L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Antonio Marchesi |
Poche cose (forse davvero nessuna) sono paragonabili, nell’ambito delle infinite cose terribili inventate e praticate dall’umanità, all’ orrore rappresentato dalla tortura. “Chi nel leggere le storie - scriveva Cesare Beccaria - non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti?” E chi, ancora oggi, può non rimanere sgomento di fronte alle notizie che, a volte ci giungono, di episodi di tortura?
Sono passati diversi decenni, ormai, dal 10 dicembre del 1984, anno in cui l’Assemblea generale adottò la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, e quel testo è stato (ed è ancora) innumerevoli volte tragicamente ignorato e tradito. Basti pensare che il numero dei paesi che l’hanno ratificato, impegnandosi a prevenire e a punire la tortura, è soltanto di poco superiore a quello dei paesi in cui risulta tuttora essere praticata, e che almeno tre paesi su quattro, fra quelli che si erano vincolati a non più farvi ricorso, hanno finito, in questi ultimi anni, per farne uso (in maniera isolata o seriale).
Nel Rapporto sulla tortura nel mondo del 1973, Amnesty International si trovò costretta ad ammettere, con oggettiva amarezza, che fino ad allora troppo poco era stato fatto “per definire e, in ultima analisi, per debellare l’uso della tortura.” Tanti anni, da allora, sono passati. E, senza dubbio alcuno, non in modo del tutto sterile.
L’uomo - leggiamo sempre nel Rapporto - “Ha imparato a porre dei limiti all’esercizio del potere da parte dei pochi per proteggere i molti e per proteggere in ultima analisi tutti. La tortura è il più flagrante diniego dell’umanità dell’uomo, è la corruzione umana ultima. Per questa ragione l’uomo l’ha proibita. Questa conquista umana deve essere difesa.” Arrivando poi a concludere, con la peculiare pragmatica saggezza amnestiana, che compito irrinunciabile della comunità internazionale sarebbe dovuto essere l’ elaborazione di “rimedi efficaci per la prevenzione della tortura.”
Ed è proprio in questa prospettiva pedagogicamente preventiva che merita di essere inteso, letto ed apprezzato (molto!) l’ultimo libro di Antonio Marchesi, docente appassionato e instancabile alfiere della cultura dei diritti umani: libro che, passando in rassegna numerosi casi (più o meno noti) di tortura della nostra epoca, da Abu Ghraib a Giulio Regeni, dall’Argentina dei desaparecidos alla vergogna della s
cuola Diaz di Genova, ha l’indubbio pregio di riuscire a permetterci di penetrare dentro il cupo universo della tortura, mettendoci in contatto con le esistenze di tante persone reali che la tortura l’hanno subita e combattuta, oppure praticata e occultata.
Con Antonio Marchesi, amico di lunga data, è nata la conversazione che segue:
- Antonio, come mai, pur essendo tu un giurista e non un cronista o uno storico, invece che proporci una trattazione di tipo filosofico-giuridico del fenomeno della tortura, hai preferito presentarci una rosa di vicende relative a vittime della tortura, conferendo ampio spazio, in particolare, agli sviluppi giudiziari, spesso estremamente complessi e travagliati, dei singoli casi?
Ho voluto illustrare gli ostacoli che rendono difficile, se non impossibile, ottenere verità e giustizia quando di mezzo c’è l’apparato dello stato e, in particolare, quando l’accusa, particolarmente infamante, è di tortura. Nel tentativo di arrivare a un pubblico poco avvezzo (e forse poco interessato) ai ragionamenti dei filosofi del diritto, mi sono affidato al racconto di vicende concrete, tutte realmente accadute, narrando sia gli abusi commessi sia, soprattutto, l’occultamento, i depistaggi, la rimozione che sono seguiti.
- Jean Améry, un intellettuale che la tortura l’ha patita in maniera devastante, afferma che chi ha provato sulla propria pelle e nella propria anima una simile indicibile esperienza, ha visto crollare, dentro di sé, la fiducia nel prossimo, la fiducia nell’intera specie umana.
Sulla base delle tue ricerche, nonché della tua pluridecennale militanza in Amnesty International, ritieni sia possibile, da parte delle vittime, una ricostruzione, seppur lenta e parziale, di un rapporto col mondo degli umani animato e sorretto da un efficace sentimento fiducia?
Spero di sì, spero (e credo) che sia quantomeno possibile, dopo la tortura, tornare a condurre una vita “normale”. Credo però che, anche quando questo avviene, anche quando il percorso di ricostruzione viene completato definitivamente e con successo, il rischio che i fantasmi del passato ritornino non possa essere completamente eliminato. In altre parole, non so se dalla tortura si guarisca mai del tutto.
- Per quanto concerne, invece, l’entità del fenomeno della tortura e la sua evoluzione storica, credi sia possibile, dati alla mano, da parte nostra, guardare al futuro con ragionevole speranza?
Il fatto che i torturatori - chi la tortura la esegue ma anche chi la ordina o in qualche modo la legittima - sentano il bisogno di nascondersi, di negare i fatti e le proprie responsabilità, che il tabù della tortura resista, è già una buona notizia. Su queste basi si può costruire una strategia di eliminazione effettiva, e non solo di ripudio formale, della tortura.
Ci vorrà sicuramente molto tempo prima di ottenere una significativa diminuzione del fenomeno a livello mondiale. Ma il risultato complessivo e finale è la somma di tanti piccoli risultati parziali, importanti in quanto tali. E, in ogni caso, per raggiungere una meta distante bisogna pur muovere dei passi, per piccoli che possano essere, nella giusta direzione.
- In Italia, con ben 11.000 giorni di ritardo rispetto a quanto proclamato a livello internazionale, e dopo inenarrabili resistenze, nell’estate del 2017, è stato finalmente introdotto nel codice penale il reato di tortura. A proposito dell’ arduo, travagliato e controverso cammino che ci ha condotto a questo risultato (vicenda questa che ti ha visto, in quanto presidente della sezione italiana di AI, a lungo impegnato in primissima fila), tu stesso ti sei attentamente chiesto se sia “stato fatto un passo avanti, sia pure insufficiente, oppure no”, approdando ad una valutazione di cauta positività.
In base a quali considerazioni?
Non hanno forse valide motivazioni coloro che parlano di legge inadeguata, inaccettabile o, addirittura, di “legge truffa”?
Criticare la definizione del reato è ovviamente lecito … anzi, condivido molte delle critiche (anche se talvolta espresse con una nettezza fuori luogo, visto che è ben difficile anticipare con certezza come verranno interpretate e applicate quelle norme poco chiare). Dire che sarebbe stato meglio niente è, invece, secondo me un grave errore di prospettiva e riflette un atteggiamento di chi è più interessato ad avere ragione che a cambiare le cose (un atteggiamento difficilmente riconciliabile con le strategie graduali tipiche di organizzazioni come Amnesty International, che, un pezzettino alla volta, non disdegnando i compromessi, hanno ottenuto risultati impensabili, di grandissimo rilievo). Se non altro, il fatto che un reato di tortura oggi ci sia segna la fine di quella rimozione della nozione stessa di tortura di cui il silenzio del codice penale era espressione. Una rimozione che era molto cara ai “negazionisti” (che per decenni hanno ripetuto che del reato di tortura non c’era bisogno perché la tortura in Italia non c’è!).
- E le norme di prevenzione della tortura, inoltre, ti sembra che siano state ben formulate? Cosa sarebbe stato possibile fare di più e di meglio? E cosa si potrà, a tuo avviso, realisticamente migliorare nei prossimi anni?
Alcune delle altre norme contenute nella nuova legge sono sicuramente una novità positiva. Da quella che riafferma con forza il principio di non refoulement, a quella che chiarisce l’inutilizzabilità in un processo di informazioni ottenute mediante tortura, fino alla norma che esclude l’immunità degli organi stranieri. Peccato invece che non sia stata accolta la proposta di allungare (raddoppiandoli) i termini di prescrizione rispetto al sistema di calcolo ordinario.
- Riccardo Noury, nella sua prefazione, dopo aver detto che esistono “più pentiti di mafia che pentiti di tortura”, fa riferimento a Pierre Yambuya, definito come l’unico, da lui conosciuto, ad essersi sinceramente e coerentemente “pentito mentre collaborava alla tortura”. Sono sicuro che anche tu, nel corso della tua lunga militanza amnestiana, abbia avuto modo di conoscerlo bene e di apprezzarne lo spessore morale.
Sì ... l'ho conosciuto tanti anni fa, poco dopo il suo coraggioso rifiuto di prendere ulteriormente parte, da pilota militare qual era, alla macchina repressiva del regime congolese e la sua rocambolesca fuga in Europa. E l'ho rivisto tante volte da allora. La sua scelta (una scelta unica, o quasi, come ha giustamente sottolineato Riccardo) Pierre l'ha pagata molto cara. Ha vissuto una vita da esule, nella continua speranza che si creassero le condizioni affinché potesse tornare nella sua Africa (cosa che è avvenuta solo per un breve periodo). E quella vita l'ha trascorsa portando avanti, per decenni, con una tenacia ammirevole, la sua missione di testimone di violazioni dei diritti umani.
E' morto in esilio mentre era ospite di attivisti di Amnesty suoi amici.
Ci mancherà.
*Antonio Marchesi insegna Diritto internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo e ha tenuto corsi di lezioni in diverse università italiane e straniere. È autore di oltre cinquanta saggi e ha scritto o curato libri soprattutto sulla protezione internazionale dei diritti umani. È iscritto alla sezione italiana di Amnesty International dal 1977 e ne è stato presidente dal 1990 al 1994 e dal 2013 al 2019. Per il Segretariato internazionale di Amnesty International ha svolto missioni di ricerca e partecipato a conferenze internazionali. Ha collaborato su progetti in tema di diritti umani con il Consiglio d’Europa, il Parlamento europeo, la Commissione europea e diverse organizzazioni non governative ed è attualmente consulente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
Antonio Marchesi
Contro la tortura – Trent’anni di battaglie politiche e giudiziarie
Prefazione di Riccardo Noury
Introduzione di Mauro Palma
Con il patrocinio di Amnesty International
Infinito Edizioni
25 Novembre: Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne, vittime ignare di uno stereotipo di genere OVVERO la Degenerazione del Femminismo.
… Correa l’anno 1791, in una Francia “illuminata”, giovanissima figlia della Rivoluzione per eccellenza, viene proclamata la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, di quelle donne scese in piazza, insieme agli uomini, a rivendicare i diritti politici e civili negati dall’assolutismo monarchico.
Inconsapevolmente, in quella sede, si sono poste le basi di un movimento, oggi, irreparabilmente viziato nel mondo occidentale, un fenomeno che, ai giorni nostri, contraddice i primigeni, nobili, intenti di uguaglianza e libertà… “Sua Maestà il Femminismo”!
Un movimento destinato a durare nei secoli.
Pace, Pane e Libertà reclamavano le donne di San Pietroburgo nel non così lontano 1917.
Spezzati gli antichi pregiudizi sedimentati sul fondo di un’arcaica incoscienza patriarcale, nel 1929, si innalzano le “Torce della libertà”.
Ma dov’è finita la razionalità promossa, in tempi non sospetti, da Mary Wollstonecraft, prima femminista in assoluto e quali le deviazioni che sono maturate, nel corso degli anni, man mano che, dai suoi primi, timidi tentativi, il fenomeno si trasformava da movimento culturale elitario in fenomeno di massa, più o meno esasperato, non tanto nelle premesse, quanto negli esiti?
E sì, perché, a giudicare da quello che oggi ci propone e ci sottopone il panorama mediatico, di razionale sembra esserci davvero molto poco!
Si cominciò nel ’68, toccando quei temi scottanti, quali divorzio e aborto, fino ad allora protetti da un’aura quasi sacrale, pensando, in qualche modo, che l’affrancamento della donna fosse, in primis, affrancamento sessuale, quindi libertà dall’obbligo di procreare.
Da quel momento la parabola discendente del femminismo occidentale non subirà più arresti.
Lentamente, si è passati, dalla legittima pretesa di parità, a quella, più insensata che inesaudibile, di un’arrogante castrazione maschile.
Prerogativa di chi rivendica un diritto negato è il rifiuto della prevaricazione, a buon rigor di logica!
Ma quello che è nato con il preciso intento di liberare la donna è diventato la sua prima causa di schiavitù, perché, nel tentativo di modificare un rapporto di forza precostituito, ne è diventata vittima volendolo ribaltare.
E per farlo non ha certo badato a spese, servendosi della diffusione mediatica ossia la manipolazione delle masse più riuscita dopo quella della Chiesa.
Le pubblicità inneggiano, in maniera palese, alla mortificazione fisica e mentale dell’uomo, sminuendo drasticamente, nell’immaginario collettivo, la figura maschile.
La violenza verbale è ammessa e concessa, gli aborti morfologici proponibili in nome di una battaglia a senso unico senza precedenti.
E, qualora tutto ciò non si dimostrasse sufficiente a ribaltare un clichet, tiriamo fuori le accuse di sessismo noi POPOLO ROSA!
Basta una parola, un’accusa di violenza per rovinare la vita di un uomo, non facendosi scrupolo di denigrare la figura paterna anche nei confronti dei figli. La parola, l’arma più potente di cui il genere umano dispone.
Ma è il furore ideologico tipicamente adolescenziale che, proprio per la sua natura di “minorenne”, è condannato ad una visione schematica che non sa andare oltre il bianco e il nero, ignorando la complessità e le contraddizioni del mondo e del genere umano.
Questi poveri maschi improvvisamente sono diventati dei sempre meno efficienti padri, mariti, lavoratori, quasi una categoria a rischio, sì, perché fanno tutto loro, LE DONNE, o, almeno, così dicono…
Poi però rivendichiamo le quote rosa e, nei divorzi, pretendiamo l’assegno di mantenimento, ci sono padri che mantengono figli che non vedono mai.
Quanta ipocrisia!
Ci sono padri che, nel silenzio e, con dignità, hanno svolto lavori umilianti, massacranti per sostenere la propria famiglia.
Questa è memoria storica oltre che grande esempio di coraggio, civiltà e senso del dovere.
Un abominio che nulla ha a che vedere con la gloriosa storia di Olympe de Gouges o, molto presumibilmente, una degenerazione funzionale all’attuale sistema economico-sociale.
L’emancipazione avvenuta, non è quella della donna dall’uomo, ma quella della donna da se stessa.
L’emancipazione della donna dalla sua maternità, la caratteristica biologica più spiccata, permette di disporre di lavoratrici più efficienti.
Via, quindi, alla virilizzazione del femminile, a quella mortificazione della femminilità che, a volte raggiunge livelli davvero aberranti.
Urge il recupero di un’autentica coscienza di genere da contrapporre al femminismo più spietato, bacino ideologico del capitalismo imperante.
“UMANO TROPPO UMANO” urlava Nietzsche già nel 1878!
Oggi, nel tempo della tecnica, non c’è più spazio per l’uomo e, quindi, neanche per la donna.
Dove “Dio è morto”, volendo ancora citare Nietzsche, anche l’uomo deve morire.
Ormai vige il principio che una donna se non si realizza nel lavoro è una persona frustrata, sempre a detta delle stesse, incapaci di capire che la scelta è una possibilità. Che c’è sempre un “padrone” da asservire e che una donna può realizzarsi ed esercitare il proprio, legittimo, autorevole potere in seno alla famiglia al di là di quanto rende in termini economici.
Perché, diciamocelo chiaro, signori miei, il vero potere delle donna, delle grandi società matriarcali, è proprio quello!
Oggi la donna dovrebbe un pochino imparare a svestire i panni dismessi di Wonder Woman, a liberarsi da quel furore mistico di cui si è auto investita, fare pace con se stessa e non la guerra con l’altro sesso, nella sana accettazione del fatto che, aver bisogno dell’altro non è segno di debolezza ma il naturale completamento di due identità parallele.
L’onnipotenza non è di questo mondo!
Appena qualche giorno dopo l’annuncio di un aumento delle tariffe dei trasporti pubblici a Santiago del Cile, diverse migliaia di persone si sono mobilitate per chiedere un congelamento dell’aumento delle tasse e soluzioni concrete in merito a una varietà di scelte politiche che stanno gravando su vasti settori della società cilena e che hanno un pesante impatto sui diritti economici, sociali e culturali dell’intera popolazione.
In seguito a diversi episodi di violenza nelle strade, il governo ha deciso di sospendere il servizio di trasporto pubblico e di decretare uno stato di emergenza il 18 ottobre, cosa questa che ha comportato l’invio del comando di difesa nazionale alle manifestazioni e l’imposizione del coprifuoco nell’area metropolitana di Santiago e in altri città.
In base ai dati diffusi dal governo cileno, durante le manifestazioni, lo stato d’emergenza e il coprifuoco, risulterebbero decedute ben diciotto persone.
Secondo l’Istituto nazionale dei diritti umani (Indh), cinque di queste persone sarebbero state uccise dalle forze di sicurezza. La stessa fonte segnala l’arresto di 2600 persone, 584 feriti (245 dei quali a colpi d’arma da fuoco) e altre gravi violazioni dei diritti umani.
Con una lettera aperta inviata al presidente Sebastián Piñera, l’organizzazione mondiale per la difesa dei diritti umani Amnesty International ha rammentato alle autorità cilene gli ineludibili obblighi in materia di diritti umani, esortandole insistentemente ad ascoltare le richieste della popolazione e ad agire efficacemente con adeguati provvedimenti.
“Invece di paragonare le manifestazioni a uno ‘stato di guerra’ e di definire coloro che protestano nemici dello stato, aumentando così il rischio che subiscano violazioni dei diritti umani - ha dichiarato in una nota ufficiale Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe - il governo del presidente Piñera dovrebbe ascoltare e prendere seriamente in considerazione le ragioni del malcontento“.
Le autorità cilene hanno infatti l’obbligo di indagare in modo approfondito, rapido e imparziale su tutte le denunce di uso eccessivo della forza, arresti arbitrari, maltrattamenti e torture e su ogni ulteriore violazione dei diritti umani commessa durante lo stato d’emergenza, così come investigare sulle circostanze e sulle responsabilità nei casi in cui persone hanno perso la vita.
“Criminalizzare le proteste non è la risposta. - ha aggiunto Guevara-Rosas - Se le autorità cilene devono prendere misure per prevenire ed evitare azioni violente, in nessuna maniera queste azioni possono essere usate come pretesto per limitare i diritti alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica o per fare uso eccessivo della forza.”
Inoltre, con una nota ufficiale, Amnesty ha annunciato l’invio di una missione in Cile per indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse nel contesto dello stato d’emergenza e del coprifuoco.
“Il mondo sta osservando quello che accade in Cile - ha dichiarato sempre la Guevara-Rosas - Esortiamo ancora una volta il presidente Sebastián Piñera a porre fine alla violenta repressione scatenata contro coloro che esercitano il legittimo diritto di manifestazione pacifica. Nonostante i suoi messaggi conciliatori e di discolpa, la presenza aggressiva di polizia ed esercito nelle strade continua a impaurire la popolazione”.
“Il governo cileno deve ascoltare in modo adeguato le richieste della popolazione e realizzare le riforme sostanziali e strutturali affinché tutte le cilene e tutti i cileni possano beneficiare dei diritti umani e vivere in condizioni di dignità“, ha proseguito Guevara-Rosas.
L’ unità regionale di crisi di Amnesty International raccoglierà testimonianze ed esaminerà informazioni che possano aiutare le vittime a pretendere e ad ottenere giustizia, verità e riparazione da parte dello stato, nonché a corroborare le denunce di violazioni dei diritti umani e di possibili crimini di diritto internazionale.
L’associazione, in questi giorni, attraverso i canali messi a disposizione della società civile cilena, sta ricevendo numerose denunce di gravi violazioni dei diritti umani (dall’uso eccessivo della forza alle irruzioni e perquisizioni illegali, dalla tortura agli arresti arbitrari), e i suoi esperti digitali stanno esaminando accuratamente le fotografie e i video sin qui ricevuti.
Lo hanno strappato alla vita, in questi giorni se ne apprende la la notizia. Un agguato di taglialegna intenti a tagliare alberi all’interno del territorio indigeno di Araribóia, regione di Bom Jesus das Selvas, Maranhão.
Gli hanno sparato nel mezzo ai villaggi di Lagoa Comprida e Jenipapo. Riverso in terra come ad abbracciarla ancora un’ultima volta. Lo hanno trovato così, venerdì 1° novembre, un giovane indigeno, si chiamava Paul Paulino Guajajara.
Secondo le informazioni ottenute ad oggi, anche il guardaboschi assegnato formalmente a quella zona, Laércio Guajajara è stato colpito durante l’attentato. Pare che nell’attentato sia morto anche uno dei taglialegna, il corpo poi fatto sparire dagli altri taglialegna prima dell’arrivo delle autorità brasiliane.
Siamo di fronte all’incapacità dello Stato brasiliano governato da Bolsonaro di proteggere i territori indigeni, di salvaguardare la foresta, i “Guardiani della foresta” i popoli indigeni in questo momento ne stanno pagando il prezzo più alto, con morti e uccisioni che avvengono tutte le settimane, una incapacità che spesso sfocia nella complicità del governo brasiliano, nell’aver promesso ai grandi proprietari terrieri e alle grandi aziende multinazionali di poter sfruttare vaste zone della foresta amazzonica
Invase da accaparratori di terra e taglialegna, le terre indigene di Maranhão sono da tempo teatro di una lotta impari, in cui piccoli gruppi di Indigeni Guardiani scelgono di difendere, spesso con le loro vite, l’integrità dei loro territori.
Paulino e Laércio sono solo le ultime vittime di uno stato che rifiuta di rispondere alla Costituzione federale.
“Ripudiamo e diciamo basta a una vera e propria ondata di violenza quella generata dall’incapacità dello Stato di adempiere minimamente al suo dovere di proteggere questo e tutti i territori indigeni del Brasile, chiediamo l’adozione di misure immediate per prevenire ulteriori conflitti e morti nella regione.” così hanno affermato i rappresentanti di Greenpeace del Brasile, riguardo all’ennesima morte di un indigeno
“Siamo dalla parte e solidarizziamo con i coraggiosi guerrieri Guajajara dell’Arariboia Indigenous Land e i Guardiani della Foresta nel Maranhão e in tutto il Brasile, che continuano a combattere quotidianamente per il diritto all’esistenza.” hanno continuato i rappresentanti di Greenpeace del Brasile.
Aggiungiamo che questa battaglia per la salvaguardia dei popoli indigeni e della foresta dell’Amazzonia anche se pare lontana, è vicinissima a noi e alle sorti di tutto il nostro pianeta. Secondo le ultime previsioni riportate in un precedente articolo, proseguendo al ritmo odierno con l’abbattimento di vaste aree forestali amazzoniche, in capo a pochi anni, (chi afferma 2 anni, altri 5, i più ottimisti 10), si ridurrà la foresta amazzonica all’incapacità di auto-produrre sufficienti piogge per il suo stesso mantenimento, venendosi a creare così una specie di punto di non ritorno, ormai molto vicino secondo i dati, e che una volta oltrepassato, la foresta amazzonica sarebbe destinata a scomparire nel tempo, per trasformarsi in un’area molto più simile ad una savana che a una foresta.
Ciò comprometterebbe pesantemente il ciclo delle piogge, di fatto condannando l’intero pianeta a stravolgimenti climatici e ambientali enormi che cambierebbero il volto stesso del pianeta così per come è adesso.
Si parla quindi nel breve termine di una lotta per la protezione e la salvezza dei popoli indigeni e della foresta dell’Amazzonia, ma nel medio periodo, la loro distruzione significherebbe anche la condanna del mondo, almeno per come lo conosciamo.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa internazionale Pressenza
Ad Asmae Dachan giornalista e scrittrice italo-siriana, a Vittorio Barbanotti, grande pedalatore milanese per i diritti umani e all’associazione Baobab Experience, paladina dell’accoglienza, il premio Italia Diritti Umani 2019 organizzato dalla Free Lance International Press con la collaborazione di Amnesty Italia, Cittanet e, quest’anno, Il Gremio dei sardi. Menzione Speciale a Stefania Grassi, giornalista, scrittrice esperta di migrazione.
La premiazione si è svolta nella prestigiosa sede dell’Unar (Unione Nazionale Associazioni Regionali) ai Parioli, a Roma, in una sala gremita di giornalisti, artisti, attori e non. Moderatore d’eccezione, il presidente del “Gremio dei sardi”, Antonio Masia.
Le motivazioni per i premiati:
“Asmae Dachan è una giornalista professionista e scrittrice italo-siriana.
Esperta di Medio Oriente, Siria, Islam, dialogo interreligioso, immigrazione e terrorismo internazionale, iscritta all’Ordine dei Giornalisti delle Marche dal 2010, lavora come freelance per diverse testate nazionali e internazionali, tra cui Avvenire, Panorama, The Post Internazionale e Senza Filtro. È responsabile dell’Ufficio Stampa della Fondazione Lavoroperlapersona.È creatrice e autrice del blog Diario di Siria – “Scrivere per riscoprire il valore della vita umana”.Nel novembre 2018 il suo romanzo “Il silenzio del mare” (Castelvecchi editore), dedicato alla tragedia in Siria, è stato finalista al Premio Piersanti Mattarella.
Il 2 giugno 2019 è stata insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Il 15 luglio 2019 ha ricevuto il premio di Articolo 21 per la libertà di stampa.Fin qui la biografia ufficiale, o meglio una sintesi: abbiamo omesso numerosi altri premi.
Quello che invece va aggiunto è che Asmae è una straordinaria difensora dei diritti umani, che nonostante riceva costanti attacchi e minacce di natura islamofoba e misogina continua a scrivere e a denunciare.
È una delle poche persone in Italia che, in oltre otto anni di conflitto in Siria, non si è mai schierata se non dalla parte delle popolazioni civili vittime dei crimini di guerra, non ha mai taciuto per convenienza. È una esperta vera e rara, oltre che un’attivista molto appassionata. Il premio Diritti umani quest’anno va meritatissimamente a lei.”
Ha letto la motivazione l’attrice Michelle Carpente ed è stata donata una creazione artistica di Monica Melani
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“Vittorio Barbanotti, di Milano, combattente per i diritti umani. Ha scelto lo sport per promuoverli. Da prima con la corsa a piedi poi, con il passare degli anni, essendo intervenuti dei problemi al cuore, con la bicicletta. Nel 2015, con 14 tappe senza alcun giorno di riposo da Milano a Roma, nel 2018, 38 tappe da Milano al Parlamento Europeo, con incontri al Consiglio d'Europa.
nel 2019 oltre 28 tappe, sempre partendo da Milano, per arrivare a Palermo: complessivamente 80 tappe in giro per l'Europa e per l'Italia. Paladino dell’amore, senza assistenza medica, né sanitaria, con la sua bicicletta e lo zaino sulle spalle, in ogni dove, ha mostrato al mondo la bandiera dei diritti umani.Per questi motivi gli viene assegnato il PREMIO ITALIA DIRITTI UMANI 2019”
L’attrice Jennifer Mischiati ha consegnato l’opera della pittrice Gianna Formato
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“ Baobab Experience è un'associazione di cittadine e cittadini, volontari e attivisti che, dal 2015, lotta insieme alle persone migranti per la difesa e il rispetto dei diritti umani e per un'accoglienza più giusta e umana.
Nei campi informali allestiti con mezzi donati dalla cittadinanza, migliaia di donne, uomini e bambini in transito verso altri paesi europei o richiedenti asilo, giunti a Roma dopo viaggi estenuanti e rischiosi, costretti ad aspettare mesi in strada prima di poter accedere alle procedure per l'ottenimento o il rinnovo dei documenti, hanno potuto ricevere cure mediche, cibo, una sistemazione per la notte, assistenza legale, supportati da associazioni mediche e legali, e da una rete di attivisti umanitari nazionali ed europei.
Inoltre, fin dall’inizio della sua esperienza, sono stati organizzati, con la collaborazione di cittadini volontari e degli ospiti di Baobab Experience, corsi di lingua, visite guidate, incontri sportivi e momenti di svago, orientamento allo studio e al lavoro, momenti indispensabili per poter favorire un reale percorso comune verso l’inclusione.
Viene conferito all’Associazione BAOBAB EXPERIENCE il “Premio Italia Diritti Umani 2019”, come riconoscimento per le preziose attività di accoglienza e integrazione portate avanti, spesso in un clima di dolorosa indifferenza e di tangibile ostilità, con coraggioso e determinato spirito di solidarietà e di fratellanza.”
L’opera della pittrice Stefania Pinci è stata consegnata dall’attrice Cecilia Cinardi.
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Menzione speciale a Tiziana Grassi
“Nata a Taranto, giornalista, laureata in lettere moderne, studiosa di emigrazione-immigrazione e di sociologia della comunicazione, autrice di programmi televisivi, collabora in materia con numerose università e istituzioni nazionali e internazionali. Da anni referente stampa dell'Istituto Nazionale Salute Migrazioni e Povertà, ente pubblico afferente al Ministero della Salute. Autrice e curatrice del primo "Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo". Cura la pubblicazione, ancora in corso, di un volume sull'accoglienza delle persone migranti che, per il suo messaggio etico e ideale sarà diffusa nelle Scuole e Università, oltre che tra studiosi e operatori sociali. Per questi motivi viene conferita la Menzione Speciale a Tiziana Grassi”
L’attrice Camilla Cuparo le ha consegnato l’opera della pittrice Bernadetta Olla.
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Prima della premiazione ci sono stati i saluti del Presidente della Free Lance International Press, Virgilio Violo,
e a seguire gli interventi di Soumailia Diawara – poeta e scrittore del Mali, che ha parlato dell’ “Africa e i diritti umani”.
Di Antonio Cilli: Cittanet founder, che ha parlato dell’“Intelligenza artificiale, algoritmi e camere dell’eco:opportunità e minacce per l’informazione”.
Di Maria Elena Martini – Presidente dell’associazione Arte e Cultura per i Diritti Umani, che ha parlato dei “Diritti umani, come riconquistarli” .
Di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, il cui intervento è stato incentrato su come “Risalire dal fondo: per una nuova cultura dei diritti in Italia” .
Di Stefania Pavone, giornalista freelance per il Fatto Quotidiano e Manifesto, che ha parlato di Antonio Russo: “ Antonio Russo: una vita violenta”
e, da ultimo, Virgilio Dastoli, Presidente del Movimento Europeo Italia, a suo tempo collaboratore di Altiero Spinelli e amico di Antonio Russo, il quale ha segnalato ai presenti l’iniziativa, promossa dal Movimento che presiede, della Carta dei Diritti Europea.
Alle relazioni hanno fatto seguito il ringraziamento all’attrice Fabiola di Gianfilippo per il contributo dato per la riuscita dell’evento e l’applauditissimo monologo di Ferdinando Maddaloni dal titolo: “Che fai tu luna un ciel, ovvero canto notturno di un astronauta errante sulla terra”
Al termine i saluti di Roberto Fantini con l’augurio per un Mondo Migliore.
Un ricco buffet (vini offerti offerti dalle aziende A.A. Fontanavecchia (Falanghina 2018 e Aglianico del Taburno 2013), Cantina Roccafiore (Fiordaliso 2018 e Il Roccafiore 2016), Soc. Agricola Ridolfi (Rosso di Montalcino 2017 e Brunello di Montalcino 2014), Az. Agr. Monti Cecubi (Amyclano 2018 e Terrae d’Itrj 2017), Società Agricola Cantine Olivella (Katà 2018 e Vipt 2017), Società Agricola Tenuta Fontana (Alberata 2017 e Civico 28 2016). Degustazione di formaggi doc grazie alla collaborazione della collega Mariella Valdiserri. Il meraviglioso terrazzo della sede dell’Unar, con vista su Roma, ha fatto da cornice ad una splendida serata.
“L’amore, agape, è l’unico che può ripristinare la comunione, quando è spezzata. Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la comunione, di resistere all’ingiustizia, e di andare incontro ai bisogni dei miei fratelli.”
Martin Luther King
Rufus Burrows Jr., in apertura del suo pregevole lavoro dedicato a Martin Luther King, è subito perentorio nel voler rigettare la riduzione della figura del celebre pastore battista a quella di un semplice generoso quanto sfortunato attivista sociale, dimostrando (convintamente e convincentemente) come, in lui, pensiero e azione si siano sempre trovati ad interagire in maniera dinamica e contaminante, facendo in modo che il pensiero si formasse e si trasformasse grazie alla prassi, e che la prassi si modellasse e si perfezionasse grazie alla progressiva maturazione e al continuo allargamento delle proprie conoscenze e delle proprie meditazioni.
“Martin Luther king Jr. - dice Burrow - era un uomo dal pensiero profondamente filosofico, teologico ed etico, che applicava con serietà i suoi principi di vita agli sforzi quotidiani per creare la comunità d’amore (beloved community), ossia il mondo come lo vorrebbe Dio.” (p.11)
Un uomo che, quindi, benché avesse conseguito una cultura teologica di indiscusso spessore, si sentiva “chiamato ad applicare tutto ciò che aveva appreso alla costruzione di una ‘casa mondiale’ (world house) basata sul principio divino che amore e giustizia siano praticati universalmente. In pratica, dunque, era un esperto di etica teologica e sociale con un dottorato in teologia sistematica.” (p.12)
Il libro di Burrow, pensato soprattutto per i non addetti ai lavori, è perfettamente in grado di risultare una risorsa preziosa rivolta agli studenti liceali e universitari desiderosi di entrare in contatto con il pensiero di Martin Luther King, ed è, inoltre, certamente in grado di stimolare efficacemente l’interesse in merito all’eredità attualissima che da esso ci deriva.
Molti sono i suoi pregi:
stile piano, narrazione coinvolgente, efficace capacità di ricostruzione storica, acuta capacità di analisi psicologica, ampio e ben ponderato riferimento alle pubblicazioni e ai discorsi pubblici. Ma, forse, il pregio maggiormente degno di sottolineatura risiede nella sapienza con cui è stata concepita e concretizzata la struttura architettonica del testo, che, prendendo le mosse dalle origini del fenomeno schiavista in America settentrionale, e passando poi attraverso le idee formative derivate dall’ educazione familiare ed ecclesiastica, soffermandosi sulle figure che maggiormente hanno lasciato un segno nel cuore del giovane Martin (come i nonni paterni e materni e i genitori), segue il suo sviluppo culturale e morale, mettendo accuratamente in luce come, in lui, i valori del Discorso della montagna si siano venuti proficuamente a combinare con la scoperta dei principi e delle tecniche gandhiani, fino a renderlo, agli occhi di molti, “il Mahatma Gandhi” della crisi razziale americana.
“L’etica della nonviolenza di King - ci spiega con cristallina chiarezza Burrow - si caratterizzò come una fusione creativa di elementi afroamericani, cristiani e indù che includevano profonda fede religiosa, fiducia nell’esistenza di un ordine morale oggettivo e convinzione che l’universo abbia un fondamento morale” (pp.96-7). Un’etica, pertanto, che richiedeva che si affrontasse il male e l’ingiustizia con coraggiosa determinazione, sorretti da uno spirito agapico che mai aspira ad umiliare l’oppressore, mirando, altresì a guadagnare il suo rispetto e la sua amicizia.
Una particolare menzione, infine, merita senza alcun dubbio il capitolo sesto (Il potere e la persuasione della gioventù), incentrato sull’amore e la fiducia che King nutriva per i giovani e sul loro ruolo nel corso del conflitto da Montgomery a Memphis, sottolineando l’entusiasmo e il contributo offerto dagli studenti, dalle scuole elementari fino all’università, a partire dai sit-in per i diritti civili del 1960 e del 1961.
Credo che, in conclusione, l’operazione non facile intrapresa da Burrow possa essere considerata pienamente riuscita, grazie soprattutto alla efficace contestualizzazione e all’esame accurato dei processi di crescita culturale, spirituale ed esperienziale attraversati da King. La sua persona, infatti, riesce ad emergere in tutta la sua complessa e coerente pienezza globale (lontana da banalizzazioni quanto da inutili mitizzazioni), come quella di un’anima libera da ambizioni personali e da egocentrismi fanatici, trovatasi ad abbracciare, passo dopo passo, responsabilità morali e politiche crescenti (su fronti sempre più numerosi e impegnativi: lotta contro il razzismo, lo sfruttamento economico, la povertà, il militarismo, la guerra, le contraddizioni e i colpevoli, complici silenzi delle chiese cristiane) e realizzando, così, un itinerario interiore di grande coraggio, animato da una inarginabile volontà di ubbidienza al proprio daimon socratico, dal desiderio di ascoltare, rispettare e oggettivare gli insegnamenti filosofico-teologici che avevano illuminato il proprio cammino.
“La mia speranza - conclude Rufus Burrow Jr. - è che queste riflessioni non specialistiche su Martin Luther King ispirino i lettori a scavare molto più a fondo nello studio del suo pensiero, in particolare dei suoi sermoni, discorsi e interviste. King era davvero un uomo di idee impegnato nell’attivismo sociale come mezzo per creare aperture per l’avvento della comunità d’amore.” (p.189)
RUFUS BURROW JR.
MARTIN LUTHER KING … PER CHI NON HA TEMPO
CLAUDIANA EDITRICE
Sì, l’Amazzonia brucia. Scompaiono ogni giorno centinaia, migliaia di alberi. Immensi territori vengono sottratti alle popolazioni che, in perenne pericolo, vi vivono da epoche lontanissime. Specie vegetali e animali scompaiono per sempre, a volte senza che siano state neppure esaminate e classificate in ambito scientifico.
Oggi un po’ di più, certo. Oggi se ne parla in tutti i tg con toni allarmati ed allarmanti. Ma è storia vecchia. L’uomo bianco, cristiano europeo, ha cominciato a distruggere quel mondo da diversi secoli, dando la precedenza – con cinica strategia militare – all’eliminazione degli esseri umani ritenuti indegni di abitare luoghi stracolmi di ricchezze scioccamente non adeguatamente apprezzate e utilizzate.
E’ una storia vecchia, fatta di mille e mille violenze, soprusi, abusi, crimini di ogni sorta. Ma, non dimentichiamolo, è proprio da tutto questo che è nata la nostra tanto “evoluta civiltà moderna”! Grazie a tutto questo si sono riempite d’oro le nostre banche e le nostre chiese (dagli altari ai soffitti), si sono sviluppati immensi capitali, industrie, eserciti. Che hanno richiesto (e che continuano a richiedere) sempre più ricchezze per poter crescere, crescere e crescere ancora … Per distruggere, per divorare, per seminare, coltivare e mietere morte.
Sì, è storia vecchia. Molto, molto vecchia. Una storia che non fa piacere conoscere, che preferiamo ignorare. Una storia fatta di fiumi di sangue e di fiumi di catene, di cimiteri sterminati di alberi e di popoli, senza lapidi e senza croci. Sono secoli che l’uomo bianco si accanisce sugli altrui continenti, espropriando, schiavizzando, deportando, massacrando, imponendo il proprio dio e i propri preti, le proprie esigenze economiche, i propri calcoli di interesse, i propri indicibili giochi di ambizione e di dominio. Bolsonaro è certamente deprecabile e condannabile per la sua dissennatissima politica. * E certamente merita di essere fermato. Ma Bolsonaro non è altro che l’ennesima creatura-strumento nelle mani di tutto un sistema complesso di economia in cui tutti quanti noi siamo immersi, dal quale scaturisce la nostra (comoda e molto confortevole) condizione di privilegio. Condizione che, nonostante le nostre più o meno accorate lagrime, facciamo una gran fatica a pensare di dover abbandonare.
Tutto appare schiacciante e paralizzante. Ogni tanto, magari, aderiamo a qualche webappello e rabbiosamente firmiamo qualche saggia petizione … Analgesici della coscienza, un po’ come la monetina di elemosina durante la messa domenicale.
Ma, considerando con un pizzico di rigore logico e onestà morale e intellettuale il dato incontrovertibile secondo cui la maggior parte dei territori disboscati è destinata, direttamente o indirettamente, ad introdurre sempre più vasti allevamenti volti a soddisfare la crescente richiesta di carne per le nostre allegre grigliate e le nostre tavole imbandite, per i nostri hamburger e i nostri hot dog, forse non sarebbe tanto impensabile provare ad operare una coerente scelta di noncollaborazione nei confronti della più grande macchina devastatrice e creatrice di morte prodotta nella storia, rinunciando del tutto alla nostra alimentazione carnea, o, almeno, drasticamente riducendola.
I grandi Maestri di tutte le epoche, dal Buddha a Pitagora, da Tolstoj a Gandhi, ci hanno sempre esortato a non farci assassini dei nostri fratelli minori e a non diventare sepolcri dei loro corpi ridotti a cadaveri. Ce lo dicevano soprattutto per il bene della nostra anima e del nostro corpo, per la purificazione e la salvezza della psiche, e per la purificazione e la salute del sòma.
Ora, abbiamo un motivo ancora più nobile, ancora più urgente e incontestabile:
la sopravvivenza stessa del nostro pianeta …
Con l’Unesco un premio alla memoria di Antonio Russo, vice-presidente della Free Lance International Press
Il Presidente dei clubs Unesco Italia, Maria luisa Stringa, e |
Si sono ritrovati tutti a Firenze i giornalisti freelance il 4 dicembre scorso ed insieme alla stampa locale e ai media radio-televisivi per ricordare Antonio Russo, il nostro compianto vice presidente, reporter di guerra e coraggioso giornalista freelance caduto in Georgia il 16 ottobre del 2000.
L’occasione è stata la premiazione di cinque bravi giornalisti liberi professionisti che si sono particolarmente distinti nel corso della loro carriera per la loro attività nell’ambito del giornalismo cartaceo, fotografico e radio-televisivo. La premiazione è avvenuta nel corso della giornata di studi organizzata dal Centro Unesco di Firenze e dall’Osservatorio Internazionale dei giovani Unesco con la collaborazione della Free Lance International Press e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze per celebrare il 55°Anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.
Sono passati 55 anni dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani e, considerando anche i recenti conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, nessuno tra i
L'attrice Antonella Ponziani |
paesi firmatari può dire di averla onorata.
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti” recita l’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948. Ma è davvero così? Gli uomini, visti i fatti, non agiscono “gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Troppe le vittime innocenti e neanche l’alternarsi di dittatori e governi possono essere considerati degli “effetti collaterali”.
Era il 10 dicembre 1948, poco dopo la fine della guerra mondiale, quando è stata scritta la solenne Dichiarazione Universale dei diritti umani, per promuovere il diritto di ciascuno di noi allo “stare insieme” e perché l’orrendo massacro della guerra non avesse a più ripetersi.
Nel preambolo, l’Assemblea generale dell’Onu considerava il riconoscimento dei diritti umani, uguali e inalienabili per tutti gli uomini, come il “fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.
A 55 anni da quelle solenni promesse, firmate da tutti i paesi delle Nazioni Unite ed oggi, violentemente calpestate, siamo arrivati ad un punto critico. “Dobbiamo
ricostruire i rapporti tra gli uomini sulla giustizia e sulla solidarietà e praticare la Dichiarazione universale come unico antidoto per vincere la guerra” ha ricordato la Presidente del Centro Unesco di Firenze e Presidente dei clubs Unesco d’Italia, Maria Luisa Stringa, nel sottolineare l’impegno di tutti gli operatori, medici, volontari, giornalisti compresi, nei teatri del disagio e dei conflitti armati.
I giornalisti e la guerra hanno ormai destini indissolubilmente legati. Ma come raccontano i fatti? Quale ruolo hanno “dentro la guerra”? I reporter di guerra sono gli spettatori “esperti” che riferiscono quanto vedono e strumenti “consapevoli” di propaganda e consenso. Sono anche gli “impotenti” amplificatori di comunicati e immagini diffusi dagli alti comandi militari e critici interpreti di eventi spaventosi dietro cui si nascondono giganteschi interessi. Sono i narratori di tragedie umane “dentro la guerra, ” un generale crollo di ogni forma di umana pietà. E’ questo che raccontano i giornalisti in guerra, e rischiano la vita ogni giorno per farlo, per testimoniare la realtà dei fatti.
I giornalisti premiati a Firenze, sono un grande contributo al giornalismo freelance, ed esempi di quel professionismo coraggioso che tanto aveva rappresentato Antonio Russo prima di essere
barbaramente ucciso in Georgia dalle mani sconosciute di un commando.
Giorgio Fornoni |
Il premio al giornalismo video è andato a Giorgio Fornoni, giornalista freelance di Report - noto programma di inchieste in onda su Raitre – da anni in prima linea nelle zone più disastrate del mondo per fare reportage dall’alto significato sociale ed umano.
Lucia Vastano |
Il premio al giornalismo scritto è stato consegnato a Lucia Vastano, giornalista freelance che ha collaborato con Associated Press, Corriere d’Informazione, Boston Globe, e che da 20 anni va in giro per il mondo per raccontare le “grandi guerre” in presa diretta e le “piccole guerre” di casa nostra, in cui le violazioni dei diritti umani ci richiedono risposte sempre più urgenti.
Particolarmente significativo il premio giornalismo radiofonico a Nancy Roc - reporter haitiana – come riconoscimento per il programma “Metropolis”, in prima linea per la tenace difesa della libertà dei media indipendenti, in onda su Radio Metropole ad Haiti e di cui Nancy Roc è ideatrice e conduttrice. Secondo l’Institute International de la Presse, Haiti è uno dei paesi al mondo in cui la situazione della stampa è più critica. I giornalisti sono minacciati di morte e aggrediti dai sostenitori di un governo autoritario e violento che incita ad applicare la formula “tolleranza zero” per impedire una corretta informazione. E le ultime notizie pervenuteci dall’ambasciata italiana non sono confortanti sulla sorte della giornalista, che è ancora viva ma in situazione di estremo pericolo.
Per il premio al giornalismo fotografico, è stata la volta di Roberto Dotti fotografo freelance, che attraverso il giornalismo d’immagine, racconta le tragedie del mondo contemporaneo e dedito agli studi delle religioni e filosofie orientali, fin dall’età giovanile, fotografa le tragedie immani dei popoli più vessati di questo pianeta, dal Kossovo, all’Afghanistan al Kurdistan.
Nella sezione editoria è stata premiata, Lidia Castellani, giornalista di politica e scrittrice, per il suo libro “Mamma senza paracadute”- Salani
Roberto Dotti |
editore. Diversamente dagli scenari apocalittici prefigurati a volte dai media di città popolate da anziani, nel suo libro, Lidia Castellani, riflette con intelligenza e sensibilità e con toni drammaticamente ironici sull’evoluzione di una donna in carriera, che
Lidia Castellani |
sceglie di dedicarsi alla figlia appena nata, trovando una realizzazione inaspettata in un ruolo spesso poco valorizzato e mal interpretato dalla comunicazione.
Particolarmente atteso il premio speciale al premio Nobel per la pace, Ikeda per il suo costante impegno nella promozione dei diritti umani e dei valori della pace, contro guerre, differenze sociali e morte. Non potendo essere presente il premio è stato ritirato dal rappresentante della Soka Gakkai, movimento per i diritti umani e per la pace di cui Ikeda ne è il Presidente.
Insieme ad Emergency, sono intervenute alla premiazione, Amnesty International, Peace Link, la Croce Rossa Italiana e l’Associazione internazionale dei critici letterari per testimoniare l’impegno che queste associazioni hanno nei teatri di guerra e nella promozione della pace e della difesa dei diritti umani.
Questo è l’appello finale dell’Unesco: ”La comunicazione dei diritti umani e il diritto all’identità culturale”. E questo deve essere il primo dei compiti da scrivere nella nostra agenda, al primo gennaio 2004, e riuscirci è davvero nelle nostre mani. Basta guerra, basta morti, basta vittime.
Free Lance International Press
Con l’adesione di:
Amnesty International
Soka Gakkai
Vita
Fondazione Centro Astalli
Peacelink
Medici Contro la Tortura
Medici Senza Frontiere
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Roma 14 ottobre 2005
Premio Italia “Diritti Umani” 2005
“Civiltà Globale e Diritti Umani”
Dedicata alla memoria dell’ ex Vice-presidente della Flip Antonio Russo.
ROMA 17 –18 –19 Ottobre 2005
Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’ esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.
Lunedì 17 ottobre 2005
“Le vittime di guerra.
I diritti dei bambini e delle Donne”.
“MAI PIU’ VIOLENZA SULLE DONNE” 16 min (Amnesty International)
“VITTIME DI GUERRA”
“Europa - Diritti dell’uomo e ordinamento italiano”
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“Diritti dei Malati e assistenza sanitaria”
ore 15:00-18:00
“IL MALATO TRA REALTA' E SPERANZA:
QUALI SONO LE SUE ASPETTATIVE, I SUOI BISOGNI, i SUOI DIRITTI”
" Richiedenti asilo, rifugiati e ricorrenti”
salute e cura - accoglienza e integrazione
“Esperienza nei campi profughi Palestinesi”
“Educazione ai diritti umani.
educazione alla Pace”
Interventi
ore 10:00-13:00
“PACE, FONDAMENTO DEI DIRITTI UMANI”
“Informazione etica e diritti umani”
“non c’e’ pace senza democrazia”
“MetodologiE per l’educazione ai diritti umani”
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“Migranti e rifugiati”
Interventi
“La situazione dei rifugiati in italia”
Richiedente asilo
“I fRutti dell’IPOCRISIA” (Medici senza Frontiere)
“I lavoratori stagionali impiegati nell’agricoltura”
“Prendersi Cura delle Vittime di Tortura”
“Cronaca di ROma – 14/15 settembre 2005”
regia Valeria brigida e Giulia zanfino.
Interventi
“Integrazione”
Autrice del libro “Carovane tra le pagine”
(Giornalista e scrittrice, esperta della cultura dei Rom, Sinti e Camminanti)
Autore del libro “Il popolo Invisibile Rom”
Fotografa del calendario “Me sem rom-sono rom”
Mercoledì 19 ottobre 2005
“Informazione e diritti umani”
Interventi
Ore 10:00 - 13:00
“Antonio Russo difensore dei diritti dei ceceni”.
“ informazione Internet e diritti umani: il caso Peacelink ”
“Può l’informazione Offendere i Diritti umani?”
“Effettività della tutela dei diritti in Italia”
“Fatti e versioni in zona di guerra”
“La struttura della catena informativa in Italia”
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Ore 15:00 –16:00
Omaggio musicale ad Antonio Russo (voce e chitarra)
Ore 16:00 –18:00
“Per non morire.Rifugiati a Roma” - Centro Astalli 26min
(Presidente della commisione Video-reporter della FLIP)
“C’è sempre l’uomo con il suo passato ed i suoi valori” 20min
“Il calvario ceceno” 20min
“Kosovo” 13min
“Sarawi” 7 min
(Redattore della testata “Prove Aperte”)
Ore 18:00
Consegna i premi l’attrice Antonella Ponziani
Sono stati premiati:
Padre Giorgio Poletti
“Padre Giorgio Poletti, missionario Comboniano nella comunità di Castel Volturno (CE), da anni è impegnato nel riconoscimento dei diritti fondamentali degli immigrati nel nostro Paese.
In una società che li emargina, e in un contesto globale che genera continuamente emergenze nel Sud del mondo, l'opera dei Padri missionari non si può racchiudere in gesti di pura liturgia ma si interroga anche qui in Italia sulla situazione degli "ultimi" di questa Terra.
La sensibilità di padre Poletti si è concretizzata più volte in numerosi scritti oltre che in gesti anche provocatori - seppure sempre nonviolenti - nei confronti della nostra società e delle stesse istituzioni spesso sorde e "faresaiche" nella rigorosa applicazione di leggi anche ingiuste, nei confronti dei diritti umani di chi bussa ai nostri confini con l'illusione di una vita migliore. Abbiamo individuato in lui il soggetto per l'attribuzione del Premio FLIP per i diritti umani, consci dell'impegno costante e totale che offre ogni giorno nel sanare con la sua forza di volontà e col suo amore le ferite anche invisibili alla dignità e alla sopravvivenza di fratelli, "diversi" e "lontani", ma vicini a noi nel cammino comune di viventi su questo Pianeta. “
Fabrizio Gatti
Fabrizio Gatti ha fatto quello che tutte le associazioni dei diritti umani cercano di fare da tempo, ed è stato costretto a farlo illegalmente e mettendo in gioco la propria vita: entrare in un Cpta e verificare il modo in cui vengono trattati i cittadini stranieri che arrivano nel nostro paese. La sua inchiesta ha reso per un attimo trasparente cio' che e' invisibile e nascosto all'opinione pubblica: le violazioni dei fondamentali diritti umani nei centri di permanenza temporanea.
Teresa Petrangolini
Per essersi mossa in uno dei campi più delicati, quello della salute, dove l'inferiorità psicologica del malato e dei suoi parenti nei confronti della struttura sanitaria permette a volte che vengano calpestati i più elementari diritti (della privacy, del rispetto umano..). Per l'aver svelato un altro modo di essere malato, un malato attivo e consapevole. Per il suo impegno nel sollecitare i singoli cittadini a prendersi cura e ad imparare a tutelare i propri diritti: “Su un cittadino consapevole e preparato sarà ben difficile operare abusi e coercizioni.”
FREE LANCE INTERNATIONAL PRESS
via Sicilia 166/b - 00187 Rom - Italien
tel/fax +39 06.42013171 -06.97617661
e-mail: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
“Premio Italia diritti umani 2006”
“Civiltà Globale e Diritti Umani”
Dedicata alla memoria dell’ ex Vice-presidente della Flip Antonio Russo.
Fondazione Europea “Dragan”- Foro Traiano 1/A Roma (via dei Fori imperiali)
ROMA 17 –18 –19 Ottobre 2006
Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.
Con l’adesione di:
Amnesty International – sezione italiana
Centro Astalli
Associazione “Altri Mondi”
“Medici senza Frontiere”
Associazione “Wam”
Associazione culturale “Aurum il divenire”
Associazione ”Figli del Darfur”
Associazione “Information, Safety and Freedom”
mostra fotografica di Maria Nives Salvatori e Stefanie Gengotti
Saluti del Presidente della Free Lance International Press Virgilio Violo
Interventi :
17 ottobre ore 15-19
Ore 15,00 - Rosalia Grande – medico counselor supervisore – (Associazione culturale Aurum il divenire). I diritti dei bambini e degli adolescenti: quale futuro?- documentazione Cecilia Erede
Ore !5,30 - Mambaye Diop– mediatore interculturale – “ La discriminazione istituzionale in Italia”
Ore 16,00 - Najo Adzovic – “Il diritto alla cittadinanza”scrittore - Autore del libro “Il popolo Invisibile - I Rom”
Ore 16,30 - Omar Mih – portavoce in Italia del “Fronte Polisario”– “Il diritto all’indipendenza del Sarawi”
Ore 17,00 - Giuseppe Serrone:fondatore dell'Associazione italiana dei "Sacerdoti lavoratori sposati" e co-fondatore del Movimento Intenazionale "Married Priests Now" –“Relazione: "Sacerdoti sposati: alcuni Diritti Umani in materia religiosa. Un Tentativo di rinnovamento"
Ore 18,00 - avv. Elisabetta Macrina – “la tutela legale dei diritti umani in Italia”
18 ottobre ore 15-19
Ore 15.00 - Isac Mati – Responsabile Flip per i diritti umani –“ Diritti dell’uomo e interculturalità”
Ore 15,30 – Suliman Hamed – portavoce in Italia del “Movimento di liberazione del Darfur””– “la guerra nel Darfur. Una guerra dimenticata dal mondo”
Ore 16,00 - Ahmad Rafat - membro del Comitato Esecutivo di Information, Safety and Freedom, - “libertà d'informazione e sicurezza dei giornalisti nel mondo”
Ore 16,30 - Giorgio Ferraresi – giornalista - Direttivo FLIP – “ diritti umani e religione”
Ore 17,00 - Sevla Seijdic – artista rom “ esperienza di lavoro sul campo” Coop. Occhio del Riciclone”
Ore 17,30 - Carlo Quintozzi – Presidente dell’associazione “Altri Mondi” – “Il diritto all’autodeterminazione dei popoli”
Ore 18,00 - Carlo Sordoni, counselor “ Il diritto di essere laici – religione e libertà di coscienza” documentazione Giorgio Scadino
Ore 18,30 - Valentina Fabbri – Medici senza Frontiere – Missione Italia –“Le barriere al diritto d'asilo in Italia".
Ore 19 – avv. Francesco Canepa – I”Diritti dell’uomo hanno cittadinanza in Italia?”
19 ottobre ore 16,30 – 18,00
Ore 16,30 -“Sogni di donna” (20’)- Documentario diretto da Martha Elvira Patiňo e Anna Maria Chica
(cinque storie di donne immigrate in Italia a causa delle difficoltà incontrate nel loro paese). Progetto finanziato da Ministero e politiche sociali e Unione Europea.
Intervista a Martha Elvira Patiňo dell’associazione Nodi.
17,00 - Esibizione musicale a favore del dialogo del gruppo interetnico di Ramzi Harrabi – poeta e cantante tunisino. Misto di culture musicali che si riuniscono per fare del suono una preghiera universale per la pace.
ore 18,00 consegna dei premi da parte degli attori:
Barbara Maudino e Stefano Pesce.
Conduce Giovanni Cavaliere della redazione di “Prove Aperte”
Premio Italia Diritti Umani 2006 a Paola Zanuttini
“Premio Italia diritti umani 2007” ®
“Civiltà Globale e Diritti Umani”
Dedicata alla memoria dell’ ex Vice-presidente della Flip Antonio Russo.
Fondazione Europea “Dragan”- Foro Traiano 1/A Roma (via dei Fori imperiali)
ROMA 16 Ottobre 2006
Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.
Con l’adesione di:
Amnesty International – sezione italiana - Centro Astalli
Interventi
Mattinata
Ore 11.00- “Libertà e bisogno di sicurezza” - Maurizio Navarra - socio Flip
Ore 11, 30 Ricordo di Paolo Ungari – Sokol Borshi - socio Flip (video)
Ore 11,45 Proiezione del cortometraggio “Noi che siamo stati buio” alla presenza dei registi Renzo Ridolfi e Antonietta Are e del poeta minatore Manlio Massole.
(Dal buio della miniera alla luce della coscienza) Ore 12,15 – video su Antonio Russo – commento di Enzo Coletta – socio Flip
Ore 12,45/13,15 – “Educare ai Diritti umani - L'esperienza di Amnesty International”.Roberto Fantini - insegnante, attivista di Amnesty International nel campo dell'Educazione ai Diritti Umani.
Attualmente del gruppo di lavoro EDU di Amnesty Lazio.
Pomeriggio
Ore 15,30 - "Messico 2002-2007".
Carrellata sulla repressione dei diritti umani in Messico dal 2002 al 2007, attraverso i titoli degli articoli dei quotidiani messicani - Daniere Laudato – socio Flip -
Ore 16,00 - “I diritti umani sono ancora universali? La sfida della tortura”. Claudio Giusti socio. Fondatore della Sezione Italiana di Amnesty Internationale, fondatore nel 2002, della World Coalition Against The Death Penalty. Da settembre 2006 fa parte del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla Legalità e i Diritti.
Ore 16,30 - “La tutela del minore” – Prof. avv. Elisabetta Macrina –
Ore 16, 50 –“Testimonianze della situazione in Birmania” Alice Stopponi – socia Flip.
”Ore 17,10 -”"Bosnia: alle soglie di un nuovo conflitto? Il caso di Srebrenica, tra cooperazione, presenze straniere e giornalismo"
Andrea Foschi - fotogiornalista, specializzato in fatti di Bosnia– socio Flip.
Ore 17,30 - Darfur: Origine del conflitto – situazione attuale e opportunità per la risoluzione. Stefano Cera – prof. – assistente universitario e ricercatore in teorie e tecniche della trasformazione dei conflitti .
Ore 18,00 - concerto french-creyol-jazz della cantautrice Josette Martial e Arturo Valiante, pianoforte jazz
Ore 18,30 premiazione
Presentazione del premio: Giovanni Cavaliere – redattore della testata “Prove aperte”
Consegna del premio “Italia diritti umani 2007” da parte dell’attore di teatro e televisione Vito Favata
Premio a Sr. Maria Teresa Piras
Opere d’arte donate dagli artisti
1) Paolo Ristonchi
2) Stefania Ciranna
3) Elio Mazzella
Mostra fotografica di
Andrea Foschi (sulla Bosnia)
Alessandra Quadri (i rom a Roma)
Paola Del Rio e la classe 1^ C della Scuola media Alghero 2+ Fertilia
“A piene mani per i diritti dei bambini e degli adolescenti”
Molto ha fatto discutere la panciuta esibizione salviniana al Papeete Beach, con tanto di graziose fanciulle ghepardate gioiosamente zompettanti sulle note dell’ Inno di Mameli.
Credo, però, che su una cosa non ci si sia soffermati con la dovuta serietà, su una cosa che ritengo di primaria importanza:
l’uso ripugnantemente strumentale ed iniquo che si è fatto di quelle note musicali. Ovvero: il problema cruciale non credo sia tanto l’indiscutibile volgarità di scenografia e coreografia, bensì il connubio venutosi a creare tra un certo “significante” ed un certo “significato”. Cioè il fatto che (scientemente o incoscientemente, poco importa) si sia fatto uso di un determinato strumento comunicativo (l’Inno nazionale) per veicolare valori antitetici a quelli che quello strumento hanno partorito e per promuovere un processo identitario anch’esso antitetico alla sostanza ideale e ideologica originaria. Si è ridotto, infatti, un prodotto culturale altamente simbolico, scaturito da mille sofferenze e da lotte coraggiose e dolorose, nate dal nobile sogno della ricerca del bene comune e della costruzione di una società più giusta e più libera, a calamita aggregatrice faziosa e propagandistica, mirante non ad allargare orizzonti, ad abbattere antiche mura e ad oltrepassare ben consolidati fossati e terrapieni, ma a fomentare odiose contrapposizioni, ad alimentare un modo di essere, di pensare e di fare fondato sul feticcio ideologico del “noi”, del “solo NOI”, volto a rinchiudere (alcuni), a separare (gli uni dagli altri), ad estromettere (quelli che non risultano inseribili nelle anguste coordinate del “noi”).
Ed è su questa operazione politico-mediatica (ahimè abile ed efficace, come tante altre analoghe) che dovrebbero concentrarsi le nostre più che legittime preoccupazioni. Ciò che risulta davvero intollerabile, infatti, è il volersi appropriare di un simbolo che, al di là di ogni trita retorica, rappresenta (come il tricolore) qualcosa che si colloca necessariamente e doverosamente al di sopra di tutti, al di sopra delle opinioni e degli interessi di singoli individui, partiti, chiese, ecc., e che, pertanto, non appartiene e non può e non DEVE appartenere a nessuno in particolar modo, né appartenere a qualcuno di più e a qualcuno di meno.
Se quell’Inno ha un senso, esso consiste nell’essere in grado di continuare ad insegnarci che soltanto dallo stringersi insieme, dal sentirsi parte di qualcosa di unico ed unificante (l’essere italiani e, prima ancora, donne e uomini alla ricerca del BENE di TUTTI), soltanto dalla volontà e dalla capacità di abbandonare egoistici campanilismi vecchi e nuovi, soltanto dallo scegliere strategie improntate all’altruismo e alimentate da sincero spirito di fratellanza e di affratellamento, sarà possibile intraprendere un cammino di liberazione dall’ingiustizia e di costruzione di reale felicità.
Insomma, quell’Inno non è e non può diventare maschera nobilitante per settarie mire di potere, né arma di difesa di interessi bottegai, né tantomeno arma di offesa contro chi vorremmo collocare oltre il confine della nostra opinabilissima “italianità” o “umanità”. Meglio farebbero, dunque, Salvini e salviniani ad imitare i protoleghisti che, assai più coerentemente con i propri principi ed obiettivi politici, rifiutavano l’Inno nazionale, sostituendolo con l’aria verdiana dei “Lombardi alla prima crociata”. Perché la mentalità e la sensibilità dei primi quanto dei secondi erano e restano quelle che tante sventure nel corso della storia hanno prodotto:
quelle dei crociati, quelle presuntuose ed aggressive di coloro che, in nome di un qualche dio (o di qualche invocata Madonna!), sono sempre pronti a tutto per conseguire le proprie méte.
Sul tema della “morte cerebrale” e della prassi dei trapianti di organi regna, a livello mediatico, la massima indisponibilità ad affrontare e a discutere i numerosi aspetti oscuri, problematici e controversi che da decenni vengono evidenziati da insigni pensatori e scienziati, primo fra tutti il filosofo Hans Jonas, già dalla fine degli anni sessanta dello scorso secolo.
Ma la cosa a mio avviso più sconcertante è constatare come anche la stampa cattolica sia acriticamente allineata sulle posizioni oggi dominanti, caratterizzate da assoluto plauso nei confronti di pratiche che vengono ritenute, senza alcuna ombra di dubbio, scientificamente, eticamente e civicamente encomiabili, nonché degne di essere alacremente promosse.
Caso emblematico è l’articolo apparso (qualche giorno fa) in prima pagina di Popotus, l’inserto dell’ Avvenire destinato ai ragazzi, in cui si racconta con grande enfasi di un trapianto di fegato “donato” da un uomo di 97 anni.
In merito a detto articolo, ho ritenuto doveroso scrivere al direttore del noto “Quotidiano di ispirazione cattolica”, esprimendo assai sinteticamente (e credo assai garbatamente) qualche perplessità e qualche (probabilmente piuttosto scomodo) interrogativo.
In assenza tuttora di risposta, ho deciso di pubblicare sul nostro sito, da sempre sostenitore e fautore del libero pensiero, il testo della mia lettera, nella speranza di riuscire a promuovere un sereno confronto di opinioni e di contribuire ad avviare un costruttivo quanto necessario dibattito scientifico ed etico-teologico.
Gentile Direttore,
sul numero di Popotus di giovedì 30 maggio, ho avuto la sgradevole sorpresa di imbattermi in una prima pagina occupata quasi per intero da un articolo (“La generosità è senza età”) di elogio nei confronti di coloro (anche molto in avanti con gli anni) che decidono di donare i propri organi a scopo di trapianto.
A tale proposito, mi permetta di farle presente una cosa non certo irrilevante, ma che troppo spesso viene ignorata o taciuta, e cioè che l’evento della cosiddetta donazione degli organi implica necessariamente il fatto che il soggetto donatore non sia in condizioni di morte cardiaca e respiratoria (ossia un vero e proprio cadavere) ma in quella condizione che, in seguito a quanto proposto-imposto dal Comitato di Harvard nel 1968, siamo soliti chiamare “morte cerebrale”, ovvero mancanza di segni oggettivamente registrabili di presenza di funzioni cerebrali.
Ora, le chiedo, perché tanta parte del mondo cattolico (pur non essendoci una posizione dottrinale ufficiale), ivi incluso il giornale da lei diretto, che mostra tanta encomiabile attenzione nei confronti degli embrioni e delle persone in stato vegetativo (anche da decine di anni), non si sente minimamente in dovere di porsi il problema di cosa sia veramente la condizione di coloro che vengono dichiarati (con procedure diverse da paese a paese!) “morti cerebrali” (anche dopo poche ore)?
Cosa le dà, mi chiedo, la categorica certezza che questi pazienti siano veramente privi di ogni forma di coscienza e che la loro anima (sempre che si voglia continuare a prendere in considerazione la sua esistenza) si sia realmente e definitivamente separata dal corpo?
Come può, mi chiedo, da uomo di fede e da uomo di cultura, ritenere che la scienza odierna (spesso ancora tanto discutibilmente positivistica e meccanicistica) possa pretendere di disporre di criteri e di strumenti perfettamente in grado di stabilire con infallibile certezza quando un individuo non sia più degno di essere considerato persona e, di conseguenza, non più doverosamente meritevole di venire come tale rispettato, e pertanto declassabile al livello di cosa inanimata?
Infine: possibile che lei non sia al corrente del fatto che non pochi illustri intellettuali cattolici come, ad esempio, il neonatologo Paul A. Byrne, il filosofo J. Seifert, il neurologo D. Alan Shewmon, la teologa Doyen Nguyen (recentemente impegnati a Roma in un convegno internazionale dal titolo “La Morte Cerebrale. Un’invenzione medico-legale: evidenze scientifiche e filosofiche”) sostengano fermamente, con ricchissime argomentazioni, che la morte cerebrale sarebbe un’invenzione di carattere eminentemente utilitaristico, del tutto priva di fondamenti scientifici e teologici, nata - come lo stesso Comitato di Harvard ebbe a dichiarare - per sollevare la collettività dal peso di tante persone in stato comatoso e di consentire ai medici espiantatori di non essere accusati di omicidio?
Possibile che lei non sia neppure minimamente sfiorato dall’atroce sospetto che l’invenzione della morte cerebrale (che permette di considerare morta una persona con il cuore che batte, il sangue che circola, capace di reagire positivamente a farmaci in caso di malattia, capace di portare felicemente avanti una gravidanza, nel caso di donna incinta) possa rappresentare, al di là della sua filantropica veste esteriore, l’espressione più cinica ed estrema della tanto giustamente deprecata “cultura dello scarto”?
Cordialmente,
Roberto Fantini
Questa la tesi sostenuta in un recente Congresso internazionale.
Una delle tante errate convinzioni intorno alla pratica dei trapianti è quella che, in merito ad essa ed al suo necessario presupposto teorico-pratico rappresentato dalla morte cerebrale, ci sia, all’interno della comunità scientifica, come all’interno del mondo religioso, un consenso totale e universale.
Le cose, in realtà, sono ben diverse. Numerosi sono gli scienziati, i teologi e i filosofi che, da sempre (a cominciare dagli scritti di Hans Jonas), avanzano riserve, sollevano dubbi ed esprimono ferme obiezioni e critiche decise nei confronti sia del criterio della morte cerebrale, sia nei confronti della pratica di espianto-trapianto di organi. Ma di queste voci, molte delle quali di indubbia autorevolezza, si preferisce non parlare. L’intera grancassa mediatica è infatti compattamente impegnata in una inesausta apologia della donazione degli organi e nell’esaltazione delle imprese chirurgiche attuate dalle équipes trapiantistiche. Per i perplessi, i dubbiosi e gli oppositori, sul palcoscenico mediatico non risulta esserci posto, neppure sottoforma di fugace comparsata.
Un importante tentativo di incrinare le alte muraglie che difendono le (presunte) certezze dei sostenitori dell’indiscutibilità dei trapianti di organi ha avuto luogo in questi giorni (20-21/05) a Roma, ad opera della John Paul II Academy for Human life and the Family (fondata da ex docenti dell’Accademia pontificia per la Vita), che ha dato vita ad un convegno internazionale (“La morte cerebrale”. Un’invenzione medico-legale: evidenze scientifiche e filosofiche) a cui hanno preso parte importanti scienziati, filosofi e teologi di fede cattolica, accomunati dal fermo rifiuto nei confronti della morte cerebrale.
Tutte di grosso spessore le relazioni di entrambe le giornate, vere miniere di puntuali informazioni scientifiche e di corpose argomentazioni filosofiche e teologiche.
Il filosofo Josef Seifert, uno dei padri spirituali dell’iniziativa, ha aperto i lavori dedicandosi, in particolar modo, a denunciare l’assoluta mancanza di giustificazioni di ordine scientifico alla base della decisione del Comitato ad hoc di Harvard che, nel 1968, propose-impose il nuovo criterio di definizione di morte, sganciandolo dalle attività respiratoria e circolatoria, e fondandolo unicamente sul riconoscimento della cessazione delle funzioni cerebrali.
Le uniche due motivazioni addotte dal Comitato, infatti, furono esclusivamente di carattere pragmatico ed utilitaristico:
sollevare la collettività dal peso di numerosi pazienti mantenuti nelle strutture ospedaliere in condizioni di assenza di coscienza;
sollevare i medici espiantatori dal rischio di essere accusati di omicidio nei confronti dei pazienti “donatori”.
“La morte cerebrale - ha detto Seifert - è una delle maggiori vergogne della medicina”, responsabile dell’uccisione di migliaia di persone a cui vengono tolti gli organi “da vive”.
Il neurologo Thomas Zabiega ha sottolineato, poi, come la morte cerebrale non sia altro che una diversa definizione di quella condizione denominata da Mollaret e Goulon, nel 1959, coma dépassé (ossia coma irreversibile), mettendo anche in luce che i criteri adottati per la morte cerebrale, invece che rafforzarsi, sarebbero stati indeboliti rispetto a quelli precedentemente adottati.
Con particolare incisività, poi, il neurologo si è soffermato nel sostenere l’inaccettabilità morale di criteri di ordine utilitaristico ed emozionale, esulanti da adeguate valutazioni di natura rigorosamente razionale.
Particolarmente coinvolgenti sono risultati i contributi di Paul Byrne, neonatologo statunitense, il quale, anche utilizzando numerose immagini e filmati, ha operato una variegata rassegna di casi (da lui seguiti in prima persona) di individui strappati alle procedure di espianto, grazie ad una serie di circostanze propizie, prima fra tutte l’opposizione dei familiari. Toccantissima, fra le tante, la vicenda di Joseph, nato prematuro nel 1975 che, nonostante l’EEC piatto e la conseguente dichiarazione di morte cerebrale, continuò ad essere curato con eroica caparbietà, potendo così sopravvivere, godere di una vita normale, essere, oggi, felice padre di famiglia.
“Quante altre persone - si è chiesto Byrne, vero indomabile combattente a favore degli individui più fragili e vulnerabili - avrebbero potuto essere salvate qualora le cure non fossero state troppo frettolosamente interrotte?”
L’anziano pediatra è stato categorico:
“Non ha senso - ha detto - essere “donatori”: ogni organo è preso da un essere vivente!”
“Nel caso di persone veramente morte - ha poi aggiunto - le si porta in obitorio, non in sala operatoria, somministrandole accuratamente farmaci immobilizzanti. Questa si chiama vivisezione!”
Davvero molto interessanti, infine, gli interventi densissimi di Doyen Nguyen, ematopatologa e teologa morale,* soprattutto per quanto concerne l’analisi condotta, con rara perizia ermeneutica, delle parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II in uno storico discorso al 18° Congresso Internazionale della Società dei trapianti, del 29 agosto 2000, parole erroneamente ed arbitrariamente intese da molti (cattolici e non) come una sorta di implicita approvazione della pratica trapiantistica.
La Nguyen ha evidenziato, in maniera assai efficace, che il pontefice si trovò ad insistere chiaramente nel sottolineare come l’eventualità del prelevamento degli organi dovrebbe essere sempre inderogabilmente subordinata al rispetto di ben precise pre-condizioni:
adeguata corretta informazione e consenso pienamente consapevole ed esplicito da parte del paziente-donatore;
accertamento senza il minimo margine di dubbio della reale condizione di morte del paziente-donatore (prelievo “ex cadavere”);
applicazione di criteri di accertamento della morte universalmente accolti ed approvati dall’unanime comunità scientifica.
Insomma, pre-condizioni che, nella realtà vigente, non sono mai rispettate e che, nel caso lo fossero davvero, verrebbero a rendere pressoché nulle le reali possibilità di espianto-trapianto di organi.**
NOTE
** PER SAPERNE DI PIU’:
Fondamentale il sito della Lega Nazionale contro la Predazione di Organi e la Morte a Cuore Battente : www.antipredazione.org
- Paolo Becchi, Morte cerebrale e trapianto d’organi, Morcelliana, Brescia 2008
- Roberto Fantini, Vivi o morti? Morte cerebrale e trapianto di organi. Certezze vere e false, dubbi e interrogativi, Efesto, Roma 2015