L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (231)

Roberto Fantini
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Lo Strategic Forum di Assisi ha istituito il proprio comitato tecnico scientifico costituito da personalità insigni, tecnici, esperti, scrittori e artisti che si battono per la PACE.

Il  Comitato Tecnico Scientifico  è presieduto  dal prof Giannone che è anche Presidente dell’Associazione Umanesimo ed Etica per la Società Digitale (www.umanesimodigitale.eu )

è composto di eminenti Esperti Italiani e di altri Paesi nei diversi settori del T.I.P.E.E.C. (Tavolo Internazionale Permanente per l’Etica e l’Economia nella Cooperazione)

Gli obbiettivi del forum sono: 

  • promuovere Pace e Prosperità sostenibile fra i Popoli ;
  • Mettere al centro della cultura glo-cale (Globale e Locale) l’Essere Umano,
  • Passare, in economia e nel sociale, dalla “Competitività alla Cooperazione”,
  • promuovendo la Conversione Nucleare di migliaia di bombe atomiche in Centrali Nucleari per la produzione di energia elettrica non solo dei Paesi in via di sviluppo
  • Insegnare le virtù etiche nelle scuole
  • Avviare la costruzione di un nuovo percorso culturale del Diritto alla Pace e alla Prosperità
  • per un MONDO MIGLIORE SENZA GUERRE E SENZA ARMI NUCLEARI; -

in pratica il CTS raccoglierà proposte e progetti che favoriscono la pace e il dialogo tra i popoli nella cornice di Assisi che è emblematica di questa finalità perché la figura di Francesco sottolinea la fratellanza tra gli uomini ma anche l’amore e il rispetto per la natura, e invia un messaggio preciso a tutto il mondo.

 il Forum ha già cominciato a presentare a varie autorità (tra cui il ministro  Valditara) progetti concreti per educare alla pace, raccoglierà inoltre proposte e iniziative provenienti dai vari ambienti culturali, artistici e scientifici che si ispirano alla pace.

L’Avv Fabrizio Abbate scrittore ed esperto di Ia che è stato dal prof Giannone chiamato a far parte del CTS proprio per i sui scritti sul tema della pace e dell’intelligenza artificiale ha cosi commentato l’importanza del forum e delle sue proposte :

“Il comitato di cui mi onoro di far parte ha dei compiti di grande importanza in un momento internazionale cosi delicato, ma soprattutto ha importanza ancor maggiore con l’avvento dell’IA rispetto alla quale va ridefinito lo stesso concetto di PACE e di Guerra. Infatti ben presto il concetto di guerra subirà grandi modifiche indotte dalle tecnologie sempre più nel futuro il conflitto si presenterà come ibrido e l’intervento dell’IA porrà seri problemi perche anche se la veste potrebbe essere diversa  dalle guerre tradizionali un conflitto basato sull’IA che attacchi le reti, i servizi, il meteo, la sicurezza ,lo spionaggio, i servizi di base, potrebbe essere non meno devastante di una guerra con armi convenzionali e quindi dobbiamo porci fin da adesso il tema di come definire la pace e di conseguenza come difendere la PACE in questo nuovo quadro inedito, altrimenti rischiamo di lottare per una pace molto molto parziale e svuotata.”

L'avv. Fabrizio Abbate

Oltre a questo tema l’Avv Abbate, presidente di Assodiritti e del salotto IA di ENIA,  ha richiamato il fatto che l’attuale impostazione economicistica che sembra oggi prevalere porta con se molti rischi proprio per la pace  perché è un interpretazione che taglia fuori ( discrimina) larga parte dell’umanità in base alle possibbilità economiche creando presupposti per conflitti.

Al tempo stesso il clima di  guerra strisciante ma generalizzata che si sta diffondendo rischia di  favorire lo sviluppo di un IA di tipo militare slegata dai vincoli etici e  da regole giuridiche.

Proprio per la sua caratteristica legata al dominio e non alla solidarietà, aumenta il rischio di creare forme di IA che sfuggano al controllo delle norme e  forse degli umani.

Il tema dell’IA si pione cioè nel crocevia tra PACE e guerra , e un uso errato dell’IA potrà costituire un pericolo per l’umanità tenendo conto che già oggi gli IA Agenti non si limitano a rispondere a domande ma operano e quindi prendono decisioni in sistemi complessi, e tra queste decisioni (moltissime utili) ci possono essere decisioni molto pericolose per la pace.

Il compito del forum e del CTS è quindi duplice:  da un lato valutare progetti ispirati alla pace ma dall’altro riflettere proprio sul novo significato di pace di fronte a questi vertiginosi cambiamenti che non si possono ignorare.

 

www.assodiritti.it

www.neoevo.org

Extrafallaces – RADIOTELEVISIONI EUROPEE ASSOCIATE

 Intelligenza artificiale, ARTE e VALORI SPIRITUALI - FlipNews - Free Lance International Press

 da sin. Virgilio Violo, Neria De Giovanni, Patrizia Sterpetti Foto
S. Cannata

A Roma, il 18 ottobre del 2025, nella cornice istituzionale dell’UNAR, Unione delle Associazioni Regionali di Roma e del Lazio, in Via Ulisse Aldrovandi 16, si è svolta la cerimonia di consegna del Premio Italia Diritti Umani 2025, promosso dall’Associazione Free Lance International Press. Un appuntamento ormai consolidato nel panorama nazionale, che ogni anno celebra figure impegnate nella difesa della libertà d’espressione, del giornalismo indipendente, della cultura e dei diritti fondamentali.

 a dx. Il Vice Presidente dell' UnAR dott.ssa Irene Venturo
Foto S. Cannata     VIDEO

Protagoniste di questa edizione Barbara Schiavulli, Ludovica Jona e Lamberto Rimondini con tre personalità diverse per formazione e linguaggio, ma accomunate da una medesima tensione etica, raccontare, educare, creare e testimoniare nel segno della dignità umana. A condurre e moderare la cerimonia è stata Neria De Giovanni, del direttivo della Free Lance International Press e Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, che con equilibrio e sensibilità ha saputo dare voce ai contenuti e ai valori dell’incontro. Dopo la sua introduzione, sono giunti i saluti istituzionali  del Presidente della Free Lance International Press, Virgilio Violo, che ha sottolineato come il premio rappresenti un presidio di libertà e di resistenza culturale, e del Vice Presidente dell’UNAR e Presidente dell’Associazione pugliese di Roma, la dott.ssa Irene Venturo che ha portando i saluti del presidente dell’UNAR Antonio Masia, assente per motivi di salute, che peraltro, ha espresso soddisfazione per l’enorme partecipazione ad un evento dedicato alla tutela della persona e alla centralità dei diritti umani.

La giornata si è aperta con l’intervento di Patrizia Sterpetti,  di WILPF Italia APS (Women’s International League for Peace and Freedom), con una relazione dal titolo “Il naufragio dei diritti umani e idee di riparazione”. Il suo contributo ha posto al centro la drammatica attualità delle violazioni dei diritti umani nel mondo, denunciando la crescente indifferenza globale e

  Patrizia Sterpetti       Video

richiamando alla necessità di ricostruire un tessuto di solidarietà e resistenza umana. È seguito l’intervento di Antonio Cilli, CEO di Cittanet, che ha proposto un dibattito di grande attualità sul tema “L’intelligenza artificiale e l’informazione”. Con lucidità e rigore, Cilli ha analizzato le opportunità e i rischi che la tecnologia pone alla libertà di stampa,

 

riflettendo sul futuro del giornalismo nell’era digitale e sull’urgenza di un’etica condivisa nell’uso dell’intelligenza artificiale.

da sin. Virgilio Violo, Neria De Giovanni, Antonio Cilli
Foto S. Cannata      Video

Il momento artistico della cerimonia è stato affidato all’attore e regista Ferdinando

Ferdinando Maddaloni in
HO PROVATO UN MARE DI VERGOGNA     VIDEO

Maddaloni, che ha presentato la sua intensa performance teatrale “Ho provato un mare di vergogna”: un monologo di grande forza emotiva, scritto, diretto e interpretato dallo stesso Maddaloni. L’opera, tra teatro civile e testimonianza personale, ha commosso il pubblico, offrendo un profondo spunto di riflessione sulla sofferenza, la dignità e la necessità di non distogliere mai lo sguardo dalle ingiustizie.

La cerimonia si è conclusa con la consegna ufficiale dei premi e la lettura delle motivazioni, affidata agli attori Diego Verdegiglio, Giulia Giordano e Anastasia Busetto, che con voce e sensibilità hanno interpretato il senso più profondo del riconoscimento. Durante l’evento, tuttavia, sono state inoltre donate opere d’arte delle artiste Stefania Pinci, Elisabetta Martinez e Monica Osnato, il cui contributo visivo ha suggellato l’unione tra arte e impegno civile, simbolo di libertà, memoria e bellezza condivisa.

 da sin. Anastasia Busetto, Barbara Schiavulli, Elisabetta Martinez,
Virgilio Violo e Naria De Giovanni -Foto S. Cannata    VIDEO

Il Premio Italia Diritti Umani 2025 ha peraltro onorato figure che, in ambiti differenti, incarnano l’impegno per la libertà, la verità e la giustizia. Il riconoscimento principale è andato a Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra e scrittrice, che da oltre vent’anni racconta i fronti più caldi del mondo, dall’Iraq all’Afghanistan, da Israele e Palestina al Pakistan, dallo Yemen al Sudan, dal Venezuela a Haiti e alla Libia, portando alla luce le storie delle persone comuni travolte dai conflitti. Con sensibilità e coraggio, Schiavulli restituisce umanità a chi la guerra la subisce: donne, bambini, comunità vulnerabili e minoranze LGBTQ+. Autrice di libri di grande impatto come Le farfalle non muoiono in cielo (2005), Guerra e Guerra (2010), La Guerra Dentro (2013), Bulletproof Diaries (2016) e Quando muoio lo dico a Dio (2017), ha trasformato il giornalismo in un atto di responsabilità civile. Cofondatrice e direttrice della testata Radio Bullets, è anche attiva nella formazione scolastica e universitaria, promuovendo l’etica dell’informazione e la consapevolezza dei diritti umani.

Inoltre, il premio, dedicato alla memoria del giornalista Antonio Russo, vice-presidente della Free Lance International Press, ucc

 da sin. Diego Verdegiglio, Virgilio Violo, Lamberto Rimondini,
Neria De Giovanni  -Foto S. Cannata    VIDEO

iso in Cecenia nel 2000, le è stato conferito come erede spirituale di quella missione di verità che continua a dare voce al dolore e alla speranza dei popoli in guerra. Un riconoscimento speciale è stato attribuito a Ludovica Jona, giornalista investigativa e filmmaker, per il suo lavoro di indagine sui diritti umani, l’ambiente e la salute mentale. Le sue inchieste, trasmesse su RaiNews, Report (Rai3) e La7, e pubblicate su il Fatto Quotidiano, The Intercept, Le Monde e Mediapart, hanno portato alla luce problematiche spesso ignorate dal dibattito pubblico. Con il podcast “Tutta colpa di Basaglia”, realizzato insieme a Elisa Storace, Jona ha affrontato con coraggio il tema della deistituzionalizzazione psichiatrica in Italia, denunciando le carenze del sistema sanitario e la condizione di solitudine di milioni di malati psichici.

A completare la rosa dei premiati Lamberto Rimondini, scrittore, saggista e ricercatore indipendente, noto per il suo approccio critico e documentato ai temi del potere, della storia e della manipolazione dell’informazione. Le sue opere, caratterizzate da lucidità e profondità di pensiero, mettono in discussione le narrazioni dominanti e invitano il lettore a interrogarsi su ciò che si cela dietro la superficie dei

 da sin. Giulia Giordano, Ludovica Jona, Virgilio Violo e Neria De Giovanni
foto S. Cannata      VIDEO
 

fatti. Con uno stile provocatorio e appassionato, Rimondini promuove un’informazione libera, capace di restituire centralità all’essere umano e alla sua dignità, offrendo strumenti di consapevolezza e di emancipazione intellettuale. Attraverso i loro percorsi, Schiavulli, Jona, Rimondini, Busetto, Verdegiglio e Giordano incarnano lo spirito autentico del Premio Italia Diritti Umani con la difesa della verità, della libertà e della cultura come pilastri di una società più giusta e consapevole.

 da sin. Virgilio Violo, Neria De Giovanni, Josef Nardone
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Inoltre, è stato presentato il libro “La Femminanza” della scrittrice Antonella Mollicone, un romanzo già annoverato tra i dieci più letti in Italia. L’opera, definita da molti un capolavoro contemporaneo, indaga con profondità la dimensione femminile, la forza interiore e la resilienza delle donne, ponendosi in perfetta sintonia con lo spirito del Premio Italia Diritti Umani.

In chiusura, ha preso la parola Giuseppe (Joseph) Nardone, del Consorzio Comunale di Siracusa, che ha portato una testimonianza autentica di giornalismo ed impegno civile dalla Sicilia, in particolare da Pachino, sottolineando il valore della vera informazione come strumento di riscatto territoriale e culturale. La cerimonia del 18 ottobre del 2025, ospitata all’UNAR di Roma, ha rinnovato l’impegno della Free Lance International Press nel sostenere, attraverso la parola, l’arte e la conoscenza, chi continua a lottare contro l’indifferenza e per

 da sin. Antonella Mollicone, Virgilio Violo e Neria De Giovanni
Foto S. Cannata     VIDEO

l’affermazione della dignità umana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 A fine cerimonia i PREMIATI   e gli  ospiti hanno potuto festegiae l'importante evento con alcuni dei vini tra i più pregiati della penisola messi a disposizione dalle case vinicole le quali l'associazione ringrazia vivamente per il contributo dato.

 
CHARDONNAY - Hėkos colle Picchioni
 
ARCARDIA - Frusinate -Coletti Conti
 
CONCABIANCO - Falanghina -Poderi Foglia
 
RUBENS- Roma- Emanuele Branchella
 
PASSERINA DEL FRUSINATE - Marcella Giuliani
 
GAVI - D.O.C.G. - Costa Donnio - f.lli  Parisio
 
C'D'C'- Cristo di Campobello - Sicila Rosato
 
E'- Falerno del Massico Bianco- Torelle
 
CODA DI VOLPE-Sannio-Il Poggio. Fam. Fusco
 
ME-Melodia-Fiano Colli di Salerno - vino bio
 
BARONE CORNACCHIA - Colline Teramane-Cerasuolo d'Abruzzo
 
CA- Candito - Colli di Salerno - bio
 
SANTAGIUSTA - Brut - vigneti di montagna
 
LUNA Di Mezzanotte -Castelli di Jesi-Verdicchio
 
IL REPERTORIO - Cantine del Notaio - Aglianico del Vulture
 
GIUV - Paternoster - Aglianico del Vulture-Tommasi
 
DON ANSELMO - Paternoster  - Aglianico del Vulture
 
FALANGHINA  - Brut – Janare - 

 

   
     
     
     
     
     
     

La guerra è il massacro di persone che non si conoscono, a vantaggio di persone che si conoscono ma non si massacrano—Paul Valery (poeta)


Viviamo in un mondo carente di empatia e amore. Il giudizio verso gli individui di diversa religione, razza o orientamento sessuale è ormai sotto una lente d’ingrandimento, dove altri si sentono autorizzati a giudicare, odiare, insultare e denigrare. È un mondo dove la diversità viene calpestata e dove i potenti approfittano di questo odio, innescando una spirale che alimenta conflitti, violenza, guerre e ingiustizia.
Non c'è riflessione, né ragione, né consapevolezza, ma solo un istinto primordiale che gli animali stessi sembrano aver superato. Stati accecati dalla rabbia inviano armi di sterminio, alimentando guerre in cui a soccombere è il debole, colui che non può reagire e che arretra stremato. Bambini bruciati, uccisi, torturati, mentre madri tremanti fuggono con i corpicini fra le braccia, inseguendo una parvenza di vita.
Intorno cecità assoluta, ciò che non è vicino non si vede, non si sente. Non ci sono suoni di bombe, di razzi, di spari. Non ci sono le urla, i pianti e i sussurri di morte. Vi è solo il sentito dire, il visto ai tg, il letto sui giornali. E intanto la gente muore per ordine di capi insensati, vigliacchi protetti in castelli lontani dal dolore dove chi se ne frega se una famiglia di disgrega, se arti di uomini e donne si staccano dai corpi, chi se ne frega se mamme muoiono con i bambini in grembo…
La brama di conquistare una terra per il gusto di potenza prevale sul desiderio di respirare la vita e la bellezza di un mondo che l'uomo non ha creato, ma che ha scelto di distruggere in ogni modo possibile. Un universo alla deriva! Ormai, rabbia, cattiveria e infamia sono i fili che muovono ciò che resta della natura umana. Si manifestano violenze inaudite: torture, prevaricazioni, sottomissioni; un odio silente e strisciante ovunque. Intanto, la vita scorre, giorno dopo giorno, lasciando dietro di sé i sentimenti che infondevano speranza, amore e sorriso.
La storia non insegna, non lo ha mai fatto. Nella quasi blasfemia di questo mio concetto, trovo una verità imbarazzante. Non s’impara mai dal dolore; anestetizza nel momento ma poi cade in quel dimenticatoio profondo che è l’indifferenza verso l’atro. Paesi poveri dimenticati e Paesi ricchi assetati di potere di altra ricchezza. I diritti dell’umanità accantonati, dileggiati, dimenticati e ignorati sempre più spesso.
Esseri umani di serie A e altri considerati senza classificazione. Questo è un mondo dove il dialogo si fa sempre più difficile, dove non a tutti viene riconosciuto il diritto di esistere e di essere. Forse la cosa peggiore sono coloro che negano i massacri: i negazionisti dell'orrore, mossi unicamente da fini politici e guerrafondai. Una cosa è certa: non dobbiamo abbassare la guardia. Chi riesce a vedere oltre questa realtà deve continuare a credere nel cambiamento, iniziando a cambiare in prima persona, là dove e come è possibile. Le guerre nascono da dispute territoriali, economiche, ideologiche, religiose, etniche o dal mantenimento/rovesciamento di equilibri di potere, ma sono in primo luogo crimini in cui si assiste troppo spesso a gravi violazioni dei diritti umani. Il dolore  e l’indifferenza devono avere fine ma non sarà possibile fino a quando l’essere umano continuerà con la malvagità e l’istinto primordiale senza alcuna coscienza.

 

 Come innumerevoli altre volte, una giornata di splendide manifestazioni in tutta Italia, con in piazza centinaia di migliaia di persone di ogni età, è stata, a livello mediatico e politico, ignobilmente svuotata del suo contenuto e della sua essenza:

la violenza criminale dell’esercito israeliano è finita in soffitta e tutti lì a prendere le distanze e a deprecare la violenza idiota di sparute minoranze incappucciate.  

Obnubilato il meraviglioso oceano di civilissima gente, infatti, sui vari tg e sulla quasi totalità delle prime pagine dei quotidiani, hanno finito per dominare, con immenso tripudio di giornalisti mercenari e di politici rampognanti, immagini e filmati relativi ai tafferugli della stazione di Milano e ai blocchi  stradali e autostradali …

Solita sperimentatissima applicazione della ben nota strategia di cossighiana memoria, basata su chirurgiche infiltrazioni e abili manipolazioni di parte dei manifestanti? Impossibile escluderlo, ovviamente.

Ma - mi domando - quando si capirà, da parte di tutti noi, che per conferire dignità alla propria causa e per far apparire in tutta la sua sostanza il valore della propria protesta, dovrebbero essere radicalmente rifiutate, evitate e ostacolate:

  • tutte le azioni concretamente lesive dei diritti altrui,
  • gli atteggiamenti e comportamenti aggressivi e di sfida nei confronti delle forze dell’ordine,
  • nonché tutte quelle iniziative che, con arbitrio prevaricatore, impediscono la normale circolazione ferroviaria e stradale?

Quando si capirà che occupazioni di stazioni, di scuole o di autostrade, violando di fatto legittimi diritti della povera gente, in nulla giovano alle grandi cause, finendo per seminare soltanto sofferenza, rabbia, indignazione, odio e ostilità, e offrendo ai governi e ai loro servi fedeli l’opportunità per criminalizzare ed infangare  in blocco l’intera massa dei manifestanti e dei loro sostenitori? 

Quando si comprenderà che simili azioni sono in chiaro contrasto con la filosofia e con lo stile della vera lotta nonviolenta, e che nulla hanno a che vedere con la tanto spesso invocata (quanto fraintesa) “disobbedienza civile”?

E che, soprattutto, costituiscono un colossale regalo per la peggiore informazione e per la peggiore politica, che vengono immensamente facilitate nel loro vergognoso intento di evitare di affrontare questioni serie e di ascoltare le voci giuste e oneste di un popolo che, nonostante tutto, non smette di credere che un altro mondo sia davvero possibile.

                “Dopo l’ottobre 2023, i sistemi di controllo, sfruttamento e spoliazione di lunga data si sono trasformati in infrastrutture economiche, tecnologiche e politiche mobilitate per infliggere violenza di massa e distruzione senza precedenti. Le entità che in precedenza hanno permesso e tratto profitto dall’eliminazione e dalla cancellazione dei palestinesi attraverso l’economia dell’occupazione, invece di disimpegnarsi, sono ora coinvolte nell’economia del genocidio.”

               “Mentre la vita a Gaza viene cancellata e la Cisgiordania è sottoposta a un assedio crescente, questo rapporto mostra come mai il genocidio condotto da Israele va avanti: perché è redditizio per molti.

                                                                 FRANCESCA ALBANESE

 

Il Rapporto di Francesca Albanese, Relatrice Speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati da Israele, Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, rappresenta una indagine rigorosamente documentata degli “ingranaggi aziendali che sostengono il progetto  coloniale israeliano di espulsione e sostituzione dei palestinesi nel territorio occupato.” L’eccellente  lavoro costituisce, in particolar modo, un lucidissimo e potentissimo  j’accuse nei confronti di vaste aree del mondo economico internazionale. Ma le denunce che esso contiene, assai sfortunatamente, dopo qualche breve momento di attenzione e di discussione, sono scivolate via, senza riuscire a produrre conseguenze di un qualche rilievo. Ed è altissimo il rischio che tutto finisca come uno scroscio di pioggia nel deserto.

L’Albanese, dopo aver perentoriamente affermato che Israele, dopo la negazione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, sta arrivando a mettere “a repentaglio l’esistenza stessa del popolo palestinese in (quel che resta della) Palestina”, focalizza la propria attenzione sul  ruolo delle numerose entità aziendali (imprese commerciali, multinazionali, entità a scopo di lucro e non, private, pubbliche o di proprietà dello Stato) coinvolte nel sostegno all’occupazione illegale  e nella “campagna genocida” in corso a Gaza.

L’elenco dei soggetti aziendali è lungo e non privo di sorprese e riguarda

produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione  ed edilizia, industrie estrattive e di servizi, fondi pensione, assicuratori, università e organizzazioni benefiche.”

E, in considerazione del fatto incontestabile che tali

 “entità coadiuvano la violazione dell’autodeterminazione e altre violazioni strutturali nel territorio palestinese occupato, tra cui l’occupazione, l’annessione e i crimini di apartheid e genocidio, nonché una lunga lista di crimini accessori e violazioni dei diritti umani, dalla discriminazione, alla distruzione ingiustificata, allo spopolamento e al saccheggio, alle esecuzioni extragiudiziali e alla fame”,

 il punto di approdo risulta quanto mai nitido e lapidario.

Per far sì che si possa mettere fine alle attività commerciali che consentono e traggono profitto dall’annientamento di vite innocenti,

  • le entità economico-finanziarie responsabili dovrebbero essere chiamate a rispondere del loro operato, sia a livello nazionale che internazionale;
  • andrebbero imposti sanzioni ed embargo su armamenti e tecnologie connesse;
  • andrebbero sospesi tutti gli investimenti e le relazioni commerciali con le aziende coinvolte;
  • andrebbero attuate indagini giudiziarie internazionali nei confronti degli organi manageriali e dirigenziali.

Tutti atti necessari quanto doverosi che, però, ragionando in modo realistico, al momento appaiono di ben ardua realizzazione.

Per cui, a mio avviso, andrebbe presa in considerazione ed attuata con estrema determinazione (secondo il migliore stile gandhiano) una puntuale strategia nonviolenta di boicottaggio nei confronti dei vari soggetti segnalati nel Rapporto. Boicottaggio che, per poter sperare di risultare efficace, non dovrebbe essere affidato semplicemente alla buona volontà delle singole persone, ma che dovrebbe essere proclamato e pilotato da una vasta e autorevole coalizione internazionale di ONG e associazioni umanitarie e di volontariato, a cui, per effetto slavina, finirebbero per aderire numerose chiese e organizzazioni religiose, sindacati, università, società sportive, ecc.

Perché, a quel punto, una mancata adesione non potrebbe che apparire estremamente scomoda e difficilmente giustificabile.

Solo così l’operazione di boicottaggio arriverebbe a coinvolgere milioni (forse decine di milioni) di consumatori e riuscire, pertanto, a produrre, già nel giro di pochi giorni o poche settimane, effetti tangibili ed inequivocabili,  di fronte a cui le entità aziendali prese di mira si troverebbero costrette a prendere chiari e radicali provvedimenti, rassicurando azionisti, investitori, soci, dipendenti, ecc.

Fra detti soggetti economico-finanziari, una volta esposti alla pubblica condanna, non potrebbe, infatti, che innescarsi un altro contagiosissimo effetto-slavina:

quello della dissociazione rispetto anche al pur minimo sospetto di connivenza-collaborazione con le operazioni in odore di genocidio, al fine di liberarsi pubblicamente da accuse ed ombre infanganti ed infamanti, nocive per la propria credibilità e per la propria stessa sopravvivenza.

Certo, la mia potrebbe apparire come una speranza troppo ingenua e fin troppo ottimistica … Un simile appello al boicottaggio, all’interno di un mondo iperconsumistico come il nostro, potrebbe infatti cadere facilmente nel vuoto, incontrando scarso interesse e grosse resistenze sul piano pratico; i meccanismi mediatici, ampiamente asserviti agli interessi economici, potrebbero svolgere una brillante azione di occultamento-banalizzazione; i soggetti aziendali presi di mira potrebbero prodigarsi nel fornire grandi rassicurazioni, limitandosi, di fatto, a qualche piccola modifica di facciata delle loro strategie, ecc.

Sì, certo … forse …

Ma il vero problema che dovremmo porci è un altro:

come riuscire a fare in modo che il prezioso (ed esplosivo) operato di Francesca Albanese non finisca come pioggia ingoiata dal deserto?

Adesso che abbiamo davanti ai nostri occhi un elenco ben preciso delle entità aziendali coinvolte, giudicate corresponsabili di quanto sta accadendo, perché - mi chiedo -  continuano ancora a non essere avanzate, da parte delle innumerevoli cosiddette “forze del Bene” della società civile (di ambito umanitario, economico, religioso, culturale, ecc.), concrete proposte di fattiva ed efficace operatività?!?

E’ davvero tanto difficile creare rapporti di collaborazione, di condivisione, di sinergia, intraprendendo una campagna corale, compatta e determinata, e, soprattutto, di respiro mondiale? 

E’ davvero tanto difficile, insomma, passare dalla deprecazione tanto accorata ad una coraggiosa azione coerentemente impegnata?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ogni giorno ci lamentiamo del traffico, dei clacson, del cantiere sotto casa e delle sirene che attraversano la notte, ma raramente ci chiediamo se tutto questo rumore abbia un prezzo. Eppure ce l’ha, ed è alto. L’inquinamento acustico, definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “rumore ambientale dannoso per la salute umana”, non è solo una seccatura urbana. È un fattore di rischio per la salute pubblica, una fonte di diseguaglianza ambientale e una minaccia per molte specie animali. Tuttavia, nelle agende politiche e nel dibattito pubblico, continua a restare un tema marginale. Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, oltre 113 milioni di cittadini europei sono esposti quotidianamente a livelli di rumore superiori ai 55 decibel, la soglia oltre la quale il rischio per la salute aumenta. Solo in Europa, si calcolano più di 12.000 morti premature all’anno attribuibili al rumore ambientale, e un milione di anni di vita sana persi. Peraltro, l’inquinamento acustico è ancora trattato come un “male necessario” ed un effetto collaterale dello sviluppo urbano. Forse perché non lo vediamo, non lo respiriamo e non lo tocchiamo, ma lo subiamo, costantemente.

 Il primo fraintendimento da superare è che il rumore sia solo fastidio. In realtà, l’esposizione cronica al rumore, anche a livelli moderati, produce effetti fisiologici misurabili: aumento della pressione sanguigna, disturbi del sonno, alterazione del battito cardiaco, maggiore produzione di cortisolo ed altri ormoni dello stress. Una ricerca pubblicata su The Lancet ha collegato l’inquinamento acustico ad un aumento del rischio di infarto nelle persone che vivono in prossimità di arterie stradali o aeroporti. Nei bambini, il rumore ambientale influenza l’apprendimento, la concentrazione e lo sviluppo del linguaggio. Non è un caso che l’O.M.S. abbia inserito il rumore tra i principali fattori ambientali di rischio per la salute nei Paesi occidentali, dopo l’inquinamento atmosferico. A differenza di altri inquinanti, però, il rumore non ha soglie evidenti: non si accumula nel corpo e non dà sintomi immediati. Agisce lentamente, come un logorio.

E proprio per questo è spesso sottovalutato. Come ogni forma di inquinamento, anche quello acustico colpisce in modo diseguale. I quartieri più esposti al rumore sono spesso quelli dove vivono le classi sociali più fragili: aree vicine a infrastrutture, zone industriali o strade ad alta percorrenza. Nel centro di una grande città, chi può permettersi di vivere in una via pedonale o in una casa con doppi vetri non subirà gli stessi effetti di chi abita al quarto piano di un palazzo affacciato su una tangenziale. Anche il rumore, peraltro, è un indicatore di povertà ambientale. È una dinamica che si ripete ovunque nelle periferie urbane, nelle città portuali e nei pressi delle ferrovie. Spesso riguarda anche le scuole e gli ospedali, cioè i luoghi dove il silenzio dovrebbe essere garantito. Anche gli animali subiscono gli effetti dell’inquinamento acustico e in molti casi, in modo più drastico degli esseri umani. Infatti, gli uccelli che vivono in città cambiano i propri canti, modificandone frequenza e durata, per riuscire a comunicare sopra il rumore del traffico.

 I pipistrelli, che si orientano tramite eco localizzazione, possono essere completamente disorientati dal rumore di fondo urbano. Gli animali marini, in particolare i cetacei, sono minacciati dal traffico navale e dalle esplosioni sottomarine utilizzate per l’esplorazione di idrocarburi. Il rumore altera i comportamenti migratori, la riproduzione e la predazione. E si aggiunge ad altri fattori di stress come l’inquinamento chimico, la perdita di habitat e il riscaldamento globale. L’impatto del rumore sulla biodiversità è ampiamente documentato, ma ancora scarsamente riconosciuto nelle politiche di tutela ambientale. A livello europeo, esiste una direttiva (2002/49/CE) che impone agli Stati membri di redigere mappe acustiche e piani d’azione per ridurre il rumore nelle aree urbane. In Italia, la legge quadro 447/1995 ha posto le basi per una normativa sul rumore ambientale, ma nella pratica, l’applicazione è stata lacunosa e disomogenea. Infatti, molti Comuni non hanno mai approvato un piano acustico comunale. I controlli sulle emissioni sonore affidati ad ARPA delle attività produttive e commerciali sono sporadici, e, spesso, sottofinanziate. Le sanzioni sono rare e poco dissuasive. E la percezione pubblica del problema resta bassa: protestiamo contro la spazzatura nelle strade, ma accettiamo il rumore come un sottofondo inevitabile. Il risultato è un’assenza di strategia nazionale.

Manca un coordinamento tra Enti, una visione di lungo termine e, soprattutto, una volontà politica di affrontare il problema con serietà. Le soluzioni esistono, e sono già sperimentate in molte città europee. Barriere acustiche naturali (alberi, siepi, terrazzamenti); pavimentazioni fonoassorbenti nelle strade; zonizzazione del rumore limitando gli orari per cantieri e attività commerciali; regolamentazione degli impianti audio nei locali pubblici; incentivi per mezzi di trasporto elettrici e silenziosi e progettazione urbanistica orientata alla quiet city: meno auto, più aree pedonali, spazi verdi e piste ciclabili. Non è solo una questione tecnica. Serve un cambio culturale: rieducare cittadini, amministratori, architetti e imprese al valore del silenzio. Inserire il tema del rumore nei programmi scolastici. Usare campagne pubbliche per aumentare la consapevolezza. Perché il rumore è una forma di degrado, come i graffiti vandalici o i rifiuti in strada. Solo che si sente, ma non si vede. In un’epoca in cui si parla molto di sostenibilità, è paradossale che si parli così poco di inquinamento acustico. Forse perché è difficile farlo diventare un tema di mobilitazione politica. Nessuno scende in piazza per chiedere più silenzio. Eppure, il rumore incide sulla qualità della vita quanto (se non più) di altri fattori. Chi ha vissuto in una città senza traffico lo sa: il silenzio non è un lusso, è un diritto. Recuperare il valore politico del silenzio significa cambiare modello urbano, economico e culturale. Ciò significa riconoscere che la salute mentale è tanto importante quanto l’efficienza della mobilità e che un ambiente più silenzioso è anche un ambiente più sano, equo e vivibile.

 Articolo 1.

I popoli indigeni, sia come collettività sia come persone, hanno diritto al pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali così come sono riconosciuti nella Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione Universale dei diritti umani e nella normativa internazionale sui diritti umani.

Articolo 2.

I popoli e gli individui indigeni sono liberi ed eguali a tutti gli altri popoli e individui e hanno diritto a non essere in alcun modo discriminati nell’esercizio dei loro diritti, in particolare per quanto riguarda la loro origine o identità indigena.

Articolo 3.

I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto essi determinano liberamente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.

                          DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI UNITE SUI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI (2007)

 

 

            Dopo secoli di presuntuosi pregiudizi e inenarrabili violenze che hanno comportato stermini di massa, deportazioni, devastazioni e schiavizzazioni ai danni di popoli percepiti come estranei al proprio modello di civiltà (quello ellenico-cristiano), il mondo occidentale, in sede filosofica e scientifica, grazie soprattutto ai progressi degli studi antropologici dell’inizio del XX secolo, ha compiuto la scelta di liberarsi dal suo odioso etnocentrismo, riconoscendo l’esistenza di altri ambiti culturali non più etichettabili come “barbari”, “selvaggi” o “naturalmente inferiori”. Ciò è stato reso possibile, soprattutto,  grazie al contributo di importanti scuole etnologiche, come quella boasiana e quella di Malinowski, convergenti nel riconoscere la pluralità delle culture, non più riducibili ad un unico schema di sviluppo e di interpretazione, in quanto dotate di precipua individualità e di efficaci sistemi funzionali.

E dopo oltre mezzo secolo dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, alle soglie del nuovo secolo (13/09/2007), l’Assemblea delle Nazioni Unite ha inteso produrre una nuova Dichiarazione, esclusivamente riferita ai diritti dei popoli indigeni, sottolineando come le innumerevoli ingiustizie storiche patite (in particolar modo a causa della colonizzazione e della spoliazione delle terre e delle risorse) abbiano impedito loro di esercitare il “proprio legittimo diritto allo sviluppo in accordo con i propri bisogni e interessi”, e riconoscendo “l’urgente necessità di rispettare e promuovere i diritti intrinseci dei popoli indigeni che derivano dalle loro strutture politiche, economiche e sociali e dalle loro culture, dalle loro tradizioni spirituali, storie e filosofie, e in modo particolare i loro diritti alle proprie terre, territori e risorse,” e riconoscendo, altresì, “che il rispetto dei saperi, delle culture e delle pratiche tradizionali contribuisce allo sviluppo equo e sostenibile e alla corretta gestione dell’ambiente”.

Ma i passi avanti filosofici e giuridici poco incidono, anche in questo caso, sulla voracità amorale dell’economia capitalistica. I popoli indigeni continuano ad essere oggetto, in varie aree del pianeta, di ignobili minacce, soprusi, e violenze, di una gravità tale da metterne in serio pericolo la stessa sopravvivenza.

Con l’obiettivo di attirare l’attenzione generale sulla sorte dei popoli indigeni (stimati fra i 370 e i 476 milioni in oltre 90 paesi), l’UNESCO ha celebrato, nell’appena trascorso 9 agosto, la Giornata Internazionale dei popoli Indigeni del Mondo, in ricordo della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, svoltasi nel 1982 e della successiva istituzione ufficiale della ricorrenza, tramite la risoluzione 49/214 dell’ONU (1994).

Particolare rilevanza è stata attribuita alla funzione di guardiani dell’ambiente e difensori della biodiversità svolta dai popoli indigeni, intesi  come vero argine vivente di fronte  all’avanzata dei settori estrattivi e produttivi, fonte catastrofica di deforestazione e degrado del territorio.

Sicuramente una scelta intelligente e moralmente encomiabile quella di aver voluto conferire alle comunità dei nativi, intese perlopiù come intralcio alla trionfale avanzata del “progresso”, la nobile e nobilitante veste di custodi degli equilibri ambientali e, quindi, di curatori dei reali e concretissimi interessi dell’intero pianeta e di tutti i suoi abitanti … Ma resta assai difficile credere che ciò possa bastare a fermare la mano criminale di un sistema di dominio e di sfruttamento che nulla sa e che nulla vuol sapere di diritti inviolabili, di dignità delle persone, di diritto all’autodeterminazione, di rispetto delle diversità e di tutela ambientale.

L’unica via percorribile, è quella che prevede che, da parte di tutti gli Stati, venga preso in responsabile e coerente considerazione, “senza se e senza ma”,  quanto indicato nell’articolo 8 della sopra menzionata Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. Altrimenti, rischieremo, come in troppi altri casi, di continuare a naufragare in un oceano sterile quanto ipocrita di retorica delle buone intenzioni e dei generosi auspici:

 

                                  “Gli Stati devono provvedere  efficaci misure di prevenzione e compensazione per:

a) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di privarli della loro integrità come popoli distinti, oppure dei loro valori culturali o delle loro identità etniche;

b) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di espropriarli delle proprie terre, territori e risorse;

c) Qualunque forma di trasferimento forzato della popolazione che abbia lo scopo o l’effetto di violare o minare quale che sia dei loro diritti;

d) Qualunque forma di assimilazione o integrazione forzata;

e) Qualunque forma di propaganda volta a promuovere o istigare la discriminazione razziale o etnica nei loro confronti.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’arresto di Usāma al-Maṣrī Nağīm sul territorio italiano avrebbe potuto segnare un momento storico per la giustizia internazionale. Invece, si è trasformato in un caso diplomatico imbarazzante, una macchia sulla credibilità dell’Italia come Paese che si professa difensore dei diritti umani. Al-Masri è accusato dalla Corte Penale Internazionale (C.P.I.) di crimini gravissimi: torture sistematiche, violenze sessuali, omicidi, detenzioni arbitrarie nei campi libici dove venivano trattenuti migranti africani. Perciò, nonostante l’arresto in Italia, il “comandante” non è stato consegnato alla giustizia internazionale. È stato invece rispedito in patria con un volo di Stato, senza processo, senza estradizione, e neppure un’udienza pubblica. Secondo il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, a bloccare la procedura sarebbero stati “problemi formali”: incongruenze nei documenti, errori di traduzione, atti redatti in inglese. Una giustificazione che appare debole, se non pretestuosa, per un Paese che ha firmato lo Statuto di Roma e si è impegnato a collaborare con la Corte dell’Aja. Chi conosce il funzionamento della C.P.I. sa bene che gli eventuali difetti di forma non giustificano la mancata esecuzione del mandato d’arresto.

Il governo italiano avrebbe potuto e dovuto chiedere chiarimenti, prorogare la custodia cautelare, sollevare eccezioni legali secondo i canali previsti. Invece, ha scelto la via più rapida: quella del rientro immediato. È evidente che non siamo davanti a una semplice svista burocratica, ma a una decisione politica. Il sospetto, fondato, è che il governo italiano abbia preferito evitare attriti con le autorità libiche, in un momento in cui i rapporti bilaterali sono cruciali per la gestione dei flussi migratori. Una logica di convenienza che però mina i fondamenti del diritto internazionale. Se ogni Stato potesse ignorare i mandati della C.P.I. sulla base di tecnicismi, l’intero sistema collasserebbe. L’Italia ha scelto di non collaborare con la giustizia, e così facendo ha offerto un salvacondotto a un uomo accusato di crimini disumani. Le reazioni non si sono fatte attendere. Il Tribunale dei Ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano per favoreggiamento e peculato. Una delle vittime sopravvissute alle torture ha denunciato lo Stato italiano.

La Corte Penale Internazionale ha aperto un dialogo formale con Roma per chiedere spiegazioni. È l’ennesima crepa nella reputazione internazionale dell’Italia. Peraltro, oltre alla responsabilità giuridica, c’è una responsabilità morale che pesa come un macigno. Che messaggio stiamo trasmettendo alle vittime dei crimini di guerra? Che il loro dolore vale meno della nostra convenienza geopolitica? Che la giustizia è negoziabile? L’Italia ama presentarsi come paladina dei diritti umani, ma in questo caso ha voltato le spalle alla giustizia internazionale. Non è sufficiente indignarsi per i crimini altrui se, quando si ha l’occasione concreta di intervenire, si sceglie il silenzio, l’omertà, il ritorno alla Realpolitik. La giustizia non si difende con i comunicati stampa, ma con il coraggio delle scelte. Se l’Italia vuole ancora essere credibile come Stato di diritto, è tempo di fare chiarezza, e non per compiacere la legalità internazionale, ma per rispetto verso noi stessi, verso la nostra Costituzione e verso tutte le vittime che attendono, e meritano giustizia.

L' adozione a distanza rappresenta un ponte che unisce due mondi e crea un futuro di opportunità ma è anche un percorso complesso che, richiede preparazione, informazione e supporto.

Nel 2024, in Italia, sono stati adottati 1.425 bambini e giovani, di cui 185 tramite adozioni singole e 1.240 tramite adozioni di gruppo, che includono anche 140 seminaristi e 150 allievi infermieri, secondo il rapporto OPAM. Per quanto riguarda le adozioni intenazionali, c'è stata una lieve ripresa nel 2024, con 691 minori stranieri accolti da famiglie italiane, un aumento del 12% rispetto al 2023. I dati relativi al 2024 e 2025 per le adozioni a distanza non sono specificati nel dettaglio, ma si registra una tendenza generale alla diminuzione delle adozioni internazionali negli ultimi anni, con un calo del 73% nel numero di coppie richiedenti nel primo semestre del 2024 rispetto al primo semestre del 2014, secondo la Commissione per le Adozioni Internazionali.

Un piccolo  contributo in questo caso può fare la differenza nella vita di un bambino. L'adozione a distanza non è solo un aiuto materiale, ma rappresenta anche un legame emotivo che arricchisce la vita di chi adotta, offrendo una prospettiva più ampia sul mondo e sul valore della solidarietà. Non importa quindi la distanza, il cuore sa trovare la strada per connettersi con chi ha bisogno. E proprio per questo voglio  raccontare una storia che parte dalla Svizzera e arriva a Karenge (Rwanda) con l’adozione a distanza di due bambine. Sono due sorelline, Waneza Ange di 7 anni e Ishimwe  Anne Maria di 10 anni.

Un gesto di grande generosità e sensibilità dei coniugi Piero Melissano e Marina Brugnano.

Un segno di grande altruismo e impegno verso un mondo più giusto.

Piero Melissano e Marina Bugnano,  dichiarano: “ Quello che ci serve 

            Marina Brugnano e Piero Melissano

davvero in questa vita è la forza della connessione umana, una presenza silenziosa, un gesto gentile, un tocco che ci ricordi che non siamo soli.

Nei momenti difficili l’amore e la solidarietà diventano inevitabilmente un'ancora che ci tiene a galla e noi, quell’ancora siamo felici di averla gettata intraprendendo l’adozione a distanza”.

Questa è una favola a lieto fine che, ci ricorda l’importanza di esserci l’uno per l’altro.

 

Partinico (Pa) - Parlando di uguaglianza e diversità il punto da cui partire è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino secondo la quale gli uomini sono tutti uguali, hanno tutti gli stessi diritti. Diritti fondamentali come il diritto alla salute, alla vita, al rispetto, alla libertà di realizzarsi secondo i loro desideri, di esprimere le proprie opinioni, di scegliere la religione: si tratta di diritti imprescindibili non soggetti a differenze. In sostanza, non possono essere messi in discussione.

Se questi sono i principi di base, però, va anche detto che l’unicità dell’individuo, nella pratica quotidiana, va rispettata.

Essere uguali non significa assomigliarsi, pensare, parlare, vestirsi, comportarsi tutti nello stesso modo.

Si può dire, in un certo senso, che esercitare la propria individualità e dunque la propria unicità rispetto agli altri sia un diritto come gli altri.

La diversità spesso fa paura perché, come esseri umani, ci sentiamo più sicuri con ciò che conosciamo bene e che ci è familiare. Quando incontriamo persone che sembrano, pensano o si comportano in modo diverso da noi, a causa di una diversità, il nostro cervello può reagire con incertezza o insicurezza. Questa reazione è del tutto normale: fa parte del nostro istinto di cercare sicurezza in ciò che è prevedibile e conosciuto. La diversità può essere associata a una disabilità di tipo fisico o psichico.

Parlare di diversità apre anche un altro discorso: quello sulla discriminazione. Discriminare il diverso, soprattutto se in caso di bisogno, è frequente e in qualche modo connaturato alla natura umana, che in caso di paura reagisce negativamente rifiutando quello che percepisce come un pericolo. A chi non è mai capitato di obbedire all’istinto di fuggire, per fastidio e paura, da chi si trova in uno stato di bisogno?.

Dunque, non è utile eccedere, né nell’annullare la diversità, né nell’enfatizzarla: si tratta piuttosto di essere aderenti alla realtà e di affrontarla con serenità ma, non neghiamolo, anche con sofferenza, con piccole-grandi lotte quotidiane combattute non solo con se stessi, ma anche con il mondo, talvolta inaccessibile e staccato dai cosiddetti “normodotati”.

In questa nostra società caratterizzata dall’esaltazione dell’immagine, della velocità, della perfezione, dalla corsa al successo, il disabile (sia esso intellettivo, fisico e/o sensoriale) corre il rischio di “essere tralasciato”, di non rimanere in gara, di sentirsi isolato e solo; rischia di percepirsi come zavorra, con conseguente perdita di fiducia in sé e negli altri.

Non tutti hanno la forza ed il coraggio di continuare a battersi per ciò in cui credono, e spesso, dopo vari tentativi infruttuosi, si giunge alla resa di fronte ad una situazione mediocre ed insoddisfacente, che non contribuisce a formare né l’autonomia né l’autostima del soggetto.

Anche qualora ci fosse un solo essere umano svantaggiato, questo avrebbe il diritto di potersi integrare nel tessuto sociale, di non dover “mendicare” per avere ciò che gli spetta; il disabile

non dovrebbe sentirsi invisibile, impotente o oggetto di pregiudizi giustificabili solo dall’ignoranza, dall’insensibilità e dall’egoismo.

Una società che si definisce civile, giusta e morale deve garantire alla persona svantaggiata una vita dignitosa e libera.

La disabilità non deve essere un ostacolo alla piena realizzazione di una persona. Promuovere l’inclusione, superare i pregiudizi e concentrarsi sulle capacità sono passi fondamentali per costruire una società più giusta ed equa per tutti.

Io sono una donna nata con una disabilità , la spina bifida, che è una malformazione è uno difetto neonatale dovuto alla chiusura incompleta di una o più vertebre, risultante in una malformazione del midollo spinale. Può essere perciò considerata un disrafismo e comporta diversi problemi che si possono risolvere con intervento chirurgico, ma in modo permanente, causa insensibilità agli arti inferiori e impossibilità di poter camminare.

Nonostante una disabilità che non ho scelto di avere e che non posso eliminare, ho sempre cercato di vivere la mia vita senza farmi ostacolare dalla disabilità, ho una famiglia che ha sempre fatto rete attorno a me e amicizie che mi hanno sempre accettata e amata per la persona che sono, senza fermarsi alla disabilità e senza mai farmi sentire “diversa”.

Ho sempre fatto ciò che mi piaceva senza sentirmi “diversa”, senza permettere alle persone che ho incrociato nella mia vita e mi consideravano “diversa” di farmi sentire inferiore o “diversa”, soltanto perché loro camminano con le proprie gambe e invece io cammino, con le mie che sono una sedia a rotelle.

Sogno e spero in un mondo dove il termine “ diverso” possa sparire, per descrivere un diversamente abile…un mondo, dove un normodotato e un diversamente abile possano avere gli stessi diritti, integrazione e lo stesso rispetto da parte di una società che, ancora oggi considera inferiore e diverso il soggetto diversamente abile.

 

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