
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
La guerra è il massacro di persone che non si conoscono, a vantaggio di persone che si conoscono ma non si massacrano—Paul Valery (poeta)
Viviamo in un mondo carente di empatia e amore. Il giudizio verso gli individui di diversa religione, razza o orientamento sessuale è ormai sotto una lente d’ingrandimento, dove altri si sentono autorizzati a giudicare, odiare, insultare e denigrare. È un mondo dove la diversità viene calpestata e dove i potenti approfittano di questo odio, innescando una spirale che alimenta conflitti, violenza, guerre e ingiustizia.
Non c'è riflessione, né ragione, né consapevolezza, ma solo un istinto primordiale che gli animali stessi sembrano aver superato. Stati accecati dalla rabbia inviano armi di sterminio, alimentando guerre in cui a soccombere è il debole, colui che non può reagire e che arretra stremato. Bambini bruciati, uccisi, torturati, mentre madri tremanti fuggono con i corpicini fra le braccia, inseguendo una parvenza di vita.
Intorno cecità assoluta, ciò che non è vicino non si vede, non si sente. Non ci sono suoni di bombe, di razzi, di spari. Non ci sono le urla, i pianti e i sussurri di morte. Vi è solo il sentito dire, il visto ai tg, il letto sui giornali. E intanto la gente muore per ordine di capi insensati, vigliacchi protetti in castelli lontani dal dolore dove chi se ne frega se una famiglia di disgrega, se arti di uomini e donne si staccano dai corpi, chi se ne frega se mamme muoiono con i bambini in grembo…
La brama di conquistare una terra per il gusto di potenza prevale sul desiderio di respirare la vita e la bellezza di un mondo che l'uomo non ha creato, ma che ha scelto di distruggere in ogni modo possibile. Un universo alla deriva! Ormai, rabbia, cattiveria e infamia sono i fili che muovono ciò che resta della natura umana. Si manifestano violenze inaudite: torture, prevaricazioni, sottomissioni; un odio silente e strisciante ovunque. Intanto, la vita scorre, giorno dopo giorno, lasciando dietro di sé i sentimenti che infondevano speranza, amore e sorriso.
La storia non insegna, non lo ha mai fatto. Nella quasi blasfemia di questo mio concetto, trovo una verità imbarazzante. Non s’impara mai dal dolore; anestetizza nel momento ma poi cade in quel dimenticatoio profondo che è l’indifferenza verso l’atro. Paesi poveri dimenticati e Paesi ricchi assetati di potere di altra ricchezza. I diritti dell’umanità accantonati, dileggiati, dimenticati e ignorati sempre più spesso.
Esseri umani di serie A e altri considerati senza classificazione. Questo è un mondo dove il dialogo si fa sempre più difficile, dove non a tutti viene riconosciuto il diritto di esistere e di essere. Forse la cosa peggiore sono coloro che negano i massacri: i negazionisti dell'orrore, mossi unicamente da fini politici e guerrafondai. Una cosa è certa: non dobbiamo abbassare la guardia. Chi riesce a vedere oltre questa realtà deve continuare a credere nel cambiamento, iniziando a cambiare in prima persona, là dove e come è possibile. Le guerre nascono da dispute territoriali, economiche, ideologiche, religiose, etniche o dal mantenimento/rovesciamento di equilibri di potere, ma sono in primo luogo crimini in cui si assiste troppo spesso a gravi violazioni dei diritti umani. Il dolore e l’indifferenza devono avere fine ma non sarà possibile fino a quando l’essere umano continuerà con la malvagità e l’istinto primordiale senza alcuna coscienza.
Come innumerevoli altre volte, una giornata di splendide manifestazioni in tutta Italia, con in piazza centinaia di migliaia di persone di ogni età, è stata, a livello mediatico e politico, ignobilmente svuotata del suo contenuto e della sua essenza:
la violenza criminale dell’esercito israeliano è finita in soffitta e tutti lì a prendere le distanze e a deprecare la violenza idiota di sparute minoranze incappucciate.
Obnubilato il meraviglioso oceano di civilissima gente, infatti, sui vari tg e sulla quasi totalità delle prime pagine dei quotidiani, hanno finito per dominare, con immenso tripudio di giornalisti mercenari e di politici rampognanti, immagini e filmati relativi ai tafferugli della stazione di Milano e ai blocchi stradali e autostradali …
Solita sperimentatissima applicazione della ben nota strategia di cossighiana memoria, basata su chirurgiche infiltrazioni e abili manipolazioni di parte dei manifestanti? Impossibile escluderlo, ovviamente.
Ma - mi domando - quando si capirà, da parte di tutti noi, che per conferire dignità alla propria causa e per far apparire in tutta la sua sostanza il valore della propria protesta, dovrebbero essere radicalmente rifiutate, evitate e ostacolate:
Quando si capirà che occupazioni di stazioni, di scuole o di autostrade, violando di fatto legittimi diritti della povera gente, in nulla giovano alle grandi cause, finendo per seminare soltanto sofferenza, rabbia, indignazione, odio e ostilità, e offrendo ai governi e ai loro servi fedeli l’opportunità per criminalizzare ed infangare in blocco l’intera massa dei manifestanti e dei loro sostenitori?
Quando si comprenderà che simili azioni sono in chiaro contrasto con la filosofia e con lo stile della vera lotta nonviolenta, e che nulla hanno a che vedere con la tanto spesso invocata (quanto fraintesa) “disobbedienza civile”?
E che, soprattutto, costituiscono un colossale regalo per la peggiore informazione e per la peggiore politica, che vengono immensamente facilitate nel loro vergognoso intento di evitare di affrontare questioni serie e di ascoltare le voci giuste e oneste di un popolo che, nonostante tutto, non smette di credere che un altro mondo sia davvero possibile.
“Dopo l’ottobre 2023, i sistemi di controllo, sfruttamento e spoliazione di lunga data si sono trasformati in infrastrutture economiche, tecnologiche e politiche mobilitate per infliggere violenza di massa e distruzione senza precedenti. Le entità che in precedenza hanno permesso e tratto profitto dall’eliminazione e dalla cancellazione dei palestinesi attraverso l’economia dell’occupazione, invece di disimpegnarsi, sono ora coinvolte nell’economia del genocidio.”
“Mentre la vita a Gaza viene cancellata e la Cisgiordania è sottoposta a un assedio crescente, questo rapporto mostra come mai il genocidio condotto da Israele va avanti: perché è redditizio per molti.”
FRANCESCA ALBANESE
Il Rapporto di Francesca Albanese, Relatrice Speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati da Israele, Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, rappresenta una indagine rigorosamente documentata degli “ingranaggi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di espulsione e sostituzione dei palestinesi nel territorio occupato.” L’eccellente lavoro costituisce, in particolar modo, un lucidissimo e potentissimo j’accuse nei confronti di vaste aree del mondo economico internazionale. Ma le denunce che esso contiene, assai sfortunatamente, dopo qualche breve momento di attenzione e di discussione, sono scivolate via, senza riuscire a produrre conseguenze di un qualche rilievo. Ed è altissimo il rischio che tutto finisca come uno scroscio di pioggia nel deserto.
L’Albanese, dopo aver perentoriamente affermato che Israele, dopo la negazione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, sta arrivando a mettere “a repentaglio l’esistenza stessa del popolo palestinese in (quel che resta della) Palestina”, focalizza la propria attenzione sul ruolo delle numerose entità aziendali (imprese commerciali, multinazionali, entità a scopo di lucro e non, private, pubbliche o di proprietà dello Stato) coinvolte nel sostegno all’occupazione illegale e nella “campagna genocida” in corso a Gaza.
L’elenco dei soggetti aziendali è lungo e non privo di sorprese e riguarda
“produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione ed edilizia, industrie estrattive e di servizi, fondi pensione, assicuratori, università e organizzazioni benefiche.”
E, in considerazione del fatto incontestabile che tali
“entità coadiuvano la violazione dell’autodeterminazione e altre violazioni strutturali nel territorio palestinese occupato, tra cui l’occupazione, l’annessione e i crimini di apartheid e genocidio, nonché una lunga lista di crimini accessori e violazioni dei diritti umani, dalla discriminazione, alla distruzione ingiustificata, allo spopolamento e al saccheggio, alle esecuzioni extragiudiziali e alla fame”,
il punto di approdo risulta quanto mai nitido e lapidario.
Per far sì che si possa mettere fine alle attività commerciali che consentono e traggono profitto dall’annientamento di vite innocenti,
Tutti atti necessari quanto doverosi che, però, ragionando in modo realistico, al momento appaiono di ben ardua realizzazione.
Per cui, a mio avviso, andrebbe presa in considerazione ed attuata con estrema determinazione (secondo il migliore stile gandhiano) una puntuale strategia nonviolenta di boicottaggio nei confronti dei vari soggetti segnalati nel Rapporto. Boicottaggio che, per poter sperare di risultare efficace, non dovrebbe essere affidato semplicemente alla buona volontà delle singole persone, ma che dovrebbe essere proclamato e pilotato da una vasta e autorevole coalizione internazionale di ONG e associazioni umanitarie e di volontariato, a cui, per effetto slavina, finirebbero per aderire numerose chiese e organizzazioni religiose, sindacati, università, società sportive, ecc.
Perché, a quel punto, una mancata adesione non potrebbe che apparire estremamente scomoda e difficilmente giustificabile.
Solo così l’operazione di boicottaggio arriverebbe a coinvolgere milioni (forse decine di milioni) di consumatori e riuscire, pertanto, a produrre, già nel giro di pochi giorni o poche settimane, effetti tangibili ed inequivocabili, di fronte a cui le entità aziendali prese di mira si troverebbero costrette a prendere chiari e radicali provvedimenti, rassicurando azionisti, investitori, soci, dipendenti, ecc.
Fra detti soggetti economico-finanziari, una volta esposti alla pubblica condanna, non potrebbe, infatti, che innescarsi un altro contagiosissimo effetto-slavina:
quello della dissociazione rispetto anche al pur minimo sospetto di connivenza-collaborazione con le operazioni in odore di genocidio, al fine di liberarsi pubblicamente da accuse ed ombre infanganti ed infamanti, nocive per la propria credibilità e per la propria stessa sopravvivenza.
Certo, la mia potrebbe apparire come una speranza troppo ingenua e fin troppo ottimistica … Un simile appello al boicottaggio, all’interno di un mondo iperconsumistico come il nostro, potrebbe infatti cadere facilmente nel vuoto, incontrando scarso interesse e grosse resistenze sul piano pratico; i meccanismi mediatici, ampiamente asserviti agli interessi economici, potrebbero svolgere una brillante azione di occultamento-banalizzazione; i soggetti aziendali presi di mira potrebbero prodigarsi nel fornire grandi rassicurazioni, limitandosi, di fatto, a qualche piccola modifica di facciata delle loro strategie, ecc.
Sì, certo … forse …
Ma il vero problema che dovremmo porci è un altro:
come riuscire a fare in modo che il prezioso (ed esplosivo) operato di Francesca Albanese non finisca come pioggia ingoiata dal deserto?
Adesso che abbiamo davanti ai nostri occhi un elenco ben preciso delle entità aziendali coinvolte, giudicate corresponsabili di quanto sta accadendo, perché - mi chiedo - continuano ancora a non essere avanzate, da parte delle innumerevoli cosiddette “forze del Bene” della società civile (di ambito umanitario, economico, religioso, culturale, ecc.), concrete proposte di fattiva ed efficace operatività?!?
E’ davvero tanto difficile creare rapporti di collaborazione, di condivisione, di sinergia, intraprendendo una campagna corale, compatta e determinata, e, soprattutto, di respiro mondiale?
E’ davvero tanto difficile, insomma, passare dalla deprecazione tanto accorata ad una coraggiosa azione coerentemente impegnata?
Ogni giorno ci lamentiamo del traffico, dei clacson, del cantiere sotto casa e delle sirene che attraversano la notte, ma raramente ci chiediamo se tutto questo rumore abbia un prezzo. Eppure ce l’ha, ed è alto. L’inquinamento acustico, definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “rumore ambientale dannoso per la salute umana”, non è solo una seccatura urbana. È un fattore di rischio per la salute pubblica, una fonte di diseguaglianza ambientale e una minaccia per molte specie animali. Tuttavia, nelle agende politiche e nel dibattito pubblico, continua a restare un tema marginale. Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, oltre 113 milioni di cittadini europei sono esposti quotidianamente a livelli di rumore superiori ai 55 decibel, la soglia oltre la quale il rischio per la salute aumenta. Solo in Europa, si calcolano più di 12.000 morti premature all’anno attribuibili al rumore ambientale, e un milione di anni di vita sana persi. Peraltro, l’inquinamento acustico è ancora trattato come un “male necessario” ed un effetto collaterale dello sviluppo urbano. Forse perché non lo vediamo, non lo respiriamo e non lo tocchiamo, ma lo subiamo, costantemente.
Il primo fraintendimento da superare è che il rumore sia solo fastidio. In realtà, l’esposizione cronica al rumore, anche a livelli moderati, produce effetti fisiologici misurabili: aumento della pressione sanguigna, disturbi del sonno, alterazione del battito cardiaco, maggiore produzione di cortisolo ed altri ormoni dello stress. Una ricerca pubblicata su The Lancet ha collegato l’inquinamento acustico ad un aumento del rischio di infarto nelle persone che vivono in prossimità di arterie stradali o aeroporti. Nei bambini, il rumore ambientale influenza l’apprendimento, la concentrazione e lo sviluppo del linguaggio. Non è un caso che l’O.M.S. abbia inserito il rumore tra i principali fattori ambientali di rischio per la salute nei Paesi occidentali, dopo l’inquinamento atmosferico. A differenza di altri inquinanti, però, il rumore non ha soglie evidenti: non si accumula nel corpo e non dà sintomi immediati. Agisce lentamente, come un logorio.
E proprio per questo è spesso sottovalutato. Come ogni forma di inquinamento, anche quello acustico colpisce in modo diseguale. I quartieri più esposti al rumore sono spesso quelli dove vivono le classi sociali più fragili: aree vicine a infrastrutture, zone industriali o strade ad alta percorrenza. Nel centro di una grande città, chi può permettersi di vivere in una via pedonale o in una casa con doppi vetri non subirà gli stessi effetti di chi abita al quarto piano di un palazzo affacciato su una tangenziale. Anche il rumore, peraltro, è un indicatore di povertà ambientale. È una dinamica che si ripete ovunque nelle periferie urbane, nelle città portuali e nei pressi delle ferrovie. Spesso riguarda anche le scuole e gli ospedali, cioè i luoghi dove il silenzio dovrebbe essere garantito. Anche gli animali subiscono gli effetti dell’inquinamento acustico e in molti casi, in modo più drastico degli esseri umani. Infatti, gli uccelli che vivono in città cambiano i propri canti, modificandone frequenza e durata, per riuscire a comunicare sopra il rumore del traffico.
I pipistrelli, che si orientano tramite eco localizzazione, possono essere completamente disorientati dal rumore di fondo urbano. Gli animali marini, in particolare i cetacei, sono minacciati dal traffico navale e dalle esplosioni sottomarine utilizzate per l’esplorazione di idrocarburi. Il rumore altera i comportamenti migratori, la riproduzione e la predazione. E si aggiunge ad altri fattori di stress come l’inquinamento chimico, la perdita di habitat e il riscaldamento globale. L’impatto del rumore sulla biodiversità è ampiamente documentato, ma ancora scarsamente riconosciuto nelle politiche di tutela ambientale. A livello europeo, esiste una direttiva (2002/49/CE) che impone agli Stati membri di redigere mappe acustiche e piani d’azione per ridurre il rumore nelle aree urbane. In Italia, la legge quadro 447/1995 ha posto le basi per una normativa sul rumore ambientale, ma nella pratica, l’applicazione è stata lacunosa e disomogenea. Infatti, molti Comuni non hanno mai approvato un piano acustico comunale. I controlli sulle emissioni sonore affidati ad ARPA delle attività produttive e commerciali sono sporadici, e, spesso, sottofinanziate. Le sanzioni sono rare e poco dissuasive. E la percezione pubblica del problema resta bassa: protestiamo contro la spazzatura nelle strade, ma accettiamo il rumore come un sottofondo inevitabile. Il risultato è un’assenza di strategia nazionale.
Manca un coordinamento tra Enti, una visione di lungo termine e, soprattutto, una volontà politica di affrontare il problema con serietà. Le soluzioni esistono, e sono già sperimentate in molte città europee. Barriere acustiche naturali (alberi, siepi, terrazzamenti); pavimentazioni fonoassorbenti nelle strade; zonizzazione del rumore limitando gli orari per cantieri e attività commerciali; regolamentazione degli impianti audio nei locali pubblici; incentivi per mezzi di trasporto elettrici e silenziosi e progettazione urbanistica orientata alla quiet city: meno auto, più aree pedonali, spazi verdi e piste ciclabili. Non è solo una questione tecnica. Serve un cambio culturale: rieducare cittadini, amministratori, architetti e imprese al valore del silenzio. Inserire il tema del rumore nei programmi scolastici. Usare campagne pubbliche per aumentare la consapevolezza. Perché il rumore è una forma di degrado, come i graffiti vandalici o i rifiuti in strada. Solo che si sente, ma non si vede. In un’epoca in cui si parla molto di sostenibilità, è paradossale che si parli così poco di inquinamento acustico. Forse perché è difficile farlo diventare un tema di mobilitazione politica. Nessuno scende in piazza per chiedere più silenzio. Eppure, il rumore incide sulla qualità della vita quanto (se non più) di altri fattori. Chi ha vissuto in una città senza traffico lo sa: il silenzio non è un lusso, è un diritto. Recuperare il valore politico del silenzio significa cambiare modello urbano, economico e culturale. Ciò significa riconoscere che la salute mentale è tanto importante quanto l’efficienza della mobilità e che un ambiente più silenzioso è anche un ambiente più sano, equo e vivibile.
Articolo 1.
I popoli indigeni, sia come collettività sia come persone, hanno diritto al pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali così come sono riconosciuti nella Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione Universale dei diritti umani e nella normativa internazionale sui diritti umani.
Articolo 2.
I popoli e gli individui indigeni sono liberi ed eguali a tutti gli altri popoli e individui e hanno diritto a non essere in alcun modo discriminati nell’esercizio dei loro diritti, in particolare per quanto riguarda la loro origine o identità indigena.
Articolo 3.
I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto essi determinano liberamente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.
DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI UNITE SUI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI (2007)
Dopo secoli di presuntuosi pregiudizi e inenarrabili violenze che hanno comportato stermini di massa, deportazioni, devastazioni e schiavizzazioni ai danni di popoli percepiti come estranei al proprio modello di civiltà (quello ellenico-cristiano), il mondo occidentale, in sede filosofica e scientifica, grazie soprattutto ai progressi degli studi antropologici dell’inizio del XX secolo, ha compiuto la scelta di liberarsi dal suo odioso etnocentrismo, riconoscendo l’esistenza di altri ambiti culturali non più etichettabili come “barbari”, “selvaggi” o “naturalmente inferiori”. Ciò è stato reso possibile, soprattutto, grazie al contributo di importanti scuole etnologiche, come quella boasiana e quella di Malinowski, convergenti nel riconoscere la pluralità delle culture, non più riducibili ad un unico schema di sviluppo e di interpretazione, in quanto dotate di precipua individualità e di efficaci sistemi funzionali.
E dopo oltre mezzo secolo dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, alle soglie del nuovo secolo (13/09/2007), l’Assemblea delle Nazioni Unite ha inteso produrre una nuova Dichiarazione, esclusivamente riferita ai diritti dei popoli indigeni, sottolineando come le innumerevoli ingiustizie storiche patite (in particolar modo a causa della colonizzazione e della spoliazione delle terre e delle risorse) abbiano impedito loro di esercitare il “proprio legittimo diritto allo sviluppo in accordo con i propri bisogni e interessi”, e riconoscendo “l’urgente necessità di rispettare e promuovere i diritti intrinseci dei popoli indigeni che derivano dalle loro strutture politiche, economiche e sociali e dalle loro culture, dalle loro tradizioni spirituali, storie e filosofie, e in modo particolare i loro diritti alle proprie terre, territori e risorse,” e riconoscendo, altresì, “che il rispetto dei saperi, delle culture e delle pratiche tradizionali contribuisce allo sviluppo equo e sostenibile e alla corretta gestione dell’ambiente”.
Ma i passi avanti filosofici e giuridici poco incidono, anche in questo caso, sulla voracità amorale dell’economia capitalistica. I popoli indigeni continuano ad essere oggetto, in varie aree del pianeta, di ignobili minacce, soprusi, e violenze, di una gravità tale da metterne in serio pericolo la stessa sopravvivenza.
Con l’obiettivo di attirare l’attenzione generale sulla sorte dei popoli indigeni (stimati fra i 370 e i 476 milioni in oltre 90 paesi), l’UNESCO ha celebrato, nell’appena trascorso 9 agosto, la Giornata Internazionale dei popoli Indigeni del Mondo, in ricordo della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, svoltasi nel 1982 e della successiva istituzione ufficiale della ricorrenza, tramite la risoluzione 49/214 dell’ONU (1994).
Particolare rilevanza è stata attribuita alla funzione di guardiani dell’ambiente e difensori della biodiversità svolta dai popoli indigeni, intesi come vero argine vivente di fronte all’avanzata dei settori estrattivi e produttivi, fonte catastrofica di deforestazione e degrado del territorio.
Sicuramente una scelta intelligente e moralmente encomiabile quella di aver voluto conferire alle comunità dei nativi, intese perlopiù come intralcio alla trionfale avanzata del “progresso”, la nobile e nobilitante veste di custodi degli equilibri ambientali e, quindi, di curatori dei reali e concretissimi interessi dell’intero pianeta e di tutti i suoi abitanti … Ma resta assai difficile credere che ciò possa bastare a fermare la mano criminale di un sistema di dominio e di sfruttamento che nulla sa e che nulla vuol sapere di diritti inviolabili, di dignità delle persone, di diritto all’autodeterminazione, di rispetto delle diversità e di tutela ambientale.
L’unica via percorribile, è quella che prevede che, da parte di tutti gli Stati, venga preso in responsabile e coerente considerazione, “senza se e senza ma”, quanto indicato nell’articolo 8 della sopra menzionata Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. Altrimenti, rischieremo, come in troppi altri casi, di continuare a naufragare in un oceano sterile quanto ipocrita di retorica delle buone intenzioni e dei generosi auspici:
“Gli Stati devono provvedere efficaci misure di prevenzione e compensazione per:
a) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di privarli della loro integrità come popoli distinti, oppure dei loro valori culturali o delle loro identità etniche;
b) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di espropriarli delle proprie terre, territori e risorse;
c) Qualunque forma di trasferimento forzato della popolazione che abbia lo scopo o l’effetto di violare o minare quale che sia dei loro diritti;
d) Qualunque forma di assimilazione o integrazione forzata;
e) Qualunque forma di propaganda volta a promuovere o istigare la discriminazione razziale o etnica nei loro confronti.”
L’arresto di Usāma al-Maṣrī Nağīm sul territorio italiano avrebbe potuto segnare un momento storico per la giustizia internazionale. Invece, si è trasformato in un caso diplomatico imbarazzante, una macchia sulla credibilità dell’Italia come Paese che si professa difensore dei diritti umani. Al-Masri è accusato dalla Corte Penale Internazionale (C.P.I.) di crimini gravissimi: torture sistematiche, violenze sessuali, omicidi, detenzioni arbitrarie nei campi libici dove venivano trattenuti migranti africani. Perciò, nonostante l’arresto in Italia, il “comandante” non è stato consegnato alla giustizia internazionale. È stato invece rispedito in patria con un volo di Stato, senza processo, senza estradizione, e neppure un’udienza pubblica. Secondo il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, a bloccare la procedura sarebbero stati “problemi formali”: incongruenze nei documenti, errori di traduzione, atti redatti in inglese. Una giustificazione che appare debole, se non pretestuosa, per un Paese che ha firmato lo Statuto di Roma e si è impegnato a collaborare con la Corte dell’Aja. Chi conosce il funzionamento della C.P.I. sa bene che gli eventuali difetti di forma non giustificano la mancata esecuzione del mandato d’arresto.
Il governo italiano avrebbe potuto e dovuto chiedere chiarimenti, prorogare la custodia cautelare, sollevare eccezioni legali secondo i canali previsti. Invece, ha scelto la via più rapida: quella del rientro immediato. È evidente che non siamo davanti a una semplice svista burocratica, ma a una decisione politica. Il sospetto, fondato, è che il governo italiano abbia preferito evitare attriti con le autorità libiche, in un momento in cui i rapporti bilaterali sono cruciali per la gestione dei flussi migratori. Una logica di convenienza che però mina i fondamenti del diritto internazionale. Se ogni Stato potesse ignorare i mandati della C.P.I. sulla base di tecnicismi, l’intero sistema collasserebbe. L’Italia ha scelto di non collaborare con la giustizia, e così facendo ha offerto un salvacondotto a un uomo accusato di crimini disumani. Le reazioni non si sono fatte attendere. Il Tribunale dei Ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano per favoreggiamento e peculato. Una delle vittime sopravvissute alle torture ha denunciato lo Stato italiano.
La Corte Penale Internazionale ha aperto un dialogo formale con Roma per chiedere spiegazioni. È l’ennesima crepa nella reputazione internazionale dell’Italia. Peraltro, oltre alla responsabilità giuridica, c’è una responsabilità morale che pesa come un macigno. Che messaggio stiamo trasmettendo alle vittime dei crimini di guerra? Che il loro dolore vale meno della nostra convenienza geopolitica? Che la giustizia è negoziabile? L’Italia ama presentarsi come paladina dei diritti umani, ma in questo caso ha voltato le spalle alla giustizia internazionale. Non è sufficiente indignarsi per i crimini altrui se, quando si ha l’occasione concreta di intervenire, si sceglie il silenzio, l’omertà, il ritorno alla Realpolitik. La giustizia non si difende con i comunicati stampa, ma con il coraggio delle scelte. Se l’Italia vuole ancora essere credibile come Stato di diritto, è tempo di fare chiarezza, e non per compiacere la legalità internazionale, ma per rispetto verso noi stessi, verso la nostra Costituzione e verso tutte le vittime che attendono, e meritano giustizia.
L' adozione a distanza rappresenta un ponte che unisce due mondi e crea un futuro di opportunità ma è anche un percorso complesso che, richiede preparazione, informazione e supporto.
Nel 2024, in Italia, sono stati adottati 1.425 bambini e giovani, di cui 185 tramite adozioni singole e 1.240 tramite adozioni di gruppo, che includono anche 140 seminaristi e 150 allievi infermieri, secondo il rapporto OPAM. Per quanto riguarda le adozioni intenazionali, c'è stata una lieve ripresa nel 2024, con 691 minori stranieri accolti da famiglie italiane, un aumento del 12% rispetto al 2023. I dati relativi al 2024 e 2025 per le adozioni a distanza non sono specificati nel dettaglio, ma si registra una tendenza generale alla diminuzione delle adozioni internazionali negli ultimi anni, con un calo del 73% nel numero di coppie richiedenti nel primo semestre del 2024 rispetto al primo semestre del 2014, secondo la Commissione per le Adozioni Internazionali.
Un piccolo contributo in questo caso può fare la differenza nella vita di un bambino. L'adozione a distanza non è solo un aiuto materiale, ma rappresenta anche un legame emotivo che arricchisce la vita di chi adotta, offrendo una prospettiva più ampia sul mondo e sul valore della solidarietà. Non importa quindi la distanza, il cuore sa trovare la strada per connettersi con chi ha bisogno. E proprio per questo voglio raccontare una storia che parte dalla Svizzera e arriva a Karenge (Rwanda) con l’adozione a distanza di due bambine. Sono due sorelline, Waneza Ange di 7 anni e Ishimwe Anne Maria di 10 anni.
Un gesto di grande generosità e sensibilità dei coniugi Piero Melissano e Marina Brugnano.
Un segno di grande altruismo e impegno verso un mondo più giusto.
Piero Melissano e Marina Bugnano, dichiarano: “ Quello che ci serve
Marina Brugnano e Piero Melissano |
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davvero in questa vita è la forza della connessione umana, una presenza silenziosa, un gesto gentile, un tocco che ci ricordi che non siamo soli.
Nei momenti difficili l’amore e la solidarietà diventano inevitabilmente un'ancora che ci tiene a galla e noi, quell’ancora siamo felici di averla gettata intraprendendo l’adozione a distanza”.
Questa è una favola a lieto fine che, ci ricorda l’importanza di esserci l’uno per l’altro.
Partinico (Pa) - Parlando di uguaglianza e diversità il punto da cui partire è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino secondo la quale gli uomini sono tutti uguali, hanno tutti gli stessi diritti. Diritti fondamentali come il diritto alla salute, alla vita, al rispetto, alla libertà di realizzarsi secondo i loro desideri, di esprimere le proprie opinioni, di scegliere la religione: si tratta di diritti imprescindibili non soggetti a differenze. In sostanza, non possono essere messi in discussione.
Se questi sono i principi di base, però, va anche detto che l’unicità dell’individuo, nella pratica quotidiana, va rispettata.
Essere uguali non significa assomigliarsi, pensare, parlare, vestirsi, comportarsi tutti nello stesso modo.
Si può dire, in un certo senso, che esercitare la propria individualità e dunque la propria unicità rispetto agli altri sia un diritto come gli altri.
La diversità spesso fa paura perché, come esseri umani, ci sentiamo più sicuri con ciò che conosciamo bene e che ci è familiare. Quando incontriamo persone che sembrano, pensano o si comportano in modo diverso da noi, a causa di una diversità, il nostro cervello può reagire con incertezza o insicurezza. Questa reazione è del tutto normale: fa parte del nostro istinto di cercare sicurezza in ciò che è prevedibile e conosciuto. La diversità può essere associata a una disabilità di tipo fisico o psichico.
Parlare di diversità apre anche un altro discorso: quello sulla discriminazione. Discriminare il diverso, soprattutto se in caso di bisogno, è frequente e in qualche modo connaturato alla natura umana, che in caso di paura reagisce negativamente rifiutando quello che percepisce come un pericolo. A chi non è mai capitato di obbedire all’istinto di fuggire, per fastidio e paura, da chi si trova in uno stato di bisogno?.
Dunque, non è utile eccedere, né nell’annullare la diversità, né nell’enfatizzarla: si tratta piuttosto di essere aderenti alla realtà e di affrontarla con serenità ma, non neghiamolo, anche con sofferenza, con piccole-grandi lotte quotidiane combattute non solo con se stessi, ma anche con il mondo, talvolta inaccessibile e staccato dai cosiddetti “normodotati”.
In questa nostra società caratterizzata dall’esaltazione dell’immagine, della velocità, della perfezione, dalla corsa al successo, il disabile (sia esso intellettivo, fisico e/o sensoriale) corre il rischio di “essere tralasciato”, di non rimanere in gara, di sentirsi isolato e solo; rischia di percepirsi come zavorra, con conseguente perdita di fiducia in sé e negli altri.
Non tutti hanno la forza ed il coraggio di continuare a battersi per ciò in cui credono, e spesso, dopo vari tentativi infruttuosi, si giunge alla resa di fronte ad una situazione mediocre ed insoddisfacente, che non contribuisce a formare né l’autonomia né l’autostima del soggetto.
Anche qualora ci fosse un solo essere umano svantaggiato, questo avrebbe il diritto di potersi integrare nel tessuto sociale, di non dover “mendicare” per avere ciò che gli spetta; il disabile
non dovrebbe sentirsi invisibile, impotente o oggetto di pregiudizi giustificabili solo dall’ignoranza, dall’insensibilità e dall’egoismo.
Una società che si definisce civile, giusta e morale deve garantire alla persona svantaggiata una vita dignitosa e libera.
La disabilità non deve essere un ostacolo alla piena realizzazione di una persona. Promuovere l’inclusione, superare i pregiudizi e concentrarsi sulle capacità sono passi fondamentali per costruire una società più giusta ed equa per tutti.
Io sono una donna nata con una disabilità , la spina bifida, che è una malformazione è uno difetto neonatale dovuto alla chiusura incompleta di una o più vertebre, risultante in una malformazione del midollo spinale. Può essere perciò considerata un disrafismo e comporta diversi problemi che si possono risolvere con intervento chirurgico, ma in modo permanente, causa insensibilità agli arti inferiori e impossibilità di poter camminare.
Nonostante una disabilità che non ho scelto di avere e che non posso eliminare, ho sempre cercato di vivere la mia vita senza farmi ostacolare dalla disabilità, ho una famiglia che ha sempre fatto rete attorno a me e amicizie che mi hanno sempre accettata e amata per la persona che sono, senza fermarsi alla disabilità e senza mai farmi sentire “diversa”.
Ho sempre fatto ciò che mi piaceva senza sentirmi “diversa”, senza permettere alle persone che ho incrociato nella mia vita e mi consideravano “diversa” di farmi sentire inferiore o “diversa”, soltanto perché loro camminano con le proprie gambe e invece io cammino, con le mie che sono una sedia a rotelle.
Sogno e spero in un mondo dove il termine “ diverso” possa sparire, per descrivere un diversamente abile…un mondo, dove un normodotato e un diversamente abile possano avere gli stessi diritti, integrazione e lo stesso rispetto da parte di una società che, ancora oggi considera inferiore e diverso il soggetto diversamente abile.
In attesa che Francesca Albanese depositi alle Nazioni Unite il 4 luglio 2025 il suo rapporto sul disastro umanitario di Gaza e la complicità delle aziende e multinazionali in quello che ella chiama senza mezzi termini "economia di un genocidio", vediamo un po' di cifre (fredde e che non restituiscono appieno il dramma umano e di sofferenza che vi è dietro e si consuma nei territori palestinesi occupati).
Israele ha ucciso nelle scorse settimane nei suoi attacchi aerei preventivi in Iran i seguenti civili:
38 bambini, 132 donne (alcune incinta) e alcune centinaia di uomini, per un totale di 935 persone, quasi mille morti in 12 giorni di guerra con Teheran.
Nella striscia di Gaza sono invece - dall'ottobre 2023 - circa 50 / 60 mila le persone civili uccise negli attacchi aerei israeliani dello IDF, risultato di vittime collaterali degli obiettivi sensibili sospettati di essere componenti di Hamas, con centinaia di migliaia di feriti (alcuni invalidi a vita) come altrettante vittime collaterali.
I filmati degli ospedali di Gaza documentano un inferno in Terra ove migliaia e migliaia di bambini sono stati bruciati vivi, smembrati e dilaniati dalle macerie degli edifici abbattuti o direttamente colpiti dalle schegge degli ordigni esplosivi.
Centinaia di migliaia di persone hanno abbandonato le loro case e migliaia e migliaia di edifici di Gaza sono ridotte a cumuli di macerie.
Gli sfollati di Gaza e non solo loro, sono ridotti da mesi e mesi a lottare per la sopravvivenza poiché cibo e acqua potabile scarseggiano e in più occasioni nei centri di distribuzione di aiuti vi sono stati attacchi, incidenti e uccisioni ingiustificate e deliberate di civili palestinesi.
Ospedali e scuole in queste ultimi due anni più volte sono stati oggetto di attacchi aerei e numerosi sono i filmati di soldati israeliani IDF che si fanno beffe delle sofferenze dei civili.
Lo spettacolo aereo di Gaza è apocalittico: per chilometri e chilometri vi sono scheletri di edifici sventrati in un panorama desertico che testimonia uno scenario che forse durante la seconda guerra mondiale raramente è stato raggiunto in Germania o Giappone con intere città rase al suolo (Dresda, Tokyo, Hiroshima, Nagasaki) dai bombardamenti degli Alleati.
Se io fossi un colono terrestre dallo spazio che ritorna sulla Terra o arrivasse sulla Terra per la prima volta e vedessi una cosa del genere, e vedessi che le Nazioni Unite guardano impotenti o pavide senza prendere provvedimenti adeguati, mi verrebbe voglia di esiliare i responsabili su Encelado (luna di Saturno).
O nella base spaziale di qualche luna di Giove.
Questa catastrofe umanitaria e il sistema di giustizia e della diplomazia internazionale incapace di agire con vera giustizia e tempestività per fermare concretamente questo genocidio freddo e programmato (mascherato da operazione militare antiterrorismo, ma evidentemente figlio di una politica sionista che ha altri scopi) getta una lunga ombra sul futuro dell'ordine geopolitico internazionale.
Il problema più grande non è la politica genocida sionista e i crimini di guerra che restano impuniti per paura di ritorsioni politiche o di altra natura da parte del governo israeliano.
Il problema principale è la ignavia di tante figure di potere a livello politico nazionale e internazionale che si nascondono dietro parole vuote e di circostanza, discorsi ipocriti e menzogneri.
Dante Alighieri - il sommo vate - ha posto gli ignavi nell'Antinferno: sono descritti nel III Canto dell'Inferno, e il disprezzo per loro a causa del fatto che si schierano con il più forte e mancano di senso di giustizia, si evince dalle parola del dialogo fra Dante e Virgilio:
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa"
“CESSIAMO IL FUOCO ORA
La pace è possibile, dipende anche da noi
Fermiamo l'annientamento del popolo palestinese!
Campi profughi bombardati e bruciati, ospedali , scuole, edifici pubblici distrutti,
personale sanitario, giornalisti, operatori della solidarietà torturati o uccisi, aiuti
umanitari bloccati, fame, sete, freddo, malattie, negazione di cure, usate
sistematicamente come armi di guerra. Israele continua a non rispettare gli
accordi della tregua e ha ripreso bombardamenti sempre più violenti a Gaza,
mentre in Cisgiordania la violenza dei coloni che distruggono case e beni e si
appropriano di terre è sostenuta e impunita.
Ormai gli scopi appaiono chiari: appropriazione di tutta la terra con espulsione
del popolo palestinese da Gaza, occupazione a tempo indeterminato e apartheid
in Cisgiordania, con la popolazione confinata in spazi sempre più ridotti. Tutto
questo non è iniziato il 7 ottobre ma parte dalla Nakba del 1948 (distruzione di
500 villaggi ed espulsione dei palestinesi).
Noi di Monteverde per la Pace continuiamo a denunciare a gran voce la gravità
della situazione, sosteniamo le voci di dissenso nei confronti della politica del
governo israeliano, invitiamo tutti a prendere posizione per fare pressione sulle
nostre istituzioni, perché impongano al governo israeliano il rispetto del diritto
internazionale e sostengano il diritto del popolo palestinese all'esistenza e
all'autodeterminazione.”
Questo il testo di uno degli ultimi volantini prodotti e diffusi dal romano Comitato Monteverde per la Pace (CMP), una libera e ammirevolmente dinamica associazione di persone non disposte a rimanere rassegnatamente in silenzio e desiderose di tentare di contrastare il fenomeno della guerra e le dolorose vicende internazionali del mondo contemporaneo intrise di ingiustizia, irrazionalità e violenza.
Con alcuni attivisti del Comitato è nata la conversazione che segue.
Negli ultimi mesi, grazie ad alcune iniziative di una certa rilevanza, una realtà associativa come la vostra ha finito per godere di un'improvvisa e insperata attenzione, soprattutto all'interno del mondo progressista e del volontariato.
Più merito vostro o demerito di tanti altri soggetti, molto più grandi di voi, sfortunatamente alquanto inattivi e silenziosi?
Stiamo parlando di una piccola realtà associativa territoriale ( Comitato Monteverde per la Pace - CMP) che si è costituita (intorno a Ottobre 2023) come aggregazione di tante altre realtà sociali e politiche storiche del quartiere Monteverde-allargato. Sono comunque tutte realtà non legate, anzi orgogliosamente indipendenti, dalle forze politico-partitiche. Cito, come esempio: "Comitato solidale e antirazzista Monteverde", "Reti di Pace - Piazze per la sostenibilità e la Pace", "Comitato Roma XII per la Costituzione" , Comitato Roma XII per i Beni Comuni", "Circolo Arci Canapè", etc.
Queste realtà si conoscono da anni, avendo collaborato su varie campagne (ad es. per il Referendum per l'Acqua Pubblica del 2011 o per il Referendum sulla Riforma Costituzionale di Renzi del 2016 o per la costituzione di un circolo ANPI indipendente dai partiti nel 2019); gli attivisti, in alcuni casi, si conoscono dall'epoca delle scuole medie e superiori.
Dato il pregresso storico, ormai gli attivisti militanti hanno tutti una età avanzata e sono rimasti piuttosto legati ai metodi tradizionali di diffusione delle campagne, dove si agisce mettendoci la faccia e il corpo con volantinaggi su strada, tavolini, presidi, etc. Per dire, il CMP non ha neanche una pagina Fb … Ci avvaliamo, però, di due chat Whatsap: una più orientata agli aspetti operativi/organizzativi interni; l'altra a mettere in evidenza le iniziative, le informazioni, gli eventi esterni. Questa seconda funge anche da fonte di informazione alternativa al mainstream.
Praticamente, l'adesione al comitato avviene con l'adesione a queste due chat. Ad oggi, il numero di adesioni a ciascuna chat è di circa 70 persone, anche se i partecipanti agli incontri in presenza (circa ogni 15 giorni) scendono circa a 20.
Quali eventi e considerazioni sono alla base della nascita del vostro gruppo e quali le finalità che vi siete dati?
La data di nascita del CMP è intorno a Ottobre 2023, come reazione spontanea alla questione palestinese riesplosa dopo i fatti del 7 Ottobre 2023, presi a pretesto da Israele, come inizio della storia della "guerra" Hamas-Israele, quando invece, grazie alla conoscenza storica di noi attivisti, sappiamo bene che la questione palestinese risale alla catastrofe del 1948 con la Nabka, l'espulsione di centinaia di migliaia di nativi palestinesi dalle loro terre e case. Le finalità che ci siamo dati sono le seguenti:
- L'immediata cessazione del genocidio del popolo palestinese; la cessazione
definitiva di ogni aggressione per la realizzazione di una pace giusta; la liberazione
dei prigionieri palestinesi e degli ostaggi israeliani.
- Un'azione diplomatica per il cessate il fuoco in Ucraina.
- La messa al bando delle armi nucleari, la progressiva cessazione delle spese
militari, la conversione dell'industria bellica.
- La trasparenza sull’import-export delle armi: No allo smantellamento della legge 185/90.
- La cessazione delle spese militari a favore della spesa sociale e la conversione dell’industria bellica.
- L'immediata cessazione del sostegno politico, militare ed economico e dell'invio di
armi a tutti gli stati belligeranti.
- Il rispetto della legalità internazionale.
Che tipo di consenso state riscontrando all'interno del quartiere? Avete ricevuto concrete manifestazioni di simpatia e solidarietà? forse anche di ostilità?
Abbiamo ricevuto un consenso crescente, mano a mano che si andava evidenziando il vero obiettivo del governo israeliano di farla finita una volta per tutte con i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania.
Siamo passati attraverso varie fasi. All'inizio, dovevamo contrastare l'accusa dell'antisemitismo: superata quella, perché era superabile in quanto falsa, abbiamo dovuto affrontare la resistenza all'affermazione "Stop al genocidio". Ci furono resistenze anche interne al nostro gruppo da parte di chi, ancora, non voleva credere ai propri occhi. La svolta ci fu con l'incontro del 14 Febbraio 2025 con Riccardo Noury (portavoce della sezione italiana di Amnesty International), che chiarì definitivamente la questione: quelle di Israele sono azioni chiaramente genocidiarie.
Abbiamo ricevuto, su strada, anche improperi e minacce a livello fisico, di ebrei-sionisti-fascisti e abbiamo avuto a che fare con vari eventi di identificazione della polizia, che poi ci ha chiesto di essere sempre informata dei nostri volantinaggi, anche a nostra protezione.
Siete riusciti ad entrare in contatto anche con realtà giovanili del quartiere e ad attirare qualche giovane desideroso di impegnarsi al vostro fianco?
Sì, ma la nostra età e i nostri metodi non sono quelli usati dai giovani, i quali ragionano bene tra di loro e si organizzano nel modo più adatto al loro sentire socio-politico.
Al di là dei giudizi positivi fin qui ricevuti e al di là dell'attenzione che (fortunatamente) si è concentrata sulle vostre attività, quanto pensate che sia realmente possibile riuscire a fermare le immense macchine da guerra che si sono messe in movimento e che potrebbero trascinarci presto verso la catastrofe? Forse qualcosa di analogo potrebbe/dovrebbe nascere in ogni rione, in ogni contrada, in ogni condominio, in ogni luogo di lavoro, in ogni parrocchia, ecc?
Se qualcun@ di coloro che ha aderito a questo piccolo movimento dal basso pensasse davvero di fermare le immense macchine da guerra ... sarebbe un grande illus@ e soffrirebbe doppiamente: sia per la constatazione che il disastro sta continuando imperterrito, sia per la frustrazione derivante dall'apparente inutilità delle proprie iniziative.
Ci siamo detti che le azioni che mettiamo in campo hanno due valenze:
una individuale di poter affermare, mettendoci faccia e corpo (e non solo intellettualmente): "NON IN MIO NOME!" .
L'altra è l'azione collettiva di sensibilizzazione verso la popolazione che incontriamo, con l'invito a partecipare attivamente.
Infatti, nel retro dei volantini c'è sempre il "COSA POSSIAMO FARE NOI" .
Certamente, se un movimento dal basso come questo, in queste forme o in altre più consone ai promotori, nascesse in ogni municipio o luogo associativo, sarebbe l'ideale. Un esempio rilevante nell'XI municipio è il "Collettivo Palestina Roma Trullo" che ha già organizzato incontri ed eventi di spessore: ma forse ne esistono in ogni Municipio.
- In che cosa consiste il Progetto? –
Nella foto, l'Avv. Valentina Biagioli presenta il Progetto "Espressione Donna" nell'ambito del Convegno formativo per Avvocati e Giornalisti "La violenza sulle donne", tenutosi presso la Camera dei Deputati il 24 settembre 2024. |
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Si tratta di un Progetto ideato e diretto dallo Studio Legale Biagioli, nello specifico dalla titolare Avv. Valentina Biagioli, patrocinante dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione già a 36 anni ed eletta a soli 37 anni Delegata dal foro di Roma, con 1665 voti (la più giovane tra i 52 Delegati eletti), per la rappresentanza dell’Avvocatura romana al XXXVI Congresso Nazionale Forense di Torino 2025, con l'auspicio di creare una concreta rete di supporto legale e psicologica per le donne o per chi si identifica in tale genere, e che si trova in stato di bisogno, volendo fare la differenza tra gli organismi di assistenza in cui sono previste tali forme di assistenza gratuita ma dove purtroppo ogni Assistita rischia di essere percepita come un numero.
Il progetto, presentato in occasione del Convegno formativo sulla violenza sulle donne per Avvocati e Giornalisti tenutosi presso la Camera dei Deputati il 24 settembre 2024 è stato inaugurato il 29 novembre 2024 alle ore 18:00 presso la Galleria Internazionale Area Contesa Arte sita in Roma, Via Margutta n. 90, 00187, esordendo con la mostra personale chiamata "Espressione Donna" in onore del progetto, della pittrice emergente "Patboom", con accesso libero e gratuito, con accoglienza con aperitivo di benvenuto, musica dal vivo e critici d'arte pronti a valutare le opere.
La mostra di inaugurazione è stata aperta dal 29 novembre all'8 dicembre 2024 ed alcune opere sono state selezionate dalla Galleria in permanenza presso la stessa, in cui altresì sarà possibile versare il contributo che andrà in beneficio del Progetto, oltre ad essere visionabili dal catalogo caricato sul sito del progetto.
Nella foto l'Avv. Valentina Biagioli, titolare dello studio legale Biagioli ed ideatrice del Progetto Legale "Espressione Donna" e l'artista Patrizia Bucchi, in arte Patboom, autrice della della mostra personale "Espressione Donna", alla inaugurazione del 29 novembre 2024. |
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Attraverso una raccolta fondi privata in modalità crowdfunding, nonché grazie al ricavato ottenuto nell'ambito delle iniziative ed eventi artistici organizzati dallo studio, con l'obiettivo di raggiungere in via sperimentale la somma € 50.000,00, si prevede la possibilità di erogare, a decorrere dal 2025, assistenza legale stragiudiziale, in un anno, in favore di un numero stimato di circa 200 donne o di chi si identifica in tale genere, a cui verrà fornita una prima consulenza legale gratuita, in ogni ambito processuale, sia civile che penale, onde consentire una assistenza mirata alla tutela della figura femminile sotto ogni specula. E' stato già attivato un servizio di prenotazione consulenza gratuita sia online che in presenza, appositamente dedicato dallo studio legale ciccando qui sotto.
Potranno beneficiare di tale assistenza solo coloro che rispettino i requisiti reddituali richiesti per accedere al patrocinio a spese dello Stato di cui all'art. 76 del D.P.R. n. 115/2002 (c.d. patrocinio gratuito), previsto attualmente solo per la fase dinanzi all'Autorità Giudiziaria ("chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore a euro [12.838,01]" - (aggiornamento al d.m. 10 maggio 2023) - "2. ...se l'interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l'istante. 3. Ai fini della determinazione dei limiti di reddito, si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta, ovvero ad imposta sostitutiva."). Infatti, una volta espletata l'attività legale stragiudiziale grazie alle risorse del fondo privato del Progetto, sarà possibile continuare la tutela dei propri diritti richiedendo l'accesso al patrocinio a spese dello Stato (c.d. patrocinio gratuito).
Parallelamente all'assistenza legale è prevista altresì la collaborazione dello studio legale con soggetti privati e pubblici per consentire ai soggetti beneficiari l'erogazione gratuita di consulenza psicologica o psicoterapeutica per favorire anche il benessere psicologico. (Se sei un soggetto privato o pubblico interessata/o a porre in essere una collaborazione con lo studio, contattaci).
Sul sito dello studio legale, al fine di far comprendere quanto aiuto sia possibile fornire alle donne in difficoltà, creando una rete privata di collaborazione, verranno aggiornati di volta in volta i dati sulla raccolta fondi, con decorrenza da gennaio 2025.
- Riconoscimenti -
Il Progetto "Espressione Donna" ha ottenuto un suo primo riconoscimento con il premio "Area Contesa Arte" conferito in data 8 marzo 2025 all'Avv. Valentina Biagioli, in occasione dunque della Giornata internazionale della donna, nell'ambito della quale è stato ripresentato il Progetto sottolineandone l'operatività con cui sono state già assistite le prime donne che si sono rivolte allo studio a seguito dell'evento di inaugurazione del 29 novembre 2024.
- Come posso contribuire al Progetto? -
E' possibile contribuire al Progetto in diversi modi:
- attraverso liberi contributi diretti sulla piattaforma digitale di crowdfunding, accessibile sia online cliccando il link sottostante, sia tramite inquadratura del QR code presente durante tutte le iniziative artistiche dello studio legale; https://www.gofundme.com/f/progetto-espressione-donna?attribution_id=sl:aef8e01f-4e64-4e29-801e-72f02d49aab9&utm_campaign=man_sharesheet_ft&utm_medium=customer&utm_source=copy_link
- oppure portando a casa un'opera d'arte messa a disposizione dagli artisti emergenti che hanno deciso di collaborare con lo Studio Legale Biagioli, versando il contributo indicato per ogni opera, la cui maggiore percentuale viene versata in favore del Progetto, decisa di volta in volta dallo Studio in base alla complessità del lavoro svolto dagli artisti;
vedi il catalogo qui
https://www.studiolegalebiagioli.com/sostieni-i-diritti-delle-donne-portando-a-casa-l-arte
- oppure contribuendo con le proprie opere ed abilità artistiche alle diverse iniziative ed eventi organizzati dallo studio legale a cui può partecipare chiunque, nell'ambito dei quali la maggior percentuale viene versata in favore del Progetto, a fronte di un sostegno da parte dello Studio Legale deciso di volta in volta da quest'ultimo in base alla complessità del lavoro svolto dagli artisti ed in accordo con questi;
Contatta lo studio legale qui
- oppure prenotando i biglietti per partecipare alle iniziative ed agli eventi organizzati dallo studio legale, ove è altresì possibile prenotare le creazioni artistiche eventualmente esposte ed elaborate da chiunque voglia dare un contributo personale, il cui ricavato andrà sempre in favore del Progetto.
Vedi i prossimi eventi https://www.studiolegalebiagioli.com/i-nostri-eventi
Sono in corso di organizzazione i prossimi eventi, indicativamente per il mese di giugno 2025.
Restate aggiornati visionando i nostri eventi sul nostro sito web sia seguendoci sui social.
https://www.studiolegalebiagioli.com/canali-social
"Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose"
Albert Einstein
Victor Ugo |
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“L’applicazione della pena di morte non ha mai impedito un omicidio. Al contrario, ne ha prodotti molti, fornendo l’esempio dell’omicidio.”
Così scriveva, nel lontano 1875, il brillante giornalista Henri E. Marquand, amico di Victor Hugo e, insieme a lui, animatore di una campagna per l’abolizione della pena di morte, da entrambi considerata inumana quanto incapace di esercitare reale deterrenza sui potenziali criminali.
Tanta davvero la strada percorsa dai sostenitori dell’abolizionismo in questo secolo e mezzo:
più di tre quarti dei paesi del mondo hanno infatti abolito la pena capitale per legge o nella pratica (113 i paesi completamente abolizionisti). Ma tanta resta ancora quella che ci attende per riuscire a spazzare via dalla storia la convinzione che la pena di morte sia utile e giusta e, soprattutto, per riuscire a mandare in pensione tutti i boia al servizio del potere politico che sa benissimo che l’uso della pena capitale non serve certo a rendere migliori le società umane, ma riesce a rendere, però, più silenziosi e rassegnati, nonché ubbidienti, i popoli tiranneggiati ed oppressi.
Dall’esame dell’ultimo Rapporto annuale di Amnesty International, possiamo ricavare, al contempo, sia informazioni moderatamente incoraggianti sia informazioni decisamente amare:
mentre, infatti, il numero dei paesi coinvolti è rimasto al livello più basso mai registrato, le esecuzioni sono aumentate del 32% rispetto al 2023. Incremento questo da addebitarsi principalmente a tre nazioni dell’area mediorientale: Iran, Iraq, Arabia Saudita.
Va inoltre tenuto presente che i dati riportati sono inevitabilmente incompleti e, molto probabilmente, al di sotto della realtà. In particolar modo, poi, è necessario sottolineare che i governi di Cina, Vietnam e Corea del Nord continuano ad impegnarsi sistematicamente nell’occultamento delle informazioni relative a condanne ed esecuzioni capitali. Ciò nonostante, per quanto concerne il caso della Cina, anche per l’anno passato sono realisticamente ipotizzabili migliaia di esecuzioni.
Dal Rapporto dell’importante associazione umanitaria, emerge chiaramente che la pena di morte continua a rappresentare per diversi governi uno strumento particolarmente efficace per esercitare, in nome del mito “sicurezza” e della presunta lotta al “terrorismo”, un opprimente controllo sulle popolazioni e per soffocare ogni forma di dissenso, andando a colpire, in maniera mirata e pianificata, difensori dei Diritti umani, dissidenti, oppositori politici, e addirittura semplici manifestanti.
“Per esempio - leggiamo -, le autorità iraniane hanno utilizzato la pena di morte per punire individui che avevano sfidato, o almeno così era percepito, il sistema istituzionale della Repubblica Islamica e le sue ideologie politico-religiose durante la rivolta "Donna Vita Libertà" di settembre-dicembre 2022. Le autorità saudite hanno continuato a strumentalizzare la pena di morte per silenziare il dissenso politico e punire i cittadini della minoranza sciita che avevano sostenuto le proteste "anti-governative" tra il 2011 e il 2013. È stato significativo in diversi paesi il ricorso alla pena di morte per reati definiti in modo vago come legati alla "sicurezza" o al terrorismo.”
Norberto Bobbio, in un suo scritto degli anni ottanta, assai opportunamente, sottolineava come, nel mondo contemporaneo,
Norberto Bobbio |
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“sconvolto da guerre interne e internazionali sempre più cruente e distruttive, dal diffondersi di atti terroristici sempre più crudeli, subdoli e spietati, rassegnato a vivere sotto la minaccia dello sterminio atomico, il dibattito sulla pena di morte, i cui effetti non sono neppure lontanamente paragonabili a quelli dei massacri che si perpetrano ogni giorno”, sarebbe potuto apparire come “poco più di un ozioso passatempo dei soliti dotti che non si rendono conto di come va il mondo”. (L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p.206)
Ma, dopo una lunga ed articolata disamina, finiva per approdare alla conclusione che, oggi più che mai, per poter continuare a sperare (e a lavorare) per un avvenire di pace dell’umanità, era indispensabile tentare di inceppare il meccanismo perverso che lega violenza a violenza, in una infinita quanto rovinosa concatenazione.
Liberare il nostro povero mondo dall’orrore dei patiboli - diceva - potrebbe sembrare una piccola cosa … Forse soltanto “un piccolo inizio”.
Ma l’inizio straordinario di una storia nuova (straordinariamente nuova!), in cui il potere dello stato, finalmente, non si attribuirà più il diritto di infliggere la morte al singolo individuo, riconoscendolo e rispettandolo come dotato di una dignità assoluta ed inviolabile.
Di un simile “piccolo inizio” abbiamo davvero un immenso bisogno, ben consapevoli che
“Fino a quando la pena di morte esisterà, anche in un solo angolo della Terra, l’umanità non sarà uscita dalla barbarie.” (Luigi Pintor)
A Gaza sono stati uccisi più giornalisti in un anno e mezzo che in tutte le guerre mondiali, in Vietnam, nei Balcani e in Afghanistan messe insieme.
Erano tutti palestinesi.
Non è un effetto collaterale. È una mattanza premeditata.
È un attacco mirato al diritto di informare.
Alla libertà.
Alla civiltà.
Duecentodiciassette colleghi assassinati – forse di più – mentre indossavano il giubbotto con la scritta PRESS.
Uccisi insieme alle famiglie, ai figli, ai loro sogni e alle loro speranze di pace.
Hanno pagato il loro prezzo al diritto-dovere di servire l’opinione pubblica del mondo intero.
Ma ora più che mai è il nostro stesso silenzio a presentare il conto.
Di fronte a questa strage di colleghi, era lecito attendersi un coro unanime di sdegno da parte dei nostri giornali, le nostre televisioni, le nostre radio. Ma quest'unanimità non c'è stata. Sullo sdegno ha prevalso in larga parte il silenzio, e la mistificazione della realtà secondo le veline dell’esercito israeliano e del suo governo.
Anche tra noi giornalisti, in molti tacciono per paura di essere etichettati, discriminati, isolati.
Tacciamo per non disturbare.
Questo silenzio è comodo. Ma non è muto; parla.
E non è gratis; costa.
Ogni parola taciuta allontana dalla verità e dalla storia.
E ogni verità omessa rende complici.
Complici di una strage permanente del popolo palestinese, del diritto internazionale, dei più elementari diritti umani.
Complici di un genocidio.
Se non denunciamo ora, se non ci esponiamo ora, quale giornalismo difendiamo?
Chi guarderà a noi come modello?
Non i giovani reporter.
Loro guarderanno a Gaza.
Ai cronisti che hanno scelto di raccontare sapendo che poteva costare loro la vita. E molti, troppi, l’hanno immolata per questo.
Il nostro silenzio parla.
E un giorno griderà che abbiamo tradito la nostra missione.
Che invece di difendere le notizie, le abbiamo censurate.
Che invece di custodire la libertà, l’abbiamo abbandonata.
Che invece di difendere i diritti e la democrazia,
li abbiamo sabotati.
Per questo intendiamo ribellarci a questa congiura del silenzio che soffoca verità e giustizia e disarma le coscienze.
Alziamo finalmente la testa!"
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MARTIN LUTHER KING |
Ancora una volta ci troviamo costretti a riconoscere quanto la mera cultura non sia in grado di costituire, di per sé, un antidoto sufficientemente efficace contro la peste della guerra e dei suoi più o meno entusiastici adoratori e seminatori. Ne avevamo avuto un esempio particolarmente eclatante quando, di fronte alla mattanza in cantiere della Prima guerra mondiale, si erano visti incolti contadini e braccianti pronti a spararsi su un piede o a cavarsi i denti piuttosto che obbedire alla chiamata alle armi, mentre raffinati intellettuali inneggiavano alla guerra come salvifica cura igienizzante del genere umano.
Dopo più di un secolo e dopo la produzione di intere biblioteche di studi sugli orrori delle guerre e di ricerche sul tema della pace e dei diritti umani, rieccoli qua i sapientoni disincantati, gli unici che sanno come funziona il mondo e gli unici in grado di insegnarci come viverci dentro, quelli che ci spiegano che la pace “intorpidisce” (Umberto Galimberti) e che urge, quindi, risvegliare in noi l’antico spirito combattivo del guerriero (Antonio Scurati).
Di fronte a ciò, si impongono, a mio avviso, alcune poche ma granitiche certezze:
comprensione, tolleranza, dialogo, solidarietà e fratellanza.
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LEV N. TOLSTOJ |
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ERASMO DA ROTTERDAM |
“Al giorno d’oggi la guerra è un fenomeno così largamente recepito, che chi la mette in discussione passa per stravagante e suscita la meraviglia; la guerra è circondata di tanta considerazione, che chi la condanna passa per irreligioso, sfiora l’eresia: come se non si trattasse dell’iniziativa più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia.”
ERASMO DA ROTTERDAM
“Perché l’oppressione e le guerre inique finiscano, perché nessuno si ribelli contro quelli che sembrano i colpevoli, perché non vi siano più regicidi, non vi è che un metodo molto semplice.
Che gli uomini comprendano le cose come sono e le chiamino col loro nome; che sappiano che l’esercito non è attualmente che lo strumento dell’assassinio in massa chiamata guerra, che il reclutamento e la direzione degli eserciti di cui si occupano così fieramente i re, gli imperatori, i presidenti di repubblica, non sono oggi che preparativi di omicidio. Che ogni re, imperatore, presidente, si persuada che la sua parte di organizzatore di eserciti non è né onesta, né importante, come gli dicono gli adulatori, e che è al contrario un’opera cattiva e vergognosa come ogni premeditazione di assassinio.”
LEV N. TOLSTOJ
“Noi dobbiamo essere i martelli che foggiano una nuova società piuttosto che le incudini modellate dalla vecchia società. Questo soltanto ci trasformerà in uomini nuovi, ma ci porterà una nuova forma di potere. Un mondo buio, disperato, confuso e ammalato, è in attesa di questa specie di uomo e di questa nuova forma di potere.”
MARTIN LUTHER KING