
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Giuseppe, per tutti Josef, nasce più a sud della Sicilia, a Pachino in provincia di Siracusa. In un contesto di grande crisi e silenzio assordante, dove l’indifferenza sembrava essere diventata la norma, decide di alzare la voce. Pachino, la sua città natale, era avvolta in un velo di disillusione: le problematiche locali, come l'abbandono del territorio e la mancanza di servizi essenziali, venivano ignorate. Era come se ci si fosse arresi a vivere in una realtà stagnante, e questa situazione a Josef pesava profondamente. Decise di farsi sentire, di rompere quel silenzio; così iniziò il suo percorso come Josef Nardone, non solo blogger ma anche influencer e attivista cittadino.
La scelta di comunicare attraverso i social media si rivelò un'arma straordinaria. Sebbene non fosse stato un giornalista, ma solo un cittadino attivista autodidatta, capì che la sua missione era quella di raccontare la verità con semplicità, passione e coraggio. Con queste armi riuscì a entrare nelle case delle persone e, soprattutto, nei loro cuori, creando un legame autentico con la comunità. Col tempo scoprì che i suoi messaggi risuonavano tra i molti. Le sue denunce, le sue proposte, e le sue condivisioni iniziarono a superare le barriere, raggiungendo chi viveva ogni giorno una realtà caratterizzata da frustrazione e speranza.
Uno dei traguardi più significativi che raggiunse fu quello di diventare un punto di riferimento per i più giovani. I bambini, i futuri cittadini del mondo, cominciarono a conoscere Josef Nardone, il cittadino attivo che si batte per la sua comunità. Quando lo incontravano per strada, spesso si avvicinavano con entusiasmo, segnalandogli problemi come perdite d’acqua, rifiuti abbandonati o zone buie. Questo per Josef rappresentava un motivo di orgoglio immenso: significava che era riuscito a trasmettere loro l’importanza di avere una voce e di essere attivi nel migliorare il proprio ambiente: il primo passo per costruire un futuro migliore.
Tuttavia, il suo approccio non si limitò a evidenziare problemi. Comunicare è una responsabilità enorme. È fondamentale farlo con rispetto e integrità, senza sfruttare le difficoltà degli altri per fini personali o per ottenere visibilità. Josef non si sentiva in competizione con nessuno; anzi, vedeva molti attingere dalle sue idee e dal suo stile. Ma c'era qualcosa che non si poteva imitare: l’empatia e l’amore profondo che nutriva per il suo territorio. Questi elementi formarono la base del suo lavoro e ne determinarono l’efficacia.
Quando parlava di Pachino, parlava di casa sua, della sua gente e dei suoi affetti. Ogni post, ogni video che pubblicava era carico di un’affezione sincera e genuina. La sua voce si distingueva perché autentica. Era una voce che nasceva dal basso, che parlava chiaro e che non aveva paura di dire ciò che altri tacevano. Questo è il motivo per cui molti lo consideravano "la voce fuori dal coro". La sua missione era chiara: portare alla luce ingiustizie, evitare che i problemi venissero sepolti dall’indifferenza e stimolare una riflessione collettiva.
Passano gli anni e si cominciarono a intravedere alcuni cambiamenti positivi nel paese. Il coinvolgimento della comunità iniziò ad aumentare e il nostro Josef poté finalmente dire che l’attenzione verso i problemi da lui sollevati iniziavano a dare i loro frutti. Sapeva, comunque, che il cammino era ancora lungo. La road map del cambiamento era piena di ostacoli e sfide che necessitavano perseveranza, determinazione e, soprattutto, amore costante per la propria terra e per i propri concittadini.
Josef ne concluse che ogni voce, anche la più debole, poteva avere un impatto significativo. La sua esperienza gli aveva insegnato che ognuno di noi ha il potere di contribuire al bene della propria comunità e che insieme si può costruire un mondo migliore. Così continuò a camminare con coraggio per le strade della sua Pachino, ascoltando e dando voce a chi non l’aveva, perché la vera forza di un attivista sta nella sua capacità di far suonare il coro della comunità, anche quando le note sono discordanti. Con determinazione e amore, siamo tutti capaci di scrivere nuove storie di speranza e cambiamento.
Oggi, In un'epoca in cui le voci locali possono facilmente perdersi nel frastuono del digitale, Josef Nardone si erge come un faro luminoso per la comunità siciliana e oltre, con un'incredibile comunità di 52.000 follower. Ogni giorno, il suo profilo Facebook diventa un punto di riferimento fondamentale, un luogo dove l’informazione e l’interazione si intrecciano in modo significativo.
Josef è molto più di un semplice comunicatore; è un cittadino attivo impegnato a dare voce ai suoi concittadini. I suoi contenuti visivi ad alto impatto, tra video panoramici, dirette e stories, offrono prospettive uniche sul territorio, rendendo le bellezze della Sicilia accessibili a tutti. La sua capacità di interagire costantemente con i follower crea un’atmosfera di partecipazione autentica, dove ogni commento e ogni suggerimento vengono accolti e discussi con attenzione.
In un periodo in cui la disinformazione può diffondersi rapidamente, Josef si distingue per l’impegno sociale dimostrato: non solo promuove eventi e notizie dalle sue terre, ma denuncia anche disservizi e valorizza le eccellenze locali. Le sue segnalazioni sono così credibili e incisive da attirare l’attenzione degli uffici istituzionali, contribuendo a smuovere acque torbide e a portare cambiamenti tangibili.
Con oltre 20 milioni di visualizzazioni ogni 28 giorni e picchi virali che testimoniano il suo impatto, Josef sa come coinvolgere e motivare le persone attorno a lui. Non si limita a informare, ma si propone di educare e responsabilizzare, iniziando dai più piccoli, affinché diventino cittadini attivi e consapevoli. Un giorno, questi giovani saranno il nostro futuro migliore, e grazie al nostro Josef freelance, saranno pronti a costruirlo.
In un’epoca in cui le relazioni umane sono messe alla prova da trasformazioni profonde, tecnologiche e culturali, il ruolo della scuola come presidio educativo va oltre la semplice trasmissione del sapere. È sempre più urgente riconoscere che l’educazione non può limitarsi a discipline tradizionali, ma deve includere fin dalle prime fasi del percorso scolastico un’attenzione concreta e strutturata all’educazione sentimentale, affettiva e digitale. Solo così è possibile costruire una società più giusta, consapevole e capace di affrontare le sfide del presente, a partire dal contrasto agli stereotipi di genere fino alla promozione del rispetto e del consenso nelle relazioni. L’educazione sentimentale, intesa come percorso volto allo sviluppo della consapevolezza emotiva e relazionale, è uno strumento indispensabile per accompagnare bambine, bambini, adolescenti e adolescenti nella comprensione di sé e degli altri. Imparare a riconoscere e nominare le proprie emozioni, saperle gestire senza reprimerle né lasciarsene sopraffare, è una competenza fondamentale per costruire relazioni sane, basate sulla reciprocità e sul rispetto.
L’empatia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, si sviluppa solo se viene coltivata, valorizzata, allenata: non è innata né automatica, ma frutto di un’educazione paziente e consapevole. Parallelamente, l’educazione affettiva permette ai giovani di riflettere sui legami che costruiscono, sulle dinamiche di potere che possono attraversarli, sul significato profondo del consenso, del rispetto dei confini e dell’identità dell’altro. Parlare di affetti in classe significa anche sfidare modelli culturali radicati, smontare pregiudizi e stereotipi di genere che, fin dall’infanzia, influenzano la percezione di sé e dell’altro, e che troppo spesso sono alla base di comportamenti discriminatori, sessisti o violenti. Accanto a tutto questo, è ormai imprescindibile un’educazione digitale che affronti in modo critico l’uso delle tecnologie e dei social media. Viviamo in una società iperconnessa, dove le relazioni passano sempre più spesso attraverso schermi e piattaforme digitali. Ma se da un lato il digitale offre nuove opportunità, dall’altro espone i più giovani a rischi significativi: cyberbullismo, dipendenza dai social ed esposizione a contenuti tossici o espliciti.
Un’educazione digitale ben strutturata deve fornire strumenti per muoversi con responsabilità e consapevolezza in questi ambienti, imparando a riconoscere e denunciare comportamenti dannosi, proteggere la propria privacy, e soprattutto mantenere un atteggiamento critico verso ciò che si consuma e si condivide online. Non si tratta di delegare alla scuola un compito che spetterebbe solo alla famiglia, ma di riconoscere che educare è una responsabilità collettiva. Le istituzioni scolastiche hanno il dovere e l’opportunità, di creare spazi di confronto, ascolto, e formazione che aiutino a crescere liberi, rispettosi, capaci di amare senza possedere, di comunicare senza aggredire e di scegliere senza subire. Investire nell’educazione sentimentale, affettiva e digitale non è un lusso, ma una necessità. Peraltro, è l’unico modo per costruire una società in cui le relazioni siano fondate sul rispetto, sulla parità, sull’ascolto e sulla libertà. Infine, una società dove nessuno venga giudicato per ciò che è, ma accolto per ciò che prova, pensa e sogna.
Quanto accaduto a Viterbo, in occasione della solenne celebrazione della Festa di Santa Rosa, il 3 settembre, ieri, è la testimonianza concreta ed eloquente di quanto il nostro sistema di sicurezza sia oggi in grado di rispondere con efficacia ed intelligenza operativa a minacce gravi e potenzialmente destabilizzanti per la sicurezza nazionale. Erano in procinto di commettere, due uomini di origine turca, pesantemente armati e, loro malgrado, già attenzionati dagli apparati di sicurezza, sono stati arrestati grazie ad una brillante operazione condotta dalla DIGOS in collaborazione con le unità operative territoriali, e con il supporto attivo delle due principali agenzie di intelligence italiane l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (AISE) e l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (AISI). È fondamentale sottolineare come il risultato sia frutto di un lavoro di sinergia finalmente efficace tra intelligence interna ed esterna e, peraltro, hanno operato con coordinamento impeccabile, condividendo informazioni tempestive e agendo con riservatezza, lucidità, e tempismo. Il successo dell’intervento è figlio di un approccio preventivo, ma non reattivo. Si è intervenuti prima che il piano, potenzialmente terroristico, si concretizzasse, scongiurando una possibile tragedia e preservando la sicurezza di migliaia di cittadini presenti all’evento.
Non possiamo che esprimere un ringraziamento profondo ed istituzionalmente doveroso a tutto il comparto della sicurezza, in particolare alla DIGOS, alla Polizia di Stato, ai NOCS, alle unità cinofile e ai servizi di sorveglianza territoriale che hanno garantito, nonostante l’altissima tensione, il regolare svolgimento della manifestazione. Presente alla celebrazione anche il Ministro degli Esteri, Vicepresidente del Consiglio e Segretario Nazionale di Forza Italia Antonio Tajani, mentre l’ambasciatore israeliano Jonathan Peled, atteso tra gli ospiti, ha scelto con prudenza di non partecipare, a causa di informazioni di rischio emerse nelle ore precedenti. Questa scelta prudente e il contesto in cui si inserisce, testimoniano quanto simbolicamente rilevante potesse essere l’obiettivo di colpire rappresentanti istituzionali italiani e stranieri, durante una festa popolare religiosa, con conseguenze umane e politiche devastanti. In questo quadro, è lecito parlare di un attentato sventato non solo sul piano operativo, ma anche su quello simbolico. Colpire in una cornice religiosa, di festa, di tradizione condivisa, avrebbe significato attaccare il cuore stesso della coesione civile, la fiducia nelle istituzioni e la libertà di partecipazione pubblica.
È un segnale chiaro che il terrorismo, in forme dirette o ibride, è ancora una minaccia concreta per l’Italia, e non solo nei grandi centri urbani o durante eventi internazionali. Il bersaglio può essere ovunque anche in un piccolo comune, durante una processione e in un momento di fede. Questo impone una riflessione collettiva e un rinnovato impegno sulla cultura della sicurezza. Il successo dell’operazione di Viterbo deve ora essere valorizzato come modello operativo con un rapido scambio informativo tra le agenzie, il coordinamento, senza gelosie, istituzionale, la capacità investigativa sul territorio e l’uso integrato delle tecnologie, e degli apparati locali. Ed, peraltro, è anche la dimostrazione che l’Italia, se vuole, può esprimere eccellenze non solo nella reazione a fatti compiuti, ma specialmente nella prevenzione intelligente e strategica. Il lavoro delle intelligence italiana, sia sul fronte interno che su quello estero, merita il massimo rispetto ed apprezzamento da parte delle istituzioni democratiche. Operano nell’ombra, ma sono la prima linea di difesa del nostro Stato di diritto. A loro, alla DIGOS, alle forze speciali e a tutti gli operatori coinvolti, va il mio grazie. Senza di loro, oggi staremmo raccontando un’Italia ferita. Invece, possiamo raccontare un’Italia che ha saputo proteggersi, in silenzio, ma con fermezza.
Borgo Faiti una frazione del comune di Latina fondata durante la bonifica nel periodo fascista, non è una località dormitorio, si vive bene e la sua popolazione è gente laboriosa e attiva. Presso la Parrocchia della Chiesa della Beata Vergine del S.S. Rosario c’è anche un attivo centro sociale con oltre 300 iscritti, provenienti anche da zone limitrofe, che riesce ad adempiere a diversi impegni sociali. In questo centro di periferia collocato tra l’incrocio della SS7 con la SS 156 dei Monti Lepini, sono presenti alcune attività di ristorazione, dove si possono gustare ottime prelibatezze culinarie.
Oltre agli aspetti positivi di una convivenza piacevole e tranquilla immersi nella natura, si ritrovano però situazioni che rendono difficoltosa la vita quotidiana. Tra poco ci sarà l’apertura della scuola e quando arriverà il maltempo causato dalle giornate di pioggia, si riproporranno dei disagi già vissuti negli anni passati, quando i genitori si trovavano nell’impossibilita di portare i figli a scuola. Considerato che la scuola elementare e media di Borgo Faiti conta di un totale di circa 300 alunni che vengono regolarmente accompagnati dai loro genitori, tutti sono soggetti a sottostare ad un ferreo regolamento: devono aspettare l’apertura del cancello principale e non si può entrare neanche nelle giornate di pioggia. Quando la situazione metereologica volge al peggio e le situazioni dei canali sono a rischio, nella provincia di Latina è sufficiente una pioggia più durevole del solito per mettere in ginocchio strade e campi. I genitori non possono entrare in quello spazio enorme all’interno della scuola e devono permanere con i loro bambini in mezzo alla strada, con i loro ombrelli aperti, sotto temporali e fulmini. e con i piedi dentro l’acqua. Ad aggravar ancor più la triste realtà c’è il fatto che secondo voci attendibili non si possono portare neanche i vestiti di ricambio agli alunni a scuola. Nei paraggi dell’ istituto scolastico ci sono anche dei grossi alberi ubicati su strada che eventualmente dovesse verificarsi una raffica di vento, possono cadere e creare un disastro.
Nel comprensorio della scuola si scorge un’altra struttura facente parte delle Medie. Doveva essere la parte dove si dovevano installare i nuovi uffici per la Presidenza del Circolo Didattico. L’appalto era stato affidato ad una ditta nel 2011 ed erano cominciati subito dopo i lavori, invece nel 2014 e non si sa per quale ragione, hanno bloccato tutto e a rammentare a tutti l’incompletezza, sono rimasti i pilastri abbandonati da anni. E’ veramente inaudito come durante gli anni, da quando è stato chiuso il cantiere, tutto è stato abbandonato.
Nei pressi del comprensorio scolastico, c’’è una strada che non si sa se appartenga alle Case Popolari o al Comune la quale finisce in via Docibile, davanti ad una pizzeria e subito dopo inizia una strada bianca. Sono circa quindici anni che esiste questa strada non asfaltata e non è mai stato portato un camion di breccia, per tappare le buche che si sono formare sulla strada tutta brecciata dove iniziano le case popolari. Si può soltanto immaginare cosa potrebbe succedere se qualcuno dovesse rimanere impantanato con l’automobile nel fango, provocato dalle piogge.
Uno sconsolato cittadino di Borgo Faiti ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “La sera siamo soli ed abbandonati, di passaggio nel nostro borgo non c’è nessuno, nessun vigile o un carabiniere, sembra una località abbandonata a se stessa”. La stessa sensazione si ha nei riguardi dei monumento delle Forze dell’Ordine, un’opera di alto valore sociale, con l’erba che è talmente alta da coprire ogni percezione visiva.
E’ davvero un G20 dell’informazione. ll 12 settembre in Campidoglio a Roma si riuniscono i vertici dell’informazione mondiale. Lo fanno in occasione del World Meeting on Human Fraternity giunto alla terza edizione e che si svolge nell’ambito del Giubileo 2025. Il programma è stato presentato giorni fa in Vaticano per proporre al mondo un orizzonte di fraternità come “ chiave di volta per un possibile nuovo ordine politico, economico e sociale dell’esistenza umana ”. L’informazione, la libera stampa, evidentemente sono parte essenziale di questo orizzonte. La Chiesa con questo incontro è vicina ai tormenti di milioni di persone private della conoscenza e dell’approfondimento. I mezzi di comunicazione di massa servono a unire non a dividere, come sanno fare bene certi dittatori o leader finti democratici. Verità, dignità, libertà, sono le tre parole che saranno messe davanti a big dell’informazione globale. Il vertice si svolgerà nella Protomoteca del Campidoglio e sarà coordinato da padre Enzo Fortunato, Direttore della Comunicazione della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano. Un tavolo specifico è quello su Comunicazione e Informazione, dove si esprimeranno tanto i giornalisti quanto i proprietari delle testate. “Il senso dell'incontro è mettere insieme più voci e soprattutto dire che un'informazione bella, buona e vera è possibile” ha spiegato Padre Fortunato. Tra gli spunti di riflessione i dati del World Press Freedom Index 2025 , secondo cui 4,25 miliardi di persone vivono in paesi classificati come “zone rosse” per la libertà di stampa. Una teoria di violenze fisiche e mentali verso chi pratica il giornalismo. Le guerre in corso con centinaia di reporter uccisi o impediti di svolgere il proprio lavoro, aggravano il contesto.
Aver messo al centro del G 20 tre parole cardine- verità, dignità, libertà - vuol dire cambiare approccio, metodi di lavoro e di diffusione delle notizie ? La parola cambiamento non è contemplata ma è essenziale per capire se si discuterà senza mettere nuove basi. Vogliamo essere ottimisti. La verità è negata in tanta parte del mondo, ma tutti ci accorgiamo di come la propaganda e una certa subcultura cerchino di manipolarla. I giornalisti sono i guardiani della democrazia ? E come si fa quando questa è calpestata e i cronisti sono visti come nemici da far tacere ? Tutte le agenzie sociali sono utili in questa fase a rompere pregiudizi mostruosi, schieramenti culturali, antipatie verso i giornalisti del Paese che guida ? La dignità e la libertà sono valori civili essenziali, l’espressione di relazioni autentiche con lettori, telespettatori. I Paesi che limitano la libertà di stampa e di manifestazione del pensiero sono su un crinale pericoloso che minaccia la convivenza tra le persone e può incitare ad azioni violente. Si, fa bene la Chiesa a promuovere una riflessione attenta e adeguata al brutto momento che viviamo. Mettere sull’avviso i giornalisti e i loro editori anche dal non cedere alle lusinghe dei poteri, spesso abituati ad usare la stampa a proprio piacere. I cittadini da un’altra parte.
Il caso della scarcerazione di quindici imputati del clan Moccia rappresenta uno dei momenti più gravi e simbolici del fallimento della giustizia italiana recente. Dopo anni di indagini antimafia meticolose, intercettazioni ambientali, pedinamenti e raccolta di prove, gli sforzi della Direzione Distrettuale Antimafia e delle forze dell’ordine rischiano di dissolversi a causa dei ritardi processuali e delle inefficienze sistemiche. Il processo al clan Moccia era stato avviato con giudizio immediato nel luglio 2022. Tuttavia, pochi mesi dopo, il fascicolo è stato trasferito dal Tribunale di Napoli Nord a quello di Napoli, provocando un blocco che si è protratto per mesi. La fase dibattimentale si è aperta solo a maggio 2023, mentre i termini di custodia cautelare hanno continuato a decorrere. In base alla Legge, il primo grado di giudizio deve concludersi entro tre anni se gli imputati sono detenuti ed in caso contrario, la scarcerazione è automatica. Ed è ciò che è accaduto. Quindici imputati, ritenuti vicini al clan Moccia, sono stati scarcerati in assenza di una sentenza. Un epilogo grave, ma ampiamente prevedibile, peraltro, già nel marzo del 2023 i pubblici ministeri avevano lanciato l’allarme, chiedendo una mossa accelerata del calendario processuale e l’introduzione di udienze straordinarie, peraltro, anche nei fine settimana.
Le richieste sono rimaste inascoltate. A oggi, dopo 60 udienze e il coinvolgimento di 16 diversi giudici in appena 15 sedute, non è stata pronunciata alcuna sentenza. Gli errori del sistema sono molteplici tra l’assenza di continuità nel collegio giudicante, con una pianificazione inadeguata delle udienze, peraltro una sottovalutazione della decorrenza dei termini di custodia ed infine una comunicazione interna debole. Perciò ora la Procura ha presentato ricorso al Tribunale del Riesame, sostenendo che i termini debbano decorrere dalla riassegnazione del fascicolo a Napoli e non dal primo provvedimento del 2022. L’udienza è fissata per l’8 settembre di quest’anno, il 2025, ma indipendentemente dall’esito, il danno all’immagine della giustizia penale è già profondo. Questo caso espone una vulnerabilità strutturale nella magistratura italiana con la mal gestione dei processi di criminalità organizzata. Se lo Stato è capace di indagare e arrestare, ma non di celebrare in tempi utili un processo equo e solido, allora il sistema entra in crisi. L’opinione pubblica perde fiducia, le vittime si sentono abbandonate e le mafie trovano nuovi spazi. Non è tempo di cercare capri espiatori, ma di affrontare con serietà una riforma della macchina giudiziaria. Perciò, quando la giustizia arriva troppo tardi, o non arriva affatto, non si tratta solo di un fallimento tecnico, bensì di una ferita aperta alla credibilità democratica del Paese.
Di fronte alla fotografia aggiornata del sistema penitenziario italiano, non servono giri di parole: siamo di fronte a una crisi strutturale e culturale, resa ancora più evidente dall’incapacità o dalla mancanza di volontà del governo di affrontarla con strumenti adeguati. A fine giugno 2025, erano 62.728 le persone detenute, a fronte di una capienza effettiva di poco più di 46.700 posti. Il tasso nazionale di affollamento supera il 134%, ma in alcuni istituti la situazione è letteralmente fuori controllo: San Vittore femminile arriva al 236%, Foggia al 214%, Roma Regina Coeli sfiora il 200%. Una vergogna nota da tempo, ma ormai normalizzata. Lo Stato detiene le persone in condizioni che sarebbero inaccettabili persino per gli animali. Il cosiddetto “Decreto Carceri”, convertito nella legge 112/2024, prometteva soluzioni e reinserimento sociale. Di fatto, prevede solo due cose: l’istituzione di un elenco di strutture per l’accoglienza (ancora da costruire) e la nomina di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria con un piano da 7.000 nuovi posti. Un approccio che tradisce una logica puramente carcerocentrica: più spazi, più mura, più detenuti. Nessuna riforma profonda.
Del resto, le parole del sottosegretario Delmastro sono chiarissime: i detenuti stranieri andrebbero “mandati a casa loro”, calcolando quanti milioni si risparmierebbero così. Peccato che i Paesi d’origine non abbiano accordi, né strutture, né la volontà di accogliere queste persone. È un discorso buono per la propaganda, non per la politica penale. Il fallimento più grave, però, riguarda il sistema penale minorile. I dati sono allarmanti: 586 ragazzi in carcere, di cui oltre il 60% minorenni e quasi l’80% ancora in attesa di giudizio. Un aumento del 50% in soli due anni, soprattutto dopo l’entrata in vigore del Decreto Caivano, che ha reso più facile arrestare i minori e più difficile accedere a percorsi alternativi. In alcuni Istituti Penali Minorili ci sono materassi a terra, igiene precaria, nessuna attività educativa, uso massiccio di psicofarmaci. A Bologna, addirittura, si è “ritagliata” una sezione minorile dentro un carcere per adulti, superando ogni limite di civiltà e diritto. La logica punitiva si sta imponendo anche dove il principio educativo dovrebbe essere sacro. Ragazzi senza sentenza vengono trattati come colpevoli, e chi compie un reato da minorenne viene spedito in carcere per adulti al compimento dei 18 anni, cancellando ogni progetto rieducativo. L’Italia ha già avuto una Commissione ministeriale seria, guidata dal prof. Marco Ruotolo e voluta dall’ex ministra Cartabia, per aggiornare il regolamento penitenziario vecchio di 25 anni. I lavori sono finiti nel nulla.
L’associazione Antigone aveva contribuito con proposte chiare: più contatti con l’esterno, meno isolamento, prevenzione degli abusi, uso delle tecnologie, sorveglianza dinamica. Nessuna è stata raccolta. Perché la verità è questa: non c’è un progetto penale, solo slogan, decreti inefficaci e soluzioni tampone. E quando si ragiona solo in termini emergenziali, più carceri, più agenti, più punizioni, si dimentica l’essenziale: la pena deve servire alla rieducazione, come dice la Costituzione, non alla vendetta sociale. Il carcere, per come è oggi in Italia, non è solo inefficace. È in molti casi illegittimo, incivile e contrario ai diritti umani. Servirebbe il coraggio di invertire la rotta. Ma finché si continuerà a confondere giustizia con repressione, e reinserimento con debolezza, nulla cambierà. E a pagare saranno, come sempre, i più poveri, i più giovani e i più fragili.
Un festival ideato dal cantautore pontino Tony Riggi inerente il suo progetto Genoma
Con la Vincitrice Martina Spaziani |
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Sabato scorso 26 luglio presso la Piazza del Comune di Sabaudia, il pubblico ha assistito ad una bellissima serata musicale, condotta in maniera impeccabile dal bravissimo Angelo Martini. Si trattava della 1^ Edizione di “Sabaudia fra le stelle 2025”. Ospite d’onore dell’evento: Lele Mora, (noto produttore internazionale di format e scopritore di nuovi talenti). Il festival ideato dal talentuoso cantautore pontino Tony Riggi celebrava l’incontro tra i popoli attraverso la forza universale della musica. Tony direttore artistico e fondatore della Band “Progetto Genoma”, ha sempre avuto delle idee chiare in proposito, come quella di esportare il suo positivo format anche all’estero.
A fianco a lui si è notata grande collaborazione da parte di un gruppo di lavoro affiatato e competente che ha fatto in modo di raggiungere dei lusinghieri risultati. Il “Progetto Genoma” già alquanto collaudato, segue le tracce del “concorso dei giovani d’oltremare” effettuato l’anno passato. Scopo importante della serata di Sabaudia era quello di collegare due perle del mediterraneo: Sabaudia in Italia con Albena in Bulgaria, dove tra due mesi (e cioè dall’uno al quattro di settembre), si assegnerà l’ambito 1° Premio SFMS-Senza Frontiere Music Stars 2025, dedicato alla memoria del grande Franco Battiato. L’unica sostanziale differenza è che in quell’occasione concorreranno sia artisti italiani, che stranieri. L’evento di Sabaudia ha visto come vincitrice Martina Spaziani (con la canzone “take it or leave it.” ), ma altri tre, quattro concorrenti hanno sfiorato la vittoria con un punteggio rilevante.
Allo spettacolo era presente una giuria di altissimo profilo professionale: Sebastiano Romano (Presidente di giuria), il maestro Marco Petrozzi, il maestro Nando Di Stefano, il giornalista Rino Sortino, l’English teacher Corrada Romano, il maestro Massimiliano Agati, (batterista di Marco Masini) il maestro Giampiero Bonomo e il maestro Gianluca Garsia. Al tavolo della giuria c’erano inoltre: la Sg.ra Anna Sikostova, musicista di valore (che ha anche il compito di congiungere le eccellenti relazioni artistiche di Italia e Bulgaria), Lele Mora. il maestro Roberto Dal Monte (Direttore del big Soul Mama), Claudio Germanò (attore, musicista e doppiatore) e il maestro Gianni Testa. La Sig.ra Raffaela Giancola, responsabile di palco, si è confermata precisa e all’altezza della situazione.
da sin. Tony Riggi con Lele Mora |
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Tutti i giurati che da anni operano in ambito nazionale ed internazionale, hanno dimostrato grande coordinamento, fino allo spoglio finale. Un plauso particolare al Sig. Sebastiano Romano che ha confermato la sua grande professionalità ed esperienza. A fine serata il patron dell’evento Tony Riggi ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “Il progetto Genoma di Arcadia sta ottenendo dei grandi risultati. Sono rimasto estremamente soddisfatto della serata e nel prossimo anno, con un migliore supporto audio e video cercherò di accorciare i tempi”
Complimenti e grazie Tony Riggi
Oggi, si ricorda l’anniversario francese -divenuto internazionale – della Presa della Bastiglia, evocandone i valori allora ‘sbandierati’ diffusamente di LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ.
Cosa è rimasto dei sogni, delle illusioni, dei desideri di progresso, dell’ampia declinazione del concetto e dei contenuti correlati alla definizione di LIBERO PENSIERO?
A ben vedere, il primo approccio è più che deludente: VALORI, IDEALI, PRINCIPI, sembrano essere stati non solo accantonati, ma letteralmente smembrati dal corpus socio-politico, persino con un ribaltamento – distruttivo – di tali concetti fondanti e parte di quella che da allora abbiamo via via definito “consorzio civile”, “società dagli alti valori”, “Ideali, valori, principi, inalienabili ed eterni”, “espressione di civiltà e progresso” e quant’altro.
Un lirismo cui hanno attinto a piene mani, pronunciando parole che proprio quel ‘galantuomo’ che è il tempo ha messo drammaticamente a nudo, e che si sono dimostrate essere solo suoni incerti e striduli pronunciati non di rado da lingue biforcute, taglienti, indegne di rappresentare anche solo sé stessi.
Un tradimento bell’e buono, condito dal tentativo di imporre nuovi Valori: equivoci e falsi, poiché solo inutili e spesso veri scarti etici e morali.
Personalmente, 236 anni dopo lo storico evento parigino, con l’evolversi dei tempi, preferisco adottare il concetto di EQUITÀ piuttosto che non quello, talvolta equivocato ed equivocabile per la sua ampiezza , di UGUAGLIANZA.
Nella tumultuosita’ degli eventi – in particolare di questo ultimo quinquennio – l’incertezza e lo smarrimento si sono impossessati di ampie porzioni di umanità: sovrasta da un ridda continua di notizie, informazioni, interpretazioni (e loro opposti), che spossessano gli esseri dalle normali e quotidiane reattività: così ponendo dubbi a iosa, alimentati da artati spauracchi e falsità.
In molti, tra coloro che fino a ieri avevano impostato il proprio vivere, e quello delle loro famiglie, sulla stabilità, sulle prospettive quotidiane e future, sul rispetto della propria e altrui dignità, si stanno ponendo domande esistenziali, sempre più esiziali.
Quale domani, quale futuro, attende noi e i nostri figli?
Cecco Angiolieri ha tracciato quella magica strofa ‘CHI VUOL ESSER LIETO, SIA. DEL DOMAN NON V’È CERTEZZA’.
Abbiamo quindi imboccato la via di un regresso abilmente mascherato, ma che anche un circo e un sordo percepirebbero?
Un nuovo Evo molto Antico e tragico nel quale far precipitare gran parte di un’umanità sempre più vittima, indecisa nel solo ipotizzare del come potersi sottrarre al fascino mortale dei ‘pifferai’ di turno?
236 anni fa, i ribelli non a caso indicarono per ultima una opzione drammatica: OU LA MORT!
Allora di forte contrasto ideale a tutto il sistema che li sovrastava, schiacciandoli: meglio correre coraggiosamente incontro alla Morte, piuttosto che non subire l’oppressore! Senza Amore, Dignità, Rispetto e Armonia, non esiste un futuro degno.
Per gentile concessione de' "Il Corriere Nazionale"
L’Assessore regionale del Lazio Luisa Regimenti e il Capogruppo in Regione Lazio, di Forza Italia, Giorgio Simeoni hanno preso parte, oggi 3 luglio 2025, presso l’Auditorium Antonio Maglio della Direzione Generale di piazzale Giulio Pastore in Roma, ad un’importante iniziativa focalizzata sulla sicurezza sul lavoro attraverso la presentazione della Relazione annuale Inail 2024. Quest’evento ha visto la presenza di figure istituzionali di rilievo, tra cui il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Presidente del Senato Ignazio La Russa, la Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni, il Presidente della Camera Lorenzo Fontana, unitamente ai consiglieri di amministrazione Inail Danilo Battista, Nunzia Catalfo, Caterina Grillone e Maurizio Millico, del direttore generale Inail Marcello Fiori, del presidente del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza Inail Guglielmo Loy, e dei rappresentanti del Civ Inail.
Il presidente Fabrizio D’Ascenzo ha illustrato, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Calderone, e alle altre autorità presenti, i risultati raggiunti e gli obiettivi strategici per affrontare le sfide del futuro in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Peraltro, il presidente D’Ascenzo ha illustrato i dati sull’andamento infortunistico e tecnopatico, il bilancio delle attività svolte dall’Istituto negli ambiti dell’assicurazione, della prevenzione, della sanità, della ricerca e degli investimenti. Durante la conferenza è stata sottolineata una realtà preoccupante: le denunce di infortuni sul lavoro sono rimaste stabili, con ben 1202 casi mortali registrati. Inoltre, un aspetto significativo emerso dalla discussione è il fenomeno dello sfruttamento lavorativo e del caporalato, che continua ad essere una grave piaga sociale e richiede un intervento urgente da parte delle istituzioni. È essenziale che le istituzioni collaborino a vari livelli per implementare misure efficaci che promuovano un ambiente di lavoro più sicuro, giusto ed equo, con particolare attenzione alle questioni di genere. Questo impegno non deve gravare solo sulle Autorità, ma deve coinvolgere tutta la Società, poiché si tratta di una battaglia per i diritti umani e per la dignità di ogni lavoratore. L’auspicio condiviso è quello di costruire un futuro in cui ogni individuo possa lavorare senza rischi e in condizioni di equità, contribuendo così a una Società più giusta e solidale. Il presidente Fabrizio D’Ascenzo illustrerà i dati sull’andamento infortunistico e tecnopatico, il bilancio delle attività svolte dall’Istituto negli ambiti dell’assicurazione, della prevenzione, della sanità, della ricerca e degli investimenti, e gli obiettivi strategici per il futuro.
Caravaggio, il famoso pittore barocco, tutto genio e sregolatezza è noto per le sue opere drammatiche ed innovative.
La sua passione per l’arte e la sua vita tumultuosa lo hanno reso una figura affascinante nella storia dell’arte. Giovanni De Ficchy Giornalista e Antropologo Criminale appassionato di storia e divulgazione letteraria nel suo ultimo libro: “Caravaggio, un viaggio nella mente dell’assassino”, illustra una investigazione nel tempo, della complessa interiorità del grande pittore. Giovanni De Ficchy iniziò a scrivere alla stesura di questo libro più di un anno e mezzo fa in quanto suo padre lo appassionò con i suoi racconti e il suo genitore (da poco deceduto), decise di scrivere l’introduzione del libro. La prefazione è di Paolo Battaglia un critico d’arte molto quotato e il contenuto è scritto in collaborazione con il Prof. Galdi Giuseppe, psichiatra e psicanalista di lungo corso, Direttore della ASL Roma 1.
Il grande pittore italiano dai critici è sempre stato analizzato dal punto di vista della storia dell’arte, ma nessuno ha mai tentato di indagare sulla sua reale personalità. Caravaggio studiò a Milano da un allievo del Tiziano ed apprese tutta la fiorente scuola pittorica lombardo-veneta. Caravaggio è stato effettivamente un criminale, ma questo irrefrenabile impulso si sviluppò quando giunse a Roma e si trovò ad assistere allo sgozzamento e all’uccisione di Beatrice Cenci, e lo spettacolo tremendo si concluse con tutta la fuoruscita del sangue. Questo episodio rimase impresso nella sua già scossa personalità, così a Roma uccise Ranuccio Tommasone, poi soppresse un altro a Malta e si sospetta qualche altra persona nel periodo in cui visse a Milano.
Il suo carattere iracondo ed esplosivo derivava da una infanzia difficile e l’indagine del libro ha ricostruito la sua reale problematica: un disturbo antisociale di personalità. Si tratta di qualcosa di molto aggressivo in quanto l’artista in realtà non amava nessuno ed era praticamente uno psicopatico. Tutti i personaggi dei Promessi Sposi che il Manzoni inserisce sono tutti personaggi ideati dal grande pittore. Il libro tratta argomenti interessanti che pochi conoscono. Caravaggio era un figlio illegittimo della principessa Costanza Colonna e discendente del Cardinale Federico Borromeo.
Circolava voce in quegli anni di una bambina che viveva in un convento di suore che ad un certo punto rimase incinta e il Cardinale mise tutto a tacere. Organizzarono un finto matrimonio, con i protagonisti Fermo e Lucia, (gli stessi dell’ultima stesura dei Promessi Sposi).e così per tutta la vita questa nobildonna seguirà l’artista di nascosto per sempre. Caravaggio è stato il primo a descrivere la realtà del suo tempo, dove erano raffigurate popolane, prostitute e mendicanti e in sette quadri se si presta particolare attenzione è descritta la classica scena del crimine.
Caravaggio può essere considerato l’antesignano della camera scura, dipingeva da uno specchio che si rifletteva su un altro specchio e per questa ragione alcuni suoi quadri sono ripresi al rovescio: si tratta di tecniche pittoriche all’avanguardia. Caravaggio sapeva di essere nobile ma non gli poteva essere riconosciuto il titolo, in quanto per coprire lo scandalo lo avevano fatto diventare un plebeo. Il grande pittore soffriva sopra tutto del fatto che non poteva portare la spada, che era la prerogativa dei nobili.
La sua condizione era quella di un essere bullizzato che viveva costantemente nella paura che gli
potesse capitare qualcosa di imminente. Il suo carattere non ammetteva regole, né imposizioni sociali e quando sopraggiungeva la frustrazione, si batteva e infilava il reietto con la spada. Caravaggio dipinse più di cento opere, ma probabilmente altre personali, non gli sono mai state attribuite. Sembra che fosse anche affetto da saturnismo perché il piombo che stava nei colori che lui utilizzava lo aveva intossicato. La sua è stata una vita piena di trasferimenti per la paura di subire attentati: a Porto Santo Stefano terminò la sua fuga, perché morì all’età di poco più di quaranta anni.
Se non è perseguitata dalla malasorte è inefficienza allo stato puro. Non passa giorno che l’Eav- Circumvesuviana, la grande ferrovia della Campania, controllata dalla Regione, non faccia notizia. Nelle ultime ore un autobus ha preso fuoco ad Ischia e un ragazzo di 21 anni si è lanciato dalla stazione di Brusciano. Due episodi accidentali ma che riguardano la gestione complessiva dell’azienda. La lunga lista di incidenti e fatti gravi riporta l’azienda al centro dell’attenzione mediatica e politica. Un caso nazionale su cui pesa il consolidato giudizio di Legambiente di “ferrovia-scandalo”. La politica, che nomina i vertici dell’azienda, non riesce a rendersi efficace. Nemmeno dopo la tragedia della funivia del Monte Faito costata la vita a 4 persone. Il Presidente Umberto De Gregorio ed altri dirigenti Eav sono stati iscritti nel registro degli indagati dal procuratore della Repubblica Nunzio Fragliasso per reato gravissimi. Rischiano condanne pesanti. Le inefficienze denunciate da centinaia di pendolari per scioperi, degrado, interruzioni di servizio non fanno breccia nei partiti di sinistra al governo della Campania. Un mistero per chi è dalla parte di lavoratori e studenti. Anche per l’episodio dell’altra sera a Brusciano è stata aperta un’inchiesta che ha per sfondo le condizioni di sicurezza e di vigilanza dell’impianto. Quella stazione, che per alcuni mesi non vedrà passare treni a causa di lavori lungo la linea Napoli-Baiano, è stara segnalata all’Eav, alla Prefettura, a carabinieri e polizia come uno dei luoghi più pericolosi dell’area a Nord di Napoli. Viaggiatori e residenti hanno scritto che nella stazione si riuniscono spacciatori, il piazzale viene usato come base per furti e aggressioni in abitazioni, somiglia a una discarica di rifiuti, ci sono assembramenti notturni. Ambiente, incuria, poco ascolto, governance: capitoli segnati in rosso.
Il Comune di Brusciano ha chiesto interventi efficaci che non si sono visti. Al Prefetto di Napoli sono state segnalati episodi gravi di cui si ha diretta testimonianza. Anche qui si aspetta, per giunta con attenzione specifica. In fondo anche il giovane trovato a terra in condizioni precarie forse poteva essere rilevato da sistemi di video sorveglianza. Ma deve essere tutto complicato per la Regione Campania che sembra non accorgersi dello stato in cui versa la sua ferrovia. E le altre autorità? Sono in stand by. Certo. Fino al prossimo “fattaccio”.
Si celebra in tutto il mondo la giornata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Promuovere l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione. Anche il giornalismo deve cambiare. Basta con lo sfruttamento e i bassi compensi ai collaboratori.
Il 3 maggio è la giornata mondiale della libertà di stampa. “Europa, democrazie e libertà di stampa sotto attacco. L’attualità delle conquiste della Liberazione tra bavagli, guerre e nuova narrazione della storia ”è il tema di quest’anno. Tema certamente non nuovo. Nel nostro Paese, poi, le intercettazioni abusive e le norme limitanti il diritto di cronaca arrivano come il sale su ferite antiche. Nel Report 2025 di Reporter Senza Frontiere (Rsf), l’Italia è scesa di tre posti rispetto al 2024 ed è al 49° posto nel mondo. La libertà di informare sembra, ormai, un elastico nelle mani di poteri inafferrabili. In tutto il mondo, anche nella civilissima Europa. I tempi cambiano, ma il desiderio di possedere e gestire le leve dell’informazione non modifica le acrobazie della politica. Che i giornalisti domani si mobilitino per difendere il principio della libera informazione è il segnale di una presa d’atto dei pericoli che stiamo correndo.Le Nazioni Unite se ne ricordano ogni anno. Ma la mobilitazione forse segna anche il tramonto di una certa autoreferenzialità dei giornalisti stessi. Un peccato grave che li ha portati spesso a distinguersi dalle altre categorie sociali solo in ragione di potenti mezzi di cui dispongono: giornali, radio, tv, siti web. Ciascuno, ovviamente, fa i conti con la propria coscienza.
La rivoluzione tecnologica ha travolto i giornalisti forse più di altri soggetti, facendo emergere interrogativi inquietanti sulla sopravvivenza della libera stampa come sostanza e linfa della democrazia. I presìdi del 3 maggio serviranno a ridefinire un nuovo rapporto tra operatori dell’informazione e pubblico ? I rischi che corre l’informazione saranno ben rappresentati nella più articolata vicenda degli attacchi ai diritti umani ? Sono domande lecite, più pesanti rispetto al passato, poiché il traguardo da cui ripartire è più vicino di quanto non si creda. L’informazione resta un bene prezioso per tutti, alla condizione che sia di qualità, si sforzi di interpretare i fatti, sia severa con se stessa, sia davvero al servizio di chi legge o ascolta. Concetti come affidabilità, specializzazione, chiarezza, selezione delle fonti, onestà, fanno da contrappeso a una crisi d’identità mondiale che coinvolge tutti, beninteso anche gli editori. Le notizie sono merce privilegiata da esporre a ogni ora del giorno e della notte. Esibita in un mercato globale dove – munifica Italia ! – è anche facile editare giornali quando è lo Stato a sostenerti con provvidenze milionarie: cioè pagate dai contribuenti. In questo caso lo scandalo italiano è lampante. Perché chi prende gli aiuti dallo Stato non retribuisce in maniera adeguata i giornalisti collaboratori ? Si parla di equo compenso ma poi si nasconde tutto. In tante parti del mondo la lotta per il controllo delle testate si combatte a suon di miliardi con i redattori sgraditi pronti a essere licenziati. E qualche volta ci si mettono anche i capi di Stato.
A testimonianza di ciò che sta accadendo nel mondo e in Europa, comunque, c’è anche il Report di Liberties Media Freedom. Un documento allarmato redatto da 40 organizzazioni che si occupano di diritti umani. La libertà dei media è la prima linea di difesa contro l’autoritarismo, ma in Europa si sta sgretolando, è scritto nel Report. I governi influenzano i media assegnando finanziamenti statali agli organi di informazione a loro favorevoli e utilizzano i mezzi del servizio pubblico come strumenti di comunicazione. Un gioco diabolico e contraffatto che punisce i professionisti seri. I giornalisti subiscono minacce e violenze diffuse e la libertà di accesso alle informazioni non è pienamente garantita. Protestare è giusto e le libertà sono da salvaguardare.
Lo sforzo da fare e che deve appassionare e convincere il pubblico (“i nostri padroni”, diceva Indro Montanelli) è saper raccontare la realtà, le cose per come sono, le ingiustizie, i drammi umani e sociali, gli imbrogli. Il silenzio di fronte alle ingiustizie è complicità, ho sentito dire da Maria Ressa, Premio Nobel per la pace. In quel momento non mi sono bastati 40 anni di attività, mi ha fatto piacere sentirlo. La giornata di mobilitazione di domani nelle piazze di tutto il mondo evidentemente non basta a riparare guasti storici. Non è sufficiente a fermare l’odio contro i giornalisti indipendenti che a migliaia lavorano in condizioni di totale sfruttamento, senza contratti di lavoro, per poche decine di euro ad articolo, senza tutele. Muoiono sul campo, vengono torturati nelle prigioni, sono spiati, inseguiti e insolentiti. E allora le domande di questo angosciante 2025. Cosa chiedere a chi inquina il campo di gioco della democrazia, ne approfitta per calcare la mano in ogni modo ? Stare dalla parte giusta, lasciare libera la stampa di cercare notizie, pubblicarle, commentarle, collaborare a rendere trasparente le attività e gli affari.
Informare è cosa diversa dal comunicare e la buona informazione richiede sempre più competenze, studio, verifiche. I giornalisti facciano – facciamo ! – passi avanti coraggiosi attraverso una preparazione crescente, più dedizione, più dubbi, mettendo nel racconto il senso di quello che è, che si vede, si scopre e non di quello che vorremmo che fosse. Le guerre, le epidemie, il cambiamento climatico, le migrazioni, le tecnologie, le nuove povertà, hanno scavato dentro certezze che i cronisti si tramandavano da generazioni. Il risultato è stata la crisi di modelli narrativi e di rappresentazione inadeguati, da sostituire con nuovi linguaggi, fonti qualificate, ritmi narrativi veloci, autorevolezza, tutto in grado di competere con la mole di news quotidiane, farlocche e a sbafo non opera di giornalisti. All’orizzonte, ma da costruire, un nuovo patto tra giornalisti e cittadini per non lasciare il campo alla prepotenza.
Dipingeranno ancora per noi. Non con pennelli ma con algoritmi che sognano al posto della mano perduta
Immagina una galleria silenziosa dove, accanto a un’opera originale di Klimt, appare una tela mai contemplata, eppure misteriosamente familiare.
Non si tratta di un falso, né di una copia ma di una creazione nuova, generata da una rete neurale che ha assorbito lo stile del maestro e lo ha restituito in una forma mai concepita prima. Un’opera che reca la firma invisibile della macchina e l’impronta silente del genio che non smette mai di parlare, al di là delle sue mani, al di là della sua carne.
In questa apparizione, tanto poetica quanto perturbante, si affacciano interrogativi vertiginosi che non attendono una risposta definitiva, quanto uno sguardo rinnovato.
È giusto evocare i maestri del passato per renderli interlocutori di una nuova estetica, in cui la tecnologia diventa medium e complice? Possiamo davvero far parlare ancora quelle mani scomparse, richiamandone stile, ossessioni, imperfezioni, cicatrici, visioni per trasformarle in materia algoritmica e offrendole al mondo in una sembianza che sfugge al tempo?
Su questa linea di confine emerge una nozione affascinante: la co-autorship postuma. Una collaborazione attraverso il tempo, dove l’artista vivente diventa interprete e l’algoritmo si fa medium di una memoria ancora pulsante. Non si tratta di un esercizio stilistico ma di un nuovo modo di pensare la creazione.
Qui, il tempo smette di scorrere in linea retta. Il presente riscrive il passato non per replicarlo bensì per interrogarlo. Il maestro scomparso diventa sorgente creativa, l’artista contemporaneo si fa guida e la macchina orchestra connessioni, silenzi e risonanze con la precisione del calcolo.
Non siamo davanti a una rielaborazione nostalgica. Questa non è una commemorazione, bensì una vera alleanza oltre la morte. Una convergenza di intenzioni e possibilità, in cui l’opera prende forma da archivi, intuizioni e dati, generando creazioni che non appartengono a nessuno in particolare.
Tra le ombre di un passato sospeso e le luci di un presente reinventato, risuona la riflessione di Walter Benjamin quando nel 1936, scriveva che “ciò che con l’opera d’arte si estingue è la sua aura”. Eppure, se la riproduzione tecnica ne indebolisce l’unicità, la generazione algoritmica sembra offrire un paradossale contrappunto: una nuova forma di aura, non più legata all’originale ma all’esperienza singolare che l’opera suscita. L’arte, così trasformata, non si limita a ripetere. Interroga, sovverte, rilancia.
Il rischio, naturalmente, è quello di una bellezza standardizzata, replicabile all’infinito e priva di anima. Ma come ci ricorda Kant, “è bello ciò che piace universalmente senza concetto”: una bellezza che risiede nella forma e non nell’intenzione, nella capacità di generare piacere senza spiegazioni. Ed è proprio questo che l’arte generativa riesce ancora a fare: emozionare, spiazzare, aprire nuovi orizzonti, indipendentemente dalla mano che l’ha plasmata.
È in questo spazio sospeso che si muovono alcuni pionieri del presente come Mario Klingemann e Refik Anadol. Le loro opere non inseguono la verosimiglianza ma aprono gallerie dell’inconscio digitale, dove le visioni di Turner, Rembrandt e Monet si fondono con l’architettura dei dati. È un’estetica della metamorfosi, in cui la pittura incontra la rete neurale e l’immaginazione si espande in direzioni non ancora codificate.
Tuttavia, è nel dialogo con i grandi del passato che l’intelligenza artificiale sfida davvero il tempo. Con il suo aiuto si tenta una resurrezione audace, come i Santi Apostoli di Caravaggio, perduti e ora ricostruiti attraverso la sua luce, la sua drammaturgia, la sua pennellata invisibile. O come la reinterpretazione della Donna che piange di Picasso, dove lo strappo del volto femminile si dilata in una nuova frattura del senso. Qui la memoria non si limita a ricordare: reinventa.
In questo crocevia di pixel e intuizioni, il passato non è più nostalgia. È materia viva, che pulsa sotto forma di codice. E gli artisti contemporanei, nel dialogo con questi echi, non sono necromanti ma traduttori. Portano in vita ciò che dormiva, spingendolo oltre i confini del già detto.
Forse, non abbiamo mai davvero lasciato la caverna di Platone: abbiamo solo acceso nuovi fuochi. Non più ombre, piuttosto immagini generate da dati, da soglie neurali, da algoritmi capaci di intuire. Se prima osservavamo le proiezioni del reale, oggi partecipiamo attivamente all’ineffabile incanto. E’ ancora incanto, o siamo immersi in un’illusione più raffinata?
Restano domande che pungono come spine sotto la pelle. Dove finisce la mano dell’artista e dove inizia l’autonomia della macchina? Chi è l’autore quando la creazione nasce da un modello e non da un tormento? Quale significato possiamo attribuire alla bellezza se la sua genesi non contempla più l’errore, la fatica, la carne?
Probabilmente Dalì, di fronte a simili dilemmi, avrebbe sorriso sotto i suoi sottili baffi e si sarebbe divertito, eccome se si sarebbe divertito, accogliendo l’intelligenza artificiale come un’estensione del proprio immaginario, un congegno enigmatico attraverso cui deformare la realtà e moltiplicare i miraggi.
Visionario del tempo liquido, maestro dell’ambiguità e della metamorfosi, Dalí non avrebbe intravisto nell’intelligenza artificiale una minaccia ma un’altra dimensione da attraversare, un nuovo specchio in cui rifrangere l’inconscio, deformarlo, renderlo fertile. E non cercherebbe certezze ma fenditure, spiragli, crepe dove insinuare il dubbio e far fiorire l’assurdo. Lì, dove l’intelligenza artificiale disegna apparizioni sospese, Dalí riconoscerebbe il brivido dell’inafferrabile che abbraccerebbe con l’eleganza di chi sa che tutto, in definitiva, è sogno.
È in questo sogno che l’arte generativa si rivela, delineando contorni inediti nel vasto paesaggio creativo contemporaneo. Non è un capriccio effimero bensì una rivoluzione sottile e profonda, capace di reinventare l’atto stesso del creare. Pur priva della carne e del tormento che animano l’artista, conserva nel suo codice l’essenza primigenia del gesto creativo, proiettandola verso orizzonti ancora inattingibili.
In fondo, ogni trasformazione autentica comporta una rinuncia. Lo sapeva bene Picasso quando affermava: “Ogni atto di creazione è prima di tutto un atto di distruzione.” Forse è proprio questo che l’intelligenza artificiale ci sta insegnando: a lasciare andare l’immagine romantica dell’artista solitario e ispirato, per accogliere un nuovo paradigma, più fluido, collettivo, disseminato. Un’arte che non si esaurisce nella mano che l’ha generata ma continua a rifrangersi, a evolversi e a parlare.
Così, quelli che credevamo, allora, fantasmi sono già presenze. O meglio, echi.