L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (211)

Roberto Fantini
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Il tempo della pace è adesso! Continua l’impegno del gruppo Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, con un progetto per educare alla pace i giovani delle scuole di ogni ordine e grado.  Presentato il 6 novembre scorso durante il webinar in diretta, il progetto Facciamo la Pace a...  è rivolto a docenti ed educatori e ci invita a riflettere insieme e confrontarci sul momento che stiamo vivendo, sul da farsi in quanto educatori pacifisti e nonviolenti con bambine/i e ragazzi/e. A partire da stimoli (arte, letteratura, testimonianze…) si possono promuovere momenti di mobilitazione/ partecipazione collettiva per sensibilizzare, porre problemi, riflettere assieme.  Le nostre speranze di un mondo futuro più giusto e più equo, affermano gli organizzatori Lanfranco Genito e Roberto Lovattini, si realizzano  nelle seguenti proposte presentate:

 Educare alla pace: è il primo passo, consiste nell’imparare a riconoscere cause, conseguenze, dinamiche dei conflitti: disuguaglianze e povertà, oppressioni e sfruttamento, dissesto ambientale, diritti negati, anche all’infanzia, in molti paesi del mondo, corsa agli armamenti, guerre.

Educare in un contesto di pace: costruire una classe cooperativa e una scuola contraddistinta da una identità progettuale di pace e solidarietà fra tutti i soggetti nell’ottica della resilienza e della collaborazione, perché la pace va costruita a partire dalle relazioni interpersonali nella vita quotidiana. 

Educare per la pace: sviluppare progetti e percorsi educativi come operatori di pace nella propria realtà e gradualmente su scala più ampia.

Il webinar ha visto la vivace partecipazione di numerosi insegnanti, educatori, formatori, centri educativi, associazioni, Reti, associazioni pacifiste di tutto il territorio nazionale. Tra gli intervenuti Luisa Morgantini, della Rete internazionale di Donne contro la guerra e presidente di Assopace Palestina che ha ribadito come unica l’soluzione sia il cessate il fuoco immediato.

  

"La nostra cultura è la nostra vita. È nel nostro sangue e la natura fa sempre parte della nostra vita."

 

PAULO PAULINO 

 

Fra le tante ed insopportabili contraddizioni e ipocrisie del nostro tempo, quelle relative alla questione ambientale sono indubbiamente tra le più ciclopiche ed irritanti. Mentre si inneggia, a tutti i livelli e in tutte le possibili declinazioni, alla difesa della natura, proponendo e imponendo presunti “nuovi stili di vita” dichiarati più “ecocompatibili” (e come tali doverosi), ben poco si opera, infatti, per arginare i fenomeni di devastazione ambientale in atto. E ben poco si opera per sostenere l’azione di coloro che, in prima persona, si impegnano con grandi rischi a denunciare e a tentare di contrastare le vere e proprie aggressioni che, in nome di molto concreti interessi economici, continuano sistematicamente a distruggere e ad inquinare le ultime aree incontaminate del pianeta.

Un caso particolarmente emblematico è certamente rappresentato dalla sorte della foresta amazzonica e delle popolazioni indigene ancora ivi esistenti e resistenti. Questo immenso e ricchissimo territorio, infatti, si trova perennemente sotto attacco da parte di numerosi soggetti: dai garimpeiros (i cosiddetti cercatori d’oro) ai grandi proprietari terrieri (sempre alla ricerca di nuovi spazi da destinare agli allevamenti intensivi e alle monocolture), alle imprese del legname, ecc. Il tutto, ovviamente, sotto l’attenta regia delle grandi multinazionali che controllano questi settori, ampiamente favorite dai vari apparati governativi.

Secondo quanto documenta Survival International (l’organizzazione mondiale che maggiormente si batte per la difesa dei popoli indigeni, aiutandoli a difendere le proprie vite e le proprie terre), nell’area amazzonica orientale del Brasile, nel territorio indigeno Arariboia (nello Stato del Maranhao), il popolo dei Guajajara, da molti anni rappresenta l’unica protezione di un territorio sempre più ferocemente aggredito. Ma, ogni anno, numerose sono le vittime fra i cosiddetti Guardiani della foresta che si dedicano al pattugliamento del proprio ambiente vitale, nel tentativo disperato di riuscire ad espellere i sempre più numerosi e determinati “invasori”.

E ben 5 anni, oramai, sono trascorsi da quando Paulo Paulino Guajajara, noto come il “Guardiano dell’Amazzonia”, venne ucciso da trafficanti illegali di legname, incriminati sì, ma mai condotti in giudizio. Paulo Paulino fu colpito al collo in un’imboscata, mentre il suo amico e collega Tainaky Tenetehar rimase colpito al braccio e alla schiena, riuscendo fortunatamente a salvarsi.

Cinque anni fa, la ricercatrice di Survival Sarah Shenker, che aveva accompagnato i Guardiani in una operazione di pattugliamento, rilasciò la seguente dichiarazione:

“Sapeva che avrebbe potuto pagare con la vita, ma non vedeva alternative perché le autorità non facevano nulla per proteggere la foresta e far rispettare la legge.”

In una nota diffusa in occasione dell’anniversario dell’omicidio di Paulo Paulino, i Guardiani hanno dichiarato di condividere l’angoscia dei suoi familiari per la costante impunità dei suoi assassini e degli assassini del loro intero popolo.

Da tener presente, inoltre, che, nello stesso territorio, vivono anche molti membri del popolo Awà, un gruppo etnico considerato ancora  “incontattato”, un popolo nomade di cacciatori-raccoglitori che riceve dalla foresta tutto quello di cui necessita per la propria sopravvivenza, sottoposto, ormai da molti anni, ad una vera e propria invasione, soprattutto a causa del business internazionale del traffico del legname. La terra degli Awà risulta essere quella più velocemente soggetta a sistematica distruzione e il popolo Awà da tempo è stato definito quello maggiormente esposto al rischio di totale sterminio.

I Guardiani della foresta sono, in pratica, la loro unica difesa.

In un documentario girato poco prima della sua morte, Paulo ha dichiarato:

“Vicino al nostro villaggio c’è un uomo bianco che ha promesso di uccidermi … perché difendo la foresta … Non arrestano i taglialegna, ma vogliono arrestare i Guardiani … Ci sentiamo molto soli qui. Senza aiuto. Abbiamo bisogno di molto aiuto e sostegno in questa terra.”

 

 

La signora Elena Fini di Modena ci ha inviato un'articolo pubblicato sulla Gazetta di Modena del 30 ottobre c.a. Riteniamo la sua replica meritevole di essere pubblicata.  Dall'articolo pubblicato riteniamo  che la distinzione tra "no vax"  e "pro vax" non sia in armonia con i dettami costituzionali che tutelano la dignità di ogni persona e qualsiasi opinione meriti rispetto, a patto non si leda il codice penale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



“Premio Italia diritti umani 2024” ®

 

Dedicata alla memoria dell’ex Vice-presidente della Free Lance International Press Antonio Russo.
via Ulisse Aldovrandi 16 c/o Unar - ROMA



ROMA 19 Ottobre 2024


Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.

              
In collaborazione con  -

 

                                                         

 

 

           

Modera e presenta il premio: Neria De Giovanni – Free Lance International Press
Presidente dell’associazione Internazionale Critici Letterari


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 Saluti del Pres. della Free Lance International Press Virgilio Violo  
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 e Antonio Masia Pres. dell’UnAR - Ore 15. 50  
                             violo
 Interventi  
 Patrizia Sterpetti – Wilpf Italia APS – ore 16.20
"Schermare le violazioni dei diritti umani. L'approccio di WILPF"
 
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 Antonio Cilli – Ceo di Cittanet – ORE 17,00
L’”Informazione autentica e la comunicazione autentica”
                              video
 

Ore 17,20 - Ferdinando Maddaloni presenta

STRIP HUMAN RIGHT SONG TEASE


di & con Ferdinando Maddaloni

      

 
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   PREMIAZIONE ore 18,00 
   
 Premio  a Marilina Veca  
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 Premio a Francesco Amodeo  
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 Premio a Franco Fracassi  
Dono delle opere da parte della pittrice Serena Pizzo                             video
 saluti finali del presidente Virgilio Violo  
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  Chiara Pavoni in "tragicamente rosso", regia di Giuseppe Lorin, testo di Michela Zanarella  
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Si ringraziano per la riuscita dell'evento le seguenti cantine

 

 

Vinea Domini Lazio      
Cantine Tora Campania      
Casale del Giglio Lazio      
Castel De Paolis Lazio      
Cristo di campobello Sicilia      
Emanuele Ronchella Lazio      
L'Avventura Lazio      
Paolo e Noemi D'Amico Lazio      
Tenuta "La Pazzaglia" Lazio      

  

 

 

 

 



 

Incontriamo l’attore e regista Ferdinando Maddaloni che vedremo nel 2025 su Rai1 nella terza stagione fiction “Mina Settembre”, al rientro dal suo viaggio a Beslan in Russia

Da quanto tempo mancava da Beslan?

Ferdinando Maddaloni

Da circa dieci anni a causa dei miei impegni lavorativi, pandemia, guerre in atto, anche se ho sempre mantenuto contatti via internet. Quest’anno però non potevo mancare visto che coincidevano sia il ventennale della strage di Beslan sia il decennale dell’omicidio dei miei amici Andrei Mironov e Andy Rocchelli, avvenuto a Sloviansk in Ucraina il 24 maggio 2014. Il mio desiderio era rivivere istante per istante quel mio primo viaggio a Beslan, fatto nel 2009 proprio con Andy e Andrei, ricordando momenti belli e brutti di quella indimenticabile prima esperienza.

Con il blocco dei voli da tutta l’area europea, come è riuscito a raggiungere l’Ossezia del Nord?

Una volta ottenuto il visto, ho affrontato un lungo viaggio, ma sono stato anche fortunato. Da anni mi divido tra Italia e Turchia ed ora è stato autorizzato un volo diretto Istanbul/ Vladikavkaz che in sole due ore mi ha portato in Ossezia del Nord. E proprio nell’immenso nuovo aeroporto di Istanbul la prima sorpresa: ero in fila per il check in e dietro di me ho notato la presenza di tantissimi italiani che si recavano in Ossezia per le mie stesse motivazioni ovvero il ventennale della strage di Beslan avvenuta il 3 settembre 2004. Sono partito il 28 agosto fermandomi una settimana. Prima tappa, l’abbraccio nella nuova scuola numero 1 con la mia cara amica Nadia Gurieva nella sala della memoria con le testimonianze di affetto da tutto il mondo compresa la maglietta regalata da Diego Maradona per il torneo “BeslaNapoli 2014”. In seguito poi l’incontro con quei bambini oramai adulti, che mi hanno fatto presentato le loro famiglie.  

Come si è svolta quest’anno la commemorazione?

Come sempre: il lancio dei palloncini bianchi e la lettura di tutti i nomi delle 334 vittime tra cui 186 bambini (9 in età prescolare) con l’aggiunta dell’inaugurazione del nuovo Museo e due emozionanti concerti: il primo sulla prospect Mira, il corso principale di Vladikavkaz; il secondo invece, si è tenuto proprio davanti alla vecchia palestra. 

Lei ha realizzato una docufiction che ripercorre proprio il suo primo viaggio a Beslan con Mironov e Rocchelli. È ancora possibile vederlo?

Si. È disponibile on line, ma dirò di più. Questa estate, in un afoso pomeriggio proprio mentre continuavo a controllare la posta sul mio telefonino in attesa del visto per la Russia, ho ricevuto la notizia che, abbiamo vinto tre festival (Londra, Parigi e Lisbona) nello stesso giorno e che si aggiungono agli altri a partire dal prestigioso Hollywood Indipendent Documentary Award. Poi, qualche giorno dopo, è arrivato anche il visto elettronico per la Russia!

Progetti futuri?

Dopo la nomina a direttore artistico della Extralife-md di Yesim Kaya ed il successo del mio primo workshop di recitazione a Istanbul, sono in fase di preproduzione del mio nuovo lavoro che girerò in Turchia dal titolo “Il lusso nella sabbia”. Sabato 19 ottobre sarò ospite del Premio  Italia diritti umani 2024 organizzato dalla FLIP con un estratto da “Strip Human Right Song Tease”, un format da me ideato, adattato per l’occasione, che prevede di spogliare musicalmente alcune canzoni, rivestendole di ricordi con dedica speciale a persone scomparse fisicamente ma vive nella mia memoria. Una di queste, ça va sans dire, sarà dedicata al giornalista Antonio Russo, perché, come scritto nel grande poster affisso davanti alla vecchia palestra “Finché ti ricorderai di noi, noi saremo vivi!”  

 

La giornata di ieri è stata storica e indimenticabile. Ultimo, il Capitano Ultimo, ha aperto da anni le porte della sua Casa Famiglia ai più emarginati, poveri e dimenticati della nostra società, sempre più globalizzata e orientata alla corsa verso il denaro. Nella sua casa, persone in difficoltà hanno trovato non solo un tetto e un lavoro, ma soprattutto dignità e una vera famiglia.

Un esempio significativo è quello di una famiglia del Montenegro, che ha trovato rifugio e accoglienza grazie al Capitano. Non si è limitato a dare loro supporto, ma ha voluto conoscere i loro familiari – nipoti, cugini e parenti – dimostrando, come sempre, grande empatia verso i più deboli, che siano oppressi dalle situazioni della vita, dalle mafie o da una politica spesso poco attenta.

In questo spirito di inclusione, anche la comunità Rom è stata sempre vicina al Capitano Ultimo, condividendone i valori e l'impegno. La giornata di ieri è stata arricchita da un momento particolare: la preparazione del "Cazan", una grappa tradizionale balcanica realizzata con un alambicco in rame artigianale, costruito da un Rom residente in via Salviati. Ho avuto il piacere di assaggiarla personalmente, ed è stata così forte e autentica da farmi crollare appena rientrato a casa! Un'esperienza unica, che non troverete da nessun'altra parte se non nella Casa Famiglia di Capitano Ultimo, dove si rispettano e si mantengono vive le tradizioni e la cultura degli ospiti.

 

Si è svolta a il 30 Settembre presso l’Università di Studi a Distanza di San José di Costarica la conferenza di presentazione della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza che è possibile riascoltare sul canale della UNED https://www.youtube.com/watch?v=iRO62j4EL5g

 Il 2 ottobre 2024, Giornata Internazionale della Nonviolenza, partirà da San José di Costarica la Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza dove tornerà, dopo aver fatto il giro del pianeta, il 5 gennaio del 2025. Il Costarica è stato scelto come luogo di partenza e arrivo della Marcia per la sua caratteristica di stato senza esercito, fattore molto significativo in quest’epoca di conflitti e guerre. 

La partenza della Marcia verrà trasmessa in diretta a partire dalle 9 del mattino, ora di San José (le 18 europee) nel canale  dell’Università UNED https://www.youtube.com/@OndaUNEDcr 

A San José, a partire dalla sede universitaria,  si svolgeranno numerose attività per tutto il giorno: discorsi delle autorità pubbliche, dell’Università e dell’Equipe Base della Marcia,  la cerimonia di Impegno Etico, la realizzazione da parte degli studenti del simbolo umano della nonviolenza,   una vera e propria marcia per le vie di San José, dove i marcianti dell’Equipe Base verranno accompagnati dalla popolazione locale. 

La Marcia partirà idealmente in contemporanea anche in tutte le località del mondo con le celebrazioni del compleanno di Gandhi, dichiarato nel 2007 dall’ONU Giornata Mondiale della Nonviolenza, con numerose attività nelle scuole, nelle piazze, realizzazione di simboli umani. 

Sito ufficiale della Marcia: http://www.theworldmarch.org 

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Maria Montessori in India

Maria Montessori, in una conferenza del 1937,  ci descrive l’uomo contemporaneo, come un uomo “male sviluppato”, generato da un sistema sociale e scolastico autoritario e deresponsabilizzante,  una sorta di “omuncolo” immerso in un mondo in cui dominano confusione e contraddizioni, all’interno del quale non sa neppure “se è ricco o povero, se è sano o malato”.

In lui regna l’ansietà, o addirittura l’angoscia propria del malato: la cosiddetta “ansia della vita”, ovvero, l’assillante interrogativo del “Come vivrò?”.

“Per questo fine ansioso, che ripete l’ansia dei nevropatici” - prosegue la pedagogista -  l’uomo è disposto anche a tutto sacrificare. E, mentre gli uomini del passato, di fronte agli enigmi del vivere, si rifugiavano nel “Dio provvede”, e nel loro mondo “c’era ancora spazio per l’uomo povero in mezzo ad uomini poveri, e l’individuo era pronto a sacrificare se stesso per il bene di un suo simile”, nel nostro tempo l’ansia divorante di vivere sarebbe simile alla “disperata volontà di salvarsi da un incendio”.

Pur di soddisfare la propria ansia di vita, l’uomo dei nostri giorni sarebbe pertanto  pronto a rinunciare segretamente a qualunque cosa, anche a mettere in soffitta i propri principi, anche ad assassinare la propria coscienza, fino a dare le “dimissioni” dalla stessa dimensione umana.

Vittime di un’organizzazione socio-culturale che idolatra il successo, la competitività e l’arrivismo, gli “uomini di oggi vanno pel mondo inariditi e isolati” e dalla loro unione non può scaturire nessun vero progresso né tantomeno una qualsiasi “elevazione morale”.

Essi sono come granelli di sabbia nell’immensità del deserto: “tutti ammassati  e tutti separati”. Ognuno rinchiuso nella propria dimensione egoica, e, nello stesso tempo, parte indistinta di una massa sterile e anonima, indifesa di fronte all’azione della furia dei venti. La vera minaccia incombente sull’umanità – ci dice, a pochi mesi dall’inizio del secondo conflitto mondiale – è costituita dalla ”disperata aridità” interiore.

E il vero pericolo dell’umanità è rappresentato da quello che efficacissimamente viene definito “il vuoto delle anime”. Perché la natura non tollera il vuoto e perché le anime vuote, di conseguenza, in tutti i tempi, sono destinate a venire facilmente riempite, senza opporre resistenza, dalle ideologie più irrazionali, dai sentimenti più perversi, dagli impulsi più folli e distruttivi.

Da grande educatrice e da terapeuta dell’anima, le sue parole non si limitano, però, ad una allarmistica diagnosi, intrisa di pessimismo schopenhaueriano e velata da sussulti nostalgici:

questa umanità passiva, pavida e malata può essere curata, guarita, liberata.

 Se il problema è l’aridità del suolo, infatti, quello che occorre è “un po’ d’acqua spirituale” capace di far crescere “un poco di vita”: perché grazie ad essa la sabbia potrà sempre trasformarsi in terreno fertile.

Maria Montessori, con il figlio Mario e G.S.
Arundale  (Presidente mondiale della Società
Teosofica) con la consorte Rukmini Devi

 

Nella Formazione dell’uomo (opera apparsa dopo il suo importantissimo soggiorno in India, negli anni terribili della guerra, presso la sede internazionale della Società Teosofica in Adyar), Montessori riprende questo tema, con rinnovata fiducia nell’avvenire.

La diagnosi di partenza sulle condizioni dell’umanità si riconferma dolorosamente cupa:

“La schiavitù – scrive – va crescendo rapidamente e prende forme che non emersero mai nel passato” e  la condizione di “impotenza umana” ha raggiunto livelli massimi.

“Nessuno ha sicura la vita: può essere intimata una guerra assurda dove tutti – uomini giovani e vecchi, donne e bambini – sono in pericolo di morte. Si bombardano le abitazioni e le genti devono rifugiarsi in sotterranei, come gli uomini primitivi si rifugiavano nelle caverne per difendersi dalle belve feroci. L’alimento può sparire e milioni di uomini morire di fame e di pestilenza. (…) Le famiglie si dividono, si spezzano; i bambini restano abbandonati e girano a torme come selvaggi. Questo - sottolinea - non è solo per i popoli vinti nella guerra: è per tutti.

                                                   E’ l’umanità stessa che è vinta e fatta schiava.”

 

Ma ad una realtà in cui l’immoralità, la viltà e la violenza sono divenute “forme consuete dell’ esistenza”

è pur sempre possibile ribellarsi, mettendo da parte rassegnazione e illusioni consolatorie.

L’umanità è chiamata (forse destinata?) a liberarsi, “guarendo dalla sua follia e diventando conscia del suo potere.”

“Bisogna – scrive – che l’uomo raccolga tutti i suoi valori vitali, le sue energie, che le sviluppi, si prepari alla sua liberazione.

Non è più il tempo di combattersi gli uni con gli altri, di cercare di sopraffarsi;

si deve guardare all’uomo solo con lo scopo di elevarlo, di spogliarlo dei legami inutili che si sta creando e lo spingono verso l’abisso della demenza.

 La forza nemica sta nell’impotenza dell’uomo rispetto ai suoi stessi prodotti, sta nell’arresto di sviluppo dell’umanità.”

Quello che ci può salvare, è l’avvento di una vera e propria “rivoluzione universale”.

“Come si aiuta un malato nell’ospedale, perché ritrovi la salute e possa continuare a vivere, così oggi si tratta di aiutare l’umanità a salvarsi. Noi dobbiamo essere degli infermieri in questo ospedale, vasto come il mondo.”

Due strade - ci spiega - sono possibili: quella dell’uomo che possiede e quella dell’uomo che ama.

 La prima è quella dell’uomo schiavo del desiderio di possesso e dell’odio.

 La seconda è quella dell’uomo che ha conquistato la sua indipendenza interiore e che ha imparato ad associarsi con gli altri in modo armonioso, coltivando il sentimento d’amore verso tutti gli esseri viventi, facendo vivere dentro di sé speranza e luce.

L’umanità dell’inizio del nuovo millennio, dopo quasi un secolo, non sembra ancora molto diversa da quella descritta dalla meravigliosa maestra di Chiaravalle.

Forse, soltanto facendoci tutti noi consapevoli e volenterosi “infermieri” capaci di seminare e coltivare amore nel grande corpo malato del mondo, sarà possibile salvarlo dal precipitare nell’ “abisso della demenza”.

Un’evoluzione pacifica della società umana potrà scaturire soltanto dall’affermarsi nella coscienza collettiva del sentimento dell’armonia cosmica e dalla fiducia nell’esistenza di quello che, nella sua esperienza indiano-teosofica degli anni ‘40, Montessori chiamerà l’ “occulto comando che armonizza il tutto”  e che “tende a creare un mondo migliore”, basato sulla “collaborazione di tutti gli esseri, animati e inanimati” (Educazione per un mondo nuovo).

A suo avviso, nonostante la drammaticità della situazione del mondo contemporaneo, già nel suo tempo era possibile scorgere segni evidenti dell’avvento di una nuova umanità:

“dalle tenebre del dubbio e della paura che gravano sul genere umano, ormai s’intravede la luce che le dissiperà perché è già iniziata la società nuova.”

Impossibile non augurarsi che, al di là delle apparenze oltremodo inquietanti,  la “nuova umanità”  e il “nuovo mondo”, annunciati da Maria Montessori nei suoi ultimi anni di vita terrena, siano davvero realtà viventi oggettivamente in costruzione e non soltanto il sogno nobilissimo della sua personale evoluzione mistica, non soltanto la generosa proiezione del suo luminoso sperare.

 

 

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*PER APPROFONDIRE:

  • Paola Giovetti, Maria Montessori. Una biografia, Mediterranee, Roma 2009.
  • Maria Montessori, Educazione per un mondo nuovo, Garzanti, Milano 2018.
  • Roberto Fantini, Maria Montessori, Teosofica maestra di Pace, Efesto, Roma 2020.

 

 

 

 

                           

                                                 “Io so chi sono e quello che sono.

Sono un indiano, un indiano che ha osato lottare per difendere il suo popolo.

Io sono un uomo innocente che non ha mai assassinato nessuno, né inteso farlo.

 E, sì, sono uno che pratica la Danza del Sole.

Anche questa e' la mia identità.

Se devo soffrire in quanto simbolo del mio popolo, allora soffro con orgoglio.

 

                                                                    Non cederò mai.” 

                                                                                                                                Leonard Peltier

 

 

 

                            Leonard Peltier, nativo della comunità Anishinaabe-Lakota, è un attivista del Movimento indiano americano, organizzazione che promuove i diritti dei nativi americani. Durante uno scontro che coinvolse membri del Movimento nella riserva indiana di Pine Ridge nel South Dakota, nell’ormai lontanissimo 26 giugno 1975, rimasero uccisi gli agenti dell’Fbi Ronald Williams e Jack Coler. Due anni dopo, giudicato colpevole, venne condannato a due ergastoli.

Leonard Peltier ha sempre negato la sua colpevolezza. Myrtle Poor Bear (nativa Lakota che viveva a Pine Ridge) è stata una presunta testimone chiave della sparatoria. Successivamente, ritrattò la sua testimonianza, e, nel 2000, dichiarò pubblicamente che la sua testimonianza originale era scaturita da mesi di minacce e molestie da parte degli agenti dell’Fbi.

 

Leonard Peltier è da molto tempo in precarie condizioni di salute: soffre di malattie renali, diabete di tipo 2, ipertensione, una malattia degenerativa delle articolazioni e della costante mancanza di respiro e vertigini. Nel 1986 un ictus lo ha reso praticamente cieco da un occhio. Nel gennaio 2016, i medici hanno diagnosticato che le sue condizioni di salute mettevano la sua vita in pericolo, soprattutto a causa di un aneurisma dell’aorta addominale di grandi dimensioni e potenzialmente fatale, tale da rompersi in qualsiasi momento e provocare la sua morte. A causa della mobilità limitata, attualmente utilizza un deambulatore.

Importanti personalità, come Nelson Mandela, Desmond Tutu, Rigoberta Menchù, il Dalai Lama, papa Francesco, hanno chiesto la sua liberazione, così come grandi associazioni umanitarie, come Amnesty International e il Movimento Nonviolento, nonché milioni di comuni cittadini di tutto il mondo.

 Anche istituzioni rappresentative come l'Onu (che sulla vicenda di Leonard Peltier si e' pronunciata attraverso una commissione giuridica ad hoc) e come il Parlamento Europeo (fin dagli anni Novanta, ed ancora qualche anno fa con l’allora Presidente David Sassoli) hanno chiesto la sua liberazione, così pure la tribù Standing Rock Sioux e il Congresso nazionale degli indiani americani. 

Il suo avvocato, nel 2021, ha chiesto la grazia al presidente Biden, il quale si è impegnato a concederla su base continuativa durante la sua amministrazione e non alla fine del suo mandato.

Tuttavia, ad oggi, non è stata presa alcuna decisione a riguardo. 


Leonard Peltier e' stato condannato per un delitto che non ha commesso:

e' stato definitivamente dimostrato che le testimonianze contro di lui erano false e che le prove contro di lui erano altrettanto false.
In tutti questi anni, dal carcere, ha sostenuto con la parola e con la testimonianza, innumerevoli iniziative nonviolente in difesa dei popoli e delle persone cui venivano negati i diritti più elementari, in difesa del mondo vivente minacciato di irreversibili devastazioni.

Anche in condizioni di particolare durezza, infatti, Leonard Peltier è riuscito a svolgere un'intensa attività di sensibilizzazione e di militanza; un'attività non solo di riflessione e d'impegno morale, sociale e politico, ma anche artistica e letteraria. Nel corso degli anni, è diventato sempre più un punto di riferimento in tutto il mondo, come accadde per Nelson Mandela, negli anni di prigionia nelle carceri del regime dell'apartheid.

La richiesta di un nuovo pronunciamento giudiziario è stata sempre respinta, così come gli sono state negate le altre guarentigie riconosciute a tutti i detenuti.

Nel 1983 e poi, in seconda edizione nel 1991, venne pubblicato il libro di Peter Matthiessen che fa piena luce sulla persecuzione subita da Leonard Peltier, mentre nel 1999, venne pubblicata l'autobiografia di Leonard Peltier (presto tradotta anche in francese, italiano, spagnolo e tedesco).

Amnesty International, in particolare, sostiene la richiesta di grazia per Leonard Peltier

  • a causa dei numerosi problemi relativi al processo,
  • dell’esaurimento di ogni possibilità di ricorso in appello,
  • della quantità di tempo che ha già trascorso in carcere,
  • del suo continuo perseverare nel dichiarare la sua innocenza
  • e dei suoi problemi cronici di salute.*

 


                                                   Nella sua autobiografia ha scritto:

 

                                              "Tutti facciamo parte dell'unica famiglia dell'umanità.

Noi condividiamo la responsabilità per la nostra Madre Terra e per tutti quelli che ci vivono e respirano.

Credo che il nostro compito non sarà terminato fin quando anche un solo essere umano sarà affamato o maltrattato,

una sola persona sarà costretta a morire in guerra,

un solo innocente languirà in prigione

e un solo individuo sarà perseguitato per le sue opinioni.

Credo nel bene dell'umanità.

Credo che il bene possa prevalere,

ma soltanto se vi sarà un grande impegno.

                                           Impegno da parte nostra, di ognuno di noi, tuo e mio".

 

Come ha efficacemente scritto Peppe Sini:


“Leonard Peltier rappresenta l'intera umanità oppressa in lotta per la comune liberazione e per la difesa dell'intero mondo vivente minacciato di distruzione dai poteri dominanti.

La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la Resistenza degli indiani d'America vittime di un genocidio, di un etnocidio e di un ecocidio che tuttora continuano e che occorre contrastare.

La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la lotta di tutti i popoli e di tutti gli esseri umani oppressi e denegati dalla violenza dei poteri dominanti.

La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la lotta dell'umanità cosciente in difesa del mondo vivente dalla minaccia di distruzione da parte di un sistema di potere, di un modo di produzione e di un modello di sviluppo che schiavizzano, divorano e distruggono gli esseri umani, gli altri animali, l'intero mondo vivente.

La lotta di Leonard Peltier e la lotta per la sua liberazione sono quindi parte di un impegno in difesa della vita, della dignità e dei diritti di tutti gli esseri umani, di un impegno per la salvezza dell'intero mondo vivente.”

 

                                                     Il 12 settembre, Leonard compirà 80 anni.

Il nostro augurio affettuoso è che, dopo 50 anni di prigionia, prima di abbandonare questo mondo di ingiustizia, possa essere nuovamente illuminato dalla luce del sole ed abbracciato dalla luce delle stelle.

 

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Cenni biografici**

 

Leonard Peltier nasce a Grand Forks, nel North Dakota, il 12 settembre 1944.

Nell'infanzia, nell'adolescenza e nella prima giovinezza subisce pressoché tutte le vessazioni, tutte le umiliazioni, tutti i traumi e l'emarginazione che il potere razzista bianco infligge ai nativi americani. Nella sua autobiografia questo processo di brutale alienazione ed inferiorizzazione e' descritto in pagine profonde e commoventi.

Nei primi anni Settanta, incontra l'American Indian Movement (Aim), fondato nel 1968 proprio per difendere i diritti e restituire coscienza della propria dignità ai nativi americani; e, con l'impegno nell'Aim, riscopre l'orgoglio di essere indiano - la propria identità, il valore della propria cultura, e quindi la lotta per la riconquista dei diritti del proprio popolo e di tutti i popoli oppressi.

Partecipa, nel 1972, al "Sentiero dei trattati infranti", la carovana di migliaia di indiani che attraversa gli Stati Uniti e si conclude a Washington, con la presentazione delle rivendicazioni contenute nel documento detto dei "Venti punti" che il governo Nixon non degna di considerazione, e con l'occupazione del Bureau of Indian Affairs.

Dopo l'occupazione nel 1973 da parte dell'Aim di Wounded Knee (il luogo del massacro del 1890 assurto a simbolo della memoria del genocidio delle popolazioni native commesso dal potere razzista e colonialista bianco),  nella riserva di Pine Ridge - in cui Wounded Knee si trova - si scatena la repressione: i nativi tradizionalisti ed i militanti dell'Aim unitisi a loro nel rivendicare l'identità, la dignità e i diritti degli indiani, vengono perseguitati e massacrati dagli squadroni della morte del corrotto presidente del consiglio tribale Dick Wilson: uno stillicidio di assassinii in cui i sicari della polizia privata di Wilson (i famigerati "Goons") sono favoreggiati dall'Fbi che ha deciso di perseguitare l'Aim ed eliminarne i militanti con qualunque mezzo.

Nel 1975, per difendersi dalle continue aggressioni dei Goons di Wilson, alcuni residenti tradizionalisti chiedono l'aiuto dell'Aim, un cui gruppo di militanti viene ospitato nel ranch della famiglia Jumping Bull in cui organizza un campo di spiritualita'.

Proprio in quel lasso di tempo, Dick Wilson sta anche trattando in segreto la cessione di una consistente parte del territorio della riserva alle compagnie minerarie.

Il 26 giugno 1975, avviene l'"incidente a Oglala", ovvero la sparatoria scatenata dall'Fbi che si conclude con la morte di due agenti dell'Fbi, Jack Coler e Ronald Williams, e di un giovane militante dell'Aim, Joe Stuntz, e la successiva fuga dei militanti dell'Aim superstiti guidati da Leonard Peltier che riescono ad eludere l'accerchiamento da parte dell'Fbi e degli squadroni della morte di Wilson.

Mentre nessuna inchiesta viene aperta sulla morte della giovane vittima indiana della sparatoria, così come nessuna adeguata inchiesta era stata aperta sulle morti degli altri nativi assassinati nei mesi e negli anni precedenti da parte dei Goons, l'Fbi scatena una vasta e accanita caccia all'uomo per vendicare la morte dei suoi due agenti: in un primo momento vengono imputati dell'uccisione dei due agenti quattro persone: Jimmy Eagle, Dino Butler, Leonard Peltier e Bob Robideau.

Dino Butler e Bob Robideau vengono arrestati non molto tempo dopo, processati a Rapid City ed assolti perché viene loro riconosciuta la legittima difesa.

A quel punto, l'Fbi decide di rinunciare a perseguire Jimmy Eagle e di concentrare le accuse su Leonard Peltier, che nel frattempo e' riuscito a riparare in Canada; lì viene arrestato ed estradato negli Usa sulla base di una "testimone" che successivamente rivelerà di essere stata costretta dall'Fbi a dichiarare e sottoscrivere quelle flagranti falsità.

Peltier viene processato non a Rapid City, come i suoi compagni già assolti per legittima difesa, ma a Fargo, da una giuria di soli bianchi, in un contesto razzista fomentato dall'Fbi.

Viene condannato a due ergastoli nonostante sia ormai evidente che le testimonianze contro di lui fossero false, estorte ai testimoni dall'Fbi con gravi minacce, e nonostante che le cosiddette prove contro di lui fossero altrettanto false.

 

La solidarieta' in Italia

 

Anche in Italia si e' sviluppato un movimento di solidarieta' con Leonard Peltier, che nel corso dei decenni ha avuto diverse fasi legate a circostanze particolari.

Con l'elezione di Biden alla Casa Bianca nel 2021 vi e' stata una significativa ripresa delle iniziative.

Una nuova campagna - con una peculiare impostazione nonviolenta - e' stata promossa dal giugno 2021 dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo (This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)

 

Per contattare l'"International Leonard Peltier Defense Committee": sito: wwww.whoisleonardpeltier.info, e-mail: contact at whoisleonardpeltier.info

Alcuni siti utili: Centro studi americanistici "Circolo Amerindiano": www.amerindiano.org ; Il Cerchio, coordinamento di sostegno ai/dai nativi americani: www.associazioneilcerchio.it ; Soconas Incomindios, comitato di solidarieta' con i nativi americani: https://it-it.facebook.com/soconasincomindios/ 

 

* Stati Uniti: chiediamo la grazia per Leonard Peltier! - Appelli - Amnesty International Italia

 

** https://lists.peacelink.it/nonviolenza/2022/03/msg00001.html

 

 

 

 

 

Dopo giorni e giorni passati a discutere animatamente in merito ad un surreale incontro di pugilato femminile durato meno di un minuto (interrotto, così sembra, perché, come asseriva un tristissimo personaggio interpretato da Vittorio Gassman, “i cazzotti fanno male”), credo che potremmo cogliere l’occasione per riproporre una questione molto dimenticata ma di importanza cruciale:

 la boxe merita davvero di essere considerata uno sport o dovrebbe, al contrario, essere abolita?

Umberto Veronesi, qualche anno fa, dopo l’ennesimo pugile morto sul ring (il giovane messicano Francisco Leal), constatava che la boxe è contraddistinta da una ben precisa peculiarità:

l’avere “come finalità quella di far male all’avversario”.

E, ricordando che nel corso del XX secolo sono stati più di 500 gli atleti  morti in seguito ai colpi incassati in combattimento, sottolineava che tutti gli altri sport, anche i più pericolosi, sono, invece,

 “puntati a un risultato di vittoria che non implica il danno dell’atleta, anzi lo vuole evitare.” 1)  

Ma, in ambito medico, la voce dell’illustre oncologo non costituisce certo una posizione isolata. Basti pensare che l’ Assemblea Medica Mondiale, riunitasi a Venezia nell’ottobre 1983 presso la Fondazione Giorgio Cini, presentò una risoluzione auspicante l’interdizione della boxe.

Chiarissime furono, allora, le parole di Bruno Baruchello, capo della delegazione italiana:

“La boxe è l’unico sport nel quale la regola è quella di abbattere l’avversario”;

 “I pugni, anche quelli che possono sembrare più innocui, a lungo andare provocano conseguenze croniche.”

Insomma, siccome il pugile sul ring ha come massimo obiettivo (quello più ricercato e, nello stesso tempo, quello più atteso dagli stessi spettatori) il logoramento sistematico dell’ avversario, con lo scopo di abbatterlo, ovvero di metterlo  knock-out  (K.O.), questo comporta, di fatto e di diritto, la legittimazione di atti aventi la potenzialità di provocare danni gravissimi e permanenti, ivi inclusi  traumi cranici violentissimi, dalle conseguenze anche letali. In tutti gli altri sport, invece, sussisterebbe, entro certi limiti, soltanto la mera possibilità di fare male e di farsi male, ma mai come obiettivo desiderato, né tantomeno  autorizzato.

E oltre ai casi mortali, tutti gli studi scientifici condotti hanno evidenziato come i pugili siano sottoposti a rischio rilevante di lesioni gravi alla testa, al cuore e allo scheletro, come conseguenze subacute riscontrate successivamente a sintomi accusati dopo gli incontri: mal di testa, problemi di udito, nausea, andatura instabile, perdita della memoria.

Secondo una ricerca dell’American Association of Neurological Surgeons,

a subire lesioni cerebrali sarebbe addirittura il 90% dei pugili.

Pochi si rendono conto, d’altronde, che un colpo diretto alla testa ben assestato corrisponde all’impatto con una palla da bowling di circa 6 kg viaggiante a 30 km/h! 2) 

“Oltre ai rischi comuni a ogni trauma cranico del genere, - scriveva Massimo Sandal nel 2019, dopo l’ennesima tragedia – i colpi presi durante un incontro di boxe tendono a far ruotare la testa, mettendo in forte tensione nervi e vasi sanguigni, aumentando il rischio rispetto ad altri sport dove i traumi cranici sono comuni, come il football americano. I colpi durante la boxe inoltre sono ripetuti in un tempo breve. Quando il pugile  inizia a essere suonato, rilassa i muscoli del collo, il che significa una accelerazione maggiore della testa al colpo successivo – e quindi più alta probabilità di danni gravi al cervello. (…)

Una percentuale significativa di pugili - fino al 50% - soffre danni neurologici a lungo termine, e di questi il 17-20% presenta segni netti di encefalopatia traumatica cronica. I sintomi vanno dalla perdita dell’equilibrio (con un’andatura simile a quella di un ubriaco – da cui il termine gergale di lingua inglese punch drunk, letteralmente ubriaco di pugni) a tremori, vertigini, sordità, deterioramento cognitivo e dell’umore. 3)

La Chiesa Cattolica, nello scorso secolo, soprattutto intorno agli anni Sessanta (secondo la rivista Ring, solo nel 1962 sarebbero stati ben quattordici i pugili deceduti in seguito alla loro attività sportiva), intervenne più volte, con giudizi di severa condanna.

L’autorevole rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica, proprio in quell’anno terribile, pubblicò un articolo, intitolato Il pugilato professionistico e la morale (La Civiltà Cattolica, 1962, II, pp. 160-163 ), in cui si affermava con estrema fermezza che era

 “nella natura stessa del pugilato professionistico (ed in misura minore, ma ugualmente grave per le conseguenze pratiche, del pugilato dilettantistico) produrre gravi lesioni al cervello (culminanti talvolta nella morte)”.

 In questo modo, venne favorito un acceso dibattito a cui  fornirono il loro contributo anche numerosi quotidiani, dal New York Daily Mirror al New York Times, che arrivarono ad avanzare la richiesta di abolire gli incontri di pugilato.

Sempre nello stesso anno, dopo la morte del pugile Benny Kid Paret, L’Osservatore Romano  sollevò nuovamente la questione della liceità o illiceità del pugilato, con un articolo intitolato: Massacrare è sportivo?

In seguito, poi, alla morte in diretta televisiva del pugile Davey Moore (21 marzo 1963), in un incontro con Sugar Ramos, sempre L’Osservatore Romano intervenne perentorio, sottolineando

l’ “immoralità di uno sport che attenta all’integrità della persona fisica degli atleti gratuitamente e stoltamente e nella triste cornice della passionalità  scatenata del pubblico”,

e concludendo col mettere in luce l’inconsistenza dell’argomentazione più ricorrente usata dai difensori della boxe:

 “Non si dica che anche gli altri sport, auto, ciclismo, alpinismo, calcio, possono provocare tragedie e costare vittime. In quegli sport la disgrazia non può essere che accidentale e, del resto, anche per essi vale l’obbligo del limite ragionevole e della prudenza cristiana. Ma nel pugilato l’essenza è l’offesa fisica contro l’avversario. Fissare un punto limite o stabilire una sicurezza certa nell’impetuoso gioco, alla luce dell’esperienza sembra pura illusione. E la persona umana va salvaguardata, non distrutta. Va educata non abbrutita”    (Ribalta dei fatti: Lo stadio o il circo? in “Osservatore Romano”, 27 marzo 1963, p. 2).

In passato, quindi, la Chiesa (riprendendo le note riflessioni di Agostino contro le pratiche gladiatorie) ha in più circostanze espresso una chiara condanna della boxe, essenzialmente per due ragioni:

  1. la sua caratteristica di mirare a colpire con la massima forza possibile l’avversario, fino al punto di metterne in pericolo l’incolumità;
  2. il clima infernale di degradazione morale che circonda gli incontri e che viene ad essere stimolato proprio dall’esibizione feroce della violenza sul ring.

In base a tali constatazioni, la campagna stampa vaticana arrivò a sostenere l’impossibilità di attribuire al pugilato

“il valore di sport, poiché, se il fine di questo è il raggiungimento della perfezione umana, direttamente sotto l’aspetto fisico, ma con ripercussioni anche sul piano spirituale, non può certo dirsi sport una lotta, il cui normale risultato è di stroncare fisicamente e rovinare spiritualmente il suo protagonista.”4) 

 

Posizioni queste che, dal pontificato di Paolo VI fino a papa Bergoglio, sono andate lentamente attenuandosi, fino ad essere oramai del tutto accantonate, probabilmente nella prospettiva di rendere un po’

Umberto Veronesi

meno impopolare ed intransigente l’etica cristiana (si veda, in particolare, il cordiale incontro di papa Francesco con le delegazioni pugilistiche di Italia e Argentina, nell’ottobre 2019).

Quali le tesi sostenute dai difensori della boxe, a cui anche il mondo cattolico ha finito gradualmente per avvicinarsi?

 Direi che siamo di fronte a tentativi goffi e fastidiosamente retorici di relativizzare i contro (“ci sono tanti altri sport molto pericolosi”; “chi accetta di fare pugilato esercita consapevolmente il proprio libero arbitrio”; “la vera violenza è quella fuori dagli stadi”, ecc.) e di esaltare i (presunti) pro: la boxe sarebbe formativa per quanto riguarda il rafforzamento del carattere; svolgerebbe una preziosa funzione di educazione all’autocontrollo e al rispetto dell’avversario; in tanti casi, la pratica pugilistica ha allontanato giovani sbandati dalla via del crimine, ecc.

A conti fatti, ben poco di razionale e di ragionevole.

Insomma, una volta tanto che teologia e scienza appaiono in piena sintonia, credo che sarebbe oltremodo auspicabile che la questione venisse affrontata senza pregiudizi di sorta, trasferendola, però, sul piano di un laicissimo dibattito etico-civile.

Ciò al fine di  poter esaminare, in chiave rigorosamente filosofica, la compatibilità dell’ideologia sottostante alla pratica pugilistica con i valori fondativi della cultura dei diritti umani (come quello di solidarietà e di fraternità), e, in particolare, con il principio dell’inviolabilità dell’integrità fisica individuale e della dignità morale della persona, nonché con la teoria e la prassi dell’educazione alla pace e alla nonviolenza.

Bandire la boxe dalla grande famiglia dello sport non costituirebbe certo una “rivoluzione copernicana”, né potrebbe certo renderci immediatamente tutti più pacifici e meno aggressivi, ma potrebbe rappresentare, però, una significativa scelta dalla forte valenza simbolica e dall’efficace messaggio educativo.

 

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NOTE

  1. Ma perché si permette che la boxe uccida l’avversario? | Fondazione Umberto Veronesi (fondazioneveronesi.it)
  2. Gli infortuni più probabili nella boxe | DAZN News IT
  3. Dovremmo abolire la boxe? | Wired Italia
  4. Boxe e morale cattolica: da «omicidio legalizzato» a strumento di promozione umana (rivistadirittosportivo.it)

 

 

 

 

 

 

 

 

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