L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Free mind (242)

Lisa Biasci
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 l'avv. Emanuele Fierimonte

Il Centro Studi per la Giustizia e le Istituzioni nasce con l’obiettivo di promuovere studi, ricerche e iniziative che affrontino i temi centrali della giustizia, delle istituzioni e della tutela dei diritti. Con un’attenzione particolare alla trasparenza, alla legalità e all’equità, il Centro Studi mira a offrire un contributo tangibile al dibattito pubblico, proponendo soluzioni concrete per migliorare il sistema giuridico italiano e rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Alla guida del Centro Studi c’è Emanuele Fierimonte, avvocato penalista di lungo corso, noto per la sua dedizione alla tutela dei diritti e al rispetto delle regole. Fierimonte ha portato la sua esperienza e la sua visione riformista al cuore dell’attività del Centro, con l’obiettivo di rendere la giustizia accessibile e inclusiva. Il suo lavoro non si limita all’aula di tribunale ma abbraccia una prospettiva più ampia, puntando a costruire un sistema giuridico che sia equo e al servizio delle persone. 

“Il nostro compito come giuristi e cittadini – afferma Fierimonte – è quello di costruire un sistema giuridico che non sia solo al servizio delle regole ma soprattutto delle persone”.

 

 Comitato scientifico

 

  l'avv. Anna Ammanniti   l'avv. Roberto Di Napoli   l'avv. Vincenzo Comi  dott. Lambero Mattei
  l'avv. Davide Lo Castro  dott.ssa Elisa Caponetti   l'avv. Laura Barberio   l'avv. Marco Lepri
 
 Il crimin. Massimo Blandini   l'avv. sergio Bellucci   prof Francesco Cherubini l'avv. Deborah Wahl Coordinatrice

 

 

 

 

Ci sono storie che profumano di dedizione, di passione e di appartenenza. Storie che si intrecciano con il tempo e che attraversano le generazioni lasciando un’eredità silenziosa ma profonda. È il caso della famiglia Fernandez, dove il senso del dovere non è solo una scelta, ma una vocazione che scorre nel sangue. Dopo trentacinque anni trascorsi al servizio dello Stato, Moreno Fernandez si prepara a deporre il berretto, chiudendo con commozione una lunga carriera nella Polizia di Stato, ma aprendo, allo stesso tempo, un nuovo capitolo scritto dal cuore e dal coraggio di sua figlia Giulia.

Moreno ha indossato la divisa con disciplina, con onore e con amore, come ama ricordare lui stesso. Dietro ogni parola, c’è la fatica dei giorni difficili, il peso delle responsabilità, ma anche la fierezza di chi ha scelto di servire il Paese con lealtà e dedizione. Trentacinque anni sono un tempo intero di vita: turni infiniti, notti insonni, momenti di pericolo e soddisfazioni immense, che oggi tornano alla mente come un film carico di ricordi. In quelle immagini ci sono i colleghi che sono diventati amici, le divise consumate dal tempo, le storie di giustizia, di dolore e di speranza che solo chi vive dietro un lampeggiante può davvero comprendere.

Ma il momento del congedo non segna una fine, bensì un dolce passaggio di testimone. È Giulia, sua figlia, a raccogliere quella fiaccola di servizio e di valori. Oggi è Commissario frequentatrice presso la Scuola Superiore di Polizia, pronta a costruire la sua strada, a camminare lungo i sentieri che suo padre ha tracciato con impegno e sacrificio. Guardandola, Moreno ritrova se stesso da giovane, lo stesso sguardo carico di determinazione e di rispetto per un mestiere che non è mai solo un lavoro, ma una missione. Il loro “passaggio di consegne” ha qualcosa di toccante e di simbolico. È la continuità di un amore per la divisa che va oltre il tempo, oltre le mode, oltre le difficoltà di un’epoca che spesso dimentica il valore del servizio pubblico.

Giulia non entra in Polizia per seguire una tradizione di famiglia, ma per una profonda convinzione: quella di poter fare la differenza, di contribuire con empatia e competenza alla sicurezza e al bene comune. Moreno la guarda con orgoglio e una punta di nostalgia. Nei suoi occhi si riflettono i trentacinque anni trascorsi tra dovere e sacrificio, ma anche la consapevolezza che, attraverso sua figlia, quella storia continuerà. “È una sensazione difficile da spiegare, racconta, perché dentro c’è tutto con la gioia di vederla realizzata e la malinconia di chi lascia un pezzo di sé in quella divisa”.

E forse è proprio questo il segreto delle storie più belle che non finiscono davvero, si trasformano e si rinnovano. Oggi Moreno si toglie il berretto con la serenità di chi sa di aver servito con onore, mentre Giulia lo indossa con l’entusiasmo e la responsabilità di chi vuole proseguire un cammino di impegno, e di dedizione. Nel loro abbraccio, in quel gesto semplice e pieno di significato, c’è tutto il senso di una vita spesa al servizio del Paese e il principio di una nuova avventura. Una storia di amore per la giustizia, per la famiglia e per la passione di indossare la divisa che continuerà a brillare, come una luce discreta, ma tenace, nel cuore della Polizia di Stato.

 

Un soldato è facile da riconoscere, anche quando la divisa è riposta da tempo nell’armadio. È quello che cammina eretto, con le spalle dritte e il passo deciso, cercando di far sporgere il petto dal ventre, come se la dignità fosse un esercizio quotidiano. È quello che arriva in anticipo agli appuntamenti, che si alza presto anche quando non ha nulla da fare, che non ha bisogno di un motivo per essere puntuale. Un soldato lo riconosci dal modo in cui si muove, ma anche da come si comporta. È quello che cede il posto ovunque si trovi, che apre la porta, che aiuta senza farsi notare. È quello che si ferma davanti a un corteo funebre, perché sa cosa significa rendere onore. È quello che si mette sull’attenti quando risuona l’inno nazionale, anche se è solo in una stanza, davanti a un televisore. È quello che si arrabbia quando i simboli del Paese vengono mancati di rispetto, non per fanatismo, ma perché in quei simboli riconosce il sacrificio di chi ha creduto in qualcosa di più grande di sé. Un soldato è quello che arriva ben vestito, anche con abiti passati di moda, perché l’eleganza per lui non è seguire la tendenza, ma rispettare se stesso. Non gli importa dei vestiti, se non per la pulizia, per l’ordine, per la cura con cui piega una camicia come se fosse ancora un’uniforme.

È quello che si allena nei giorni liberi, che non sopporta l’idea di lasciarsi andare, che cambia attività per riposare, perché il riposo, per lui, non è mai inattività. È anche quello che mangia tutto ciò che gli viene servito, senza lamentele, abituato a ringraziare più che a scegliere. È quello che sa adattarsi, ovunque e con chiunque, perché ha imparato che il conforto non è una condizione, ma un privilegio. È quello che, anche in età avanzata, conserva il passo dei giorni di marcia e l’abitudine al silenzio. Ma un soldato non è necessariamente un uomo in uniforme, con il volto coperto di mimetico e l’equipaggiamento sulle spalle. È, piuttosto, una forma dello spirito. È chi, dopo aver servito, ha continuato a vivere secondo un codice che non si dismette: quello dell’onore, della disciplina, della lealtà. È chi, anche in altri mestieri, mantiene la stessa postura interiore, la stessa attenzione per i dettagli, la stessa discrezione di chi sa che le grandi cose si fanno in silenzio. Un soldato è chiunque, anche fuori dall’esercito, si commuove vedendo una parata o una bandiera che sventola.

È chi sente ancora un nodo in gola al suono dell’inno, perché in quelle note riconosce non la guerra, ma la memoria. È chi porta dentro di sé l’abitudine al sacrificio, l’idea che servire il proprio Paese sia un dovere che non finisce mai. Essere soldato, in fondo, non è una condizione professionale, ma un modo di stare al mondo. Significa tenere la schiena dritta di fronte alle ingiustizie, continuare a fare il proprio dovere anche quando nessuno guarda, e mantenere la parola data anche quando costa fatica. Significa custodire la calma quando tutto intorno crolla, e ricordare che il coraggio non è assenza di paura, ma dominio di sé. Un soldato, nella sua essenza più profonda, è colui che non smette mai di servire. Che difende il bene, la memoria, la dignità di chi non può farlo. È l’uomo o la donna che, anche lontano dai campi di addestramento, continua a portare dentro di sé un senso di appartenenza che il tempo non cancella. Dio benedica i soldati, quelli in uniforme e quelli che non la indossano più. Perché il loro servizio non termina con la fine di una missione, ma continua, silenzioso, in ogni gesto quotidiano che rende onore al Paese e alla vita stessa.

C’è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui Rachele Mussolini affronta la vita. Non è solo una donna che ha imparato a resistere, ma una persona che ha saputo conservare la dolcezza anche quando tutto intorno sembrava chiedere durezza. Cresciuta con sani principi, in una famiglia dove il rispetto e la lealtà avevano un valore autentico, ha dovuto imparare presto che non tutto nella vita è semplice o lineare. Tuttavia Rachele non si è mai tirata indietro camminando, passo dopo passo, anche nei momenti in cui il sentiero sembrava troppo ripido. Quando un padre non c’è più, qualcosa si spezza dentro. È come se una parte del mondo smettesse di avere forma, e ogni certezza diventasse fragile. Rachele ha conosciuto quel dolore e lo ha trasformato in consapevolezza. Le sue parole, mai gridate, raccontano la forza silenziosa di chi ha dovuto fare i conti con l’assenza, ma non ha permesso al vuoto di diventare resa. Ogni ferita, nel tempo, si è trasformata in insegnamento e, ogni perdita, un’occasione per ritrovare se stessa. Accanto a lei, la presenza preziosa e costante di mamma Carla. Non solo come madre, ma come amica, confidente e guida.

È lei il faro che, anche nei momenti più incerti, ha continuato a illuminare il suo cammino. Da quella presenza Rachele ha tratto forza, equilibrio ed un senso profondo di appartenenza. E forse è proprio lì, in questo legame così intenso e discreto, che si trova la radice della sua serenità. Perché anche oggi, con la maturità di una donna che ha attraversato tante stagioni della vita, resta viva in lei la necessità di quella vicinanza materna. Non è debolezza, è umanità, e il bisogno di sentirsi figlia, anche quando si è già madre. E come madre, Rachele è tutto ciò che la sua storia le ha insegnato ad essere sempre presente, affettuosa, protettiva e capace di ascoltare. La maternità, per lei, non è solo un ruolo, ma un modo di vivere. È una promessa che si rinnova ogni giorno, anche quando la vita impone separazioni e distanze. Perché la famiglia, nonostante tutto, rimane sempre un rifugio, un luogo dove tornare e dove ogni dolore trova spazio per diventare comprensione. Nella vita pubblica e politica, Rachele ha portato lo stesso senso del dovere e della dignità che la caratterizzano nella sfera privata. Ha saputo distinguersi per equilibrio, rispetto e autenticità. Le sue scelte, spesso ponderate e mai dettate dal calcolo, rispecchiano la volontà di costruire e non di dividere.

 C’è in lei un orgoglio di appartenenza che non si chiude nel passato, ma si apre al futuro come un modo di onorare le proprie radici guardando avanti, credendo nel dialogo, nella solidarietà e nella possibilità di una società più inclusiva. Chi ha avuto modo di conoscerla, sa che Rachele ha il dono raro di farsi amare come amica e rispettare come donna. Non ha bisogno di alzare la voce per essere ascoltata poiché parla con lo sguardo, con la gentilezza e con quella presenza che sa farsi sentire anche nel silenzio. Dietro il suo sorriso si intravede la forza di chi ha sofferto, ma non si è lasciata indurire. La forza di chi ha saputo scegliere la vita, ogni giorno, anche quando sembrava più semplice voltarle le spalle. Rachele Mussolini è una donna che non smette di credere nei legami, nella famiglia e nella speranza. Una donna che sa che la vita non è perfetta, ma che la bellezza spesso nasce proprio da ciò che imperfetto, rimane. E forse è per questo che, chi la incontra, porta con sé un pò del suo coraggio, quello silenzioso, ma contagioso, che appartiene solo a chi ha imparato a cadere e a rialzarsi con il cuore ancora aperto.

Per ora il pignoramento in Italia può avvenire solo con un titolo esecutivo: una sentenza, un decreto ingiuntivo o un atto notarile che certifichi il credito. È una garanzia per il cittadino, perché prima che qualcuno possa togliergli un bene, deve esserci stato il controllo di un giudice. Ma questa tutela potrebbe presto cambiare. Nei giorni scorsi il Senato ha approvato un disegno di legge (Ddl 978) che introduce la possibilità di procedere al pignoramento in modo automatico, anche senza un titolo esecutivo. Se la proposta passerà anche alla Camera, dopo una semplice intimazione di pagamento da parte di un avvocato, il debitore avrà solo quaranta giorni per pagare o fare opposizione. Trascorso quel termine, il creditore potrà pignorare beni e conti correnti, senza dover attendere una sentenza. L’obiettivo dichiarato del provvedimento è “snellire i tribunali civili” e rendere più veloce il recupero dei crediti. Ma dietro questa motivazione, molti vedono un rischio concreto per milioni di cittadini. Oggi, infatti, il giudice che emette un decreto ingiuntivo verifica che il credito esista davvero e sia legittimo.

Non è raro che i tribunali abbiano bloccato azioni promosse da società telefoniche, energetiche o finanziarie contro persone che in realtà avevano già pagato, o che erano vittime di errori amministrativi. Con la nuova norma, invece, basterà una lettera dell’avvocato del creditore per far scattare la procedura. In pratica, chiunque potrà ricevere un’intimazione di pagamento per una vecchia bolletta, una multa, una tassa condominiale o un presunto debito. E se entro quaranta giorni non farà opposizione, o non avrà i mezzi per pagare un legale, rischierà il pignoramento dei beni. Gli esperti avvertono che il sistema potrebbe diventare terreno fertile per abusi e speculazioni. Studi legali al servizio di grandi multinazionali o società di recupero crediti potrebbero approfittare della semplificazione per avviare azioni in massa contro migliaia di cittadini. Il timore è che a farne le spese non saranno i “furbetti”, ma le persone più fragili: pensionati, famiglie in difficoltà, chi vive con redditi bassi e non ha dimestichezza con la burocrazia. Del resto, qualcosa di simile è già accaduto nel mondo dei condomìni. Dopo la riforma del 2012, le amministrazioni possono procedere al pignoramento rapido dei morosi, senza dover passare da lunghi processi. Questo ha portato, in molti casi, a un aumento delle spese legali e a un clima di tensione tra vicini. Ora, con il nuovo Ddl, lo stesso meccanismo potrebbe estendersi a ogni tipo di debito, anche di pochi euro. C’è poi un aspetto tecnico ma fondamentale: quando un cittadino risponde a una richiesta di pagamento per un debito ormai prescritto, la sua risposta può “riattivare” quel debito.

In altre parole, cercare di difendersi con una semplice lettera potrebbe trasformarsi in un boomerang. Intanto, alcune grandi società sarebbero già pronte a inviare le prime diffide, soprattutto nel settore energetico e telefonico. Il rischio è che si apra una nuova corsa all’oro: mettere le mani sui beni immobili degli italiani, soprattutto sulla prima casa, che oggi è ancora protetta da limiti precisi. Ma se questi limiti venissero rimossi, secondo alcune stime oltre la metà delle abitazioni italiane potrebbe diventare pignorabile. Chi ha conosciuto la fatica di saldare ogni mese bollette e rate sa che spesso dietro un ritardo non c’è malafede, ma semplice difficoltà economica o disattenzione. In un Paese dove il numero degli avvocati supera quello di tutta la Francia, l’idea di un pignoramento “automatico” suona come un campanello d’allarme. La Legge vuole aiutare i creditori, ma rischia di colpire i cittadini comuni. E mentre la politica parla di efficienza e modernizzazione, la gente teme che l’efficienza possa tradursi in un colpo al cuore della giustizia: quello del controllo umano, della valutazione caso per caso. Perché dietro ogni bolletta non pagata, dietro ogni piccolo debito, c’è quasi sempre una storia. E la legge, prima di togliere un bene a qualcuno, dovrebbe ricordarsi che quella storia è fatta di persone.

 

 

In un’Italia che si proclama difensore dei diritti umani, un padre rifugiato ucraino denuncia una vicenda che ha il sapore dell’assurdo e dell’ingiustizia. È la storia di un uomo fuggito dalla guerra, che dopo aver perso tutto si è visto strappare anche ciò che aveva di più prezioso: le proprie figlie. “Ho lasciato la mia terra perché la guerra non lascia spazio alla vita né alla speranza”, racconta il padre con la voce spezzata. “Ero arrivato in Italia con fiducia, convinto che fosse un paese giusto, dove i bambini sono protetti e i rifugiati possono finalmente respirare. Mi sbagliavo”. Oggi le sue figlie non sono con lui. Maria, la più piccola, ha appena un anno, è stata portata via, racconta, “contro ogni logica e umanità”.

Katerina, l’altra bambina, disabile e gravemente ferita alla testa da una scheggia di guerra, è stata allontanata sulla base di menzogne e calunnie. “Nessun giudice mi ha ascoltato davvero, nessuno ha voluto sentire la verità. Mi hanno tolto le mie bambine con un atto che definiscono istituzionale, ma che per me è un vero e proprio rapimento di Stato”. Il padre denuncia con forza il comportamento dei servizi sociali italiani, che a suo dire avrebbero oltrepassato i limiti del loro mandato. “Dovrebbero proteggere, ma sono diventati strumenti di potere cieco e arbitrario. Peraltro, ignorano i documenti, respingono le prove e non rispettano la Legge. Parlano di agire per il bene dei minori, ma il bene dei miei figli dov’è, se crescono lontani da chi li ama davvero?”. Le sue parole trasudano dolore, ma anche una lucidità che mette a disagio. Katerina, fragile e bisognosa di assistenza continua, è stata separata dal suo unico punto di riferimento affettivo. La piccola Maria, ancora in età da culla, è stata privata dell’abbraccio paterno. E intorno, il silenzio, nessuno si indigna e nessuno interviene. L’uomo racconta di aver chiesto aiuto ovunque. Ha bussato alle porte di avvocati, associazioni e giornalisti, ma, spiega, troppi tacciono “per paura o per convenienza”.

Gli avvocati sarebbero sotto pressione e i media evitano di parlarne per timore di ripercussioni. Inoltre, le organizzazioni internazionali, che dovrebbero difendere rifugiati e minori, restano in silenzio. “Nel frattempo io continuo a essere trattato come un colpevole senza colpa”, aggiunge. Poi, quasi come un grido, domanda: “…è questa l’Italia dei diritti umani? È questa la Patria della Giustizia che ama definirsi civile e democratica? Che Paese siamo diventati, se un padre rifugiato viene punito solo per aver cercato una vita migliore per le proprie figlie?”. Il suo caso non è isolato. In Italia, esistono molte famiglie spezzate da decisioni burocratiche e procedure opache, spesso basate su relazioni incomplete o valutazioni psicologiche approssimative. È un sistema che agisce senza controllo, senza responsabilità e senza cuore. Eppure, nonostante tutto, quest’uomo non si arrende. “Non posso arrendermi. Un padre non smette di lottare mai”.

Oggi lancia un appello accorato alle istituzioni italiane: al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia, al Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, chiedendo un’indagine seria, trasparente e imparziale. “Fermate questi abusi travestiti da tutela e restituitemi le mie figlie”. Il suo appello è anche un invito alla società civile e ai cittadini comuni: “Non restate in silenzio. Non permettete che il dolore di un padre diventi solo un’altra storia dimenticata. L’indifferenza è la più grande alleata dell’ingiustizia”. Dietro le parole di quest’uomo non c’è solo la rabbia, ma la speranza disperata di un padre qualunque, che chiede solo di poter abbracciare le proprie figlie. “Non ho potere, non ho risorse, ma ho la verità e la volontà di lottare fino alla fine. Lo farò per Maria, per Katerina e per tutti i bambini che hanno bisogno dei propri genitori più di ogni altra cosa”. E concludo con una frase che suona come una condanna e una preghiera insieme. Una società che separa ingiustamente un padre dai propri figli è una società che ha perso la propria anima. E lui continuerà a gridarlo, ovunque gli sarà dato modo di farlo: “…riportatemi le mie figlie! Fermate gli abusi dei servizi sociali italiani! Ridatemi la mia famiglia, ridatemi la mia vita”.

 

La tragedia di Castel d’Azzano, alle porte di Verona, in cui tre carabinieri hanno perso la vita durante un intervento, ha scosso profondamente il Paese. Non solo per la brutalità dell’evento, ma per ciò che esso rappresenta: il sacrificio estremo di uomini dello Stato, servitori silenziosi che ogni giorno mettono la loro vita al servizio della collettività. Eppure, come troppo spesso accade, anche il dolore si è trasformato in terreno di scontro politico e mediatico. Le parole di Ilaria Salis, europarlamentare eletta con Alleanza Verdi e Sinistra, hanno sollevato un’ondata di indignazione e incredulità. In un primo momento, nessuna menzione diretta ai tre militari caduti, nessun gesto di empatia verso le famiglie distrutte dal lutto. Solo dopo le polemiche, e in un clima di crescente pressione pubblica, la Salis ha espresso il suo cordoglio, affiancandolo però a una critica ai “soliti giornali” e alle “forze politiche di destra” accusate di aver alimentato una campagna d’odio. Parole che, più che sanare una ferita, l’hanno riaperta. È difficile non leggere in questo atteggiamento una profonda distanza tra chi esercita una funzione pubblica e la realtà concreta del Paese. In un momento in cui sarebbe bastato il silenzio rispettoso, o una semplice frase di umanità, si è scelto invece di politicizzare il dolore, di spostare l’attenzione dal lutto collettivo a un presunto complotto mediatico. È il riflesso di una politica che, troppo spesso, non conosce più la misura e né la pietà, e quella capacità tutta umana di riconoscere e onorare la sofferenza altrui. E mentre nel mondo virtuale si moltiplicavano i commenti, è emersa sui social la lettera di un carabiniere, Gregorio Cortese. Le sue parole, semplici e sincere, hanno colpito migliaia di persone perché prive di retorica, ma cariche di verità. In esse non c’era rabbia, ma dignità e non accuse, ma la richiesta di rispetto per un lavoro fatto di sacrificio e silenzio.

Cortese ha parlato con il cuore di chi ha conosciuto la fatica, il rischio e la solitudine di chi indossa una divisa. Le sue riflessioni hanno ricordato a molti che dietro l’Arma dei Carabinieri non ci sono solo simboli e uniformi, ma uomini e donne che affrontano pericoli reali, che perdono amici, che rinunciano molto spesso, a tutto, senza clamore. In un Paese dove l’indignazione è a giorni alterni e la memoria è corta, il valore delle parole di questo carabiniere merita di essere ascoltato con attenzione. Esse rappresentano lo spirito di un’intera istituzione che, nonostante tutto, continua ad essere un pilastro di stabilità e di fiducia per milioni di italiani. Di fronte alla morte dei tre militari, l’unica reazione possibile dovrebbe essere il silenzio, la gratitudine e l’impegno a non dimenticare. Ci si chiede allora come sia possibile che una rappresentante delle istituzioni, eletta per servire i cittadini europei, abbia potuto mostrare tanta leggerezza nel trattare un tema tanto delicato per l’amore della propria Patria.

È il segno di una deriva culturale che sostituisce il rispetto con la provocazione, l’empatia con la strategia comunicativa e la compassione con il calcolo politico. Le parole di Salis, più che una svista, sembrano rivelare una visione ideologica e distante, peraltro incapace di riconoscere la complessità umana che sta dietro a una divisa. L’Italia non ha bisogno di politici che si trincerano dietro etichette o slogan, ma di persone capaci di guardare negli occhi il dolore e di chiamarlo per nome. I carabinieri morti a Verona non rappresentano un colore politico, ma un esempio di dedizione e coraggio che appartiene a tutti. Oggi, più che mai, è doveroso rendere onore all’Arma dei Carabinieri, che continua a rappresentare uno dei pochi presidi di umanità e disciplina in un Paese che spesso dimentica i suoi servitori. I tre militari caduti a Castel d’Azzano non sono soltanto vittime di un destino crudele, ma sono simboli di una fedeltà allo Stato che non conosce compromessi per un impegno che merita rispetto e memoria. Forse la politica dovrebbe imparare da loro il significato più autentico della parola “servizio”.

 

 

Ci sono notizie che non si vorrebbero mai scrivere. Storie che lasciano un silenzio profondo ed impossibile da colmare. La tragedia di Castel d’Azzano, alle porte di Verona, è una di queste. L’esplosione avvenuta in un casolare, durante un’operazione di sgombero, su richiesta dell’A.G., ha spezzato la vita di tre uomini dell’Arma dei Carabinieri, il Luogotenente Carica Speciale Marco Piffari, il Carabiniere Scelto Davide Bernardello e il Brigadiere Capo Qualifica Speciale Valerio Daprà. Uomini che hanno onorato fino all’ultimo il giuramento di fedeltà allo Stato, compiendo il proprio dovere con coraggio e dedizione. Nel dolore di oggi, il Paese intero riconosce in loro il volto autentico dell’Arma: coraggio, spirito di sacrificio, senso del dovere. Tre vite spezzate mentre servivano la comunità, senza clamore, come fanno ogni giorno migliaia di uomini e donne in divisa. L’esplosione ha inoltre provocato il ferimento di undici carabinieri, tre poliziotti e un vigile del fuoco, fortunatamente non in pericolo di vita. A loro va il più sincero augurio di pronta guarigione e la gratitudine di tutti noi. Dietro ogni uniforme c’è una persona, una famiglia e una storia. C’è chi saluta i propri cari ogni mattina senza sapere se tornerà a casa. Eppure, continua a farlo. Perché crede nel senso profondo di una parola che oggi, troppo spesso, dimentichiamo il senso del dovere e del servizio.

Il lutto che colpisce la comunità dell’Arma non riguarda solo chi indossa la divisa. Riguarda tutti noi, cittadini che ogni giorno camminano più sicuri grazie a chi vigila, interviene, protegge e spesso nel silenzio. Le tragedie come quella di Castel d’Azzano (VR) ci ricordano che la sicurezza non è un diritto scontato, ma il frutto di un impegno continuo e a volte pagato con la vita. E ci invitano a ritrovare un senso collettivo di rispetto e gratitudine verso chi dedica la propria esistenza al bene comune. Davanti a queste perdite, le parole sembrano sempre troppo piccole. Ma ricordare il nome, il volto e il sacrificio di questi uomini è un dovere morale. Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà restano un esempio di dignità, lealtà e servizio. Che il loro gesto estremo non cada nell’oblio, ma diventi un monito ed un insegnamento per servire lo Stato, e ciò significa, che ancora oggi, è credere in qualcosa di più grande di sé. Oggi l’Italia si stringe nel dolore, unita in un abbraccio silenzioso a tutte le famiglie colpite. Nel sacrificio di questi uomini vive la parte migliore di noi.

 

Ancora una volta la parola corruzione torna a macchiare le cronache di Roma. Un nuovo scandalo, un altro giro di nomi, intercettazioni, dimissioni e silenzi. Eppure, la sensazione è sempre la stessa: che nulla cambi davvero. Come umile persona, non posso tacere davanti a un fenomeno che, ormai, non è più un’eccezione, ma una consuetudine. Ogni volta che un’inchiesta tocca i palazzi del potere, la risposta è sempre la stessa: “fiducia nella magistratura”. Ma quanta fiducia può chiedere un Paese che sembra aver smarrito il senso stesso dell’etica pubblica? Non è più solo un problema di singoli. È un sistema che tollera, protegge e perfino normalizza comportamenti che dovrebbero essere inaccettabili.

Un sistema che considera “abilità politica” ciò che, in realtà, è solo l’arte di eludere le regole. La corruzione non è solo un reato: è una ferita morale, un veleno che si insinua nella fiducia dei cittadini e la corrode lentamente. Ogni volta che un funzionario accetta un favore, ogni volta che una decisione pubblica viene piegata a un interesse privato, la democrazia perde un pezzo di sé. Serve un cambio di paradigma. La trasparenza non può essere uno slogan da campagna elettorale, ma una regola di comportamento quotidiano. Deve diventare la condizione minima per chiunque ricopra un incarico pubblico. Non ci interessa il nome, il partito, o il colore politico dell’indagato: ci interessa il principio. E il principio è semplice: senza integrità, non c’è istituzione che possa dirsi giusta. E chi rappresenta i cittadini deve farlo con onestà, senza zone grigie e senza compromessi morali, perché la credibilità di un Governo, di una Regione e di un Comune non si misura dai proclami, ma dalla pulizia dei propri comportamenti. La corruzione non si combatte solo con le Leggi, ma con l’esempio, con la formazione, la cultura della responsabilità e il coraggio civile di chi sceglie la trasparenza anche quando costa caro. È tempo di ricostruire un’etica pubblica condivisa, un nuovo patto di fiducia tra istituzioni e cittadini. Un patto basato su tre parole semplici, ma decisive: onestà, merito, giustizia. Solo così potremo dire, un giorno, che Roma, e con essa l’Italia, non è più la Capitale della corruzione, ma della rinascita civile.

Nel cuore del quartiere Parioli, Villa Glori si estende per 25 ettari, imponendosi come uno dei polmoni verdi più ampi di Roma. Paragonabile per grandezza a Villa Borghese e Villa Ada, poiché questo parco pubblico, Villa Glori, è oggi conosciuto per la sua quiete, le installazioni d’arte contemporanea e il panorama che offre sulla città, ma ciò che molti ignorano, è che sotto i suoi viali alberati si cela un mondo misterioso, un cenote romano, una cavità sotterranea profonda oltre cinquanta metri ed in parte invasa dall’acqua. La storia di Villa Glori è intrisa di memoria e patriottismo. L’area fu teatro degli scontri del 1867 tra i garibaldini e le truppe papaline, durante i quali Enrico Cairoli perse la vita nei pressi del casale, oggi ancora visibile nel parco. Per questo, fu inizialmente conosciuta come Parco della Rimembranza, in onore dei fratelli Cairoli. Solo in seguito, passata di proprietà alla famiglia Glori, assunse l’attuale denominazione. Nel 1924 il parco venne ristrutturato e arricchito con opere d’arte contemporanea, mantenendo però il fascino selvaggio di alcune sue aree meno battute. Ed è proprio in una di queste zone, vicino ai resti di un antico tempio e seminascosto tra la vegetazione, che si trova l’ingresso del cenote, la cui moderna

  il cenote

riscoperta si deve all’archeologo e speleologo Carlo Pavia nel 1992.

Il termine “cenote” proviene dalla lingua dei Maya e indica una cavità naturale colma d’acqua. Sebbene legato al continente americano, il fenomeno è presente anche a Roma, dove queste voragini sotterranee venivano utilizzate, già in epoca antica, come luoghi sacri e depositi votivi e proprio all’interno del cenote di Villa Glori, l’archeologo Pavia recuperò parecchi ex voto romani, oggi studiati come testimonianza di riti antichi e dimenticati. Il celebre archeologo ha raccontato la sua esplorazione nel volume “Nel ventre di Roma. Dall’abisso Charlie ai sotterranei della Capitale”, dove battezza questa cavità con il nome di Abisso Charlie. Il nome, volutamente evocativo, si rifà al gergo speleologico e militare per indicare luoghi estremi o difficili da esplorare. “Charlie”, infatti, è anche la lettera “C” nell’alfabeto fonetico NATO, probabilmente usata per codificare il sito in modo non convenzionale. Il cenote di Villa Glori non è un caso isolato. A Roma si conoscono altre cavità simili, come quella sotto l’Ospedale San Camillo, nota come abisso di Monteverde-Forlanini, ma il primato assoluto per profondità spetta al Pozzo del Merro, nel comune di Sant’Angelo Romano, il cui abisso naturale raggiunge oltre 400 metri di profondità, secondo gli studi condotti dall’Università di Tor Vergata. Pertanto, Roma, ancora una volta, si rivela una città a più livelli, dove accanto alla bellezza visibile si nasconde un mondo sotterraneo fatto di misteri, riti e storia millenaria. Infatti, Villa Glori, con il suo cenote dimenticato, ci ricorda che ogni angolo della Capitale ha ancora molto da raccontare, basta saper scavare.

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