L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Il tempo della pace è adesso! Continua l’impegno del gruppo Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, con un progetto per educare alla pace i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. Presentato il 6 novembre scorso durante il webinar in diretta, il progetto Facciamo la Pace a... è rivolto a docenti ed educatori e ci invita a riflettere insieme e confrontarci sul momento che stiamo vivendo, sul da farsi in quanto educatori pacifisti e nonviolenti con bambine/i e ragazzi/e. A partire da stimoli (arte, letteratura, testimonianze…) si possono promuovere momenti di mobilitazione/ partecipazione collettiva per sensibilizzare, porre problemi, riflettere assieme. Le nostre speranze di un mondo futuro più giusto e più equo, affermano gli organizzatori Lanfranco Genito e Roberto Lovattini, si realizzano nelle seguenti proposte presentate:
Educare alla pace: è il primo passo, consiste nell’imparare a riconoscere cause, conseguenze, dinamiche dei conflitti: disuguaglianze e povertà, oppressioni e sfruttamento, dissesto ambientale, diritti negati, anche all’infanzia, in molti paesi del mondo, corsa agli armamenti, guerre.
Educare in un contesto di pace: costruire una classe cooperativa e una scuola contraddistinta da una identità progettuale di pace e solidarietà fra tutti i soggetti nell’ottica della resilienza e della collaborazione, perché la pace va costruita a partire dalle relazioni interpersonali nella vita quotidiana.
Educare per la pace: sviluppare progetti e percorsi educativi come operatori di pace nella propria realtà e gradualmente su scala più ampia.
Il webinar ha visto la vivace partecipazione di numerosi insegnanti, educatori, formatori, centri educativi, associazioni, Reti, associazioni pacifiste di tutto il territorio nazionale. Tra gli intervenuti Luisa Morgantini, della Rete internazionale di Donne contro la guerra e presidente di Assopace Palestina che ha ribadito come unica l’soluzione sia il cessate il fuoco immediato.
"La nostra cultura è la nostra vita. È nel nostro sangue e la natura fa sempre parte della nostra vita."
PAULO PAULINO
Fra le tante ed insopportabili contraddizioni e ipocrisie del nostro tempo, quelle relative alla questione ambientale sono indubbiamente tra le più ciclopiche ed irritanti. Mentre si inneggia, a tutti i livelli e in tutte le possibili declinazioni, alla difesa della natura, proponendo e imponendo presunti “nuovi stili di vita” dichiarati più “ecocompatibili” (e come tali doverosi), ben poco si opera, infatti, per arginare i fenomeni di devastazione ambientale in atto. E ben poco si opera per sostenere l’azione di coloro che, in prima persona, si impegnano con grandi rischi a denunciare e a tentare di contrastare le vere e proprie aggressioni che, in nome di molto concreti interessi economici, continuano sistematicamente a distruggere e ad inquinare le ultime aree incontaminate del pianeta.
Un caso particolarmente emblematico è certamente rappresentato dalla sorte della foresta amazzonica e delle popolazioni indigene ancora ivi esistenti e resistenti. Questo immenso e ricchissimo territorio, infatti, si trova perennemente sotto attacco da parte di numerosi soggetti: dai garimpeiros (i cosiddetti cercatori d’oro) ai grandi proprietari terrieri (sempre alla ricerca di nuovi spazi da destinare agli allevamenti intensivi e alle monocolture), alle imprese del legname, ecc. Il tutto, ovviamente, sotto l’attenta regia delle grandi multinazionali che controllano questi settori, ampiamente favorite dai vari apparati governativi.
Secondo quanto documenta Survival International (l’organizzazione mondiale che maggiormente si batte per la difesa dei popoli indigeni, aiutandoli a difendere le proprie vite e le proprie terre), nell’area amazzonica orientale del Brasile, nel territorio indigeno Arariboia (nello Stato del Maranhao), il popolo dei Guajajara, da molti anni rappresenta l’unica protezione di un territorio sempre più ferocemente aggredito. Ma, ogni anno, numerose sono le vittime fra i cosiddetti Guardiani della foresta che si dedicano al pattugliamento del proprio ambiente vitale, nel tentativo disperato di riuscire ad espellere i sempre più numerosi e determinati “invasori”.
E ben 5 anni, oramai, sono trascorsi da quando Paulo Paulino Guajajara, noto come il “Guardiano dell’Amazzonia”, venne ucciso da trafficanti illegali di legname, incriminati sì, ma mai condotti in giudizio. Paulo Paulino fu colpito al collo in un’imboscata, mentre il suo amico e collega Tainaky Tenetehar rimase colpito al braccio e alla schiena, riuscendo fortunatamente a salvarsi.
Cinque anni fa, la ricercatrice di Survival Sarah Shenker, che aveva accompagnato i Guardiani in una operazione di pattugliamento, rilasciò la seguente dichiarazione:
“Sapeva che avrebbe potuto pagare con la vita, ma non vedeva alternative perché le autorità non facevano nulla per proteggere la foresta e far rispettare la legge.”
In una nota diffusa in occasione dell’anniversario dell’omicidio di Paulo Paulino, i Guardiani hanno dichiarato di condividere l’angoscia dei suoi familiari per la costante impunità dei suoi assassini e degli assassini del loro intero popolo.
Da tener presente, inoltre, che, nello stesso territorio, vivono anche molti membri del popolo Awà, un gruppo etnico considerato ancora “incontattato”, un popolo nomade di cacciatori-raccoglitori che riceve dalla foresta tutto quello di cui necessita per la propria sopravvivenza, sottoposto, ormai da molti anni, ad una vera e propria invasione, soprattutto a causa del business internazionale del traffico del legname. La terra degli Awà risulta essere quella più velocemente soggetta a sistematica distruzione e il popolo Awà da tempo è stato definito quello maggiormente esposto al rischio di totale sterminio.
I Guardiani della foresta sono, in pratica, la loro unica difesa.
In un documentario girato poco prima della sua morte, Paulo ha dichiarato:
“Vicino al nostro villaggio c’è un uomo bianco che ha promesso di uccidermi … perché difendo la foresta … Non arrestano i taglialegna, ma vogliono arrestare i Guardiani … Ci sentiamo molto soli qui. Senza aiuto. Abbiamo bisogno di molto aiuto e sostegno in questa terra.”
La signora Elena Fini di Modena ci ha inviato un'articolo pubblicato sulla Gazetta di Modena del 30 ottobre c.a. Riteniamo la sua replica meritevole di essere pubblicata. Dall'articolo pubblicato riteniamo che la distinzione tra "no vax" e "pro vax" non sia in armonia con i dettami costituzionali che tutelano la dignità di ogni persona e qualsiasi opinione meriti rispetto, a patto non si leda il codice penale.
“Premio Italia diritti umani 2024” ®
Dedicata alla memoria dell’ex Vice-presidente della Free Lance International Press Antonio Russo.
via Ulisse Aldovrandi 16 c/o Unar - ROMA
ROMA 19 Ottobre 2024
Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.
In collaborazione con -
|
|
Modera e presenta il premio: Neria De Giovanni – Free Lance International Press |
video |
Saluti del Pres. della Free Lance International Press Virgilio Violo | video |
e Antonio Masia Pres. dell’UnAR - Ore 15. 50 | violo |
Interventi | |
Patrizia Sterpetti – Wilpf Italia APS – ore 16.20 "Schermare le violazioni dei diritti umani. L'approccio di WILPF" |
video |
Antonio Cilli – Ceo di Cittanet – ORE 17,00 L’”Informazione autentica e la comunicazione autentica” |
video |
Ore 17,20 - Ferdinando Maddaloni presenta STRIP HUMAN RIGHT SONG TEASE
|
video |
PREMIAZIONE ore 18,00 | |
Premio a Marilina Veca | video |
Premio a Francesco Amodeo | video |
Premio a Franco Fracassi | |
Dono delle opere da parte della pittrice Serena Pizzo | video |
saluti finali del presidente Virgilio Violo | video |
Chiara Pavoni in "tragicamente rosso", regia di Giuseppe Lorin, testo di Michela Zanarella | video |
Si ringraziano per la riuscita dell'evento le seguenti cantine
Vinea Domini | Lazio | |||
Cantine Tora | Campania | |||
Casale del Giglio | Lazio | |||
Castel De Paolis | Lazio | |||
Cristo di campobello | Sicilia | |||
Emanuele Ronchella | Lazio | |||
L'Avventura | Lazio | |||
Paolo e Noemi D'Amico | Lazio | |||
Tenuta "La Pazzaglia" | Lazio |
Incontriamo l’attore e regista Ferdinando Maddaloni che vedremo nel 2025 su Rai1 nella terza stagione fiction “Mina Settembre”, al rientro dal suo viaggio a Beslan in Russia
Da quanto tempo mancava da Beslan?
Ferdinando Maddaloni |
Da circa dieci anni a causa dei miei impegni lavorativi, pandemia, guerre in atto, anche se ho sempre mantenuto contatti via internet. Quest’anno però non potevo mancare visto che coincidevano sia il ventennale della strage di Beslan sia il decennale dell’omicidio dei miei amici Andrei Mironov e Andy Rocchelli, avvenuto a Sloviansk in Ucraina il 24 maggio 2014. Il mio desiderio era rivivere istante per istante quel mio primo viaggio a Beslan, fatto nel 2009 proprio con Andy e Andrei, ricordando momenti belli e brutti di quella indimenticabile prima esperienza.
Con il blocco dei voli da tutta l’area europea, come è riuscito a raggiungere l’Ossezia del Nord?
Una volta ottenuto il visto, ho affrontato un lungo viaggio, ma sono stato anche fortunato. Da anni mi divido tra Italia e Turchia ed ora è stato autorizzato un volo diretto Istanbul/ Vladikavkaz che in sole due ore mi ha portato in Ossezia del Nord. E proprio nell’immenso nuovo aeroporto di Istanbul la prima sorpresa: ero in fila per il check in e dietro di me ho notato la presenza di tantissimi italiani che si recavano in Ossezia per le mie stesse motivazioni ovvero il ventennale della strage di Beslan avvenuta il 3 settembre 2004. Sono partito il 28 agosto fermandomi una settimana. Prima tappa, l’abbraccio nella nuova scuola numero 1 con la mia cara amica Nadia Gurieva nella sala della memoria con le testimonianze di affetto da tutto il mondo compresa la maglietta regalata da Diego Maradona per il torneo “BeslaNapoli 2014”. In seguito poi l’incontro con quei bambini oramai adulti, che mi hanno fatto presentato le loro famiglie.
Come si è svolta quest’anno la commemorazione?
Come sempre: il lancio dei palloncini bianchi e la lettura di tutti i nomi delle 334 vittime tra cui 186 bambini (9 in età prescolare) con l’aggiunta dell’inaugurazione del nuovo Museo e due emozionanti concerti: il primo sulla prospect Mira, il corso principale di Vladikavkaz; il secondo invece, si è tenuto proprio davanti alla vecchia palestra.
Lei ha realizzato una docufiction che ripercorre proprio il suo primo viaggio a Beslan con Mironov e Rocchelli. È ancora possibile vederlo?
Si. È disponibile on line, ma dirò di più. Questa estate, in un afoso pomeriggio proprio mentre continuavo a controllare la posta sul mio telefonino in attesa del visto per la Russia, ho ricevuto la notizia che, abbiamo vinto tre festival (Londra, Parigi e Lisbona) nello stesso giorno e che si aggiungono agli altri a partire dal prestigioso Hollywood Indipendent Documentary Award. Poi, qualche giorno dopo, è arrivato anche il visto elettronico per la Russia!
Progetti futuri?
Dopo la nomina a direttore artistico della Extralife-md di Yesim Kaya ed il successo del mio primo workshop di recitazione a Istanbul, sono in fase di preproduzione del mio nuovo lavoro che girerò in Turchia dal titolo “Il lusso nella sabbia”. Sabato 19 ottobre sarò ospite del Premio Italia diritti umani 2024 organizzato dalla FLIP con un estratto da “Strip Human Right Song Tease”, un format da me ideato, adattato per l’occasione, che prevede di spogliare musicalmente alcune canzoni, rivestendole di ricordi con dedica speciale a persone scomparse fisicamente ma vive nella mia memoria. Una di queste, ça va sans dire, sarà dedicata al giornalista Antonio Russo, perché, come scritto nel grande poster affisso davanti alla vecchia palestra “Finché ti ricorderai di noi, noi saremo vivi!”
La giornata di ieri è stata storica e indimenticabile. Ultimo, il Capitano Ultimo, ha aperto da anni le porte della sua Casa Famiglia ai più emarginati, poveri e dimenticati della nostra società, sempre più globalizzata e orientata alla corsa verso il denaro. Nella sua casa, persone in difficoltà hanno trovato non solo un tetto e un lavoro, ma soprattutto dignità e una vera famiglia.
Un esempio significativo è quello di una famiglia del Montenegro, che ha trovato rifugio e accoglienza grazie al Capitano. Non si è limitato a dare loro supporto, ma ha voluto conoscere i loro familiari – nipoti, cugini e parenti – dimostrando, come sempre, grande empatia verso i più deboli, che siano oppressi dalle situazioni della vita, dalle mafie o da una politica spesso poco attenta.
In questo spirito di inclusione, anche la comunità Rom è stata sempre vicina al Capitano Ultimo, condividendone i valori e l'impegno. La giornata di ieri è stata arricchita da un momento particolare: la preparazione del "Cazan", una grappa tradizionale balcanica realizzata con un alambicco in rame artigianale, costruito da un Rom residente in via Salviati. Ho avuto il piacere di assaggiarla personalmente, ed è stata così forte e autentica da farmi crollare appena rientrato a casa! Un'esperienza unica, che non troverete da nessun'altra parte se non nella Casa Famiglia di Capitano Ultimo, dove si rispettano e si mantengono vive le tradizioni e la cultura degli ospiti.
Si è svolta a il 30 Settembre presso l’Università di Studi a Distanza di San José di Costarica la conferenza di presentazione della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza che è possibile riascoltare sul canale della UNED https://www.youtube.com/watch?v=iRO62j4EL5g
Il 2 ottobre 2024, Giornata Internazionale della Nonviolenza, partirà da San José di Costarica la Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza dove tornerà, dopo aver fatto il giro del pianeta, il 5 gennaio del 2025. Il Costarica è stato scelto come luogo di partenza e arrivo della Marcia per la sua caratteristica di stato senza esercito, fattore molto significativo in quest’epoca di conflitti e guerre.
La partenza della Marcia verrà trasmessa in diretta a partire dalle 9 del mattino, ora di San José (le 18 europee) nel canale dell’Università UNED https://www.youtube.com/@OndaUNEDcr
A San José, a partire dalla sede universitaria, si svolgeranno numerose attività per tutto il giorno: discorsi delle autorità pubbliche, dell’Università e dell’Equipe Base della Marcia, la cerimonia di Impegno Etico, la realizzazione da parte degli studenti del simbolo umano della nonviolenza, una vera e propria marcia per le vie di San José, dove i marcianti dell’Equipe Base verranno accompagnati dalla popolazione locale.
La Marcia partirà idealmente in contemporanea anche in tutte le località del mondo con le celebrazioni del compleanno di Gandhi, dichiarato nel 2007 dall’ONU Giornata Mondiale della Nonviolenza, con numerose attività nelle scuole, nelle piazze, realizzazione di simboli umani.
Sito ufficiale della Marcia: http://www.theworldmarch.org
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Maria Montessori in India |
Maria Montessori, in una conferenza del 1937, ci descrive l’uomo contemporaneo, come un uomo “male sviluppato”, generato da un sistema sociale e scolastico autoritario e deresponsabilizzante, una sorta di “omuncolo” immerso in un mondo in cui dominano confusione e contraddizioni, all’interno del quale non sa neppure “se è ricco o povero, se è sano o malato”.
In lui regna l’ansietà, o addirittura l’angoscia propria del malato: la cosiddetta “ansia della vita”, ovvero, l’assillante interrogativo del “Come vivrò?”.
“Per questo fine ansioso, che ripete l’ansia dei nevropatici” - prosegue la pedagogista - l’uomo è disposto anche a tutto sacrificare. E, mentre gli uomini del passato, di fronte agli enigmi del vivere, si rifugiavano nel “Dio provvede”, e nel loro mondo “c’era ancora spazio per l’uomo povero in mezzo ad uomini poveri, e l’individuo era pronto a sacrificare se stesso per il bene di un suo simile”, nel nostro tempo l’ansia divorante di vivere sarebbe simile alla “disperata volontà di salvarsi da un incendio”.
Pur di soddisfare la propria ansia di vita, l’uomo dei nostri giorni sarebbe pertanto pronto a rinunciare segretamente a qualunque cosa, anche a mettere in soffitta i propri principi, anche ad assassinare la propria coscienza, fino a dare le “dimissioni” dalla stessa dimensione umana.
Vittime di un’organizzazione socio-culturale che idolatra il successo, la competitività e l’arrivismo, gli “uomini di oggi vanno pel mondo inariditi e isolati” e dalla loro unione non può scaturire nessun vero progresso né tantomeno una qualsiasi “elevazione morale”.
Essi sono come granelli di sabbia nell’immensità del deserto: “tutti ammassati e tutti separati”. Ognuno rinchiuso nella propria dimensione egoica, e, nello stesso tempo, parte indistinta di una massa sterile e anonima, indifesa di fronte all’azione della furia dei venti. La vera minaccia incombente sull’umanità – ci dice, a pochi mesi dall’inizio del secondo conflitto mondiale – è costituita dalla ”disperata aridità” interiore.
E il vero pericolo dell’umanità è rappresentato da quello che efficacissimamente viene definito “il vuoto delle anime”. Perché la natura non tollera il vuoto e perché le anime vuote, di conseguenza, in tutti i tempi, sono destinate a venire facilmente riempite, senza opporre resistenza, dalle ideologie più irrazionali, dai sentimenti più perversi, dagli impulsi più folli e distruttivi.
Da grande educatrice e da terapeuta dell’anima, le sue parole non si limitano, però, ad una allarmistica diagnosi, intrisa di pessimismo schopenhaueriano e velata da sussulti nostalgici:
questa umanità passiva, pavida e malata può essere curata, guarita, liberata.
Se il problema è l’aridità del suolo, infatti, quello che occorre è “un po’ d’acqua spirituale” capace di far crescere “un poco di vita”: perché grazie ad essa la sabbia potrà sempre trasformarsi in terreno fertile.
Maria Montessori, con il figlio Mario e G.S. Arundale (Presidente mondiale della Società Teosofica) con la consorte Rukmini Devi |
Nella Formazione dell’uomo (opera apparsa dopo il suo importantissimo soggiorno in India, negli anni terribili della guerra, presso la sede internazionale della Società Teosofica in Adyar), Montessori riprende questo tema, con rinnovata fiducia nell’avvenire.
La diagnosi di partenza sulle condizioni dell’umanità si riconferma dolorosamente cupa:
“La schiavitù – scrive – va crescendo rapidamente e prende forme che non emersero mai nel passato” e la condizione di “impotenza umana” ha raggiunto livelli massimi.
“Nessuno ha sicura la vita: può essere intimata una guerra assurda dove tutti – uomini giovani e vecchi, donne e bambini – sono in pericolo di morte. Si bombardano le abitazioni e le genti devono rifugiarsi in sotterranei, come gli uomini primitivi si rifugiavano nelle caverne per difendersi dalle belve feroci. L’alimento può sparire e milioni di uomini morire di fame e di pestilenza. (…) Le famiglie si dividono, si spezzano; i bambini restano abbandonati e girano a torme come selvaggi. Questo - sottolinea - non è solo per i popoli vinti nella guerra: è per tutti.
E’ l’umanità stessa che è vinta e fatta schiava.”
Ma ad una realtà in cui l’immoralità, la viltà e la violenza sono divenute “forme consuete dell’ esistenza”
è pur sempre possibile ribellarsi, mettendo da parte rassegnazione e illusioni consolatorie.
L’umanità è chiamata (forse destinata?) a liberarsi, “guarendo dalla sua follia e diventando conscia del suo potere.”
“Bisogna – scrive – che l’uomo raccolga tutti i suoi valori vitali, le sue energie, che le sviluppi, si prepari alla sua liberazione.
Non è più il tempo di combattersi gli uni con gli altri, di cercare di sopraffarsi;
si deve guardare all’uomo solo con lo scopo di elevarlo, di spogliarlo dei legami inutili che si sta creando e lo spingono verso l’abisso della demenza.
La forza nemica sta nell’impotenza dell’uomo rispetto ai suoi stessi prodotti, sta nell’arresto di sviluppo dell’umanità.”
Quello che ci può salvare, è l’avvento di una vera e propria “rivoluzione universale”.
“Come si aiuta un malato nell’ospedale, perché ritrovi la salute e possa continuare a vivere, così oggi si tratta di aiutare l’umanità a salvarsi. Noi dobbiamo essere degli infermieri in questo ospedale, vasto come il mondo.”
Due strade - ci spiega - sono possibili: quella dell’uomo che possiede e quella dell’uomo che ama.
La prima è quella dell’uomo schiavo del desiderio di possesso e dell’odio.
La seconda è quella dell’uomo che ha conquistato la sua indipendenza interiore e che ha imparato ad associarsi con gli altri in modo armonioso, coltivando il sentimento d’amore verso tutti gli esseri viventi, facendo vivere dentro di sé speranza e luce.
L’umanità dell’inizio del nuovo millennio, dopo quasi un secolo, non sembra ancora molto diversa da quella descritta dalla meravigliosa maestra di Chiaravalle.
Forse, soltanto facendoci tutti noi consapevoli e volenterosi “infermieri” capaci di seminare e coltivare amore nel grande corpo malato del mondo, sarà possibile salvarlo dal precipitare nell’ “abisso della demenza”.
Un’evoluzione pacifica della società umana potrà scaturire soltanto dall’affermarsi nella coscienza collettiva del sentimento dell’armonia cosmica e dalla fiducia nell’esistenza di quello che, nella sua esperienza indiano-teosofica degli anni ‘40, Montessori chiamerà l’ “occulto comando che armonizza il tutto” e che “tende a creare un mondo migliore”, basato sulla “collaborazione di tutti gli esseri, animati e inanimati” (Educazione per un mondo nuovo).
A suo avviso, nonostante la drammaticità della situazione del mondo contemporaneo, già nel suo tempo era possibile scorgere segni evidenti dell’avvento di una nuova umanità:
“dalle tenebre del dubbio e della paura che gravano sul genere umano, ormai s’intravede la luce che le dissiperà perché è già iniziata la società nuova.”
Impossibile non augurarsi che, al di là delle apparenze oltremodo inquietanti, la “nuova umanità” e il “nuovo mondo”, annunciati da Maria Montessori nei suoi ultimi anni di vita terrena, siano davvero realtà viventi oggettivamente in costruzione e non soltanto il sogno nobilissimo della sua personale evoluzione mistica, non soltanto la generosa proiezione del suo luminoso sperare.
---------
*PER APPROFONDIRE:
“Io so chi sono e quello che sono.
Sono un indiano, un indiano che ha osato lottare per difendere il suo popolo.
Io sono un uomo innocente che non ha mai assassinato nessuno, né inteso farlo.
E, sì, sono uno che pratica la Danza del Sole.
Anche questa e' la mia identità.
Se devo soffrire in quanto simbolo del mio popolo, allora soffro con orgoglio.
Non cederò mai.”
Leonard Peltier
Leonard Peltier, nativo della comunità Anishinaabe-Lakota, è un attivista del Movimento indiano americano, organizzazione che promuove i diritti dei nativi americani. Durante uno scontro che coinvolse membri del Movimento nella riserva indiana di Pine Ridge nel South Dakota, nell’ormai lontanissimo 26 giugno 1975, rimasero uccisi gli agenti dell’Fbi Ronald Williams e Jack Coler. Due anni dopo, giudicato colpevole, venne condannato a due ergastoli.
Leonard Peltier ha sempre negato la sua colpevolezza. Myrtle Poor Bear (nativa Lakota che viveva a Pine Ridge) è stata una presunta testimone chiave della sparatoria. Successivamente, ritrattò la sua testimonianza, e, nel 2000, dichiarò pubblicamente che la sua testimonianza originale era scaturita da mesi di minacce e molestie da parte degli agenti dell’Fbi.
Leonard Peltier è da molto tempo in precarie condizioni di salute: soffre di malattie renali, diabete di tipo 2, ipertensione, una malattia degenerativa delle articolazioni e della costante mancanza di respiro e vertigini. Nel 1986 un ictus lo ha reso praticamente cieco da un occhio. Nel gennaio 2016, i medici hanno diagnosticato che le sue condizioni di salute mettevano la sua vita in pericolo, soprattutto a causa di un aneurisma dell’aorta addominale di grandi dimensioni e potenzialmente fatale, tale da rompersi in qualsiasi momento e provocare la sua morte. A causa della mobilità limitata, attualmente utilizza un deambulatore.
Importanti personalità, come Nelson Mandela, Desmond Tutu, Rigoberta Menchù, il Dalai Lama, papa Francesco, hanno chiesto la sua liberazione, così come grandi associazioni umanitarie, come Amnesty International e il Movimento Nonviolento, nonché milioni di comuni cittadini di tutto il mondo.
Anche istituzioni rappresentative come l'Onu (che sulla vicenda di Leonard Peltier si e' pronunciata attraverso una commissione giuridica ad hoc) e come il Parlamento Europeo (fin dagli anni Novanta, ed ancora qualche anno fa con l’allora Presidente David Sassoli) hanno chiesto la sua liberazione, così pure la tribù Standing Rock Sioux e il Congresso nazionale degli indiani americani.
Il suo avvocato, nel 2021, ha chiesto la grazia al presidente Biden, il quale si è impegnato a concederla su base continuativa durante la sua amministrazione e non alla fine del suo mandato.
Tuttavia, ad oggi, non è stata presa alcuna decisione a riguardo.
Leonard Peltier e' stato condannato per un delitto che non ha commesso:
e' stato definitivamente dimostrato che le testimonianze contro di lui erano false e che le prove contro di lui erano altrettanto false.
In tutti questi anni, dal carcere, ha sostenuto con la parola e con la testimonianza, innumerevoli iniziative nonviolente in difesa dei popoli e delle persone cui venivano negati i diritti più elementari, in difesa del mondo vivente minacciato di irreversibili devastazioni.
Anche in condizioni di particolare durezza, infatti, Leonard Peltier è riuscito a svolgere un'intensa attività di sensibilizzazione e di militanza; un'attività non solo di riflessione e d'impegno morale, sociale e politico, ma anche artistica e letteraria. Nel corso degli anni, è diventato sempre più un punto di riferimento in tutto il mondo, come accadde per Nelson Mandela, negli anni di prigionia nelle carceri del regime dell'apartheid.
La richiesta di un nuovo pronunciamento giudiziario è stata sempre respinta, così come gli sono state negate le altre guarentigie riconosciute a tutti i detenuti.
Nel 1983 e poi, in seconda edizione nel 1991, venne pubblicato il libro di Peter Matthiessen che fa piena luce sulla persecuzione subita da Leonard Peltier, mentre nel 1999, venne pubblicata l'autobiografia di Leonard Peltier (presto tradotta anche in francese, italiano, spagnolo e tedesco).
Amnesty International, in particolare, sostiene la richiesta di grazia per Leonard Peltier
Nella sua autobiografia ha scritto:
"Tutti facciamo parte dell'unica famiglia dell'umanità.
Noi condividiamo la responsabilità per la nostra Madre Terra e per tutti quelli che ci vivono e respirano.
Credo che il nostro compito non sarà terminato fin quando anche un solo essere umano sarà affamato o maltrattato,
una sola persona sarà costretta a morire in guerra,
un solo innocente languirà in prigione
e un solo individuo sarà perseguitato per le sue opinioni.
Credo nel bene dell'umanità.
Credo che il bene possa prevalere,
ma soltanto se vi sarà un grande impegno.
Impegno da parte nostra, di ognuno di noi, tuo e mio".
Come ha efficacemente scritto Peppe Sini:
“Leonard Peltier rappresenta l'intera umanità oppressa in lotta per la comune liberazione e per la difesa dell'intero mondo vivente minacciato di distruzione dai poteri dominanti.
La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la Resistenza degli indiani d'America vittime di un genocidio, di un etnocidio e di un ecocidio che tuttora continuano e che occorre contrastare.
La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la lotta di tutti i popoli e di tutti gli esseri umani oppressi e denegati dalla violenza dei poteri dominanti.
La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la lotta dell'umanità cosciente in difesa del mondo vivente dalla minaccia di distruzione da parte di un sistema di potere, di un modo di produzione e di un modello di sviluppo che schiavizzano, divorano e distruggono gli esseri umani, gli altri animali, l'intero mondo vivente.
La lotta di Leonard Peltier e la lotta per la sua liberazione sono quindi parte di un impegno in difesa della vita, della dignità e dei diritti di tutti gli esseri umani, di un impegno per la salvezza dell'intero mondo vivente.”
Il 12 settembre, Leonard compirà 80 anni.
Il nostro augurio affettuoso è che, dopo 50 anni di prigionia, prima di abbandonare questo mondo di ingiustizia, possa essere nuovamente illuminato dalla luce del sole ed abbracciato dalla luce delle stelle.
--------------------
Cenni biografici**
Leonard Peltier nasce a Grand Forks, nel North Dakota, il 12 settembre 1944.
Nell'infanzia, nell'adolescenza e nella prima giovinezza subisce pressoché tutte le vessazioni, tutte le umiliazioni, tutti i traumi e l'emarginazione che il potere razzista bianco infligge ai nativi americani. Nella sua autobiografia questo processo di brutale alienazione ed inferiorizzazione e' descritto in pagine profonde e commoventi.
Nei primi anni Settanta, incontra l'American Indian Movement (Aim), fondato nel 1968 proprio per difendere i diritti e restituire coscienza della propria dignità ai nativi americani; e, con l'impegno nell'Aim, riscopre l'orgoglio di essere indiano - la propria identità, il valore della propria cultura, e quindi la lotta per la riconquista dei diritti del proprio popolo e di tutti i popoli oppressi.
Partecipa, nel 1972, al "Sentiero dei trattati infranti", la carovana di migliaia di indiani che attraversa gli Stati Uniti e si conclude a Washington, con la presentazione delle rivendicazioni contenute nel documento detto dei "Venti punti" che il governo Nixon non degna di considerazione, e con l'occupazione del Bureau of Indian Affairs.
Dopo l'occupazione nel 1973 da parte dell'Aim di Wounded Knee (il luogo del massacro del 1890 assurto a simbolo della memoria del genocidio delle popolazioni native commesso dal potere razzista e colonialista bianco), nella riserva di Pine Ridge - in cui Wounded Knee si trova - si scatena la repressione: i nativi tradizionalisti ed i militanti dell'Aim unitisi a loro nel rivendicare l'identità, la dignità e i diritti degli indiani, vengono perseguitati e massacrati dagli squadroni della morte del corrotto presidente del consiglio tribale Dick Wilson: uno stillicidio di assassinii in cui i sicari della polizia privata di Wilson (i famigerati "Goons") sono favoreggiati dall'Fbi che ha deciso di perseguitare l'Aim ed eliminarne i militanti con qualunque mezzo.
Nel 1975, per difendersi dalle continue aggressioni dei Goons di Wilson, alcuni residenti tradizionalisti chiedono l'aiuto dell'Aim, un cui gruppo di militanti viene ospitato nel ranch della famiglia Jumping Bull in cui organizza un campo di spiritualita'.
Proprio in quel lasso di tempo, Dick Wilson sta anche trattando in segreto la cessione di una consistente parte del territorio della riserva alle compagnie minerarie.
Il 26 giugno 1975, avviene l'"incidente a Oglala", ovvero la sparatoria scatenata dall'Fbi che si conclude con la morte di due agenti dell'Fbi, Jack Coler e Ronald Williams, e di un giovane militante dell'Aim, Joe Stuntz, e la successiva fuga dei militanti dell'Aim superstiti guidati da Leonard Peltier che riescono ad eludere l'accerchiamento da parte dell'Fbi e degli squadroni della morte di Wilson.
Mentre nessuna inchiesta viene aperta sulla morte della giovane vittima indiana della sparatoria, così come nessuna adeguata inchiesta era stata aperta sulle morti degli altri nativi assassinati nei mesi e negli anni precedenti da parte dei Goons, l'Fbi scatena una vasta e accanita caccia all'uomo per vendicare la morte dei suoi due agenti: in un primo momento vengono imputati dell'uccisione dei due agenti quattro persone: Jimmy Eagle, Dino Butler, Leonard Peltier e Bob Robideau.
Dino Butler e Bob Robideau vengono arrestati non molto tempo dopo, processati a Rapid City ed assolti perché viene loro riconosciuta la legittima difesa.
A quel punto, l'Fbi decide di rinunciare a perseguire Jimmy Eagle e di concentrare le accuse su Leonard Peltier, che nel frattempo e' riuscito a riparare in Canada; lì viene arrestato ed estradato negli Usa sulla base di una "testimone" che successivamente rivelerà di essere stata costretta dall'Fbi a dichiarare e sottoscrivere quelle flagranti falsità.
Peltier viene processato non a Rapid City, come i suoi compagni già assolti per legittima difesa, ma a Fargo, da una giuria di soli bianchi, in un contesto razzista fomentato dall'Fbi.
Viene condannato a due ergastoli nonostante sia ormai evidente che le testimonianze contro di lui fossero false, estorte ai testimoni dall'Fbi con gravi minacce, e nonostante che le cosiddette prove contro di lui fossero altrettanto false.
La solidarieta' in Italia
Anche in Italia si e' sviluppato un movimento di solidarieta' con Leonard Peltier, che nel corso dei decenni ha avuto diverse fasi legate a circostanze particolari.
Con l'elezione di Biden alla Casa Bianca nel 2021 vi e' stata una significativa ripresa delle iniziative.
Una nuova campagna - con una peculiare impostazione nonviolenta - e' stata promossa dal giugno 2021 dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo (This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)
Per contattare l'"International Leonard Peltier Defense Committee": sito: wwww.whoisleonardpeltier.info, e-mail: contact at whoisleonardpeltier.info
Alcuni siti utili: Centro studi americanistici "Circolo Amerindiano": www.amerindiano.org ; Il Cerchio, coordinamento di sostegno ai/dai nativi americani: www.associazioneilcerchio.it ; Soconas Incomindios, comitato di solidarieta' con i nativi americani: https://it-it.facebook.com/soconasincomindios/
* Stati Uniti: chiediamo la grazia per Leonard Peltier! - Appelli - Amnesty International Italia
** https://lists.peacelink.it/nonviolenza/2022/03/msg00001.html
Dopo giorni e giorni passati a discutere animatamente in merito ad un surreale incontro di pugilato femminile durato meno di un minuto (interrotto, così sembra, perché, come asseriva un tristissimo personaggio interpretato da Vittorio Gassman, “i cazzotti fanno male”), credo che potremmo cogliere l’occasione per riproporre una questione molto dimenticata ma di importanza cruciale:
la boxe merita davvero di essere considerata uno sport o dovrebbe, al contrario, essere abolita?
Umberto Veronesi, qualche anno fa, dopo l’ennesimo pugile morto sul ring (il giovane messicano Francisco Leal), constatava che la boxe è contraddistinta da una ben precisa peculiarità:
l’avere “come finalità quella di far male all’avversario”.
E, ricordando che nel corso del XX secolo sono stati più di 500 gli atleti morti in seguito ai colpi incassati in combattimento, sottolineava che tutti gli altri sport, anche i più pericolosi, sono, invece,
“puntati a un risultato di vittoria che non implica il danno dell’atleta, anzi lo vuole evitare.” 1)
Ma, in ambito medico, la voce dell’illustre oncologo non costituisce certo una posizione isolata. Basti pensare che l’ Assemblea Medica Mondiale, riunitasi a Venezia nell’ottobre 1983 presso la Fondazione Giorgio Cini, presentò una risoluzione auspicante l’interdizione della boxe.
Chiarissime furono, allora, le parole di Bruno Baruchello, capo della delegazione italiana:
“La boxe è l’unico sport nel quale la regola è quella di abbattere l’avversario”;
“I pugni, anche quelli che possono sembrare più innocui, a lungo andare provocano conseguenze croniche.”
Insomma, siccome il pugile sul ring ha come massimo obiettivo (quello più ricercato e, nello stesso tempo, quello più atteso dagli stessi spettatori) il logoramento sistematico dell’ avversario, con lo scopo di abbatterlo, ovvero di metterlo knock-out (K.O.), questo comporta, di fatto e di diritto, la legittimazione di atti aventi la potenzialità di provocare danni gravissimi e permanenti, ivi inclusi traumi cranici violentissimi, dalle conseguenze anche letali. In tutti gli altri sport, invece, sussisterebbe, entro certi limiti, soltanto la mera possibilità di fare male e di farsi male, ma mai come obiettivo desiderato, né tantomeno autorizzato.
E oltre ai casi mortali, tutti gli studi scientifici condotti hanno evidenziato come i pugili siano sottoposti a rischio rilevante di lesioni gravi alla testa, al cuore e allo scheletro, come conseguenze subacute riscontrate successivamente a sintomi accusati dopo gli incontri: mal di testa, problemi di udito, nausea, andatura instabile, perdita della memoria.
Secondo una ricerca dell’American Association of Neurological Surgeons,
a subire lesioni cerebrali sarebbe addirittura il 90% dei pugili.
Pochi si rendono conto, d’altronde, che un colpo diretto alla testa ben assestato corrisponde all’impatto con una palla da bowling di circa 6 kg viaggiante a 30 km/h! 2)
“Oltre ai rischi comuni a ogni trauma cranico del genere, - scriveva Massimo Sandal nel 2019, dopo l’ennesima tragedia – i colpi presi durante un incontro di boxe tendono a far ruotare la testa, mettendo in forte tensione nervi e vasi sanguigni, aumentando il rischio rispetto ad altri sport dove i traumi cranici sono comuni, come il football americano. I colpi durante la boxe inoltre sono ripetuti in un tempo breve. Quando il pugile inizia a essere suonato, rilassa i muscoli del collo, il che significa una accelerazione maggiore della testa al colpo successivo – e quindi più alta probabilità di danni gravi al cervello. (…)
Una percentuale significativa di pugili - fino al 50% - soffre danni neurologici a lungo termine, e di questi il 17-20% presenta segni netti di encefalopatia traumatica cronica. I sintomi vanno dalla perdita dell’equilibrio (con un’andatura simile a quella di un ubriaco – da cui il termine gergale di lingua inglese punch drunk, letteralmente ubriaco di pugni) a tremori, vertigini, sordità, deterioramento cognitivo e dell’umore. 3)
La Chiesa Cattolica, nello scorso secolo, soprattutto intorno agli anni Sessanta (secondo la rivista Ring, solo nel 1962 sarebbero stati ben quattordici i pugili deceduti in seguito alla loro attività sportiva), intervenne più volte, con giudizi di severa condanna.
L’autorevole rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica, proprio in quell’anno terribile, pubblicò un articolo, intitolato Il pugilato professionistico e la morale (La Civiltà Cattolica, 1962, II, pp. 160-163 ), in cui si affermava con estrema fermezza che era
“nella natura stessa del pugilato professionistico (ed in misura minore, ma ugualmente grave per le conseguenze pratiche, del pugilato dilettantistico) produrre gravi lesioni al cervello (culminanti talvolta nella morte)”.
In questo modo, venne favorito un acceso dibattito a cui fornirono il loro contributo anche numerosi quotidiani, dal New York Daily Mirror al New York Times, che arrivarono ad avanzare la richiesta di abolire gli incontri di pugilato.
Sempre nello stesso anno, dopo la morte del pugile Benny Kid Paret, L’Osservatore Romano sollevò nuovamente la questione della liceità o illiceità del pugilato, con un articolo intitolato: Massacrare è sportivo?
In seguito, poi, alla morte in diretta televisiva del pugile Davey Moore (21 marzo 1963), in un incontro con Sugar Ramos, sempre L’Osservatore Romano intervenne perentorio, sottolineando
l’ “immoralità di uno sport che attenta all’integrità della persona fisica degli atleti gratuitamente e stoltamente e nella triste cornice della passionalità scatenata del pubblico”,
e concludendo col mettere in luce l’inconsistenza dell’argomentazione più ricorrente usata dai difensori della boxe:
“Non si dica che anche gli altri sport, auto, ciclismo, alpinismo, calcio, possono provocare tragedie e costare vittime. In quegli sport la disgrazia non può essere che accidentale e, del resto, anche per essi vale l’obbligo del limite ragionevole e della prudenza cristiana. Ma nel pugilato l’essenza è l’offesa fisica contro l’avversario. Fissare un punto limite o stabilire una sicurezza certa nell’impetuoso gioco, alla luce dell’esperienza sembra pura illusione. E la persona umana va salvaguardata, non distrutta. Va educata non abbrutita” (Ribalta dei fatti: Lo stadio o il circo? in “Osservatore Romano”, 27 marzo 1963, p. 2).
In passato, quindi, la Chiesa (riprendendo le note riflessioni di Agostino contro le pratiche gladiatorie) ha in più circostanze espresso una chiara condanna della boxe, essenzialmente per due ragioni:
In base a tali constatazioni, la campagna stampa vaticana arrivò a sostenere l’impossibilità di attribuire al pugilato
“il valore di sport, poiché, se il fine di questo è il raggiungimento della perfezione umana, direttamente sotto l’aspetto fisico, ma con ripercussioni anche sul piano spirituale, non può certo dirsi sport una lotta, il cui normale risultato è di stroncare fisicamente e rovinare spiritualmente il suo protagonista.”4)
Posizioni queste che, dal pontificato di Paolo VI fino a papa Bergoglio, sono andate lentamente attenuandosi, fino ad essere oramai del tutto accantonate, probabilmente nella prospettiva di rendere un po’
Umberto Veronesi |
meno impopolare ed intransigente l’etica cristiana (si veda, in particolare, il cordiale incontro di papa Francesco con le delegazioni pugilistiche di Italia e Argentina, nell’ottobre 2019).
Quali le tesi sostenute dai difensori della boxe, a cui anche il mondo cattolico ha finito gradualmente per avvicinarsi?
Direi che siamo di fronte a tentativi goffi e fastidiosamente retorici di relativizzare i contro (“ci sono tanti altri sport molto pericolosi”; “chi accetta di fare pugilato esercita consapevolmente il proprio libero arbitrio”; “la vera violenza è quella fuori dagli stadi”, ecc.) e di esaltare i (presunti) pro: la boxe sarebbe formativa per quanto riguarda il rafforzamento del carattere; svolgerebbe una preziosa funzione di educazione all’autocontrollo e al rispetto dell’avversario; in tanti casi, la pratica pugilistica ha allontanato giovani sbandati dalla via del crimine, ecc.
A conti fatti, ben poco di razionale e di ragionevole.
Insomma, una volta tanto che teologia e scienza appaiono in piena sintonia, credo che sarebbe oltremodo auspicabile che la questione venisse affrontata senza pregiudizi di sorta, trasferendola, però, sul piano di un laicissimo dibattito etico-civile.
Ciò al fine di poter esaminare, in chiave rigorosamente filosofica, la compatibilità dell’ideologia sottostante alla pratica pugilistica con i valori fondativi della cultura dei diritti umani (come quello di solidarietà e di fraternità), e, in particolare, con il principio dell’inviolabilità dell’integrità fisica individuale e della dignità morale della persona, nonché con la teoria e la prassi dell’educazione alla pace e alla nonviolenza.
Bandire la boxe dalla grande famiglia dello sport non costituirebbe certo una “rivoluzione copernicana”, né potrebbe certo renderci immediatamente tutti più pacifici e meno aggressivi, ma potrebbe rappresentare, però, una significativa scelta dalla forte valenza simbolica e dall’efficace messaggio educativo.
--------------------------
NOTE
Nel momento presente, con l’incombere di pericoli immensi (reali o fittizi che siano) sul futuro dell’umanità e dell’intero pianeta, il problema della pena di morte potrebbe facilmente apparire come qualcosa di oramai secondario, se non addirittura anacronistico.
E si finirebbe, così, per commettere un grosso errore. Perché, come affermava lucidamente Norberto Bobbio, le nostre effettive possibilità di riuscire a non precipitare in una catastrofe (o in una serie di catastrofi) senza precedenti dipendono essenzialmente da una singola elementare questione:
riusciremo o non riusciremo ad impedire che violenza continui a chiamare violenza, “in una catena senza fine”?
Ovvero, riusciremo o non riusciremo a spezzare la catena dell’odio, della vendetta e dell’ irrazionale volontà di (super)potenza che domina il corso della Storia?
In questa partita cruciale, la lotta per l’abolizione della pena di morte continua (dopo alcuni secoli di importantissime conquiste teoriche e pratiche) ad occupare un ruolo di grande rilievo nell’affermazione di una visione filosofica, civile e politica che consideri inviolabile la dignità della persona umana e che imponga al potere dello Stato limiti invalicabili.
Quale giudizio dare, allora, della situazione attuale?
La pena di morte è stata abolita in più della metà degli stati del mondo:
Evitando di far riferimento a Cina, Corea del Nord e Vietnam, paesi in cui il numero (certamente ingentissimo) di esecuzioni è fatto oggetto di segreto di stato, il computo delle esecuzioni mondiali ammonterebbe a 1153, con un inquietante aumento del 30 % rispetto all’anno precedente (solo nel lontano 2015 si era raggiunta una cifra superiore).
Tale sconfortante notizia viene, comunque, almeno in parte bilanciata dal minimo storico raggiunto nel numero degli stati che hanno eseguito condanne a morte: soltanto 16.
“Il profondo incremento delle esecuzioni - ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International - è stato dovuto soprattutto all’Iran, le cui autorità hanno mostrato un totale disprezzo per la vita umana con un aumento delle esecuzioni per reati di droga che, ancora una volta, ha messo in luce l’impatto discriminatorio della pena di morte sulle comunità più povere e marginalizzate dell’Iran”.
Questi i cinque stati che, nel 2023, hanno eseguito il maggior numero di condanne a morte:
Cina, Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti d’America.
L’Iran, da solo, ha fatto registrare il 74 % delle esecuzioni note; l’Arabia Saudita il 15 %.
Nel 2023, le autorità iraniane hanno massicciamente intensificato l’uso della pena di morte: almeno 853 casi, con un aumento del 48 % rispetto ai 576 del 2022.
Il 20 per cento delle esecuzioni si è abbattuto sulla minoranza etnica dei beluci, rappresentante soltanto il 5% dell’intera popolazione (vedi: Iran: attacchi brutali contro i manifestanti e i fedeli beluci - Amnesty International Italia - 23 ottobre 2023 ).
Da sottolineare la presenza di almeno cinque esecuzioni relative a persone minorenni al momento del reato.
Almeno 545 su 853 esecuzioni, inoltre, riguardano reati minori, come quelli relativi al traffico di droga: 56 % del totale, con un incremento dell’89 % rispetto al 2022.
E anche negli Stati Uniti d’America si è registrato un aumento rilevante:
24 esecuzioni rispetto alle 18 del 2022.
“Un piccolo gruppo di stati degli Usa - ha commentato, a questo proposito la Callamard - ha mostrato un tremendo attaccamento alla pena di morte e una cinica intenzione di investire risorse nell’uccidere esseri umani.
Il nuovo metodo di esecuzione tramite asfissia da azoto è stato vergognosamente applicato, senza essere testato, nei confronti di Kenneth Smith, solo 14 mesi dopo che era sopravvissuto a un tentativo particolarmente cruento di metterlo a morte”.
Altri passi indietro sono stati registrati nell’Africa subsahariana, dove sono aumentate sia le condanne a morte che le esecuzioni:
queste ultime sono più che triplicate, passando dalle 11 dell’anno precedente a 38 e le condanne a morte sono nettamente aumentate del 66 %:
da 298 nel 2022 a 494 nel 2023.
Nonostante i passi indietro, PERO’ …
Malgrado i passi indietro fatti registrare da pochi stati, non sono mancati progressi significativi:
oggi 112 stati sono completamente abolizionisti, su un totale di 144 stati che hanno abolito la pena di morte nelle leggi o nella prassi.
Inoltre, a differenza del 2022, non ci sono state esecuzioni in Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sud Sudan e il Pakistan ha annullato la pena di morte per reati di droga.
Insomma, la partita è ancora apertissima e non sarà facile riuscire a spazzare via millenni di ottusità culturale e di atroce consuetudine etica e sociale alla crudeltà.
Ma una cosa, in tanta cosmica incertezza, è chiarissima:
se desideriamo davvero un sereno avvenire di pace per tutti noi, non potremo rinunciare ad affermare e a difendere quella che Albert Camus definisce (molto leopardianamente)
“l’unica solidarietà umana indiscutibile, la solidarietà contro la morte.”
Fine modulo
Da come si evince dal susseguirsi delle notizie, la escalation militare nei confronti della Federazione Russa e nei confronti dei Paesi NATO, continua. La manifestazione organizzata sabato 20 luglio scorso a Udine, in Piazza I Maggio, che ha visto gli interventi di Luca Scantamburlo e Flavio Massera non è stato quello di prendere una posizione politica, bensì di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana ed europea sui rischi e i pericoli che tutti noi Europei corriamo, soprattutto di confronto nucleare non solo convenzionale.
I nostri hanno fatto anche alcune piccole proposte su come agire nel ruolo di cittadinanza vigile e attenta affinché, civilmente, l’opinione pubblica possa portare il proprio contributo concreto e dire no alla escalation militare, no alla risoluzione delle controversie con le armi, no al coinvolgimento della NATO nel conflitto Ucraino-Russo, e dire invece sì alla negoziazione, al dialogo, alla tregua e a una de-escalation globale.
La maggior parte dei nostri politici occidentali ed europei sulla questione della guerra in Ucraina si mostrano irresponsabili e invece di sostenere una pacificazione e un dialogo diplomatico, fanno di tutto per provocare la Federazione Russa sia verbalmente sia politicamente e militarmente, e sostenere il riarmo del Governo di Kiev senza se e senza ma, a prescindere da ogni negoziato.
Uno dei primi disegni inviati da un bambino italiano agli Ambasciatori di Roma Su gentile concessione dei genitori e del bambino di 10 anni di età. |
Si vuole una vittoria sul campo di battaglia imprescindibile, senza tenere conto delle ragioni del conflitto, e della forza militare e non solo dell’avversario, e delle conseguenze per tutti noi di un allargamento del conflitto. Siamo in sudditanza psicologica nei confronti di un blocco atlantista guerrafondaio.
Si può essere alleati senza essere sudditi e su questo punto la manifestazione ha ribadito la necessità di una presa di consapevolezza individuale e collettiva, perché l’ indifferenza non diventi la nostra condanna a decenni di tribolazioni. Si chiede un futuro di pace e serenità per i nostri figli, e non un domani di sangue, fame e sacrifici.
LETTERA AGLI AMBASCIATORI DI UNGHERIA, SERBIA E COLOMBIA IN FAVORE DELLA PACIFICAZIONE E DE-ESCALATION FRA RUSSIA E UCRAINA
E’ stata presentata pubblicamente in occasione della manifestazione anche una lettera da inviare AGLI AMBASCIATORI DI UNGHERIA, SERBIA E COLOMBIA IN FAVORE DELLA PACIFICAZIONE E DE-ESCALATION FRA RUSSIA E UCRAINA
La lettera può essere scaricata al seguente link:
Quest’ultima ha lo scopo, non solo di sensibilizzare i vertici istituzionali nazionali e internazionali, ma di permettere che si agisca in prima persona (in modo totalmente libero ma consapevole) affinché cittadini, genitori e persino i propri figli in età di discernimento, possano portare un contributo personale per scongiurare l'allargamento del conflitto Ucraina-Russia e un coinvolgimento della NATO e degli Stati Uniti d'America e di altri Paesi dell'area asiatica e del Medio Oriente dotati di armamenti nucleari.
Quali gli OBIETTIVI
Ci si augura di stimolare l'apertura di un tavolo di negoziato credibile per una tregua e pacificazione fra Ucraina e Federazione Russa in guerra sin dal febbraio 2022, che parta da un nucleo di Paesi individuati da noi liberi cittadini nei seguenti Stati: Repubblica di Ungheria, Repubblica di Serbia Repubblica di Colombia. Questo gruppo di Stati – qualora si confrontino nei loro rapporti bilaterali sul tema oggetto di questa lettera-appello – potrebbero insieme dare vita a una collaborazione internazionale volta a promuovere la tregua e un cessate il fuoco. A tal fine, questa triade di Paesi potrebbe ingrandirsi coinvolgendo altri Stati capaci di intercettare contenuti e modalità di mediazione, trattativa e accordi, fino a portare eventualmente le istanze di pacificazione e mediazione fra i due contendenti in armi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il fine ultimo è portare a una conseguente e successiva distensione e de-escalation militare globale, evitando il rischio di un conflitto militare allargato non solo di tipo convenzionale, ma nucleare.
Si potrebbe promuovere questa iniziativa organizzando un tavolo di negoziato e di accordi in una città come Vienna (l’Austria non è membro della NATO) che ha già una ricca tradizione storica di accordi diplomatici, oppure nella città di Belgrado, o in alternativa nella capitale della Colombia, Bogotà. Proprio tre massime cariche di questi Stati – Viktor Orbán, capo di Governo in Ungheria, Aleksandar Vučić nel suo ruolo di Presidente della Repubblica di Serbia, e il Presidente di Colombia Gustavo Francisco Petro Urrego – hanno rilasciato negli ultimi mesi dichiarazioni pubbliche contraddistinte da una grande preoccupazione politica e morale, soprattutto personale, per la situazione attuale nel conflitto fra Ucraina e Federazione Russa, anche nel contesto delle relazioni internazionali e nei rapporti sempre più tesi e difficili fra Occidente (NATO, UE e Stati Uniti d’America) da una parte e Russia dall’altra.
COME SPEDIRE LA LETTERA
Consigliamo la posta cartacea prioritaria tracciata (il costo è poco superiore a Euro 3 stampando la lettera fronte-retro, e allegando 1 disegno formato A4); sconsigliamo la posta elettronica perché le caselle istituzionali delle Ambasciate devono restare libere da posta indesiderata e ridondante, e perché un plico postale cartaceo non intasa un servizio, è tangibile e concreto dal punto di vista materiale e consente proprio di toccare con mano una testimonianza umana e artistica di tanti bambini e adolescenti d'Italia e del mondo, che non devono pagare a causa degli errori e delle imprudenze degli adulti. Gli indirizzi delle Ambasciate in Roma sono già indicati nella intestazione della lettera-appello.
DESTINATARI DELLA LETTERA
L'Ambasciatore di Ungheria, di Serbia e Colombia in Roma
Un antico adagio particolarmente caro ad Erasmo* afferma, in maniera limpidamente perentoria, che: “Chi ama la guerra non l’ha vista in faccia.”
Una cosa, quindi, accomunerebbe tutti coloro che incitano all’uso delle armi, che si affannano a giustificarlo sul piano filosofico, religioso, politico, ecc., o che, comunque, lo condividono in silenzio o, semplicemente, lo tollerano, per conformismo, viltà o accidiosa disattenzione: la mancanza di una nitida e fondata consapevolezza in merito a cosa sia realmente la guerra (ogni guerra) e alle incalcolabili sofferenze e distruzioni materiali e spirituali che essa arrechi all’umanità e all’intero pianeta.
Camille Flammarion (1842-1925), famoso astronomo e pionieristico indagatore degli aspetti ignoti della psiche umana e della natura, oltre a parlarci di comete e di galassie, di telepatia e di fenomeni di preveggenza, dedicandosi con grande passione allo studio dei fenomeni medianici e a quello delle grandi opere teosofiche, è stato anche un intellettuale che ha saputo parlarci della tragedia della guerra con lucida quanto categorica chiarezza, individuando nel nazionalismo e nel militarismo le sue cause principali.
“Questa povera umanità - scrive - è ancor lungi dall’essere affrancata dall’antico e barbaro errore delle nazionalità; essa non ha ancora guadagnato quasi nulla in reale libertà, poiché tutte le sue risorse sono consacrate a trattenere entro certi gruppi racchiusi, come gli animali, tra confini artificiali e variabili, sentimenti di rivalità, d’animosità e di odi che la indeboliscono e la rendono sterile.
L’intelligenza è ancora così bruta, che i popoli onorano i diplomatici che, a mezzo della menzogna e della frode, hanno saputo scatenare le guerre più rovinose per coprirsi di gloria e di onori.”
Il militarismo è, per lui, “un’onta, una follia stupida e idiota”. L’umanità gli appare “divisa in greggi in balìa di capi”, di tanto in tanto scagliate le une contro le altre, al fine di mietere vittime “come spighe mature sui campi insanguinati”, conservando e consolidando, in tal modo, la suddivisione del nostro piccolo globo in tanti separati ed aggressivi “formicai”.
La “spada di Marte” è sempre lì, abilissima e instancabile, nel trarre “il sangue dalle vene dell’umanità”, generando orrori incomparabilmente più gravi di quelli prodotti dalla cosiddetta “natura cieca” che, rispetto a noi, volenterosissimi umani carnefici, non può che risultare assai meno “cieca”.
“ E per garantirsi contro il brigantaggio organizzato da un centinaio di malfattori sfruttanti la bestialità umana, l’Europa intera - scrive - mantiene armate permanenti, strappa i suoi uomini al loro lavoro utile e fecondo e getta tutte le sue forze, tutte le sue risorse in un precipizio senza fondo.”
Il nostro scienziato arriverà ad accusare i governi criminali dell’ Europa di fine secolo XIX e di inizio XX secolo di essere colpevoli di uccidere, ogni singolo mese, più uomini di quante stelle nel cielo si possano scorgere a occhio nudo nel corso di una bella notte, constatando con rabbiosa amarezza che, anche soltanto con una parte degli abnormi capitali investiti nella sfrenata corsa agli armamenti, sarebbe stato possibile creare condizioni di vita molto più felici per tutti i popoli:
“ avremmo potuto allevare e istruire tutti i nostri figli, avremmo potuto costruire tutte le linee ferroviarie necessarie (…); avremmo potuto sopprimere le dogane, i dazi e gli altri impacci alla libertà dei transiti commerciali; avremmo potuto guarire tutte le miserie che non sono dovute all’indolenza o alle malattie; avremmo fors’anco - arriverà anche dire, da sostenitore della pluralità dei mondi abitati nell’universo - aver relazione con gli abitanti degli altri mondi!”
La sua speranza è che, in un tempo non troppo lontano, scompariranno le varie religioni, lasciando libero campo alla sola voce delle coscienze, così come scompariranno le patrie nazionali (con tutte le loro rilucenti armate) di fronte al sentimento travolgente della Fratellanza universale.
E la sua convinzione è che tale traguardo sarà reso possibile non da vacue e retoriche esortazioni, ma dall’estendersi e dal diffondersi dei risultati delle esplorazioni scientifiche nel campo dell’infinitamente grande come nel campo dell’infinitamente piccolo, attraverso, cioè, lo sviluppo progressivo delle conoscenze fisico-astronomiche e di quelle di ordine psichico-spirituale. Poiché da entrambi questi campi di indagine (gli studi psichici sono, per lui, “il complemento naturale dell’astronomia”) emergono insegnamenti ben precisi, molto simili a quelli rintracciabili nelle maggiori filosofie dell’antichità:
l’Universo intero (benché inconoscibile nella sua intima essenza) non è altro che un unico infinito organismo dinamico ed intelligente (“Stelle e atomi sono uno”); la materia, così come ci appare, ha un carattere semplicemente illusorio ed è interiormente pervasa e governata da una Forza di ordine spirituale (come diceva Virgilio: “Mens agitat molem”); un’unica “legge universale” abbraccia ogni cosa nella vita eterna.
Insomma, di fronte alla “contemplazione dell’immensità dei cieli sconfinati” e dinanzi all’ “infinito sempre aperto al volo delle nostre anime”; di fronte alla contemplazione “di un pensiero eterno nelle leggi matematiche, nelle forze organizzatrici, nell’ordine intelligente, nella bellezza dell’universo”; di fronte alla Vita che si sviluppa senza fine nello spazio e nel tempo; e di fronte, infine, alla consapevolezza di vivere noi stessi nell’infinito e nell’eternità, messi in soffitta tutti gli “dei degli eserciti”, dovrebbe affermarsi, nella coscienza dell’intera umanità, il pensiero illuminante della Fratellanza universale come intima legge della stessa Vita cosmica e, quindi, come nostro unico e ineluttabile destino.
La speranza del nostro scienziato mistico e poeta, quindi, è che la via per approdare ad una vera e concreta Fratellanza passi attraverso la consapevolezza di essere figli dell’Infinito e cittadini dell’Eternità, consapevolezza nutrita dalla teosofica sinergia fra conoscenze astronomiche e conoscenze metapsichico-parapsicologiche.
A queste ricerche, con rara coerenza, Camille Flammarion ha dedicato la sua intera esistenza.
Per sconfiggere tutte le guerre.
Per favorire la nascita, in un tempo ancora (troppo) lontano, di un mondo di Pace.
-------
08 Dicembre 2023
N.B. Le citazioni di Camille Flammarion sono state ricavate dalla bella antologia curata da G.V.Callegari (Scienza e Vita di Camillo Flammarion, Enrico Voghera, Roma 1919) e da C. Flammarion, Per la Scienza dell’Anima. I Misteri della vita e della morte, Società Editrice Partenopea, Napoli 1933.
Sul territorio della Repubblica Democratica del Congo (ex Congo Belga ed ex Zaire), nel cuore del continente africano, le sventure continuano ad abbattersi con rara crudeltà. Dopo l’immane genocidio coloniale perpetrato alla fine del XIX dal sovrano belga Leopoldo II (circa 10 milioni di vittime); dopo la pluridecennale tirannia criminale di Mobutu (ignobilmente sostenuta a livello internazionale); dopo gli interminabili conflitti scaturiti dopo il crollo del suo regime, la popolazione di questo meraviglioso quanto sfortunato paese continua a subire inenarrabili violazioni di diritti umani legate, in particolar modo, alla presenza di sconfinate risorse minerarie.
Da questo immenso paese, infatti, proviene la maggior parte del rame e del cobalto utilizzati nelle batterie agli ioni di litio necessarie per alimentare smartphone, auto, biciclette elettriche, ecc.
La batteria di un veicolo elettrico richiede più di 13 kg di cobalto, mentre per un telefono cellulare ne occorrono circa 7 g. Si stima che la domanda di cobalto (già triplicata rispetto al 2010) raggiungerà le 222.000 tonnellate entro il 2025. Ed entro il 2030 si prevede che, per soddisfare la domanda sempre crescente, occorrerà una produzione di cobalto almeno dieci volte superiore a quella attuale.
Nella frenetica corsa globale per assicurarsi minerali come cobalto, rame, nichel, litio, aziende e governi stanno, ancora una volta, anteponendo in modo schiacciante il profitto al rispetto dei diritti umani: la produzione di batterie agli ioni di litio (al di là dei tanti roboanti slogan apologetici) risulta, pertanto, tutt’altro che “verde” e “pulita”. Anni di pratiche estrattive e industriali non adeguatamente regolamentate hanno comportato e stanno comportando, infatti, danni a numerose comunità dell’America meridionale e dell’Africa orientale e meridionale.
Nella Repubblica Democratica del Congo, in particolare, intere comunità vengono prepotentemente sgomberate dalle loro case e dai terreni agricoli per far posto all’espansione delle miniere industriali di cobalto e rame e bambini di appena sette anni vengono costretti a lavorare in miniere artigianali, con salari bassi e condizioni di grande pericolo.
In un rapporto di ben 10 anni fa, l’Unicef delineava un quadro più che allarmante delle condizioni estreme a cui vengono sottoposti bambini e ragazzi: oltre 12 ore al giorno di lavoro faticosissimo (spesso scavando a mani nude e trasportando sacchi dai 20 ai 40 kg), senza alcuna forma elementare di sicurezza, spesso picchiati e maltrattati, privati del diritto allo studio.
Una ricerca del 2020, poi, condotta dalle università di Lubumbashi, Lovanio e Gand, è giunta alle dolorose (quanto assai prevedibili) conclusioni che l’esposizione all’inquinamento tossico in ambito minerario non soltanto colpisce i lavoratori, ma produce altresì difetti congeniti nei loro figli.
Mark Dummett, direttore del programma Imprese, sicurezza e diritti umani di Amnesty International, ha così commentato la notizia:
“Quando si visita questa zona della Repubblica Democratica del Congo, si è immediatamente colpiti dal forte inquinamento e dalla mancanza di azione da parte del governo e delle aziende dell’industria estrattiva per evitarlo e per proteggere le persone che lì vivono e lavorano e che non hanno alcun modo di sfuggire alle polveri“.
“Quando ci siamo recati per la prima volta nelle miniere, nel 2015, abbiamo visto uomini, donne e bambini lavorare persino senza l’attrezzatura di protezione più essenziale come guanti e mascherine per il volto. I minatori ci hanno riferito delle patologie di cui soffrivano, tra le quali tosse, dolore ai polmoni e infezioni alle vie urinarie. Gli abitanti di un paese in cui siamo stati ci hanno mostrato l’acqua della sorgente del fiume locale, che usavano per bere, contaminata dallo scarico dei rifiuti di un impianto di lavorazione dei minerali”.
“Le preoccupanti scoperte di questo rapporto - prosegue - indicano che il danno fatto potrebbe avere effetti a lungo termine. Emergono quindi la necessità di una maggiore regolamentazione dell’industria estrattiva, affinché ambiente e lavoratori siano protetti, e di un’assunzione di responsabilità da parte delle multinazionali che traggono vantaggio da queste miniere, affinché intraprendano azioni allo scopo di evitare di produrre inquinamento a danno delle persone e del pianeta. Al contempo, devono offrire un risarcimento a coloro che sono stati danneggiati dalle operazioni legate alla loro attività. L’industria estrattiva della Repubblica Democratica del Congo dovrebbe portare benefici anche alle comunità locali, non solo alle potenti multinazionali“. *
In tutto il mondo, la cattiva progettazione, il funzionamento e la gestione dei rifiuti delle miniere industriali hanno prodotto e continuano a produrre un inquinamento persistente con conseguenti gravissimi danni alla salute.
Nel Salar de Atacama, ad esempio, un’area che si estende tra Cile, Argentina e Bolivia, l’estrazione di litio e rame minaccia i diritti delle popolazioni native e mette a rischio le risorse idriche e i fragili ecosistemi delle popolazioni e delle comunità.
Nel frattempo, la corsa alla ricerca di nuove fonti di minerali per le tanto decantate “ecologiche” batterie, attraverso l’estrazione in acque profonde sul fondo dell’oceano, pone rischi gravi e irreversibili per l’ecosistema del fondale marino e per i mezzi di sussistenza delle comunità costiere.**
“Le persone che vivono nella Repubblica Democratica del Congo – ha dichiarato con lucido realismo la segretaria generale di Amnesty International Agnès Callamard - hanno subito maltrattamenti significativi e sfruttamenti in epoca coloniale e post-coloniale.
I loro diritti continuano a essere sacrificati mentre la ricchezza intorno a loro viene depredata”.
----------------------------------------------------------------
*https://www.amnesty.it/ricerca-sulle-miniere-di-cobalto-nella-repubblica-democratica-del-congo-danni-permanenti/
**https://www.amnesty.it/appelli/cacciati-per-il-cobalto-fermare-gli-sgomberi-in-congo/