L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Dopo giorni e giorni passati a discutere animatamente in merito ad un surreale incontro di pugilato femminile durato meno di un minuto (interrotto, così sembra, perché, come asseriva un tristissimo personaggio interpretato da Vittorio Gassman, “i cazzotti fanno male”), credo che potremmo cogliere l’occasione per riproporre una questione molto dimenticata ma di importanza cruciale:
la boxe merita davvero di essere considerata uno sport o dovrebbe, al contrario, essere abolita?
Umberto Veronesi, qualche anno fa, dopo l’ennesimo pugile morto sul ring (il giovane messicano Francisco Leal), constatava che la boxe è contraddistinta da una ben precisa peculiarità:
l’avere “come finalità quella di far male all’avversario”.
E, ricordando che nel corso del XX secolo sono stati più di 500 gli atleti morti in seguito ai colpi incassati in combattimento, sottolineava che tutti gli altri sport, anche i più pericolosi, sono, invece,
“puntati a un risultato di vittoria che non implica il danno dell’atleta, anzi lo vuole evitare.” 1)
Ma, in ambito medico, la voce dell’illustre oncologo non costituisce certo una posizione isolata. Basti pensare che l’ Assemblea Medica Mondiale, riunitasi a Venezia nell’ottobre 1983 presso la Fondazione Giorgio Cini, presentò una risoluzione auspicante l’interdizione della boxe.
Chiarissime furono, allora, le parole di Bruno Baruchello, capo della delegazione italiana:
“La boxe è l’unico sport nel quale la regola è quella di abbattere l’avversario”;
“I pugni, anche quelli che possono sembrare più innocui, a lungo andare provocano conseguenze croniche.”
Insomma, siccome il pugile sul ring ha come massimo obiettivo (quello più ricercato e, nello stesso tempo, quello più atteso dagli stessi spettatori) il logoramento sistematico dell’ avversario, con lo scopo di abbatterlo, ovvero di metterlo knock-out (K.O.), questo comporta, di fatto e di diritto, la legittimazione di atti aventi la potenzialità di provocare danni gravissimi e permanenti, ivi inclusi traumi cranici violentissimi, dalle conseguenze anche letali. In tutti gli altri sport, invece, sussisterebbe, entro certi limiti, soltanto la mera possibilità di fare male e di farsi male, ma mai come obiettivo desiderato, né tantomeno autorizzato.
E oltre ai casi mortali, tutti gli studi scientifici condotti hanno evidenziato come i pugili siano sottoposti a rischio rilevante di lesioni gravi alla testa, al cuore e allo scheletro, come conseguenze subacute riscontrate successivamente a sintomi accusati dopo gli incontri: mal di testa, problemi di udito, nausea, andatura instabile, perdita della memoria.
Secondo una ricerca dell’American Association of Neurological Surgeons,
a subire lesioni cerebrali sarebbe addirittura il 90% dei pugili.
Pochi si rendono conto, d’altronde, che un colpo diretto alla testa ben assestato corrisponde all’impatto con una palla da bowling di circa 6 kg viaggiante a 30 km/h! 2)
“Oltre ai rischi comuni a ogni trauma cranico del genere, - scriveva Massimo Sandal nel 2019, dopo l’ennesima tragedia – i colpi presi durante un incontro di boxe tendono a far ruotare la testa, mettendo in forte tensione nervi e vasi sanguigni, aumentando il rischio rispetto ad altri sport dove i traumi cranici sono comuni, come il football americano. I colpi durante la boxe inoltre sono ripetuti in un tempo breve. Quando il pugile inizia a essere suonato, rilassa i muscoli del collo, il che significa una accelerazione maggiore della testa al colpo successivo – e quindi più alta probabilità di danni gravi al cervello. (…)
Una percentuale significativa di pugili - fino al 50% - soffre danni neurologici a lungo termine, e di questi il 17-20% presenta segni netti di encefalopatia traumatica cronica. I sintomi vanno dalla perdita dell’equilibrio (con un’andatura simile a quella di un ubriaco – da cui il termine gergale di lingua inglese punch drunk, letteralmente ubriaco di pugni) a tremori, vertigini, sordità, deterioramento cognitivo e dell’umore. 3)
La Chiesa Cattolica, nello scorso secolo, soprattutto intorno agli anni Sessanta (secondo la rivista Ring, solo nel 1962 sarebbero stati ben quattordici i pugili deceduti in seguito alla loro attività sportiva), intervenne più volte, con giudizi di severa condanna.
L’autorevole rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica, proprio in quell’anno terribile, pubblicò un articolo, intitolato Il pugilato professionistico e la morale (La Civiltà Cattolica, 1962, II, pp. 160-163 ), in cui si affermava con estrema fermezza che era
“nella natura stessa del pugilato professionistico (ed in misura minore, ma ugualmente grave per le conseguenze pratiche, del pugilato dilettantistico) produrre gravi lesioni al cervello (culminanti talvolta nella morte)”.
In questo modo, venne favorito un acceso dibattito a cui fornirono il loro contributo anche numerosi quotidiani, dal New York Daily Mirror al New York Times, che arrivarono ad avanzare la richiesta di abolire gli incontri di pugilato.
Sempre nello stesso anno, dopo la morte del pugile Benny Kid Paret, L’Osservatore Romano sollevò nuovamente la questione della liceità o illiceità del pugilato, con un articolo intitolato: Massacrare è sportivo?
In seguito, poi, alla morte in diretta televisiva del pugile Davey Moore (21 marzo 1963), in un incontro con Sugar Ramos, sempre L’Osservatore Romano intervenne perentorio, sottolineando
l’ “immoralità di uno sport che attenta all’integrità della persona fisica degli atleti gratuitamente e stoltamente e nella triste cornice della passionalità scatenata del pubblico”,
e concludendo col mettere in luce l’inconsistenza dell’argomentazione più ricorrente usata dai difensori della boxe:
“Non si dica che anche gli altri sport, auto, ciclismo, alpinismo, calcio, possono provocare tragedie e costare vittime. In quegli sport la disgrazia non può essere che accidentale e, del resto, anche per essi vale l’obbligo del limite ragionevole e della prudenza cristiana. Ma nel pugilato l’essenza è l’offesa fisica contro l’avversario. Fissare un punto limite o stabilire una sicurezza certa nell’impetuoso gioco, alla luce dell’esperienza sembra pura illusione. E la persona umana va salvaguardata, non distrutta. Va educata non abbrutita” (Ribalta dei fatti: Lo stadio o il circo? in “Osservatore Romano”, 27 marzo 1963, p. 2).
In passato, quindi, la Chiesa (riprendendo le note riflessioni di Agostino contro le pratiche gladiatorie) ha in più circostanze espresso una chiara condanna della boxe, essenzialmente per due ragioni:
In base a tali constatazioni, la campagna stampa vaticana arrivò a sostenere l’impossibilità di attribuire al pugilato
“il valore di sport, poiché, se il fine di questo è il raggiungimento della perfezione umana, direttamente sotto l’aspetto fisico, ma con ripercussioni anche sul piano spirituale, non può certo dirsi sport una lotta, il cui normale risultato è di stroncare fisicamente e rovinare spiritualmente il suo protagonista.”4)
Posizioni queste che, dal pontificato di Paolo VI fino a papa Bergoglio, sono andate lentamente attenuandosi, fino ad essere oramai del tutto accantonate, probabilmente nella prospettiva di rendere un po’
Umberto Veronesi |
meno impopolare ed intransigente l’etica cristiana (si veda, in particolare, il cordiale incontro di papa Francesco con le delegazioni pugilistiche di Italia e Argentina, nell’ottobre 2019).
Quali le tesi sostenute dai difensori della boxe, a cui anche il mondo cattolico ha finito gradualmente per avvicinarsi?
Direi che siamo di fronte a tentativi goffi e fastidiosamente retorici di relativizzare i contro (“ci sono tanti altri sport molto pericolosi”; “chi accetta di fare pugilato esercita consapevolmente il proprio libero arbitrio”; “la vera violenza è quella fuori dagli stadi”, ecc.) e di esaltare i (presunti) pro: la boxe sarebbe formativa per quanto riguarda il rafforzamento del carattere; svolgerebbe una preziosa funzione di educazione all’autocontrollo e al rispetto dell’avversario; in tanti casi, la pratica pugilistica ha allontanato giovani sbandati dalla via del crimine, ecc.
A conti fatti, ben poco di razionale e di ragionevole.
Insomma, una volta tanto che teologia e scienza appaiono in piena sintonia, credo che sarebbe oltremodo auspicabile che la questione venisse affrontata senza pregiudizi di sorta, trasferendola, però, sul piano di un laicissimo dibattito etico-civile.
Ciò al fine di poter esaminare, in chiave rigorosamente filosofica, la compatibilità dell’ideologia sottostante alla pratica pugilistica con i valori fondativi della cultura dei diritti umani (come quello di solidarietà e di fraternità), e, in particolare, con il principio dell’inviolabilità dell’integrità fisica individuale e della dignità morale della persona, nonché con la teoria e la prassi dell’educazione alla pace e alla nonviolenza.
Bandire la boxe dalla grande famiglia dello sport non costituirebbe certo una “rivoluzione copernicana”, né potrebbe certo renderci immediatamente tutti più pacifici e meno aggressivi, ma potrebbe rappresentare, però, una significativa scelta dalla forte valenza simbolica e dall’efficace messaggio educativo.
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NOTE
Nel momento presente, con l’incombere di pericoli immensi (reali o fittizi che siano) sul futuro dell’umanità e dell’intero pianeta, il problema della pena di morte potrebbe facilmente apparire come qualcosa di oramai secondario, se non addirittura anacronistico.
E si finirebbe, così, per commettere un grosso errore. Perché, come affermava lucidamente Norberto Bobbio, le nostre effettive possibilità di riuscire a non precipitare in una catastrofe (o in una serie di catastrofi) senza precedenti dipendono essenzialmente da una singola elementare questione:
riusciremo o non riusciremo ad impedire che violenza continui a chiamare violenza, “in una catena senza fine”?
Ovvero, riusciremo o non riusciremo a spezzare la catena dell’odio, della vendetta e dell’ irrazionale volontà di (super)potenza che domina il corso della Storia?
In questa partita cruciale, la lotta per l’abolizione della pena di morte continua (dopo alcuni secoli di importantissime conquiste teoriche e pratiche) ad occupare un ruolo di grande rilievo nell’affermazione di una visione filosofica, civile e politica che consideri inviolabile la dignità della persona umana e che imponga al potere dello Stato limiti invalicabili.
Quale giudizio dare, allora, della situazione attuale?
La pena di morte è stata abolita in più della metà degli stati del mondo:
Evitando di far riferimento a Cina, Corea del Nord e Vietnam, paesi in cui il numero (certamente ingentissimo) di esecuzioni è fatto oggetto di segreto di stato, il computo delle esecuzioni mondiali ammonterebbe a 1153, con un inquietante aumento del 30 % rispetto all’anno precedente (solo nel lontano 2015 si era raggiunta una cifra superiore).
Tale sconfortante notizia viene, comunque, almeno in parte bilanciata dal minimo storico raggiunto nel numero degli stati che hanno eseguito condanne a morte: soltanto 16.
“Il profondo incremento delle esecuzioni - ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International - è stato dovuto soprattutto all’Iran, le cui autorità hanno mostrato un totale disprezzo per la vita umana con un aumento delle esecuzioni per reati di droga che, ancora una volta, ha messo in luce l’impatto discriminatorio della pena di morte sulle comunità più povere e marginalizzate dell’Iran”.
Questi i cinque stati che, nel 2023, hanno eseguito il maggior numero di condanne a morte:
Cina, Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti d’America.
L’Iran, da solo, ha fatto registrare il 74 % delle esecuzioni note; l’Arabia Saudita il 15 %.
Nel 2023, le autorità iraniane hanno massicciamente intensificato l’uso della pena di morte: almeno 853 casi, con un aumento del 48 % rispetto ai 576 del 2022.
Il 20 per cento delle esecuzioni si è abbattuto sulla minoranza etnica dei beluci, rappresentante soltanto il 5% dell’intera popolazione (vedi: Iran: attacchi brutali contro i manifestanti e i fedeli beluci - Amnesty International Italia - 23 ottobre 2023 ).
Da sottolineare la presenza di almeno cinque esecuzioni relative a persone minorenni al momento del reato.
Almeno 545 su 853 esecuzioni, inoltre, riguardano reati minori, come quelli relativi al traffico di droga: 56 % del totale, con un incremento dell’89 % rispetto al 2022.
E anche negli Stati Uniti d’America si è registrato un aumento rilevante:
24 esecuzioni rispetto alle 18 del 2022.
“Un piccolo gruppo di stati degli Usa - ha commentato, a questo proposito la Callamard - ha mostrato un tremendo attaccamento alla pena di morte e una cinica intenzione di investire risorse nell’uccidere esseri umani.
Il nuovo metodo di esecuzione tramite asfissia da azoto è stato vergognosamente applicato, senza essere testato, nei confronti di Kenneth Smith, solo 14 mesi dopo che era sopravvissuto a un tentativo particolarmente cruento di metterlo a morte”.
Altri passi indietro sono stati registrati nell’Africa subsahariana, dove sono aumentate sia le condanne a morte che le esecuzioni:
queste ultime sono più che triplicate, passando dalle 11 dell’anno precedente a 38 e le condanne a morte sono nettamente aumentate del 66 %:
da 298 nel 2022 a 494 nel 2023.
Nonostante i passi indietro, PERO’ …
Malgrado i passi indietro fatti registrare da pochi stati, non sono mancati progressi significativi:
oggi 112 stati sono completamente abolizionisti, su un totale di 144 stati che hanno abolito la pena di morte nelle leggi o nella prassi.
Inoltre, a differenza del 2022, non ci sono state esecuzioni in Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sud Sudan e il Pakistan ha annullato la pena di morte per reati di droga.
Insomma, la partita è ancora apertissima e non sarà facile riuscire a spazzare via millenni di ottusità culturale e di atroce consuetudine etica e sociale alla crudeltà.
Ma una cosa, in tanta cosmica incertezza, è chiarissima:
se desideriamo davvero un sereno avvenire di pace per tutti noi, non potremo rinunciare ad affermare e a difendere quella che Albert Camus definisce (molto leopardianamente)
“l’unica solidarietà umana indiscutibile, la solidarietà contro la morte.”
Fine modulo
Da come si evince dal susseguirsi delle notizie, la escalation militare nei confronti della Federazione Russa e nei confronti dei Paesi NATO, continua. La manifestazione organizzata sabato 20 luglio scorso a Udine, in Piazza I Maggio, che ha visto gli interventi di Luca Scantamburlo e Flavio Massera non è stato quello di prendere una posizione politica, bensì di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana ed europea sui rischi e i pericoli che tutti noi Europei corriamo, soprattutto di confronto nucleare non solo convenzionale.
I nostri hanno fatto anche alcune piccole proposte su come agire nel ruolo di cittadinanza vigile e attenta affinché, civilmente, l’opinione pubblica possa portare il proprio contributo concreto e dire no alla escalation militare, no alla risoluzione delle controversie con le armi, no al coinvolgimento della NATO nel conflitto Ucraino-Russo, e dire invece sì alla negoziazione, al dialogo, alla tregua e a una de-escalation globale.
La maggior parte dei nostri politici occidentali ed europei sulla questione della guerra in Ucraina si mostrano irresponsabili e invece di sostenere una pacificazione e un dialogo diplomatico, fanno di tutto per provocare la Federazione Russa sia verbalmente sia politicamente e militarmente, e sostenere il riarmo del Governo di Kiev senza se e senza ma, a prescindere da ogni negoziato.
Uno dei primi disegni inviati da un bambino italiano agli Ambasciatori di Roma Su gentile concessione dei genitori e del bambino di 10 anni di età. |
Si vuole una vittoria sul campo di battaglia imprescindibile, senza tenere conto delle ragioni del conflitto, e della forza militare e non solo dell’avversario, e delle conseguenze per tutti noi di un allargamento del conflitto. Siamo in sudditanza psicologica nei confronti di un blocco atlantista guerrafondaio.
Si può essere alleati senza essere sudditi e su questo punto la manifestazione ha ribadito la necessità di una presa di consapevolezza individuale e collettiva, perché l’ indifferenza non diventi la nostra condanna a decenni di tribolazioni. Si chiede un futuro di pace e serenità per i nostri figli, e non un domani di sangue, fame e sacrifici.
LETTERA AGLI AMBASCIATORI DI UNGHERIA, SERBIA E COLOMBIA IN FAVORE DELLA PACIFICAZIONE E DE-ESCALATION FRA RUSSIA E UCRAINA
E’ stata presentata pubblicamente in occasione della manifestazione anche una lettera da inviare AGLI AMBASCIATORI DI UNGHERIA, SERBIA E COLOMBIA IN FAVORE DELLA PACIFICAZIONE E DE-ESCALATION FRA RUSSIA E UCRAINA
La lettera può essere scaricata al seguente link:
Quest’ultima ha lo scopo, non solo di sensibilizzare i vertici istituzionali nazionali e internazionali, ma di permettere che si agisca in prima persona (in modo totalmente libero ma consapevole) affinché cittadini, genitori e persino i propri figli in età di discernimento, possano portare un contributo personale per scongiurare l'allargamento del conflitto Ucraina-Russia e un coinvolgimento della NATO e degli Stati Uniti d'America e di altri Paesi dell'area asiatica e del Medio Oriente dotati di armamenti nucleari.
Quali gli OBIETTIVI
Ci si augura di stimolare l'apertura di un tavolo di negoziato credibile per una tregua e pacificazione fra Ucraina e Federazione Russa in guerra sin dal febbraio 2022, che parta da un nucleo di Paesi individuati da noi liberi cittadini nei seguenti Stati: Repubblica di Ungheria, Repubblica di Serbia Repubblica di Colombia. Questo gruppo di Stati – qualora si confrontino nei loro rapporti bilaterali sul tema oggetto di questa lettera-appello – potrebbero insieme dare vita a una collaborazione internazionale volta a promuovere la tregua e un cessate il fuoco. A tal fine, questa triade di Paesi potrebbe ingrandirsi coinvolgendo altri Stati capaci di intercettare contenuti e modalità di mediazione, trattativa e accordi, fino a portare eventualmente le istanze di pacificazione e mediazione fra i due contendenti in armi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il fine ultimo è portare a una conseguente e successiva distensione e de-escalation militare globale, evitando il rischio di un conflitto militare allargato non solo di tipo convenzionale, ma nucleare.
Si potrebbe promuovere questa iniziativa organizzando un tavolo di negoziato e di accordi in una città come Vienna (l’Austria non è membro della NATO) che ha già una ricca tradizione storica di accordi diplomatici, oppure nella città di Belgrado, o in alternativa nella capitale della Colombia, Bogotà. Proprio tre massime cariche di questi Stati – Viktor Orbán, capo di Governo in Ungheria, Aleksandar Vučić nel suo ruolo di Presidente della Repubblica di Serbia, e il Presidente di Colombia Gustavo Francisco Petro Urrego – hanno rilasciato negli ultimi mesi dichiarazioni pubbliche contraddistinte da una grande preoccupazione politica e morale, soprattutto personale, per la situazione attuale nel conflitto fra Ucraina e Federazione Russa, anche nel contesto delle relazioni internazionali e nei rapporti sempre più tesi e difficili fra Occidente (NATO, UE e Stati Uniti d’America) da una parte e Russia dall’altra.
COME SPEDIRE LA LETTERA
Consigliamo la posta cartacea prioritaria tracciata (il costo è poco superiore a Euro 3 stampando la lettera fronte-retro, e allegando 1 disegno formato A4); sconsigliamo la posta elettronica perché le caselle istituzionali delle Ambasciate devono restare libere da posta indesiderata e ridondante, e perché un plico postale cartaceo non intasa un servizio, è tangibile e concreto dal punto di vista materiale e consente proprio di toccare con mano una testimonianza umana e artistica di tanti bambini e adolescenti d'Italia e del mondo, che non devono pagare a causa degli errori e delle imprudenze degli adulti. Gli indirizzi delle Ambasciate in Roma sono già indicati nella intestazione della lettera-appello.
DESTINATARI DELLA LETTERA
L'Ambasciatore di Ungheria, di Serbia e Colombia in Roma
Un antico adagio particolarmente caro ad Erasmo* afferma, in maniera limpidamente perentoria, che: “Chi ama la guerra non l’ha vista in faccia.”
Una cosa, quindi, accomunerebbe tutti coloro che incitano all’uso delle armi, che si affannano a giustificarlo sul piano filosofico, religioso, politico, ecc., o che, comunque, lo condividono in silenzio o, semplicemente, lo tollerano, per conformismo, viltà o accidiosa disattenzione: la mancanza di una nitida e fondata consapevolezza in merito a cosa sia realmente la guerra (ogni guerra) e alle incalcolabili sofferenze e distruzioni materiali e spirituali che essa arrechi all’umanità e all’intero pianeta.
Camille Flammarion (1842-1925), famoso astronomo e pionieristico indagatore degli aspetti ignoti della psiche umana e della natura, oltre a parlarci di comete e di galassie, di telepatia e di fenomeni di preveggenza, dedicandosi con grande passione allo studio dei fenomeni medianici e a quello delle grandi opere teosofiche, è stato anche un intellettuale che ha saputo parlarci della tragedia della guerra con lucida quanto categorica chiarezza, individuando nel nazionalismo e nel militarismo le sue cause principali.
“Questa povera umanità - scrive - è ancor lungi dall’essere affrancata dall’antico e barbaro errore delle nazionalità; essa non ha ancora guadagnato quasi nulla in reale libertà, poiché tutte le sue risorse sono consacrate a trattenere entro certi gruppi racchiusi, come gli animali, tra confini artificiali e variabili, sentimenti di rivalità, d’animosità e di odi che la indeboliscono e la rendono sterile.
L’intelligenza è ancora così bruta, che i popoli onorano i diplomatici che, a mezzo della menzogna e della frode, hanno saputo scatenare le guerre più rovinose per coprirsi di gloria e di onori.”
Il militarismo è, per lui, “un’onta, una follia stupida e idiota”. L’umanità gli appare “divisa in greggi in balìa di capi”, di tanto in tanto scagliate le une contro le altre, al fine di mietere vittime “come spighe mature sui campi insanguinati”, conservando e consolidando, in tal modo, la suddivisione del nostro piccolo globo in tanti separati ed aggressivi “formicai”.
La “spada di Marte” è sempre lì, abilissima e instancabile, nel trarre “il sangue dalle vene dell’umanità”, generando orrori incomparabilmente più gravi di quelli prodotti dalla cosiddetta “natura cieca” che, rispetto a noi, volenterosissimi umani carnefici, non può che risultare assai meno “cieca”.
“ E per garantirsi contro il brigantaggio organizzato da un centinaio di malfattori sfruttanti la bestialità umana, l’Europa intera - scrive - mantiene armate permanenti, strappa i suoi uomini al loro lavoro utile e fecondo e getta tutte le sue forze, tutte le sue risorse in un precipizio senza fondo.”
Il nostro scienziato arriverà ad accusare i governi criminali dell’ Europa di fine secolo XIX e di inizio XX secolo di essere colpevoli di uccidere, ogni singolo mese, più uomini di quante stelle nel cielo si possano scorgere a occhio nudo nel corso di una bella notte, constatando con rabbiosa amarezza che, anche soltanto con una parte degli abnormi capitali investiti nella sfrenata corsa agli armamenti, sarebbe stato possibile creare condizioni di vita molto più felici per tutti i popoli:
“ avremmo potuto allevare e istruire tutti i nostri figli, avremmo potuto costruire tutte le linee ferroviarie necessarie (…); avremmo potuto sopprimere le dogane, i dazi e gli altri impacci alla libertà dei transiti commerciali; avremmo potuto guarire tutte le miserie che non sono dovute all’indolenza o alle malattie; avremmo fors’anco - arriverà anche dire, da sostenitore della pluralità dei mondi abitati nell’universo - aver relazione con gli abitanti degli altri mondi!”
La sua speranza è che, in un tempo non troppo lontano, scompariranno le varie religioni, lasciando libero campo alla sola voce delle coscienze, così come scompariranno le patrie nazionali (con tutte le loro rilucenti armate) di fronte al sentimento travolgente della Fratellanza universale.
E la sua convinzione è che tale traguardo sarà reso possibile non da vacue e retoriche esortazioni, ma dall’estendersi e dal diffondersi dei risultati delle esplorazioni scientifiche nel campo dell’infinitamente grande come nel campo dell’infinitamente piccolo, attraverso, cioè, lo sviluppo progressivo delle conoscenze fisico-astronomiche e di quelle di ordine psichico-spirituale. Poiché da entrambi questi campi di indagine (gli studi psichici sono, per lui, “il complemento naturale dell’astronomia”) emergono insegnamenti ben precisi, molto simili a quelli rintracciabili nelle maggiori filosofie dell’antichità:
l’Universo intero (benché inconoscibile nella sua intima essenza) non è altro che un unico infinito organismo dinamico ed intelligente (“Stelle e atomi sono uno”); la materia, così come ci appare, ha un carattere semplicemente illusorio ed è interiormente pervasa e governata da una Forza di ordine spirituale (come diceva Virgilio: “Mens agitat molem”); un’unica “legge universale” abbraccia ogni cosa nella vita eterna.
Insomma, di fronte alla “contemplazione dell’immensità dei cieli sconfinati” e dinanzi all’ “infinito sempre aperto al volo delle nostre anime”; di fronte alla contemplazione “di un pensiero eterno nelle leggi matematiche, nelle forze organizzatrici, nell’ordine intelligente, nella bellezza dell’universo”; di fronte alla Vita che si sviluppa senza fine nello spazio e nel tempo; e di fronte, infine, alla consapevolezza di vivere noi stessi nell’infinito e nell’eternità, messi in soffitta tutti gli “dei degli eserciti”, dovrebbe affermarsi, nella coscienza dell’intera umanità, il pensiero illuminante della Fratellanza universale come intima legge della stessa Vita cosmica e, quindi, come nostro unico e ineluttabile destino.
La speranza del nostro scienziato mistico e poeta, quindi, è che la via per approdare ad una vera e concreta Fratellanza passi attraverso la consapevolezza di essere figli dell’Infinito e cittadini dell’Eternità, consapevolezza nutrita dalla teosofica sinergia fra conoscenze astronomiche e conoscenze metapsichico-parapsicologiche.
A queste ricerche, con rara coerenza, Camille Flammarion ha dedicato la sua intera esistenza.
Per sconfiggere tutte le guerre.
Per favorire la nascita, in un tempo ancora (troppo) lontano, di un mondo di Pace.
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08 Dicembre 2023
N.B. Le citazioni di Camille Flammarion sono state ricavate dalla bella antologia curata da G.V.Callegari (Scienza e Vita di Camillo Flammarion, Enrico Voghera, Roma 1919) e da C. Flammarion, Per la Scienza dell’Anima. I Misteri della vita e della morte, Società Editrice Partenopea, Napoli 1933.
Sul territorio della Repubblica Democratica del Congo (ex Congo Belga ed ex Zaire), nel cuore del continente africano, le sventure continuano ad abbattersi con rara crudeltà. Dopo l’immane genocidio coloniale perpetrato alla fine del XIX dal sovrano belga Leopoldo II (circa 10 milioni di vittime); dopo la pluridecennale tirannia criminale di Mobutu (ignobilmente sostenuta a livello internazionale); dopo gli interminabili conflitti scaturiti dopo il crollo del suo regime, la popolazione di questo meraviglioso quanto sfortunato paese continua a subire inenarrabili violazioni di diritti umani legate, in particolar modo, alla presenza di sconfinate risorse minerarie.
Da questo immenso paese, infatti, proviene la maggior parte del rame e del cobalto utilizzati nelle batterie agli ioni di litio necessarie per alimentare smartphone, auto, biciclette elettriche, ecc.
La batteria di un veicolo elettrico richiede più di 13 kg di cobalto, mentre per un telefono cellulare ne occorrono circa 7 g. Si stima che la domanda di cobalto (già triplicata rispetto al 2010) raggiungerà le 222.000 tonnellate entro il 2025. Ed entro il 2030 si prevede che, per soddisfare la domanda sempre crescente, occorrerà una produzione di cobalto almeno dieci volte superiore a quella attuale.
Nella frenetica corsa globale per assicurarsi minerali come cobalto, rame, nichel, litio, aziende e governi stanno, ancora una volta, anteponendo in modo schiacciante il profitto al rispetto dei diritti umani: la produzione di batterie agli ioni di litio (al di là dei tanti roboanti slogan apologetici) risulta, pertanto, tutt’altro che “verde” e “pulita”. Anni di pratiche estrattive e industriali non adeguatamente regolamentate hanno comportato e stanno comportando, infatti, danni a numerose comunità dell’America meridionale e dell’Africa orientale e meridionale.
Nella Repubblica Democratica del Congo, in particolare, intere comunità vengono prepotentemente sgomberate dalle loro case e dai terreni agricoli per far posto all’espansione delle miniere industriali di cobalto e rame e bambini di appena sette anni vengono costretti a lavorare in miniere artigianali, con salari bassi e condizioni di grande pericolo.
In un rapporto di ben 10 anni fa, l’Unicef delineava un quadro più che allarmante delle condizioni estreme a cui vengono sottoposti bambini e ragazzi: oltre 12 ore al giorno di lavoro faticosissimo (spesso scavando a mani nude e trasportando sacchi dai 20 ai 40 kg), senza alcuna forma elementare di sicurezza, spesso picchiati e maltrattati, privati del diritto allo studio.
Una ricerca del 2020, poi, condotta dalle università di Lubumbashi, Lovanio e Gand, è giunta alle dolorose (quanto assai prevedibili) conclusioni che l’esposizione all’inquinamento tossico in ambito minerario non soltanto colpisce i lavoratori, ma produce altresì difetti congeniti nei loro figli.
Mark Dummett, direttore del programma Imprese, sicurezza e diritti umani di Amnesty International, ha così commentato la notizia:
“Quando si visita questa zona della Repubblica Democratica del Congo, si è immediatamente colpiti dal forte inquinamento e dalla mancanza di azione da parte del governo e delle aziende dell’industria estrattiva per evitarlo e per proteggere le persone che lì vivono e lavorano e che non hanno alcun modo di sfuggire alle polveri“.
“Quando ci siamo recati per la prima volta nelle miniere, nel 2015, abbiamo visto uomini, donne e bambini lavorare persino senza l’attrezzatura di protezione più essenziale come guanti e mascherine per il volto. I minatori ci hanno riferito delle patologie di cui soffrivano, tra le quali tosse, dolore ai polmoni e infezioni alle vie urinarie. Gli abitanti di un paese in cui siamo stati ci hanno mostrato l’acqua della sorgente del fiume locale, che usavano per bere, contaminata dallo scarico dei rifiuti di un impianto di lavorazione dei minerali”.
“Le preoccupanti scoperte di questo rapporto - prosegue - indicano che il danno fatto potrebbe avere effetti a lungo termine. Emergono quindi la necessità di una maggiore regolamentazione dell’industria estrattiva, affinché ambiente e lavoratori siano protetti, e di un’assunzione di responsabilità da parte delle multinazionali che traggono vantaggio da queste miniere, affinché intraprendano azioni allo scopo di evitare di produrre inquinamento a danno delle persone e del pianeta. Al contempo, devono offrire un risarcimento a coloro che sono stati danneggiati dalle operazioni legate alla loro attività. L’industria estrattiva della Repubblica Democratica del Congo dovrebbe portare benefici anche alle comunità locali, non solo alle potenti multinazionali“. *
In tutto il mondo, la cattiva progettazione, il funzionamento e la gestione dei rifiuti delle miniere industriali hanno prodotto e continuano a produrre un inquinamento persistente con conseguenti gravissimi danni alla salute.
Nel Salar de Atacama, ad esempio, un’area che si estende tra Cile, Argentina e Bolivia, l’estrazione di litio e rame minaccia i diritti delle popolazioni native e mette a rischio le risorse idriche e i fragili ecosistemi delle popolazioni e delle comunità.
Nel frattempo, la corsa alla ricerca di nuove fonti di minerali per le tanto decantate “ecologiche” batterie, attraverso l’estrazione in acque profonde sul fondo dell’oceano, pone rischi gravi e irreversibili per l’ecosistema del fondale marino e per i mezzi di sussistenza delle comunità costiere.**
“Le persone che vivono nella Repubblica Democratica del Congo – ha dichiarato con lucido realismo la segretaria generale di Amnesty International Agnès Callamard - hanno subito maltrattamenti significativi e sfruttamenti in epoca coloniale e post-coloniale.
I loro diritti continuano a essere sacrificati mentre la ricchezza intorno a loro viene depredata”.
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*https://www.amnesty.it/ricerca-sulle-miniere-di-cobalto-nella-repubblica-democratica-del-congo-danni-permanenti/
**https://www.amnesty.it/appelli/cacciati-per-il-cobalto-fermare-gli-sgomberi-in-congo/
Vittorio Barbanotti |
Vittorio Barbanotti è un ciclista di 72 anni con il diabete ed una valvola cardiaca artificiale. Nonostante i suoi problemi di salute, da anni intraprende un viaggio in bicicletta a tappe lungo tutta la penisola: tanti Km per sensibilizzare l'opinione pubblica sul problema dei diritti umani. Anche quest’anno sta ripetendo il tragitto, il 15 dicembre scorso è partito da Milano (piazza del Duomo) per raggiungere Palermo con la sua inseparabile due ruote. Lo abbiamo incontrato a Latina in Piazza del Popolo nel salone degli Uffici Comunali, per cercare di conoscere più da vicino le sue motivazioni.
Buongiorno Vittorio, ci siamo conosciuti qualche anno fa, ma sei sempre più motivato vero?
Il mio desiderio deriva principalmente nel vedere tante donne che subiscono violenza ingiustificata con la politica che dimostra di essere impotente e si limita solamente a parlare. La problematica della violenza contro le donne diventa ogni anno sempre più grave e chi è preposto ed ha i mezzi per farlo probabilmente non riesce più ad arginare questo fenomeno. Credo che ormai non ci si possa più limitare alle parole: se ogni volta che lo facciamo gli episodi aumentano, allora vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato in tutta la società. Questa edizione di pedalata longa per i diritti umani l’ho dedicata anche alla lotta di tutte le mafie e contro il bullismo. Il bullismo ricordiamolo è una cosa molto grave da condannare ed è attualmente raddoppiata la sua pericolosità, perché prima era solo maschile e adesso è anche femminile nell'età giovanile.
Vittorio Barbanotti ci puoi ricordare il tuo percorso in bicicletta?
Sono partito da Milano, arriverò nell'ultimo tratto a Palermo e fino a questo momento ho raggiunto 18 tappe. Ieri stavo a Cecchina dove la scorsa notte non sono stato molto bene, non ho potuto riposare ed è certo che quando si fanno sforzi del genere, è importante soprattutto riuscire a dormire. Soffro da due anni di diabete e l'attività fisica da una parte mi ha fatto bene perché mi ha costretto di mettermi a dieta, così sono dimagrito 18 Kg, dall’altra però le gambe reagiscono in maniera diversa e sono sicuramente più deboli.
Ti prefiggi una serie di obiettivi nel tuo percorso in bicicletta da Nord a Sud Italia, potresti ricordarli?
Io sono convinto che per le nuove e future generazioni sia molto importante trasmettere la tematica dei diritti umani come insegnamento. Credo che con una maggiore conoscenza di queste problematiche nelle scuole, si possa progredire verso la cultura della non violenza e del rispetto di tutti gli essere umani. Più vado avanti e più credo in questa causa perché è certo che chi pratica violenza non sta bene sotto tanti punti di vista e deve essere messo in condizione di non nuocere. Per non parlare delle guerre che sono assurde e non hanno mai portato niente di buono, ce ne sono purtroppo anche qui vicino a noi in Europa e credo che abbiano seri problemi mentali i leader che le autorizzano e le praticano.
Porti sempre con te una bandiera, molto suggestiva, di grande valore
Questa bandiera che rappresenta il simbolo della cultura dei diritti umani, ha un grande valore morale. E' molto suggestiva l'intenzione perchè in lei raccolgo le firme di tanta gente che incontro durante le mie tappe, oltre alle Amministrazioni Comunali solidali a questo discorso. L’idea proviene da un vostro concittadino, anche se lui abitava a Sezze, Daniele Nardi che purtroppo è scomparso nel tentativo di scalare il Nanga Parbat. Daniele la bandiera dei diritti umani la portava sempre con se nelle sue scalate e trasmise la sua immagine anche nei documenti fotografici ripresi poco prima della sua scomparsa. Nonostante la diversità d’età tra me e lui, eravamo in grande sintonia e come personaggio mi ha insegnato molto, pertanto lo ricordo con tanto affetto.
Vittorio Barbanotti con il Sindaco Matilde Celentano |
Qui a Latina Vittorio sei stato accolto da tanta gente con tanta simpatia e calore umano, anche dal Sindaco della nostra città Matilde Celentano, tutto questo ti ha fatto piacere?
Certamente, è un affetto che sento molto vicino, ma sono stato ricevuto bene in ogni posto dove ho fatto tappa. Ogni individuo ha la propria ideologia che deve essere rispettata, ma tutte le persone che incontro, dimostrano di appoggiare la tematica a favore dei diritti umani.
Vorresti aggiungere altre argomentazioni alla nostra discussione?
Ho sentore che a Palermo stiano preparando una grande accoglienza, sarò ricevuto dal Sindaco e da tutto il Consiglio d’Amministrazione Comunale, così come dal Direttore Generale del Comune. Verrò accolto dall’ANPI di Palermo oltre che dai mezzi di comunicazione. Una cosa che mi emoziona anche soltanto a menzionare il fatto è che saranno presenti anche i parenti vittime di mafia.
Vittorio Barbanotti ti ringrazio e ti faccio tanti auguri per il proseguo del suo tour di sostegno ai diritti umani.
In un momento storico in cui la compattezza degli schieramenti politici e degli ingranaggi mediatici sembrerebbe oramai condannare ogni tentativo di pensiero, parola e azione di natura pacifista alla totale irrilevanza e alla più sterile inutilità, risulta veramente rincuorante constatare che ci siano ancora gruppi di liberi cittadini e cittadine come le “Persone per la pace” di Rovereto che non intendono desistere dal denunciare come inaccettabile il clima bellicista imperante, con i relativi possibili (e purtroppo non improbabili) sviluppi, sempre più inquietantemente apocalittici.
E’ infatti senza alcun dubbio meritevole l’ Appello per la Pace da loro proposto e diffuso da qualche settimana, mirante a richiedere una immediata sospensione delle ostilità in atto. L’Appello è stato subito apprezzabilmente accolto e sostenuto dal Comune di Rovereto, in quanto Città della Pace e città sede della Campana dei Caduti, che si è anche assunto l’impegno di supportare l’iniziativa inviando il testo a tutti i Comuni del Trentino, invitandoli anche all’adesione.
“Rovereto - ha dichiarato la sindaca reggente Giulia Robol - non può che sostenere questo appello e aiutarne la promozione diffondendolo a tutti i Comuni del Trentino come richiesto. L’iniziativa, nata dai nostri concittadini e dalle nostre concittadine, è coerente con la sensibilità del Consiglio comunale che si è già ampiamente espresso attraverso due mozioni sul tema e rappresenta fortemente l’identità di Rovereto quale città della Pace, il cui simbolo Maria Dolens con i suoi rintocchi richiama alla memoria la sofferenza e la morte causate dalla guerra.”
Di seguito il testo completo dell’ Appello per la pace, nella speranza che possa godere della più ampia condivisione e diffusione.
Basta massacri. Basta guerre. Fermare lo scontro atomico.
Pace e vita per i popoli israeliano e palestinese.
Chiediamo il rispetto dell’articolo 11 della Costituzione e un’Europa di pace e non di armi.
Ogni giorno un massacro, ogni giorno sofferenze su sofferenze. E nessuno tra governanti e potenti della Terra parla più veramente di pace, negoziati e soluzioni politiche. Armi e soltanto armi. Le diplomazie sono silenziate. Ogni giorno un passo avanti verso l'abisso.
Facciamo il presente appello in nome della nostra umanità; in nome del sogno dell'Onu, nato per "salvare le future generazioni dal flagello della guerra" e del diritto internazionale; in nome dell'obiettivo fondante dell'Europa: la pace. In nome dell'articolo 11 della nostra Costituzione; in nome di papa Francesco che ogni giorno invoca la pace come mai nessun papa. In nome delle centinaia di migliaia di vittime che hanno lasciato la vita su campi di battaglia che sognavamo di non vedere più dopo la seconda guerra mondiale.
Su queste basi condanniamo l'aggressione russa all'Ucraina come abbiamo condannato ieri le guerre e le aggressioni fatte dall'Occidente. Condanniamo tutti i terrorismi, le stragi del 7 ottobre contro il popolo israeliano e il massacro in atto del popolo palestinese e la politica di annientamento del governo israeliano a Gaza.
Massacri e guerre di una escalation che nessuno vuole fermare. Ogni giorno aumentano i rischi della terza guerra mondiale aperta e atomica. Ormai ne parlano come nemmeno nel periodo della guerra fredda. Mai, sul mondo, nubi così minacciose di una guerra mondiale. I sonnambuli non le vedono, come nel 1914.
Il sonno della ragione porta alla guerra; oscura la ragione e le ragioni della pace. Le propagande dettano legge. I popoli soffrono, i guerrafondai guadagnano soldi e potere. Nel 2022 secondo il Sipri di Stoccolma è stato raggiunto il massimo storico delle spese militari nel mondo, oltre 2.200 miliardi di dollari; l'Italia 29 miliardi. Tutti denari levati alla scuola, alla sanità, alla lotta alla fame, alla cura del Pianeta.
Non bisogna rassegnarsi alla guerra, né assuefarci. Ribelliamoci alla guerra. Sosteniamo i costruttori di pace. Riprendiamoci il diritto di dire la nostra, anche su questioni vitali come la guerra. L'attività più stupida, più criminale e inutile che può fare l'essere umano. Capirlo dopo non serve a niente. Pensiamoci prima. Ognuno può fare qualcosa. Indirizziamo intelligenza e volontà per salvare il Pianeta e abolire la guerra. Solo la mobilitazione dell'opinione pubblica e dell'umanità di buona volontà può spingere i potenti a fermare la corsa verso l'abisso.
Ripensiamo ad un coerente uomo di pace che tanto manca al pacifismo italiano, Gino Strada, medico e fondatore di Emergency: "Eliminare l'ipotesi della guerra dagli strumenti che regolano la convivenza umana è la scelta più razionale, realistica e sicura per i cittadini del pianeta, ma non possiamo aspettarci che lo facciano i Parlamenti del mondo, che hanno sempre e comunque votato a favore della guerra. Dovremo impegnarci noi in prima persona per buttare la guerra fuori dalla storia [...]" (Gino Strada, Una persona alla volta, pagg. 89 e 91).
Ripensiamo all'Appello Russell-Einstein del 9 luglio 1955: "In questa occasione parliamo non come membri appartenenti a questo o quel Paese, continente o credo politico o religioso, ma come esseri umani, la possibilità di sopravvivenza dei quali viene oggi messa in dubbio... Ricordate la vostra umanità e dimenticate tutto il resto..."
Riscopriamo Erasmo e Kant, Bertha Von Suttner e Rosa Luxemburg, Romain Rolland e Lev Tolstoj, Giacomo Matteotti e Maria Goia. Studiamo il grande patrimonio di testi e autori, esempi, contro la guerra, anche per cercare luci e supporto all'impegno in questi bui momenti.
Questi i contatti del Comune di Rovereto:
ufficio comunicazione
telefono - segreteria:
0464 452 604 - 0464 452 559
e-mail - istituzionale:
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GINEVRA (23 febbraio 2024) – Qualsiasi trasferimento di armi o munizioni a Israele da utilizzare a Gaza probabilmente violerà il diritto umanitario internazionale e dovrà cessare immediatamente, hanno avvertito oggi gli esperti delle Nazioni Unite*.
"Tutti gli Stati devono 'garantire il rispetto' del diritto internazionale umanitario da parte delle parti in conflitto armato, come richiesto dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e dal diritto internazionale consuetudinario", hanno affermato gli esperti. “Gli Stati devono pertanto astenersi dal trasferire qualsiasi arma o munizione – o parti di essa – se si prevede, dati i fatti o modelli di comportamento passati, che potrebbero essere utilizzati per violare il diritto internazionale”.
“Tali trasferimenti sono vietati anche se lo Stato esportatore non intende utilizzare le armi in violazione della legge – o non sa con certezza che verrebbero utilizzate in tale modo – purché sussista un rischio evidente”, loro hanno detto.
Gli esperti hanno accolto con favore la decisione di una corte d'appello olandese del 12 febbraio 2024 che ordina ai Paesi Bassi di sospendere l'esportazione di parti di aerei da caccia F-35 in Israele. La corte ha ritenuto che esistesse un “chiaro rischio” che le parti venissero utilizzate per commettere o agevolare gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, poiché “ci sono molte indicazioni che Israele ha violato il diritto umanitario di guerra in un numero non trascurabile di casi”. ”.
Il tribunale olandese ha sottolineato le numerose vittime civili, tra cui migliaia di bambini; la distruzione del 60% delle abitazioni civili e danni ingenti agli ospedali, alle riserve idriche e alimentari, alle scuole e agli edifici religiosi; fame grave diffusa; e lo sfollamento dell’85% dei palestinesi a Gaza. Ha inoltre evidenziato prove dell’uso prolifico di “bombe stupide” imprecise; attacchi deliberati, sproporzionati e indiscriminati; fallimenti nell'avvertire i civili degli attacchi; e dichiarazioni incriminanti di comandanti e soldati israeliani.
Oltre 29.313 palestinesi sono stati uccisi e 69.333 feriti a Gaza dal 7 ottobre 2023, la maggior parte erano donne e bambini. “Israele ha ripetutamente mancato di rispettare il diritto internazionale”, hanno detto gli esperti.
Gli esperti hanno osservato che gli Stati parti del Trattato sul commercio delle armi hanno ulteriori obblighi derivanti dal trattato di negare le esportazioni di armi se “sanno” che le armi “verrebbero” utilizzate per commettere crimini internazionali; o se esiste un “rischio prioritario” che le armi trasferite “potrebbero” essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Gli stati membri dell’Unione Europea sono ulteriormente vincolati dalla legge UE sul controllo delle esportazioni di armi.
“La necessità di un embargo sulle armi nei confronti di Israele è accentuata dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 26 gennaio 2024 secondo cui esiste un rischio plausibile di genocidio a Gaza e da allora continueranno a subire gravi danni ai civili”, hanno affermato gli esperti. La Convenzione sul genocidio del 1948 impone agli Stati parti di impiegare tutti i mezzi ragionevolmente a loro disposizione per prevenire, per quanto possibile, il genocidio in un altro Stato. "Nelle circostanze attuali ciò rende necessario fermare le esportazioni di armi", hanno detto gli esperti.
Gli esperti hanno accolto con favore la sospensione dei trasferimenti di armi a Israele da parte di Belgio, Italia, Spagna, Paesi Bassi e della società giapponese Itochu Corporation. Anche l’Unione Europea ha recentemente scoraggiato le esportazioni di armi verso Israele.
Gli esperti hanno esortato gli altri Stati a sospendere immediatamente i trasferimenti di armi a Israele, comprese le licenze di esportazione e gli aiuti militari. Gli Stati Uniti e la Germania sono di gran lunga i maggiori esportatori di armi e le spedizioni sono aumentate dal 7 ottobre 2023. Altri esportatori militari includono Francia, Regno Unito, Canada e Australia.
Gli esperti hanno osservato che anche i trasferimenti di armi a Hamas e ad altri gruppi armati sono vietati dal diritto internazionale, date le gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse il 7 ottobre 2023, tra cui la presa di ostaggi e il successivo lancio indiscriminato di razzi.
Il dovere di “garantire il rispetto” del diritto umanitario si applica “in ogni circostanza”, anche quando Israele afferma di contrastare il terrorismo. Inoltre, l’intelligence militare non deve essere condivisa laddove vi sia il rischio evidente che venga utilizzata per violare il diritto internazionale umanitario.
"I funzionari statali coinvolti nelle esportazioni di armi possono essere individualmente responsabili penalmente per aver aiutato e favorito eventuali crimini di guerra, crimini contro l'umanità o atti di genocidio", hanno detto gli esperti. “Tutti gli Stati, in base al principio della giurisdizione universale, e la Corte penale internazionale, possono essere in grado di indagare e perseguire tali crimini”.
Gli esperti hanno sottolineato che il dovere di “garantire il rispetto” richiede inoltre che tutti gli Stati facciano tutto ragionevolmente in loro potere per prevenire e fermare le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte di Israele, in particolare laddove uno Stato ha influenza attraverso le sue relazioni politiche, militari, economiche o di altro tipo. Le misure potrebbero includere:
- Dialogo diplomatico e proteste;
- Assistenza tecnica per promuovere conformità e responsabilità;
- Sanzioni su commercio, finanza, viaggi, tecnologia o cooperazione;
- Rinvio al Consiglio di Sicurezza e all'Assemblea Generale;
- Procedimenti presso la Corte Internazionale di Giustizia;
- Sostegno alle indagini della Corte penale internazionale o di altri meccanismi giuridici internazionali;
- Indagini penali nazionali utilizzando la giurisdizione universale e cause civili; E
- Richiedere un incontro delle parti delle Convenzioni di Ginevra.
La maggior parte di queste misure sono rilevanti anche per adempiere al dovere di prevenire il genocidio.
Le aziende produttrici di armi che contribuiscono alla produzione e al trasferimento di armi in Israele e le imprese che investono in tali aziende hanno la propria responsabilità di rispettare i diritti umani, il diritto umanitario internazionale e il diritto penale internazionale. "Non hanno dimostrato pubblicamente la maggiore dovuta diligenza sui diritti umani loro richiesta e di conseguenza rischiano di essere complici nelle violazioni", hanno detto gli esperti.
“Il diritto internazionale non si impone da solo”, dicono gli esperti. “Tutti gli Stati non devono essere complici di crimini internazionali attraverso trasferimenti di armi. Devono fare la loro parte per porre urgentemente fine all’inesorabile catastrofe umanitaria a Gaza”.
Ci diceva Norberto Bobbio in un suo scritto di quasi mezzo secolo fa, che, messo a confronto con gli enormi e assillanti problemi del nostro tempo (quello della guerra primo fra tutti), il problema della pena di morte potrebbe, facilmente quanto erroneamente, apparirci come qualcosa di importanza secondaria. Impressione che potrebbe anche venire avvalorata dalla constatazione dei risultati felicemente sorprendenti conseguiti dalla causa abolizionista, nell’arco dell’ultimo secolo:
i paesi abolizionisti, sia sotto il profilo legislativo sia sotto quello esclusivamente pratico (de facto), da pochi casi isolati sono arrivati, oramai, a più di due terzi di quelli attualmente esistenti nel mondo.
Purtroppo, però, osservando la questione più da vicino, siamo costretti ad accorgerci che la situazione attuale non è affatto soddisfacente e rassicurante. Nel corso del 2022, infatti, il numero delle esecuzioni registrate risulta essere il più alto degli ultimi anni (con un incremento addirittura di oltre il 50 per cento rispetto al 2021). E questo a causa dell’aumento considerevole di condanne a morte eseguite nell’ area mediorientale e in quella nordafricana. Il 90% delle esecuzioni registrate, infatti, si concentra in soli tre paesi del Medio Oriente-Africa del Nord: Iran, Arabia Saudita, Egitto.
Inoltre, non bisogna dimenticare che in Corea del Nord, in Vietnam, e soprattutto in Cina (dove è possibile supporre la presenza di migliaia di esecuzioni) l’uso della pena capitale è accuratamente protetto dalla massima segretezza.
Nel corso del 2022, però, altri sei stati hanno abolito (in tutto o in parte) la pena di morte: Kazakhstan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone hanno abolito la pena capitale per ogni genere di reati, mentre Guinea Equatoriale e Zimbabwe solo limitatamente ai reati comuni. In tal modo, alla fine del 2022, il numero degli stati totalmente abolizionisti è salito a 112 e a 9 quello degli abolizionisti soltanto per i reati comuni.
E la questione della pena di morte si è venuta nuovamente a trovare sotto i riflettori mediatici a proposito del doloroso caso riguardante Kenneth Smith, sottoposto, in Alabama, alla prima esecuzione mediante soffocamento da assenza indotta di ossigeno, provocata dall’inalazione forzata di azoto. Da notare che l’utilizzo dell’ipossia da azoto è una pratica bandita dagli stessi veterinari, in quanto presenta numerose possibili complicazioni: oltre a produrre atroci sofferenze, potrebbe provocare ictus e lasciare l’animale paralizzato senza ucciderlo.
Ma, nonostante gli esperti delle Nazioni Unite, constatata l’evidente natura di estrema crudeltà che caratterizza tale forma di esecuzione, l’ abbiano equiparata alla tortura, la Corte Suprema degli Stati Uniti (in modo decisamente illogico) non ha ritenuto doveroso considerarla incostituzionale ai sensi dell’Ottavo emendamento.
Tra l’altro, Kenneth Smith, il 17 novembre 2022, era stato sottoposto ad una fallita esecuzione tramite il consueto metodo dell’iniezione letale: dopo ben quattro ore di vani tentativi di piantargli aghi nelle vene, il personale sanitario del carcere si trovò costretto ad interrompere le operazioni.
Prima di questo incidente, inoltre, i giudici della Corte Suprema avevano affermato che, in caso di una serie di tentativi falliti di esecuzione, andrebbero esclusi ulteriori tentativi.
Ma … invece …
Intanto, nelle carceri di troppi paesi, ancora, molte persone vivono nel timore di una imminente esecuzione. Come Fatma al-Arwali*, giovane yemenita attivista per i diritti delle donne, condannata in seguito ad un processo-farsa*, o il musicista nigeriano Yahaya Sharif-Aminu**, condannato per presunta blasfemia.
Nonostante i grandi passi avanti, la strada per liberare l’umanità dalla piaga della pena capitale (passaggio importante per l’eliminazione totale della violenza dalla nostra storia) resta ancora preoccupantemente ricca di rallentamenti, di insidie e di infide sabbie mobili.
*Fatma al-Arwali, 34 anni, attivista yemenita per i diritti delle donne, è a rischio di imminente esecuzione.
Il 5 dicembre 2023 un tribunale di Sana’a, nella zona dello Yemen controllata dal gruppo armato huthi, l’ha giudicata colpevole di aver fornito informazioni coperte dal segreto militare agli Emirati Arabi Uniti, principali partner della campagna di bombardamenti avviata nel 2015 dall’Arabia Saudita.
All’epoca dell’arresto, Fatma al-Arwali era a capo dell’ufficio yemenita dell’Unione per la leadership femminile della Lega araba. Il 13 agosto 2022 la sua auto è stata fermata a un posto di blocco. Le forze di sicurezza huthi l’hanno poi sottoposta a sparizione forzata per circa otto mesi, negando ogni informazione alla famiglia che la cercava nelle stazioni di polizia e nella prigione di Sana’a. La famiglia ha poi appreso in modo informale che si trovava in un centro di detenzione della capitale. Il suo processo è stato farsa e deve essere annullato.
**Yahaya Sharif-Aminu ha 22 anni e vive nello Stato di Kano, nel nord della Nigeria. La sua vita è la musica, e proprio la musica lo ha condannato a morte. A febbraio ha composto una canzone e l’ha diffusa tramite WhatsApp. Quella canzone l’ha portato in carcere e potrebbe condannarlo a morte, perché considerata blasfema.
Aggiornamento del 25 gennaio 2021: la condanna a morte è stata temporaneamente sospesa!
Una corte d’appello della Nigeria ha annullato, almeno temporaneamente, la condanna a morte del 22enne Yahaya Aminu-Sharif, che il 10 agosto 2020 un tribunale islamico aveva giudicato colpevole di “blasfemia” e dunque destinato all’impiccagione. Yahaya continua ad essere in pericolo: è ancora accusato di blasfemia, che la legge islamica applicata in molti stati del nord della Nigeria punisce con la morte.
Yahaya Sharif-Aminu era stato condannato nell’agosto 2020 per aver composto e diffuso una canzone considerata dalle autorità blasfema. Durante il primo processo è stato privato di ogni assistenza legale. Ora il tribunale d’Appello ha ordinato che il processo venga ripetuto proprio a causa della mancanza di rappresentanti legali di Yahaya.
La ripetizione del procedimento rappresenta per Yahaya la possibilità di essere finalmente sottoposto ad un processo giusto. In qualunque caso, comunque, nessuno dovrebbe essere condannato a morte solo per aver espresso la propria opinione.
Fonte: https://www.amnesty.it/
L’isola indiana di Gran Nicobar* potrebbe presto diventare una sorta di “Hong Kong dell’India”, con un enorme porto, un aeroporto internazionale, una base militare ed una vasta zona industriale. Un simile “mega-progetto” di sviluppo, dall’entità di nove miliardi di dollari, comporterebbe la distruzione di ampie distese di foresta pluviale (attualmente il 95% del territorio) e verrebbe a mettere in serissimo pericolo la sopravvivenza di alcune centinaia di indigeni Shompen, uno dei popoli più isolati del pianeta.
Il “Great Nicobar Development Plan” dovrebbe arrivare ad occupare almeno un terzo dell’isola (di cui metà all’interno della riserva indigena) e comportare l’insediamento pianificato di ben 650.000 coloni.
Verrebbero ad essere devastati, in tal modo, i territori meridionali di caccia e raccolta, quattro insediamenti Shompen e, soprattutto, verrebbe irreparabilmente rovinato l’intero sistema fluviale.
Il progetto, inoltre, andrebbe ad aumentare vertiginosamente il rischio di esposizione a tutta una serie di malattie verso cui gli indigeni sono del tutto privi di difese immunitarie. Come tutti i popoli “incontattati”, infatti, gli Shompen risultano estremamente vulnerabili nei confronti di agenti patogeni che potrebbero condurli rapidamente allo sterminio.
“Se il progetto andasse avanti, anche in forma più ridotta - hanno affermato esperti provenienti da istituzioni accademiche di ben tredici paesi - crediamo sarebbe una condanna a morte per gli Shompen, equivalente al crimine internazionale di genocidio”.
E trentanove studiosi internazionali di genocidio si sono rivolti al governo indiano per denunciare gli aspetti allarmanti insiti nel progetto.
Survival International ha intrapreso una campagna che mira all’archiviazione del progetto e al riconoscimento agli Shompen dei pieni diritti di proprietà territoriale sulle terre su cui vivono da millenni.
Per saperne di più e/o per sostenere la causa dei diritti umani delle popolazioni indigene:
https://www.survival.it/cosafacciamo
NOTE
*”Un'isola come nessun'altra
Per secoli, gran parte degli Shompen ha rifiutato ogni tipo di contatto con gli esterni e questo li ha protetti dalle tragiche conseguenze del contatto, subite invece dalla maggior parte degli altri popoli delle isole Andamane e Nicobare.
Per migliaia di anni gli Shompen hanno vissuto, protetto e alimentato le straordinarie foreste di Gran Nicobar, nella parte orientale dell’Oceano Indiano. Gli Shompen sono cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono in piccoli gruppi, in territori delimitati dai fiumi che attraversano la foresta pluviale. Costruiscono generalmente accampamenti temporanei nella foresta, in cui vivono per qualche settimana o qualche mese prima di spostarsi di nuovo.
Raccolgono una grande varietà di piante, ma il loro alimento principale è il frutto del pandano, che chiamano larop. Come altri cacciatori-raccoglitori, gli Shompen hanno una profonda conoscenza della loro foresta e utilizzano la flora dell’isola in moltissimi modi. Dal Canarium strictum bianco, per esempio, ricavano incensi, un repellente per gli insetti e persino gomme da masticare.
Gli Shompen cacciano tutto l’anno e scimmie, maiali, lucertole e coccodrilli costituiscono una parte importante della loro dieta. Hanno anche piccoli orti in cui coltivano, tra le altre cose, tapioca, limoni, peperoncini e betel (Piper betle).
L’isola di Gran Nicobar, loro dimora sacra, è piccola ma ricca di biodiversità endemica. La foresta pluviale copre circa il 95% dell’isola, in cui vivono 11 specie di mammiferi, 32 specie di uccelli, 7 specie di rettili e 4 di anfibi che si trovano solo lì. Un luogo unico in cui varani e coccodrilli condividono la foresta con macachi e toporagni, e dove le tartarughe giganti condividono le coste con dugonghi e delfini.”
Fonte: www.survival.it
**https://www.survival.it/chisiamo
Molte manifestazioni si organizzano nell’imminenza del Natale. La ricorrenza ha un significato profondo, va a scavare nei nostri sentimenti, nel nostro sentire interiore. E’ un’occasione per donare ai più deboli, ai più bisognosi e a chi soffre e ai disabili quell’amore cui fa riferimento la festività. Un’iniziativa interessante e di grande spessore per questi ultimi si è svolta a Roma, in uno dei quartieri dove più è sentita l’emarginazione ed il disaggio sociale, i quartieri del Trullo e della Magliana. L’associazione si chiama “La lampada dei desideri” e Paola Fanzini ne è il presidente. Il centro si rivolge a questi ultimi per dar loro quella dignità che meritano. Dopo la scuola non c’è nulla, soprattutto per i disabili - dice il presidente - e il suo centro vuole dare agli svantaggiati la possibilità di socializzare, divertirsi, dare anche lavorare a dei progetti; c’è la piscina, la banda musicale, la c.d. banda della Magliana, questa volta con fini più nobili, si scrivono favole per bambini per poi pubblicarle e venderle, insomma un centro di energia positiva che alle volte la società nega ai più deboli. Ovviamente si organizzano anche eventi e, per questo Natale, i frequentatori del centro sono stati protagonisti al teatro San Raffaele del Trullo di uno spettacolo di tutto rispetto e che si legge con il cuore. Dopo l’apporto prestigioso del coro gospel Exafonix, La Banda della Magliana, guidata da Luca Perrone, si è esibita con 4 pezzi, a seguire poi Jessica che ha ballato sulle note di “Lacrime di piombo”, e ancora Tiziana Scrocca con la sua improvvisazione con i ragazzi, e Francesca Astrei con un monologo, tutti applauditissimi. Ma, a parte questi attimi di gioia pura donata dai protagonisti, una menzione speciale maritano tutti quei ragazzi che, come il messaggio del Natale insegna, sono tornati ad apprezzare la vita e a rinascere in questa dopo tanta oscurità e sofferenza cui la droga li aveva legati. Massimo Tomaselli, responsabile di una cooperativa per il recupero dei tossicodipendenti, e che ha diretto lo spettacolo, ci mostra un foglio con delle righe scritte da un utente di una comunità di recupero dalle dipendenze, e poi continua “Cosa c’è di così strano? tutti possono scrivere qualcosa… lui no!… lui 5 mesi fa fino agli ultimi giorni di ottobre era incarcerato in se stesso, la sua parola scritta e vocalizzata era soffocata dalla paura di non poter organizzare un discorso poiché proprio quel discorso che collega all’Altro era negato dalla sofferenza, da tantissimi anni di depressione grave e di dipendenza dalla cocaina…. la cocaina parlava per lui.
In seduta lui mi ha letto ciò che è riuscito a scrivere dopo anni e lo ha letto meravigliandosi, parola dopo parola… come se non le avesse scritte lui. Mentre leggeva, il suo viso esprimeva le rughe adolescenziali della meraviglia e delle emozioni che erano come lacrime liberatorie. Un momento catartico… di quelli che capitano raramente. La Comunità lo ha aiutato a liberare le emozioni ed in terapia….. ha liberato la parola!
Bravo !!!”
ll tossicodipendente perde tutto… amicizia, lavoro, emozioni, famiglia, ma proprio tutto….. alla “Lampada dei desideri” scoprono chi vogliono essere. Vengono aiutati a costruire la loro identità, a sviluppare l’empatia e a sentirsi parte di un gruppo.
Capita che gli altri, anche senza alcuna intenzione malevola, gli sottraggano, gli neghino il proprio essere, il loro esserci al mondo, o parte di esso.
Questo li fa soffrire (a volte impazzire), perché in fondo aspirano ad esistere in una loro, nella loro autenticità, che non sempre piace agli altri.
A volte questa sottrazione, questo non riconoscimento è talmente pesante che rischiano di perdersi, di perdere la loro preziosa, unica identità.
Il tipo di programma che gli si propone non ha lo scopo di farli vincere sugli altri, o in ogni caso di farli vincere secondo le regole (sociali) dominanti. Ha lo scopo di accompagnarli nel viaggio alla scoperta, o alla riscoperta di loro stessi, nella loro autenticità, anche se può far paura, o essere scomoda per qualcuno.
E un viaggio anche nel dolore; il dolore per quello che è stato tolto, e anche perché può darsi che amiamo chi ci ha negato il riconoscimento della nostra identità, e perché può darsi pure che comprendiamo, oltre che il nostro, anche il dolore e la paura dell'altro (dei genitori, per esempio).
È un viaggio in cui siamo semplicemente in compagnia di chi il percorso lo conosce già; è una persona che non intende sostituirsi a noi, o dare a noi i suoi valori, la sua visione del mondo, i suoi contenuti.
È un programma del rispetto totale per la propria identità, per fragile e spaventata che sia.
È un programma di rispetto per la nostra paura e per le nostre difese, perché le difese sono sacrosante per tutto il tempo in cui sentiamo di averne bisogno.
È un programma che aiuta a sentire colui (colei) che aveva smesso di sentire, che si era rifugiato in un angolo piccolo e nascosto di sé stesso, perché quell'angolo era l'unico e l'ultimo spazio che rimaneva alla sua identità.
Nessuno - in questo programma - vuole distruggerti quell'angolo, o tirarti fuori sulla base di una valutazione. Sei tu a decidere se puoi uscire da quell'angolo e andare attraverso spazi più ariosi. E in ogni caso ci resti per tutto il tempo che tu senti come necessario, perché quell'angolo, per soffocante e alienato che sia, è la tua vita, con le sue ragioni.
Per questo è un programma che non accelera i tempi, ma che sta in sintonia con il tuo ritmo. Nessuna forzatura interpretativa, né di sogni né di altro, nessuna analisi, nessun consiglio, nessuna promessa, soltanto il silenzio per poter ascoltare meglio la voce (a volte debolissima) che viene da te.
Nessuna pretesa di cambiare il mondo, soltanto l'aiuto perché tu possa trovare, passo dopo passo, ciò che tu sei, e portare con te anche il tuo carico di passato.
Nella attuale tragica situazione internazionale, può certamente risultare di grande aiuto provare a sintonizzarsi con il pensiero di uno dei maggiori messaggeri di pace e di nonviolenza del XX e del XXI secolo: il maestro buddhista Thich Nath Hanh, scomparso oramai da quasi due anni (22 gennaio 2022)*.
Molto stimolante, in particolar modo, è quanto ebbe a scrivere in quel Messaggio per il nuovo secolo, in cui, dopo una breve analisi degli orientamenti dominanti nel nostro tempo, ci indicava le cose principali che avremmo dovuto operare nel secolo da poco iniziato, in vista di una profonda rigenerazione dell’intera famiglia umana.
Questi i punti salienti relativi al recente passato e agli auspici per il nuovo secolo:
Tutti questi sviluppi positivi potrebbero rappresentare una fonte splendente di luce capace di mostrare il giusto cammino da seguire.
Ed ecco le sue raccomandazioni, rivolte in particolar modo ai membri del Sangha (la comunità buddhista composta da monaci, monache e laici), miranti ad indicare all’umanità la giusta direzione da seguire:
Realizzando l’ideale della compassione in campo educativo, culturale, spirituale e sociale, sarà così possibile “toccare le meraviglie della vita, della trasformazione e della guarigione.”
Il XXI secolo, ci dice Thich Nath Hanh, è “una bella collina verde, con uno spazio immenso, con le stelle, la luna e tutte le meraviglie della vita.” Su di essa, il nostro maestro Zen ci esorta a salire “insieme, mano nella mano con i nostri antenati spirituali e di sangue e con i nostri bambini”, generando, ad ogni nostro passo,
libertà, gioia e pace.
Dopo i due abbondanti decenni trascorsi (traboccanti di strategie politiche cinicamente aggressive, cruente e discriminatorie), il procedere in questo nuovo secolo, più che salire su una ridente collina, ci è sembrato, in alcuni casi, uno sprofondare in paludi nebbiose, in altri un inerpicarci su aspre pareti, e, molto spesso, un angosciato perderci in deserti aridi e inospitali. E libertà, gioia e pace non sembra siano cresciute o stiano crescendo. Odio, avidità e intolleranza, invece, appaiono sempre più incontrastatamente dominare al centro della scena planetaria.
Ma i “semi di saggezza” di cui parla il nostro monaco gentile fortunatamente non mancano e, nonostante tutto, benché ignorati dalle ribalte mediatiche rozze e menzognere e mal sopportati dagli ipocriti padroni del potere, continuano lentamente e silenziosamente a crescere.
Dipenderà da ognuno di noi (come ci ripete insistentemente Thich Nath Hanh) decidere se impegnarci o meno ad innaffiarli.
Con cura, con costanza, con delicato Amore.
NOTE
*https://www.flipnews.org/index.php/life-styles/spirituality/item/3149-thich-nhat-hanh-maestro-di-pace-ovvero-l-arte-della-consapevolezza-e-del-ringraziamento.html
“Non possiamo più permetterci di adorare il dio dell’odio o inginocchiarci davanti all’altare della vendetta.”
Sono ben pochi i personaggi che si sono battuti per la causa dei diritti umani che, all’interno dell’immaginario collettivo, risultino oggetto di un consenso tanto ampio e trasversale come si verifica nel caso di Martin Luther King: il suo volto luminoso e la sua voce decisa e appassionata rimangono, infatti, vivi e ben radicati in qualche angolo privilegiato delle nostre anime.
Di lui, un po’ tutti conosciamo gli appassionati discorsi e le tenaci e coraggiose iniziative pubbliche di lotta contro quelli che venivano considerati i grandi mali dell’epoca: razzismo, povertà e guerra.
Molto meno conosciuto è, però, il pensiero filosofico che ha alimentato le sue parole e le sue azioni.
Mio obiettivo sarà, perciò, quello di presentarne una breve sintesi, al fine di rendere più comprensibile la ricchezza di questo personaggio, nonché più stimolante ed attuale il suo messaggio morale, straordinariamente denso di insegnamenti al contempo politici e religiosi.
E sarà proprio tale fermissima convinzione a costituire il centro gravitazionale della sua lotta antisegregazionistica:
“L’immoralità della segregazione è che essa tratta gli uomini come mezzi piuttosto che come fini e perciò li riduce a cose piuttosto che a persone.
Ma un uomo non è una cosa. Non deve essere trattato come uno “strumento animato”, ma come una persona sacra in se stessa. Fare diversamente è come spersonalizzare la persona potenziale e profanarla in quello che è.”
(Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, SEI, Torino 1970, pp. 138-140)
Fino al momento della sua scoperta, Martin Luther King ritiene che i princìpi evangelici del Discorso della montagna abbiano senso solo per quanto concerne i rapporti fra singoli individui. La grandezza di Gandhi starebbe, invece, nell’aver inteso e proposto l’amore come FORZA SOCIALE, come strumento, cioè, per operare un mutamento collettivo.
L’etica della nonviolenza gli appare una felice fusione creativa fra elementi culturali afroamericani, cristiani e induisti:
l’amore è “il nucleo e il battito del cuore del cosmo”, gli individui non sono stati creati per vivere in solitudine:
TUTTI sono il prossimo.
Gli uomini sono “anime d’infinito valore metafisico” entrate “attraverso la stessa misteriosa porta della nascita umana (… ) nella stessa avventura della vita mortale”: tutti gli uomini sono interdipendenti.
Si tratta di un metodo passivo soltanto da un punto di vista fisico, ma fortemente attivo da quello spirituale: “Non è non-resistenza passiva al male, è invece attiva resistenza nonviolenta al male”.
“Reagire nella stessa maniera non farebbe altro che intensificare l’esistenza dell’odio nell’universo. Lungo il corso della vita, qualcuno deve avere giudizio e moralità sufficienti per troncare la catena dell’odio.”
La via da percorrere è, quindi, quella dell’Amore inteso come comprensione e buona volontà redentrice: AGAPE.
Agape significa il riconoscimento della correlazione sussistente alla base della vita intera:
“Tutta l’umanità è coinvolta in un singolo processo, e tutti gli uomini sono fratelli. Nella misura in cui faccio del male al mio fratello – non importa cosa egli mi stia facendo – faccio del male a me stesso.”
“Sia che la chiamiamo processo inconscio, impersonale Brahman, o Essere personale di impareggiabile potenza e infinito amore, c’è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso.”
(da Pellegrinaggio alla nonviolenza, 1958, in Martin Luther King, Lettera dal carcere di Birmingham. Pellegrinaggio alla nonviolenza, Edizioni del Movimento nonviolento, Verona 1993, pp.25-28)
RAZZISMO
POVERTA’
GUERRA.
Problemi da lui considerati strettamente connessi: la vera sfida è quella di rendere il mondo UNO in termini di fratellanza.
Se, infatti, possiamo considerare ragionevole preoccuparsi del benessere del proprio gruppo o nazione, risulta del tutto irragionevole concentrarsi esclusivamente su questo.
Avendo la realtà una struttura interconnessa, infatti, la strada da seguire non potrà che essere quella della salvaguardia dei diritti umani nella prospettiva della CASA MONDIALE.
La sua proposta è quella di una società in cui esigenze individualistiche e collettivistiche possano confluire in maniera armonica, superando sia discriminazioni e oppressioni socio-economiche, sia misure statolatriche e liberticide.
“La lettura di Marx - scrive - mi convinse anche che la verità non si trova né nel marxismo né nel capitalismo tradizionale. Ciascuno rappresenta una verità parziale. Storicamente il capitalismo non riuscì a vedere la verità nell’impresa collettiva e il marxismo non riuscì a vederla nell’iniziativa privata. Il capitalismo del XIX secolo non capì che la vita è anche sociale e il marxismo non comprese e ancora non comprende che la vita è anche individuale e personale..”
(Pellegrinaggio alla nonviolenza, pp. 20-21)
“Quando macchine e computers, moventi dei profitti e diritti di proprietà vengono considerati più importanti delle persone, il gigantesco trio del razzismo, materialismo e militarismo non può essere vinto. Una civiltà può cadere di fronte al fallimento morale e spirituale facilmente come lo può per un fallimento finanziario.
Questa rivoluzione di valori deve andare oltre al capitalismo tradizionale e oltre al comunismo. Dobbiamo, onestamente, ammettere che il capitalismo ha spesso lasciato un abisso fra la ricchezza superflua e l’abbietta povertà, ha creato condizioni da permettere che si togliesse il necessario ai molti per dare il lusso ai pochi, e ha spinto uomini gretti a diventare freddi e senza coscienza (… ).
Il movente del profitto, quando è la sola base di un sistema economico, incoraggia una concorrenza spietata e un’ambizione egoistica che ispira gli uomini ad avere come loro centro l’”io” piuttosto che il “tu”.
Egualmente il comunismo riduce gli uomini a un dente nella ruota dello Stato. Il comunismo può obiettare, dicendo che nella teoria marxista lo Stato è una “realtà ad interim” che finirà quando emergerà una società senza classi. Ciò è vero in teoria; ma è anche vero che, finché dura lo Stato, è il fine. L’uomo è un mezzo per quel fine. Egli non ha diritti inalienabili. I suoi unici diritti sono derivati, e conferiti, dallo Stato. In un simile sistema, la fonte della libertà si inaridisce. Limitate sono le libertà di stampa e di assemblea, la libertà di votare e la libertà di ascoltare e di leggere.
La verità non si trova né nel capitalismo tradizionale, né nel comunismo classico. Ognuno di essi rappresenta una verità parziale.”
L’America, dice - riferendosi alla guerra in corso del Vietnam - ha tutte le possibilità economiche per un cambiamento di rotta, operando la scelta di smettere di
“bruciare degli esseri umani con il napalm, di riempire le case della nostra nazione di orfani e di vedove, di iniettare droghe velenose, di odio nelle vene di popoli normalmente umani, di rimandare a casa, da tristi e sanguinosi campi di battaglia, uomini fisicamente minorati e psicologicamente sconvolti”.
Nulla impedirebbe, infatti, qualora ci fosse una volontà politica adeguata, di rimuovere le cause delle ingiustizie socio-economiche.
Scelta assolutamente prioritaria: smettere di continuare ad incrementare gli investimenti in ambito militare e, conseguentemente, dirottare tali immense risorse a favore di concreti e sostanziali miglioramenti sociali.
“Non c’è nulla, se non il desiderio di una morte tragica, che ci impedisca di riordinare le nostre priorità, in modo che la ricerca della pace abbia la precedenza sulla ricerca della guerra.
Non c’è nulla che ci impedisca di rimodellare, con le nostre mani ferite, un recalcitrante status quo, finché l’abbiamo trasformato in una fratellanza.”
Per poter sconfiggere il comunismo (definito come un severo “giudizio sul nostro fallimento nel realizzare la democrazia”) - afferma King, in un periodo storico avvelenato dallo scontro feroce fra due blocchi ideologici, politici, economici e militari radicalmente contrapposti - occorre eliminare le cause reali che lo hanno fatto nascere e che continuano ad alimentarlo.
“La risposta non è la guerra.
Il comunismo non sarà mai sconfitto con l’uso delle bombe atomiche o delle armi nucleari. (…)
Non dobbiamo chiamare comunista o pacifista chiunque riconosce che l’odio e l’isterismo non sono le risposte finali ai problemi di questi giorni torbidi. Non dobbiamo impegnarci in un anticomunismo negativo, ma piuttosto in una spinta positiva verso la democrazia, rendendoci conto che la nostra maggiore difesa contro il comunismo è prendere l’offensiva a favore della giustizia e dell’equità.
Dopo aver eloquentemente espresso la nostra condanna della filosofia del comunismo, noi dobbiamo, con un’azione positiva, cercare di rimuovere quelle condizioni di povertà, di insicurezza, di ingiustizia e di discriminazione razziale che sono il fertile suolo in cui cresce e si sviluppa il seme del comunismo.
Il comunismo prospera solo quando le porte delle possibilità sono chiuse e le aspirazioni umane sono soffocate.”
(La forza di amare, SEI, Torino, 1972, p. 196)
“Che metodo ha usato la sofisticata ingenuità dell’uomo moderno per trattare la paura della guerra?
Ci siamo armati fino all’ennesima potenza. L’Occidente e l’Oriente si sono impegnati in una febbrile gara di armamenti: le spese per la difesa sono salite a proporzioni di montagne, e agli strumenti di distruzione si è data priorità su tutti gli altri sforzi umani. Le nazioni hanno creduto che maggiori armamenti avrebbero eliminato la paura, ma ahimé! essi hanno prodotto una paura più grande. In questi giorni turbolenti, battuti dal panico, noi dobbiamo ricordarci una volta di più le giudiziose parole antiche: “ Il perfetto amore caccia via la paura.”
Non armi, ma amore, comprensione e buona volontà organizzata possono cacciar via la paura.
Solo il disarmo, basato sulla buona fede, potrà fare della fiducia reciproca una realtà vivente.” (ivi, p. 222)
“Va oltre ogni immaginazione pensare quante vite potremmo trasformare se dovessimo cessare di uccidere. (…)
Le bombe nel Vietnam esplodono in patria; distruggono le speranze e le possibilità di un’America decente.”
(Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, pp. 123-4)
In più circostanze, M. L. King esprime la sua profonda amarezza in merito al comportamento assunto dal mondo cristiano, sia nel passato sia in epoca contemporanea, di fronte alle tante gravissime forme di ingiustizia sociale.
La Chiesa (o, meglio, le Chiese) non ha mai, infatti, perso occasione per condannare la blasfemia o i peccati legati alla sfera dei piaceri sensuali, ma ha scelto, invece, di restare silenziosa spettatrice o, addirittura, di farsi complice attiva di fenomeni disumani e criminali quali il razzismo, il militarismo e la povertà.
“ … sono stato profondamente deluso - dice - dalla Chiesa bianca e dalle sue autorità. Naturalmente vi sono alcune importanti eccezioni”
(… )
Quando fui improvvisamente catapultato alla guida della “protesta degli autobus” a Montgomery, diversi anni fa, avevo la singolare sensazione che avremmo avuto l’appoggio della Chiesa bianca. Credevo che i pastori bianchi, i preti e rabbini del Sud sarebbero stati alcuni dei nostri più forti alleati. Invece, alcuni sono stati nostri aperti avversari, rifiutandosi di comprendere il movimento per la libertà e mettendo in cattiva luce i suoi dirigenti, troppi altri sono stati più prudenti che coraggiosi e sono rimasti in silenzio dietro l’anestetizzante sicurezza delle vetrate colorate.
Profondamente deluso, ho pianto sulla fiacchezza della Chiesa. Ma siate certi che le mie lacrime sono state lacrime d’amore. Sì, amo la Chiesa, amo le sue sacre mura; come potrebbe essere diversamente? (… )
Sì, vedo la Chiesa come il corpo di Cristo. Ma come l’abbiamo macchiato e sfregiato quel corpo, con il disinteresse per le questioni sociali e il timore di essere non conformisti!”
(Lettera dal carcere di Birmingham, in Lettera dal carcere di Birmingham. Pellegrinaggio alla nonviolenza, pp.13-14)
“In nessun luogo la tragica tendenza al conformismo è più evidente che nella Chiesa, una istituzione che spesso è servita a cristallizzare, conservare e anche benedire i moduli dell’opinione della maggioranza. L’assenso dato in passato dalla Chiesa alla schiavitù, alla segregazione razziale, alla guerra ed allo sfruttamento economico è la prova del fatto che la Chiesa ha prestato orecchio più all’autorità del mondo che all’autorità di Dio. Chiamata ad essere la custode morale della comunità, la Chiesa a volte ha protetto ciò che è immorale e anti-etico; chiamata a combattere le ingiustizie sociali, è rimasta silenziosa dietro i vetri delle finestre; chiamata a guidare gli uomini per la via maestra della fraternità e ad ammonirli a sollevarsi al di sopra degli angusti confini di razza e di classe, ha enunciato e praticato l’esclusivismo razziale.” (La forza di amare, p. 36)
La Chiesa viene accusata, quindi, di essere rimasta sconcertantemente silenziosa e di aver “preso spesso parte attiva nel formare e cristallizzare gli schemi del sistema di razza e di casta”. (ivi, p.192)
Colonialismo, apartheid in Sud-Africa, la schiavitù per 250 anni in America, le forme di segregazione e discriminazione ancora esistenti non sarebbero state possibili, infatti, senza la loro legittimazione da parte delle varie Chiese cristiane.
Ma in M. L. King resta viva la speranza che il mondo cristiano possa finalmente mobilitarsi per mettersi alla guida di un nuovo corso di rinascita morale, capace, attraverso la forza dell’empatia, di risanare ferite antiche e di dissolvere odi recenti, favorendo e costruendo una reale prospettiva di affratellamento.
“La Chiesa – scrive – ha l’opportunità e il dovere di far sentire la propria voce e dichiarare alle genti l’immoralità della segregazione. Deve affermare che ogni vita umana è un riflesso della divinità, e che ogni atto di ingiustizia guasta e mutila l’immagine di Dio nell’uomo. La filosofia che sta alla base della segregazione è diametralmente opposta alla filosofia che sta alla base della nostra eredità giudaico-cristiana, e tutte le dialettiche dei logisti non potranno mai farla coincidere.
Ma le dichiarazioni contro la segregazione, per quanto sincere, non sono sufficienti. La Chiesa deve prendere l’iniziativa nelle riforme sociali. Deve avanzare nell’arena della vita e lottare per la santità degli impegni religiosi.”
(Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, pp. 140-143)
La nuova edizione di Vivi o Morti?, rinnova l’invito a riflettere sul dovere del dubbio, con l’aggiunta di riflessioni e interviste che suscitano interrogativi interessanti sulla questione dell’espianto e della donazione di organi. Una questione che riguarda non solo la bioetica, ma può essere considerata uno spunto per una riflessione generale sul confine tra vita e morte.
Sul concetto di morte cerebrale, infatti, c’è tutt’altro che unanimità, anche all’interno della Chiesa cattolica, che pure sulle questioni bioetiche ostenta spesso sicurezza. Dunque, quando mancano "gli elementi di base necessari (sia quantitativi che qualitativi) per poter comprendere la complessità della questione sotto tutte le sue numerose sfaccettature”, la posizione più saggia è quella del dubbio. Tanto più su una questione che implica riflessioni sulla “vera natura dell’uomo”, “sui confini tra vita e morte, sul giusto modo di intendere la dignità della persona e sui diritti della persona stessa”.
Dopo diversi anni dalla pubblicazione della prima edizione, l’autore, Roberto Fantini, ribadisce il presupposto alla base della sua opera: “la convinzione che la stragrandissima maggioranza delle persone (anche di ottimo livello culturale) si trovi totalmente all’oscuro della vera condizione del cosiddetto ‘morto cerebrale’, del fatto, cioè, che esso sia un ‘qualcosa’ (semplice organismo o ancora persona a tutti gli effetti?) assai differente da come siamo abituati a rappresentarci un defunto”. Infatti, spiega l’autore, esso “gode di normale temperatura corporea, ha cuore battente con relativo sangue circolante e polmoni respiranti (anche se, sovente, meccanicamente coadiuvati), si può ammalare e, se curato, è in grado anche di guarire, produce liquido seminale fertile (se di sesso maschile), è in grado di concepire e / o condurre a termine una gravidanza (se di sesso femminile)”.
Di particolare interesse sono, inoltre, le riflessioni sulla rivoluzione culturale che è alla base della “teoria-prassi dei trapianti”, come la definisce l’autore. Tale rivoluzione consiste nell’aver abbandonato repentinamente come qualcosa di “obsoleto e pre-scientifico” la concezione della morte che aveva prevalso per millenni, ovvero l’esalazione dell’ultimo respiro e la cessazione delle pulsazioni cardiache. Di contro, la Commissione di Harvard ha imposto il paradigma della morte cerebrale, che identifica la morte con la cessazione delle attività cerebrali “oggettivamente registrabili”, indipendentemente dalle funzioni di altre parti dell’organismo, come, ad esempio cuore e polmoni.
La nuova sezione aggiunta nella seconda edizione di Vivi o Morti? include gli articoli scritti in questi ultimi anni da Roberto Fantini su tematiche collegate con l’introduzione di tale paradigma, come la fine della vita, i trapianti di organi, e i “risvegli che dovrebbero farci riflettere”. Questi ultimi, infatti, suscitano la questione se sia “scientificamente possibile ottenere certezze incontrovertibili in merito all’irreversibilità di una condizione comatosa”. Inoltre, inducono a chiedersi se sia “scientificamente dimostrabile la totale cancellazione di qualsivoglia forma di coscienza nei pazienti immersi nelle varie condizioni comatose” e, in relazione alla prassi dell’espianto di organi, “fino a che punto possiamo essere certi che coloro che classifichiamo come ‘donatori’ di organi non conservino una loro sensibilità, una loro coscienza che non siamo capaci di riscontrare”.
In appendice, rispetto alla prima edizione, sono state aggiunte due interviste alla teologa e bioeticista Doyen Nguyen, che l’autore ha conosciuto durante un convegno internazionale della John Paul II Academy for Human life and the Family. Specializzata in medicina ematologica e successivamente laureatasi in Teologia morale, specializzandosi in Bioetica, oggi Nguyen insegna alla Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino (Angelicum).
Nella prima intervista, si affronta il tema dei trapianti d’organi e dei dubbi sul momento della morte, poiché i concetti di “morte cerebrale” e “morte a cuore fermo”, utilizzati come paradigmi per stabilire la morte ufficiale di un paziente, spesso non corrispondono alla “morte biologica” di un essere umano. Entrambi i concetti, inoltre, secondo la docente, sono fondati sulla stessa concezione utilitaristica, dal momento che servono a dare il via libera per l’espianto d’organi da un paziente vittima di un grave incidente o affetto da grave disabilità. Di contro, secondo Nguyen, per accertare la morte di qualcuno occorre che si manifestino”determinati segni”, tra i quali figura la caduta della temperatura, di pari passo con la cessazione delle attività metaboliche (è il metabolismo che genera calore, mantenendo la temperatura corporea al di sopra di un certo livello). Inoltre, entro pochi minuti dalla morte, inizia il processo di putrefazione e disintegrazione del corpo, che diventa evidente entro due o tre giorni. Nondimeno, la morte, secondo la docente, è anche un “evento metafisico”, coincidendo con la “separazione dell’anima dal corpo”. A tal proposito, non abbiamo strumenti per rilevare la presenza dell’anima, il che rende impossibile stabilire con certezza il momento esatto della morte, così come è impossibile stabilire il momento esatto del concepimento. Per questo motivo, due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, avevano sollevato perplessità sul concetto di morte cerebrale. Nella seconda intervista, si solleva il dubbio che gli espianti d’organi siano praticati su persone vive, come dimostrano le contrazioni muscolari che si rilevano durante le operazioni. Nella stessa intervista, inoltre, si avanza l’ipotesi che talvolta la morte cerebrale sia “provocata”, in particolare nel caso di “morte cardiaco-circolatoria controllata”. Quando il paziente viene trasportato in sala operatoria, viene staccato dal supporto vitale e, per “alleviare o prevenire il fastidio”, gli vengono somministrati “narcotici e sedativi”. Successivamente, al paziente si inserisce una “cannula femorale” e “la sua pelle viene preparata e coperta”. Quindi, dopo un “breve periodo di osservazione”, l’insorgenza dell’arresto cardio-respiratorio fa sì che il paziente sia “dichiarato morto”. Nel 25 per cento dei casi, aggiunge Nguyen, “il potenziale donatore è ancora vivo dopo un’ora dalla rimozione del supporto vitale”. Di conseguenza, conclude la docente, sia nel caso della morte cerebrale, sia in quello della morte cardiaco-circolatoria controllata, si tratta di “forme velate di eutanasia progettate primariamente per lo scopo di ottenere organi”.
ROBERTO FANTINI
VIVI O MORTI?
MORTE CEREBRALE E TRAPIANTO DI ORGANI: CERTEZZE VERE E FALSE, DUBBI E INTERROGATIVI
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