un’ulteriore protezione dall’insorgenza di obesità, ipertensione, diabete mellito di tipo 2 e mortalità cardiovascolare, soprattutto nel sesso maschile”.
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SUPERBATTERI E ANTIBIOTICI
Ogni anno in Italia muoiono 5 mila persone a causa dei superbatteri che resistono a tutti gli antibiotici conosciuti. Così viene denunciato nella trasmissione televisiva condotta da Milena Gabinelli su Rai 3 domenica
29.5.16.Ll’allarme arriva dalla Pennsylvania in cui si parla di rischio di una pericolosa pandemia. Il nemico principale è lo stafilococco aureo, una specie di batterio killer che si può annidare nella carne (guarda caso) dai suini ai bovini. Sabrina Giannini (che ha realizzato il servizio) ha fatto analizzare la carne presa a campione da tre diverse catene di supermercati: su trenta confezioni è saltato fuori uno stafilococco. (I mangiatori di salme sono avvisati) flm
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ARMI ITALIANE VENDUTE NEL MONDO
L’Italia è il nono esportatore di armi nel mondo: elicotteri, navi, carri armati, sistemi radar. Ma di armi leggere è la prima al mondo (fucili e pistole). I maggiori clienti sono gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Tra il 2000 e il 2013 ne ha vendute per un importo di 5,9 miliardi in più di 123 paesi, tra l’altro ai paesi più aggressivi e violenti come l’Arabia Saudita, Medio Oriente, Nord Africa, Asia, America Latina, Algeria, Emirati Arabi (anche se la legge 185 vieta di esportare armi in zone di conflitto o in paesi dove non sono rispettati i diritti umani). Più della metà delle esportazioni sono a paesi fuori dalle alleanza politico-militari di Roma, cioè paesi non appartenenti all’Unione Europea o alla Nato.
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STOP PULCINI NEL TRITACARNE VIVI. Firma la petizione ! Scade a novembre !!!
https://www.change.org/p/salviamo-pulcini-e-galline-dal-tritacarne-da-vivi-riconosciamoli-come-da-compagnia-firma-ora/u/16274072
Facile identificarci all’estero, soprattutto nei Paesi più evoluti del nostro, basta la parola: giornalista “freelance”. Parola che evoca libertà, coraggio, spirito d’avventura, abnegazione, ma soprattutto fedeltà al proprio ideale, alle ragioni che lo sospingono ad un’arte così meravigliosa e al contempo così difficile. Il professionista dell’informazione è l’occhio vigile della società, colui che fotografa la realtà, non importa con quale mezzo. E’ “il controllore”. In questi Paesi a cosiddetta “democrazia compiuta”, dove esiste editoria pura, è considerato il giornalista per eccellenza ma non lo è nel nostro, dove questo termine non è compreso, suscitando tutt’al più considerazioni tra il benevolo e l’ilare. Da noi il controllore è controllato, anzi è abolito o peggio, la categoria non esiste, non essendoci alcuna legge che lo salvaguardi per la funzione che espleta, così delicata per la stessa democrazia.
La nostra associazione vuole rifarsi a quest’ideale. Siamo i figli di nessuno, coloro che credono nel proprio lavoro e nel ruolo affidatogli da una seria professione. Coloro che cercano di sopravvivere all’umiliazione di non avere padrini, che si aggrappano alla propria professionalità e dignità.
Non pretendiamo d’avere l’esclusiva, non sappiamo se vi siano altre associazioni come la nostra e se vi sono, che siano le benvenute. Il nostro impegno è quello di contribuire a costruire la casa comune perché i “desaparecidos” prendano coscienza che un giorno potrebbe essere accordato loro ciò che la ragione ancora gli nega.
E veniamo a noi. La nostra associazione è stata fondata con atto notarile da dodici colleghi pubblicisti, compreso il sottoscritto, nel gennaio del ’94, quindi più di venti anni fa. In un primo tempo lanciammo accorati appelli a ordine e sindacato dei giornalisti perché fosse presa nella giusta considerazione sia la dignità economica, che la professionalità dei giornalisti autonomi, ma alle promesse non seguirono mai i fatti. Decidemmo così di non partecipare più alle loro riunioni e di andare avanti con le nostre gambe, essendo sempre più evidente l’asservimento delle istituzioni create per l’informazione ai colleghi dipendenti dell’editore. Oltretutto le nostre posizioni erano divergenti: siamo per l’abolizione dell’ordine dei giornalisti, un “unicum” al mondo. A nostro modesto parere è più che sufficiente iscriversi alla camera di commercio, previo piccolo esame per essere a conoscenza delle norme che riguardano l’informazione, prendere la partita iva e operare, al resto potrebbe pensarci più che egregiamente in nostro codice penale. Non c’è bisogno di appartenere ad un ordine, perché nel nostro lavoro esprimiamo delle idee, delle considerazioni (art. 21 della Costituzione), non firmiamo un progetto di cui ne siamo i responsabili. Siamo contrari ai finanziamenti pubblici all’editoria, strumento dei politici per condizionare l’informazione che falsa il mercato, mettendo a tacere coloro che non hanno la fortuna di avere tale elargizione. Avremmo tanti altri argomenti per i quali discutere, ma non è questa la sede adatta.
I giornalisti freelance gravitano nel lavoro autonomo, dove vige la professionalità effettiva, ma non sono tutelati da un contratto come quello che hanno i giornalisti alle dipendenze dell’editore, solitamente legato ai politici per via dei finanziamenti pubblici, e che pomposamente amano ed esigono essere chiamati giornalisti professionisti in quanto iscritti all’albo. Nel lavoro del giornalista freelance c’è l’alea del guadagno, non la sicurezza di un contratto, per cui è giusto che venga fatta una legge che ne tuteli la dignità economica, cosa che a tutt’oggi è lungi dall’ avverarsi. Non ci facciamo illusioni, la filiera dell’informazione è voluta in questo modo per poterla controllare: un giornalista che faccia veramente informazione sarebbe scomodo. Da noi non esiste libertà di stampa come vogliono farci credere. Se ci fosse stata veramente, se fosse stato dato modo ai giornalisti di fare veramente il loro mestiere, probabilmente non ci sarebbe l’attuale condizione di degrado del Paese, in tutti i sensi. Da 14 anni organizziamo annualmente un premio sui diritti umani per ricordare il nostro vice presidente Antonio Russo, ucciso in Georgia mentre indagava sulle terribile tragedia cecena, si presume dai russi, ma poco se ne parla: forse l’ordine non ne vuole parlare perché non iscritto, o forse contro l’Egitto per il caso Regeni si può alzare la voce ma contro la Russia, che ci da gas e petrolio, è più comodo abbassare i toni? Antonio, che era un valente giornalista, pluripremiato per la sua coraggiosa professionalità, il cui nome figura tra i martiri ad Arligton, negli USA, nel memorial dedicato all’informazione nel mondo, non aveva il tesserino dell’ordine: non perché non avesse potuto ottenerlo, ma perché si rifiutava di appartenere ad una corporazione fine a se stessa.
Tolgono sangue (denaro) a chi ne ha poco (i freelance) per darne a chi ne ha molto in cambio del nulla, mi riferisco a ordine, sindacato e Inpgi, la previdenza, la cui gestione per anni è stata a dir poco discutibile. Non vogliamo avere nulla a che vedere con queste sovrastrutture anche se, purtroppo, ne dobbiamo rispettare le regole, ma non ci rispecchiamo assolutamente in queste. Il nostro modo di intendere l’informazione è senza ma e senza però.
Come nella miglior tradizione, anche tra i giornalisti, ogni qual volta si è in vista di elezioni di organi istituzionali, soprattutto dell’Inpgi, la cassaforte di noi giornalisti, si formano cordate, gruppi e sodalizi per conquistare le poltrone di comando. Lotte fratricide che si spengono puntualmente ad elezione avvenuta. Anche quest’anno il copione si è confermato, ma con una variante: si è passati alla diffamazione gratuita nei confronti della nostra associazione.
Circa un mese fa, prima delle elezioni all’Inpgi, un gruppo di colleghi “pro ordine”, aderenti ad un gruppo su facebook (giornalisti italiani su facebook), crediamo su commissione (non è la prima volta che accade!), ci ha attaccati pesantemente minacciandoci di deferirci all’ordine, accusandoci di essere illegali, e usando nei nostri confronti parole di scherno e gravemente offensive. Siamo stati così costretti a rivolgerci ai nostri legali per tutelare il nostro buon nome. Non appena intrapresa l’azione legale un collega del nostro direttivo ricevette una lettera del Presidente dell’ordine del Trentino-AltoAdige nella quale, a nome e per conto del presidente dell’ordine nazionale, chiedeva informazione sulla nostra attività. Per delega il collega, essendo il presidente dell’associazione c’è stata la risposta del sottoscritto. Dopo neanche una settimana è pervenuta una lettera di scuse nei nostri confronti del più accanito tra i nostri denigratori.
Ci siamo dilungati un po’ per meglio chiarire la posizione della nostra associazione sullo stato dell’arte dell’informazione in Italia. Agli iscritti della Free Lance International Press l’orgoglio di mostrare il proprio tesserino.
Il Consiglio nazionale forense lancia “il quotidiano dei diritti” diretto da Piero Sansonetti ……e ho detto tutto !
Chi meglio dell’Avvocatura di “diritti” se ne intende?
E allora il Presidente dell’organismo di rappresentanza istituzionale dell’Avvocatura italiana- l’Avvocato Andrea Mascherin del Foro di Udine - lancia una sfida che rasenta la follia : editare un quotidiano cartaceo che tratta dei diritti.
E’ vero che gli Avvocati in Italia abbondano (ce ne sono oltre duecentocinquantamila !): ma è sicuro che tutti acquisteranno la copia del giornale ?
Già la testata è difficile da interpretare: che significato va attribuito all’espressione “il dubbio” ?
L’Avvocato, per definizione, è colui che, partecipando al processo, ricerca la “verità” e la verità - una volta raggiunta - è “certezza” !
Verità per la quale gli Avvocati arrivano ad offrire la loro stessa vita pur di difendere i diritti anche dei brigatisti; o per assolvere il “mandato di verità” conferito dai giudici ambrosiani.
Ma per raggiungere la “verità” il processo è lungo ( …forse troppo nel nostro Paese) e drammatico e la molla che sospinge il cammino è proprio “il dubbio”.
Se nell’incontro di presentazione- insieme a Rita Bernardini, Margherita Boniver, Fabrizio Cicchitto, Arturo Diaconale, Mauro Vaglio ed ai rappresentanti di altri Ordini professionali - fosse stato presente anche Cartesio forse avrebbe parafrasato se stesso : dubito ergo sum.A proposito : finalmente un incontro senza tromboni ed inutili vipponi !!!
Ben venga allora questo portatore di dubbi, questo strumento che attraverso il richiamo e l’uso dei “diritti” ci aiuterà nell’ininterrotto cammino che la civiltà compie ogni giorno per vedere finalmente una società più equilibrata, più equa e finalmente più giusta.
Non dimentichiamo che l’Italia- o forse sarebbe meglio dire gli indegni governi di questo Paese - subisce frequenti condanne alla “Corte europea dei diritti dell’uomo”.
Gli Avvocati con le loro penne difendono i diritti attraverso i loro scritti nelle battaglie processuali; i Giornalisti con le loro penne portano a conoscenza delle Persone quelle lotte con le loro vittorie e con le loro sconfitte.
Il dantesco nocchiero di questa navigazione che parte martedì è Piero Sansonetti, esperto navigatore che partì da “l’Unità” ( ……quand’era ancora ) di Antonio Gramsci, per passare da “Liberazione”, da “Calabria ora”,dagli anni passati negli USA, dalle “Cronache del garantista” ed oggi in questa nuova avventura cartacea nelle edicole di tutta Italia in continuità con la prima parte della nostra settantenne “Carta” costituzionale.
vito:
Il retroscena
Una mail in arabo acquisita dalla procura di Roma alla vigilia del vertice tra investigatori in programma domani: “Può averla scritta solo qualcuno molto informato”
“Ecco chi ha ucciso Giulio” l’accusa anonima ai vertici che svela tre dettagli segreti.
C’è ora un Anonimo nel caso Regeni. E racconta una storia che ricostruisce cosa sarebbe accaduto a Giulio tra il 25 gennaio e il 3 febbraio. Una storia che porta dritta al cuore degli apparati di sicurezza egiziani, civili e militari, della polizia di Giza, del Ministero dell’Interno, della Presidenza. L’Anonimo scrive a Repubblica da qualche giorno da un account mail Yahoo, alternando, nei testi, l’inglese, qualche parola di italiano, e la sua lingua, l’arabo. Si dice della polizia segreta egiziana. Lascia intendere di essere collettore e veicolo di informazioni di chi non può esporsi in prima persona, se non a rischio della vita.
Delle sue mail sono in possesso il pm Sergio Colaiocco e il legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini. E, come ogni Anonimo, l’attendibilità del suo racconto va presa con assoluto beneficio di inventario. Se non fosse per una circostanza. L’Anonimo svela almeno tre dettagli delle torture inflitte a Giulio Regeni mai resi pubblici e conosciuti solo dagli inquirenti italiani, perché corroborati dall’autopsia effettuata sul cadavere di Giulio nell’Istituto di medicina legale di Roma. Chi scrive, insomma, chiunque esso sia, sapeva e sa qualcosa che potevano conoscere solo i torturatori di Giulio o chi dei suoi tormenti è stato testimone.
IL SEQUESTRO
«L’ordine di sequestrare Giulio Regeni — scrive l’Anonimo — è stato impartito dal generale Khaled Shalabi, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza», il distretto in cui Giulio scompare il 25 gennaio. Lo stesso ufficiale con alle spalle una condanna per torture che, dopo il ritrovamento del cadavere, accrediterà prima la tesi dell’incidente stradale e quindi quella del delitto a sfondo omosessuale. «Fu Shalabi, prima del sequestro, a mettere sotto controllo la casa e i movimenti di Regeni e a chiedere di perquisire il suo appartamento insieme ad ufficiali della Sicurezza Nazionale». E «fu Shalabi, il 25 gennaio, subito dopo il sequestro, a trattenere Regeni nella sede del distretto di sicurezza di Giza per ventiquattro ore».
“SCIOGLIETEGLI LA LINGUA”
Nella caserma di Giza, Giulio «viene privato del cellulare e dei documenti e, di fronte al rifiuto di rispondere ad alcuna domanda in assenza di un traduttore e di un rappresentante dell’Ambasciata italiana», viene pestato una prima volta. Chi lo interroga «vuole conoscere la rete dei suoi contatti con i leader dei lavoratori egiziani e quali iniziative stessero preparando». Quindi, tra il 26 e il 27 gennaio, «per ordine del Ministero dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar», viene trasferito «in una sede della Sicurezza Nazionale a Nasr City».
Di fronte ai suoi nuovi aguzzini, Giulio continua a ripetere di non avere alcuna intenzione di parlare se non di fronte a un rappresentante della nostra ambasciata. «Viene avvertito il capo della Sicurezza Nazionale, Mohamed Sharawy, che chiede e ottiene direttive dal ministro dell’Interno su come sciogliergli la lingua.
E così cominciano 48 ore di torture progressive», durante le quali, per fortuna, Giulio comincia ad essere semi-incosciente. Viene «picchiato al volto», quindi «bastonato sotto la pianta dei piedi», «appeso a una porta» e «sottoposto a scariche elettriche in parti delicate», «privato di acqua, cibo, sonno», «lasciato nudo in piedi in una stanza dal pavimento coperto di acqua, che viene elettrificata ogni trenta minuti per alcuni secondi». «Bastonature sotto i piedi». Il dettaglio svelato dall’Anonimo era sin qui ignoto ed è confermato dalle evidenze dell’autopsia effettuata in Italia. Non è il solo.
NELLE MANI DEI MILITARI
Tre giorni di torture non vincono la resistenza di Giulio. Ed è allora — ricostruisce l’Anonimo — che il ministro dell’Interno decide di investire della questione «il consigliere del Presidente, il generale Ahmad Jamal ad-Din, che, informato Al Sisi, dispone l’ordine di trasferimento dello studente in una sede dei Servizi segreti militari, anche questa a Nasr city, perché venga interrogato da loro». È una decisione che segna la sorte di Giulio. «Perché i Servizi militari vogliono dimostrare al Presidente che sono più forti e duri della Sicurezza Nazionale ».
Giulio «viene colpito con una sorta di baionetta» e «gli viene lasciato intendere che sarebbe stato sottoposto a waterboarding, che avrebbero usato cani addestrati» e non gli avrebbero risparmiato «violenze sessuali, senza pietà, coscienza, clemenza ». «Una sorta di baionetta». È un secondo, importante dettaglio. Corroborato, anche questo, dal tipo di lesioni da taglio sin qui non divulgati dell’autopsia effettuata in Italia.
L’orrore non ha fine.
«Regeni entrò in uno stato di incoscienza. Quando si svegliava, minacciava gli ufficiali del Servizio militare dicendogli che l’Italia non lo avrebbe abbandonato. La cosa li fece infuriare e ripresero a picchiarlo ancora più violentemente ». Gli stati di incoscienza di Regeni sono a questo punto sempre più lunghi. Come confermeranno i versamenti cerebrali riscontrati dall’autopsia. Ma la violenza non si interrompe. «Perché i medici militari visitano il ragazzo e sostengono che sta fingendo di star male. Che la tortura può continuare».
Questa volta «con lo spegnimento di mozziconi di sigaretta sul collo e le orecchie». Finché Giulio non crolla «e a nulla valgono i tentativi dei medici militari di rianimarlo».
«I segni di sigaretta su collo e orecchie». È il terzo dettaglio, riscontrato dall’autopsia italiana, che l’Anonimo dimostra di conoscere pur essendo pubblicamente ignoto. Ed è quello che spiega il perché nella prima autopsia al Cairo il corpo di Giulio venga mutilato con l’asportazione dei padiglioni auricolari.
IN UNA CELLA FRIGORIFERA
Dopo la sua morte, sempre secondo quello che sostiene l’anonimo, «Giulio viene messo in una cella frigorifera dell’ospedale militare di Kobri al Qubba, sotto stretta sorveglianza e in attesa che si decida che farne». La «decisione viene presa in una riunione tra Al Sisi, il ministro dell’Interno, i capi dei due Servizi segreti, il capo di gabinetto della Presidenza e la consigliera per la sicurezza nazionale Fayza Abu al Naja », nelle stesse ore in cui il ministro Guidi arriva al Cairo chiedendo conto della scomparsa di Regeni. «Nella riunione venne deciso di far apparire la questione come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e di gettare il corpo sul ciglio di una strada denudandone la parte inferiore. Il corpo fu quindi trasferito di notte dall’ospedale militare di Kobri a bordo di un’ambulanza scortata dai Servizi segreti e lasciato lungo la strada Cairo-Alessandria».
L’Anonimo promette di scrivere ancora e si affida a un verso del Corano. «Dio non ti chiediamo di respingere il destino, ma ti chiediamo di essere clemente».
Carlo Bonini Repubblica 6 aprile 2016
Il caso
Questa sentenza sembra davvero arrivare da Strasburgo, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Ma in realtà è dal tribunale civile di Roma che è stata pronunciata.
Parliamo di diritto di famiglia e di un caso molto lungo e complesso passato per più di dieci anni nella aule dei tribunali romani.
In questa sentenza, tra le prime in Italia- badate bene- si racconta la storia di un padre a cui vengono riconosciuti, come calpestati e violati, i suoi diritti come padre, in una lunga separazione giudiziale contro la sua ex moglie.
Per questo motivo, tra i primi casi in Italia, la donna, viene riconosciuta colpevole e condannata al pagamento dei danni all’ex marito, per aver deliberatamente e coscientemente separato dall’affetto, il padre dal figlio allora minore.
Una madre, tra le prime in Italia-lo ripetiamo- che viene condannata per aver esercitato quella che gli psichiatri forensi ormai definiscono come PAS, la sindrome di alienazione genitoriale, ai danni del figlio minore e del padre.
Sono serviti DIECI anni di battaglie in tribunale e una sentenza di divorzio, più ulteriori battaglie legali civili e penali ( questioni per lo più economiche, di richieste di pagamenti vari, tra cui l’abitazione dell’uomo che da sempre è stata affidata alla donna come affidataria del minore; la scuola privata del figlio, le spese di mantenimento della casa etc..) per arrivare sin qui.
La storia di questo professionista romano è stata uno di quei casi di malagiustizia all’italiana, di lentezza nelle decisioni, di sentenze che arrivano tardi e non riparano i danni, soprattutto quelli più gravi dei figli dei separati e che non leniscono né i cuori e né le menti dei più piccoli.
Una storia italiana, passata dalle aule civili a quelle penali per le tante accuse messe in campo dall’ex coniuge con un unico scopo: l’allontanamento del figlio dal padre e dalla famiglia paterna e la sicurezza di una vita agiata a spese dell’ex coniuge.
Cosa va segnalato, qui ed ora, a monte di questa vicenda che rende un po’ di giustizia ad un uomo che da tantissimi anni non vede e non sente più il figlio ormai maggiorenne?
Non certo il riconoscimento economico, che pur si attesta intorno ai ventimila euro (pensate le spese legali e di istruttoria che questo padre ha dovuto sostenere in dieci anni di separazione) ma il riconoscimento morale di un danno a lui perpetuato e al figlio- che ha rinunciato al suo affetto e alla sua presenza- e che nessun tribunale in Italia, per dieci anni è riuscito a condannare, prima di adesso.
In questi lunghi anni, si è permesso che una donna separata usasse, a suo uso e consumo, ogni espediente per separare nella frequentazione un figlio da un padre e dalla famiglia paterna, dai nonni, dagli zii e dai cugini suoi coetanei, per motivi di cieca vendetta e di assoluta opposizione nei confronti di tutti.
E che soprattutto nessun tribunale, nessun Servizio Sociale (incaricato a lungo in questa vicenda) prima di questa sentenza, sia intervenuto prima in maniera definitiva, sanzionando la donna, richiamandola ai suoi doveri, imponendole la frequentazione coatta dei servizi (affidatari della minore per lunghi anni), fermandola con tutti i mezzi e gli strumenti possibili.
Va solo ricordato che paesi più avanti di noi in questo campo, da anni, come gli Stati Uniti, usano applicare multe economiche salate agli inadempienti, in casi come questi.
In quest’epoca di famiglie liquide non è l’atto della procreazione a fare di un essere umano un genitore, ma la qualità del tempo e il tempo che dedica a suo figlio. Biologico, adottivo o acquisito, importa poco.
Ma se si parla di padri e madri separati e di figli minori in campo, la risposta può essere solo una:“Salvaguardare gli interessi del minore e garantire la normale ed assidua frequentazione del genitore separato” come recitano le sentenze in materia. Ma di fatto. Con tutti i mezzi possibili. Punendo chi non rispetta queste norme senza perdere tempo e perdersi in lungaggini burocratiche.Importa che la paternità e la maternità siano diventati valori da condividere. Persino in tribunale. Parola di un avvocato di diritto di famiglia, la dott.ssa Marina Marino.