L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (211)

Roberto Fantini
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Come ho fatto osservare ad alcuni amici e amiche, ha molto più senso sensibilizzare la Corona britannica e le Autorità britanniche, nei modi civili e di protesta pacifica stabiliti dalla Legge. Non certo quelle americane. Per delle ragioni molto semplici. In America il già Presidente USA B. Obama concesse commutazione di pena alla talpa di WikiLeaks - l'ex soldato Chelsea Manning - solo dopo diversi anni di prigione (almeno sette anni) scontati, cioè dopo aver imparato la lezione di un carcere duro (questo il ragionamento di Obama e degli americani nel tema di giustizia, chi sbaglia deve essere punito, in misura severa ma giusta, e negli Stati Uniti, al netto di tanti problemi, la certezza della pena e di tempi ragionevoli nella amministrazione della giustizia, sono rispettati).

Invece un gesto possibile di grazia da parte della Corona britannica attraverso una formale richiesta di un Ministro o un funzionario pubblico britannico rivolto a sua Maesta' Re Carlo III, ha una valenza diversa perché parte da un presupposto di difesa di un cittadino in territorio europeo, dove dagli anni Cinquanta vige la CEDU di Strasburgo (ma CEDU non significa solo andare in Tribunale in ricorso dinanzi alla Corte EDU di Strasburgo, ma significa anche impegno nella difesa dei principi e valori dei diritti umani in ogni circostanza, perché essi informano e permeano o dovrebbero orientare ogni decisione delle istituzioni dei 47 Paesi membri del Consiglio d'Europa, di cui anche il Regno Unito fa parte).

Inoltre, la difesa legale di Julian Assange si fonda soprattutto sulla contestazione che la estradizione richiesta dagli USA al Regno Unito sembra più un atto di persecuzione politica che un atto fondato da ragioni oggettive di giustizia, connesse alle pretese accuse di spionaggio. Pertanto, mi auguro che la opinione pubblica e le associazioni a tutela dei diritti umani e civili, perorino la causa di liberta' di Assange dinanzi alla Corona britannica perché intervenga con un atto di grazia che possa bloccare definitivamente la estradizione dal Regno Unito. Un gesto difficile e poco probabile ma non impossibile. Me lo auguro dal profondo del cuore per il fondatore di WikiLeaks e per quanto ha fatto per tutta la umanità, aiutando a prendere coscienza di certe dinamiche di potere e di manipolazione dalla verita'.

 

 

Roberto Fantini, saggista e già docente di filosofia, ha insegnato filosofia e storia in diversi Licei di Roma, occupandosi anche, come volontario, di Educazione ai diritti umani all’interno di Amnesty International. Per questa associazione, ha curato: Pena di morte: parliamone in classeLiberarsi dalla paura. Tutela dei diritti umani e “guerra al terrore”Una giornata particolare (in collaborazione con Antonio Marchesi).

Lo abbiamo intervistato per parlare del suo vivacissimo metodo didattico, e siamo arrivati a esplorare il soggiorno indiano di Maria Montessori, la filosofia anti-violenta di Aldo Capitini e lo sciopero come mezzo per fermare la guerra. Temi senza tempo e questioni attualissime.

Roberto Fantini, una scuola socratica nell’era della digitalizzazione

Prof. Fantini, nel 2019 La Repubblica le ha dedicato un articolo dal titolo “Fantini, che classe seduti in cerchio e con filosofia”, in cui si spiegava che nelle sue lezioni “Non c’è cattedra e in un certo senso non c’è nemmeno il professore, almeno nella percezione degli studenti. Non ci sono le classiche spiegazioni e interrogazioni: in classe si discute ciò che si è studiato a casa e i compiti scritti diventano esercizi creativi, con dialoghi immaginari tra diversi esponenti di scuole di pensiero”.

Per me l’insegnamento è stata un’avventura grandiosa, fatta di mille scoperte, fuori e anche dentro di me. Più che un metodo collaudato il mio è stato un percorso, che è emerso spontaneamente con l’esperienza e tanti tentativi più o meno felici, perché l’insegnamento (se vissuto con passione e responsabilità) è un cantiere sempre aperto in cui si sperimentano diverse modalità di ricerca, comunicazione e trasmissione.

Quando ero un professore in erba mi sentivo insicuro, insegnavo in maniera tradizionale e cattedratica, diciamo che non potevo ancora permettermi di uscire dagli schemi. Studiavo come un matto perché mi rendevo conto di quante cose non sapessi e anche perché temevo sempre di fare tremende figuracce. Poi, negli anni, lavorando sulla mia autostima, ho acquisito sicurezza e ho allargato la fantasia.

Ho capito che si poteva scardinare la gerarchia, rendere la lezione più interessante e stimolante, entusiasmando i ragazzi invece di costringerli: questo rendeva più avvincente il mio lavoro, dinamiche le lezioni e più disponibili gli studenti.

Tutto questo non significava rinunciare al mio ruolo, non esprimere valutazioni sulle verifiche o non dare compiti. Quando assegnavo alcune pagine da leggere, non le spiegavo prima: volevo che i ragazzi si facessero innanzitutto una loro idea libera dal mio condizionamento e che si sforzassero di interpretare i testi entrando direttamente in contatto con essi.

Poi, invitavo qualcuno ad esporre quanto credeva di aver compreso, lasciando ampio spazio all’esame delle difficoltà, delle incertezze e dei dubbi e, ovviamente, delle domande dell’intera classe.

 Dato che non ero io a spiegare prima di loro, spesso si creavano dibattiti, confronti coinvolgenti. Ecco, questo è imparare! Imparare dai grandi poeti e filosofi, ma anche imparare ad ascoltare e farsi capire.

Chi è stato il suo maestro in questo percorso pedagogico a doppio filo?

Il mio maestro è Socrate, quindi parliamo di un insegnamento millenario: quello della dialettica e della maieutica. Il dialogo collaborativo, aperto, che esclude una posizione di superiorità netta, preferendo il mettersi a fianco. Anche per questo motivo facevo il possibile per disporre i banchi a cerchio: non si può parlare e ascoltare solo il professore e vedere la nuca dei compagni; che razza di circuito comunicativo potrebbe mai essere?

Le giustificazioni mensili? Ma che formalità… Io dicevo ai miei studenti: “se avete litigato con la fidanzata o il fidanzato o con i genitori, ecc., basta dirlo all’inizio della lezione e non abusare di pretesti falsi o sotterfugi”. E’ così che si costruisce un rapporto corretto:sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sulla responsabilizzazione. Non sulla coercizione.

Non crede che, però, la perdita di autorità e disciplina di questo momento storico in Italia confonda i ragazzi e lasci i giovani senza punti di riferimento sociali e regole morali? Tra le recenti notizie di cronaca abbiamo letto di un giovane che ha sparato ad una professoressa con una pistola ad aria compressa. Non sono casi isolati.

Penso che un metodo troppo lassista sia inefficace come uno eccessivamente autoritario. Al concetto di autorità ho cercato di contrapporre quello di autorevolezza. Essere autoritari significa imporre, e imporre è il contrario di insegnare, di indurre a sviluppare una vera coscienza critica.

La paura allontana lo studente dalla voglia di apprendere. E’ una cosa che ho deciso quasi subito: i ragazzi non dovevano temermi e vedermi come una minaccia, dovevano vedermi come una risorsa. Spesso ho ottenuto buoni risultati sia didattici sia umani, a volte meno, non voglio autoincensarmi. In quante circostanze, continuo a chiedermi, avrei potuto fare di più e di meglio?

La paura è il contrario della dialettica di Socrate. Socrate, infatti, era invece temuto da coloro che erano autoritari e intendevano mantenere tale autorità.

Certo, temevano di essere smascherati nella loro forza coercitiva che, in realtà, non era altro che debolezza e bluff, un inganno insomma.

Da Socrate alla scuola digitalizzata. Si va verso la scuola 4.0 prevista dal PNRR, cosa ne pensa?

Premetto che sono decisamente un paleolitico, ma ho cercato di rinnovarmi e superarmi nella tecnologia. Penso che, se adottati con intelligenza e misura, questi strumenti possano essere efficaci e utili. La lavagna elettronica, ad esempio, è un dispositivo dalle potenzialità sorprendenti, soprattutto per invogliare lo studente demotivato attraverso filmati, video, docufilm. Certo, non è il punto di arrivo, ma può essere un input: chissà che poi quel ragazzo non se ne vada in biblioteca…

E così il registro elettronico, da non tenere più chiuso nel cassetto come accadeva con il registro cartaceo personale, ma che diventa un mezzo di comunicazione con gli studenti per mandare esortazioni a fare meglio, campanelli di allarme per i più pigri, segnali di approvazione per i più collaborativi, sempre al fine di renderli più consapevoli. Nessun congegno può o deve sostituire l’insegnante ma non dobbiamo temere questi marchingegni.

Una questione preoccupante è invece quella della ChatGPT basata su intelligenza artificiale, non sappiamo davvero dove ci potrebbe portare.

Lei è anche autore del saggio Maria Montessori. Teosofica maestra di pace. Ci spiega perché l’educatrice, pedagogista, filosofa, medico e neuropsichiatra infantile sarebbe anche stata un’appartenente alla scuola teosofica della Blavatsky?

Per me la Montessori è sempre stata una figura grandiosa, spesso sottovalutata in Italia. Studiandola, ho scoperto che si era iscritta alla Società Teosofica da giovanissima e che, negli anni della Seconda guerra mondiale, è stata in India, ospite presso la sede mondiale della Società Teosofica, in Adyar, vicino Madras, invitata dal presidente George Arundale, che nutriva pronunciati interessi pedagogici e grande stima nei suoi confronti. Antica spiritualità indiana, teosofia e pedagogia del bambino come nuovo Messia, si fondevano nella sua speculazione filosofica e spirituale di altissimo livello. Una figura da mettere nell’Olimpo dei nonviolenti insieme ad Aldo Capitini, Gandhi, Don Milani e Tolstoj.

Maria Montessori si è dedicata molto al tema della pace e lo ha fatto in maniera molto carismatica ed è anche stata candidata più volte al Nobel per la Pace. Il minimo che potessi fare, insomma, era scrivere un saggio su di lei, con lo scopo di mettere in risalto aspetti della sua vita e del suo pensiero poco conosciuti, ma di fondamentale importanza.

Aldo Capitini e lo sciopero di massa contro la guerra

Parliamo della guerra e verso la pace. In un suo articolo lei scrive che Aldo Capitini, filosofo che portò il movimento non violento gandhiano in Italia, affermava che “La pace è troppo importante perché possa essere lasciata nelle mani dei soli governanti” e che, di conseguenza, in ogni nazione, tutto il popolo avrebbe dovuto “continuamente e liberamente informarsi” e tutti coloro che fossero disposti ad opporsi e a resistere alla guerra avrebbero dovuto costituire una fraterna coalizione di portata internazionale per ristabilire la pace. 

Noi – scriveva Capitini nel 1964 – dobbiamo dire NO alla guerra ed essere duri come le pietre; oggi i governi, con la decisione di fare la guerra e di usare le armi atomiche e chimiche, sono infinitamente più dannosi di qualsiasi disordine della popolazione, perché un’ora di guerra atomica può distruggere la vita di tutto un popolo.” E ci ricordava che “Giacomo Matteotti, nel febbraio 1915, scrisse che tutti i lavoratori dovevano fare, se scoppiava la guerra, lo sciopero generale. Intuì che l’arma della popolazione intera davanti alla guerra è la vigilanza e la non collaborazione, il rifiuto di massa.” 

Sciopero generale e non collaborazione restano il metodo non violento più efficace per contrastare una guerra. Ma oggi la situazione è paralizzante. I sindacati si sono dati da soli l’estrema unzione durante la “pestilenza”, i pochi partiti contro il sistema non riescono ad emergere, i media sono asserviti, associazionismo e volontariato ammutoliti. Il referendum “Italia per la pace” è stato censurato da quasi ogni giornale e canale.

L’opinione pubblica non sa neppure cosa pensare di questa guerra se non ciò che dice la tv. Quando c’era Matteotti le piazze erano spaccate, l’opinione pubblica non voleva la guerra e lo gridava per le strade.

Pensa che oggi uno sciopero generale contro la guerra in Ucraina potrebbe essere utile? Gran parte dell’opinione pubblica è contraria alla guerra, ma alcuni cittadini credono anche che si debbano inviare armi per ristabilire la pace…

E’ un discorso doloroso e complesso. Per esaminare la situazione attuale bisognerebbe partire da un po’ più lontano: da diversi anni è stata messa in moto una macchina “occulta” e anche molto manifesta di persuasione di massa che ci sta convincendo che l’antimilitarismo e il pacifismo sono cose da santi e da eroi d’altri tempi e non cose alla portata di tutti e doverose per tutti. Ovvero, siamo tutti, in astratto, sostenitori dei diritti umani ma, essendo concretamente realistici, di fronte “a mali estremi”, ci sentiamo chiamati a ricorrere a “estremi rimedi”. La pace diventa, così, esito paradossale della conquista tramite il conflitto.

Questa operazione concettuale deriva dall’antica idea secondo cui, in questo mondo crudele e spietato, l’unica strada valida sia quella della forza. La forza per esportare la democrazia, per fermare i terroristi, per ristabilire i diritti: in questo gli Stati Uniti sono il traino ideologico e militare. Lo abbiamo visto con la guerra in Iraq negli anni ’90, con le operazioni NATO in Kosovo, con il post 11 settembre. I diritti umani vengono strumentalizzati come qualcosa di esclusivamente occidentale che ci fa sentire autorizzati a difendere con le armi i nostri paesi, anche portando disordine e sofferenze in altri territori.

La “psicopandemia” ha poi reso la manipolazione dell’informazione pressoché totale, fino alla rigida polarizzazione ipersemplificante che contrappone aggredito ed aggressore, come nel caso della questione della guerra in Ucraina. 

Chissà se, più dialettica socratica e meno ottusità e sofismi, possono ancora salvarci dal peggio.

A questo punto, possiamo soltanto cercare di fare in modo che la diffusione dello spirito della salutare dialettica socratica e del coerente e coraggioso pensiero della nonviolenza aiutino tutti noi a liberarci dall’ottusità, dai pregiudizi e dall’inclinazione sempre più diffusa alla cieca obbedienza.

 

da https://www.quotidianoweb.it/

                                                         

Erasmo da Rotterdam - Aldo Capitini

 La guerra è grata a chi non l’ha sperimentata, ma chi l’ha sperimentata prova un grande orrore se essa si avvicina al suo cuore.”

                                                                                   PINDARO

 

 

Sappiamo da sempre quanto la Pace sia difficile da conseguire, difficile da difendere e difficile da consolidare. Ma, dopo tante dolorose esperienze della nostra Storia, abbiamo finito, in tanti, per illuderci che la nostra comune sensibilità e il nostro comune pensare si fossero, oramai, efficacemente immunizzati di fronte al pericolo di subire, accettare, propugnare la guerra.

Mezzo millennio fa, Erasmo da Rotterdam ci diceva che, ai suoi tempi, nonostante  apparisse evidentissimo, agli occhi della ragione, che nessun  male di questo mondo fosse più dannoso, più rovinoso ed indegno  della guerra che gli uomini  usano praticare contro i propri simili, chi avesse tentato di mettere in discussione  tale abominio sarebbe stato trattato da “stravagante” se non addirittura da “irreligioso” addirittura in odore di eresia. E ci invitava a domandarci

 “qual genio malvagio, quale flagello, quale calamità, quale Furia infernale abbia immesso un impulso così bestiale nell’animo dell’uomo”. 1)

Ma il fatto è che, dopo le guerre spaventose che hanno massacrato la famiglia umana nel ventesimo secolo, davvero arduo risulta il continuare a credere nella fondamentale bontà della natura umana, attribuendo a forze esterne ad essa (terrene, divine o diaboliche) l’origine dell’inclinazione alla bellicosità e alla belligeranza. Per cui, l’interrogativo più sensato e più urgente da porsi non è più, oggi, quello relativo alla genesi metafisica della guerra in sé, bensì, molto più concretamente, quello di chiedersi cosa poter fare per cercare di arginare (se non estinguere) detta inclinazione con le sue devastanti manifestazioni.

Dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, si verificò, da parte degli spiriti più illuminati, primi fra tutti Albert Einstein e Bertrand Russell, un grande e ammirevole impegno nel tentativo di inchiodare l’umanità alle proprie inderogabili responsabilità, mettendo in risalto come, nella neonata era atomica, non fosse più possibile non essere irremovibilmente fermi nella condanna della guerra e nel suo radicale e definitivo rifiuto: la pace avrebbe dovuto, infatti, essere intesa come un valore assoluto, non esistendo più realistiche alternative ad essa.

Come ebbe a dire Gunther  Anders, divenute anacronistiche ormai, con l’avvento dell’era atomica, le alternative contemplate nel passato (pace e libertà; pace e onore; pace e giustizia, ecc …),  l’unica alternativa rimasta è quella tra l’essere e il non essere.

Quando Aldo Capitini, nel 24 settembre 1961, dette vita alla Marcia per la Pace Perugia-Assisi, nei Princìpi contenuti nella Mozione del Popolo per la Pace, venne molto sapientemente scritto che

La pace è troppo importante perché possa essere lasciata nelle mani dei soli governanti

 e che, di conseguenza, in ogni nazione, tutto il popolo avrebbe dovuto “continuamente e liberamente informarsi” e tutti coloro che fossero disposti ad opporsi e a resistere alla guerra avrebbero dovuto costituire una fraterna coalizione di portata internazionale. 2)

Affermava Capitini, infatti, che le popolazioni continuano a commettere l’errore abnorme di fidarsi troppo dei loro governanti.

Noi - scriveva nel lontano 1964 - dobbiamo dire NO alla guerra ed essere duri come le pietre; oggi i governi, con la decisione di fare la guerra e di usare le armi atomiche e chimiche, sono infinitamente più dannosi di qualsiasi disordine della popolazione, perché un’ora di guerra atomica può distruggere la vita di tutto un popolo.”

E proseguiva ricordandoci che

Giacomo Matteotti, nel febbraio 1915, scrisse che tutti i lavoratori dovevano fare, se scoppiava la guerra, lo sciopero generale. Intuì che l’arma della popolazione intera davanti alla guerra è la vigilanza e la non collaborazione, il rifiuto di massa.” 3)

Ma concetti come  “sciopero generale”,  “noncollaborazione” e “rifiuto di massa” sembrano oramai del tutto scomparsi dalle odierne coordinate culturali e da ogni capacità di progettualità politica, tristemente trattati come polverosi oggetti appartenenti ad arcaiche mitologie: chi ardisse tentare di farne uso, ai nostri giorni, finirebbe  certamente per apparire ancor più “stravagante”, eretico e scandaloso dell’ ipotetico uomo di pace dei tempi del menzionato buon Erasmo.

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  1. Erasmo da Rotterdam, Chi ama la guerra non l’ha vista in faccia, in Adagia, Einaudi, Torino 1980.
  2. Aldo Capitini (a cura di), Persone che marciano per la pace, Edizioni dell’Asino, Roma 2016.
  3. Aldo Capitini, La pace è sempre in pericolo, ne Il Potere di Tutti, Guerra Edizioni, Perugia 1969.

L'avvocato e scrittore Robert Francis Kennedy Jr. - nipote di JFK e figlio del fratello Bon Kennedy già a capo del Dipartimento di Giustizia USA - lo scorso giugno 2023 ha tenuto  un memorabile discorso allo Saint Anselm College in Goffstown, nel New Hampshire.

Una orazione civica straordinaria che tocca il tema della guerra in Ucraina - che egli riconosce essere una guerra per procura e pretesto per la ingerenza statunitense - contro la Federazione russa dopo la sua invasione a sostegno delle minoranze russofone nel Donbass, anche per spezzare la tenaglia di progressiva espansione a Est della NATO.

Kennedy ricorda le preoccupazioni di JFK che lo portarono pochi mesi prima della sua morte a volere a tutti i costi la messa al bando dei pericolosi  esperimenti nucleari in atmosfera: il trattato "Treaty Banning Nuclear Weapon Tests in the Atmosphere, in Outer Space, and Under Water", firmato a Mosca nel 1963 e ostacolato dal Pentagono, dai falchi del Dipartimento di Stato e da molti politici americani di allora.

Ma l'avvocato Kennedy rievoca anche l'anima più profonda della politica estera americana condotta dalla Presidenza di suo zio JFK, che per la prima volta sottolineo' la importanza del "mettersi nei panni dei Russi" e delle loro "legittime preoccupazioni" per la sicurezza del loro Paese.

Raramente in vita mia ho sentito un discorso così lucido, appassionato e denso di significati, arrivando a cogliere il nesso fra la politica aggressiva e militarista USA condotta a livello globale negli ultimi trent'anni circa, e la violenza domestica e urbana che sempre più scuote la società statunitense nelle ultime decadi.

Un discorso - quello di Robert F. Kennedy Jr. - che merita di essere ascoltato interamente e che può veramente sensibilizzare la opinione pubblica statunitense ed europea e aiutare le classi politiche nazionali a invertire il processo di pericolosa escalation e di tensione geopolitica che negli ultimi mesi sta sempre più avvicinando alla mezzanotte le lancette dell'orologio dell'apocalisse ATOMICA.

Le parole di Kennedy - oltre che ricordare aneddoti storici e familiari - mettono ordine e giustizia e sono veramente un trampolino per la distensione e una pace più che mai desiderabile, che non può prescindere dal riconoscimento della verità e delle reciproche istanze di giustizia di tutti coloro che sono coinvolti negli attuali conflitti.

Possano le parole del nipote di John F. Kennedy fare breccia in tutti coloro che ancora oggi non hanno compreso la grave crisi che stiamo vivendo, non solo geopolitica ma soprattutto sociale e spirituale, e con la forza e luce della verità, condurci tutti sulla via dello discernimento e della autentica diplomazia e desiderio di armoniosa convivenza fra popoli, prima di superare una linea rossa fatale per il mondo intero.

Fra le numerose manifestazioni di interesse e di consenso incontrate in seguito alla pubblicazione dell’articolo del 2 Maggio scorso*, relativo alla questione dei trapianti di organo( “Donne ‘cerebralmente morte’ come madri surrogate? Ma il vero abominio è il criterio di “morte cerebrale!”), ho ritenuto proficuo dare spazio a quanto scritto da un mio amico professore di Filosofia, nonché filosofo autentico.

Le sue intelligenti osservazioni mi hanno invitato a puntualizzare con chiarezza e completezza maggiori quanto già asserito nel sopra menzionato articolo. Ciò nella speranza che detto scambio di riflessioni possa favorire in chi ci legge una migliore  consapevolezza degli aspetti problematici insiti nella complessa (e molto ignorata) questione di morte cerebrale e di espianti/trapianti di organi.

 

Alberto Stirati:

Alla base della pratica abominevole degli espianti sta il materialismo più bieco o il pregiudizio cartesiano che il “pensiero” sia eterogeneo rispetto al corpo.

Che il pensiero possa prolungarsi in una “verticalità” al di sopra (Supercoscienza) e al di sotto (precoscienza e subcoscienza) dell’orizzontalità della coscienza di veglia, non genera alcuno scrupolo nei difensori della pratica degli espianti di organi.

Se la mente fosse riducibile alla corteccia cerebrale o anche all’intera rete neuronale, come potrebbero spiegarsi tutte quelle ultracomplesse, meravigliose e coerenti operazioni che anche un corpo in condizioni di “morte cerebrale” continua, invece, perfettamente a compiere?

Una donna in stato di “morte cerebrale” può essere fecondata e portare a compimento la gravidanza senza alcun problema né per sé né per il nascituro. Giordano Bruno parlava di “Mens insita omnibus” e di “Intelletto artefice”, che “da l’intrinseco della germinal materia risalda l’ossa, stende le cartilagini, incava le arterie, inspira i pori, intesse le fibre, ramifica gli nervi e con sì mirabile magistero dispone il tutto”. Una “mens” demiurgica, quindi, che plasma il corpo; una “mens” di cui la mente di cui facciamo quotidianamente uso non è che la punta dell’iceberg.

Santa Romana Chiesa, se possibile più dualista di Cartesio, pensò bene di bruciarlo vivo.

Supercoscienza, coscienza, precoscienza e subcoscienza sono tutte funzioni che cooperano affinché l’essere vivente non si disintegri, disperdendosi in una molteplicità di elementi privi di sinergia. La “morte” è il dividersi di queste funzioni che non restano, però, MAI in uno stato di separazione, ma passano immediatamente a tessere nuovi centri di vita e di sinergia, in un processo di trasformazione perenne. 

 

Roberto Fantini:

Alberto ti ringrazio molto per le tue preziose considerazioni, che mi offrono l’occasione per alcune fondamentali puntualizzazioni.

Io, in maniera molto più elementare, vorrei riuscire a far capire alle persone (anche a quelle che hanno difficoltà a parlare di “supercoscienza” o di metafisica bruniana), che si lasciano ingannare dalla potentissima propaganda filotrapiantista, almeno due o tre cosette di estrema semplicità, che basterebbe non avere troppi pregiudizi per poter prendere in considerazione:

  1. Qualcuno, senza alcun diritto né elementi di natura scientifica a disposizione, ad un certo punto, ha cambiato il NOME alle cose: quello che veniva fino ad allora chiamato “coma depassé”, ovvero coma irreversibile, è stato ridefinito come “morte cerebrale” e, quindi, pazienti in gravissime condizioni (e probabili moribondi) trasformati in cadaveri respiranti.
  2. Il cervello è universalmente considerato la cosa più meravigliosa, complessa e inesplorata: pretendere di poter decidere che abbiasmesso TOTALMENTE di funzionare e PER SEMPRE (ovvero che non lo si possa MAI PIU’ riattivare) è, quindi, evidentemente arbitrario, illogico e antiscientifico.
  3. Gli stessi responsabili di questa aberrante rivoluzione culturale hanno dichiarato che tale decisione aveva soltanto motivazioni di carattere UTILITARISTICO, cioè che, pur restando il momento della VERA morte misterioso, per chiarissimi motivi PRATICI, si intendeva scegliere di ritenere “morti” determinati pazienti.
  4. Il sistema trapiantistico fa di tutto per non fare capire ai potenziali “donatori” che, per prelevare organi necessariamente VIVI, non è possibile attendere che l’organismo a cui appartengono (di fatto e di diritto) MUOIA VERAMENTE. Ovvero, che si debba disporre di organismi che siano anch’essi necessariamente VIVI …
  5. Il presupposto indimostrabile è che in quegli organismi (vivi!) si sia spenta definitivamente la coscienza. Ma l’unica cosa certa è che SICURAMENTE vita e coscienza non ci saranno più quando, con bisturi e sega elettrica, saranno stati espiantati i loro organi!

 

 

 

 

Ieri verso le 15 mi hanno arrestato all'aeroporto di Istanbul senza fornirmi alcuna spiegazione. Ero in transito per imbarcarmi su un volo interno diretto nel sud est anatolico. Sono una giornalista free lance in Turchia per seguire le elezioni del 14 maggio dal kurdistan turco. Ero insieme a una delegazione di osservatori elettorali, rappresentanti sindacali, cobas, giuristi ed esponenti dell'associazione 'No Bavaglio'. Al controllo passaporti mi hanno fermato e impedito di prendere il volo interno per Mardin. Mi hanno perquisita, sequestrato passaporto, medicina ei prodotti per l'igene personale. La polizia mi ha rinchiuso per circa 5 h in una camera di sicurezza interna all'aeroporto.Mi hanno preso le impronte digitali e fatto le foto segnaletiche. Non mi hanno dato nessuna motivazione del perchè mi abbiano fermata e “Deportata” come si legge dal verbale della polizia per che mi hanno costretta a firmare. Mi hanno espulsa dal paese insieme a una decina di subsahariane, maghrebine, pakistane, uzbeke, iraniane e afghane. Mi hanno imbarcato sul volo delle 21.45 per rientrare in Italia. Scortata dalle istituzioni turche e relegata da sola in fondo all'aereo al posto 32 senza possibilità di muovermi. All'atterraggio a Roma sono stata prelevata da poliziotti italiani, gentili e attoniti per quello che mi era successo. Non sono mai stata più fiera di essere cittadina italiana e mai mi sono sentita più al sicuro come in quel momento.Mi hanno rifocillata e supportata.

Emanuele Irace.

 

Parlando di diritti umani, Norberto Bobbio ci invita a compiere un semplice esercizio: leggere o rileggere lo straordinario testo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e poi fare una rapida ricognizione a 360 gradi nel mondo della realtà contemporanea. Un simile esercizio, purtroppo, continuerebbe, senza alcun dubbio, ad essere fonte di grande amarezza: ancora troppo poco, infatti, dei tanto nobili enunciati di quel documento si è travasato nel nostro comune vivere quotidiano.

E, di fronte a tanta ingiustizia e ipocrisia, è facilissimo lasciarsi ingabbiare in uno stato d'animo di disincanto e di rassegnazione.

Ma tutti i grandi Maestri di tutti i tempi ci hanno insegnato che da una “parva favilla” possono derivare molto fuoco e molta luce e che sarebbe assai meglio, pertanto, piuttosto che limitarsi a maledire l'oscurità (cosa tanto semplice da effettuare quanto poco produttiva), provare ad accendere anche una piccola e flebile fiamma.

E' certamente questa consapevolezza che ha condotto la casa editrice Graphe.it, piccola e raffinata realtà editoriale di Perugia, a dare vita ad una operazione originale: quella di raccogliere occhiali usati.

Per comprenderne a pieno la genesi e le finalità, ci siamo rivolti a Roberto Russo, che da ben 18 anni (appena compiuti!) la dirige con rara competenza ed inesauribile entusiasmo.

 

  • Quando (e in che modo) è nata l'idea di raccogliere occhiali usati?

È un'attenzione che viene da lontano. Da adolescente collezionavo francobolli e avevo messo insieme una discreta raccolta, anche con qualche pezzo di valore. Un giorno mi capitò tra le mani una rivista in cui si chiedevano francobolli usati per aiutare i missionari nelle loro attività. Non ci pensai due volte: impacchettai i raccoglitori e li spedii all'indirizzo indicato. Da allora ho provato a raccogliere molte cose: carta, i classici tappi di bottiglia, che poi facevo recapitare a questo oa quell'ente perché con il ricavato lo utilizzasse per i propri scopi. Con un amico della Repubblica Democratica del Congo abbiamo raccolto anche diverse macchine da scrivere che nel suo paese potevano essere utili.Così quando ho aperto la casa editrice ho pensato che fosse una buona idea affiancarvi un'attività del genere. All' inizio non sapevo bene come concretizzare l'idea, ma poi ho scoperto la possibilità di raccogliere occhiali usati e mi sono subito attivato prendendo accordi con il Lions Club che ha un centro logistico dedicato. Ho coniato lo slogan: “Aiutiamoli a leggere” e ho iniziato a scriverne sul sito, sui social nelle email con l'incentivo di donare un libro del nostro catalogo per ogni invio di occhiali usati che ci venivano donati.

 

  • Che risultati state ottenendo?

Direi buoni. Fino a ora abbiamo raccolto oltre 5500 paia di occhiali. Si va a periodi: per mesi non arriva nulla e poi all'improvviso siamo invasi da vecchi occhiali. Capita che ogni tanto

     Roberto Russo

qualche sito o giornale ne parla e quindi assistiamo a un aumento degli arrivi.

 

  • Prima di questa iniziativa, Graphe.it aveva già intrapreso altre azioni di solidarietà?

Prima e durante. Questa degli occhiali usati è l'iniziativa fissa, poi ce ne sono altre legate soprattutto ai proventi della vendita dei libri che spesso destiniamo a vari progetti come, per esempio, la costruzione di una maternità a Bujumbura in Burundi, o ad associazioni come Amnesty – e qui anche con il tuo zampino!

 

  • Hai in mente qualche altro progetto per il futuro?

Sto valutando qualche idea per evitare che i libri fuori commercio del catalogo vadano a finire al macero. Una piccola parte è quella che doniamo con gli occhiali usati che ci arrivano; a volte doniamo libri alle biblioteche di associazioni o di carceri, anche se per questi ultimi è un procedimento un po' complicato. Però vorrei trovare qualcosa di più ampio perché è un vero spreco quello di non poter più usare alcuni libri perché un po' rovinati o per mille altri motivi. Come diciamo noi, l'importante è leggere e se un libro continua a circolare è sempre un bene.

 

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*Per ogni invio di occhiali, si riceverà in omaggio un libro (occorre ricordarsi, pertanto, di accludere il proprio indirizzo postale).

L'indirizzo a cui spedire il materiale è il seguente:

 Edizioni Graphe.it, via della Concordia, 71, 06124 Perugia.

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 Ha prodotto non poche perplessità la proposta avanzata dalla ricercatrice dell’università di Oslo Anna Smajdor di utilizzare l’intero corpo di donne in stato di “morte cerebrale” come madri surrogate. Nel suo articolo apparso sulla rivista Theoretical Medicine and Bioethics, intitolato Whole Body Gestational Donation (Donazione gestazionale di tutto il corpo), la Smajdor, con abile retorica, ci domanda:

“Sappiamo che le donne “cerebralmente morte” possono portare a termine la gravidanza; perché non dovremmo iniziare gravidanze per aiutare le coppie senza figli?”

La premessa del ragionamento è dolorosamente vera: sono infatti noti i casi di madri dichiarate “cerebralmente morte” ed espiantate dei loro organi soltanto dopo aver portato a termine la loro gravidanza.

Ebbene, prima ancora di discutere criticamente la conclusione (indubbiamente raccapricciante ma non illogica) dell’argomentazione, credo che sarebbe opportuno riflettere con la massima serietà su detta premessa, ponendoci quegli interrogativi, semplici e spontanei, che il sistema filotrapiantistico imperante tende con sofistica capziosità ad impedire:

  • Quanto possiamo essere sicuri che una persona considerata “cerebralmente morta” sia veramente morta?
  • Come è possibile che un organismo, dichiarato oramai privo dell’attività del proprio centro funzionale unificatore (il cervello), riesca a portare a felice compimento un processo tanto complesso come quello della gravidanza?
  • Come può, in definitiva, una madre “morta” costruire (dentro di sé!) e partorire una nuova vita?

Nulla di meglio per affrontare senza pregiudizi di sorta una questione tanto delicata che rileggerci con la massima attenzione quanto dichiarato da coloro che, nel lontano 1968, coniarono la definizione di “morte cerebrale”, oggi adottata dalla Medicina ufficiale in modo universalmente acritico.

Fino a quella data, la tradizione medico-giuridica occidentale prevedeva l’accertamento della morte mediante riscontro oggettivo di tutte le funzioni vitali: respirazione, circolazione, attività del sistema nervoso. Nel 1968, un Comitato costituito ad hoc dalla Harvard Medical School propose un nuovo criterio di accertamento della morte in presenza della condizione di “coma irreversibile” ritenuto equivalente alla cessazione di tutte le funzioni cerebrali.

Questo quanto pubblicamente dichiarato dal Comitato:

“Il nostro obiettivo principale è definire come nuovo

criterio di morte il coma irreversibile. La necessità

di una tale definizione è legata a due ragioni.

 1)Il miglioramento delle tecniche di rianimazione e di

mantenimento in vita ha condotto a sforzi crescenti

per salvare malati in condizioni disperate. A volte

tali sforzi non ottengono che un successo parziale, e il

risultato è un individuo il cui cuore continua a battere,

ma il cui cervello è irrimediabilmente leso. Il peso

è grande per quei pazienti che soffrono di una perdita

permanente dell’intelletto, per le loro famiglie,

per gli ospedali e per quelli che avrebbero bisogno di

letti ospedalieri occupati da questi pazienti in coma.

2) Criteri di morte obsoleti possono originare controversie

nel reperimento di organi per i trapianti.”

Come non accorgersi della totale assenza di elementi conoscitivi ed argomentativi di natura scientifica?

Come non notare il carattere palesemente quanto cinicamente  utilitaristico delle motivazioni addotte a sostegno del nuovo criterio di “morte”?

Ovvero: liberare posti letto e creare uno scudo legale  per i medici espiantatori, in modo da metterli al riparo dalla possibile (e più che  legittima) accusa di omicidio ai danni di pazienti in stato di coma? Pazienti probabilmente moribondi, ma indiscutibilmente ancora vivi (e quindi da tutelare e non certo da macellare)?!?

Insomma, è necessario comprendere che il vero nodo problematico è rappresentato dalla accettazione teorica e dalla applicazione pratica del criterio della cosiddetta “morte cerebrale”. Finché non si avrà il coraggio di ribellarsi ad esse, il rischio che persone in condizioni di salute critiche siano, invece che curate, trattate come meri serbatoi a cui attingere per il prelievo di organi, tessuti, sangue, ecc., oppure utilizzate come cavie per ogni sorta di sperimentazioni, resterà inevitabilmente altissimo:

non essendo, infatti, più considerabile come “persona” in senso etico e giuridico, il “morto cerebrale” diviene una “cosa”. Di conseguenza, finirà ineluttabilmente per perdere ogni possibile diritto e non sarà più possibile, a sua difesa, appellarsi al principio della sacralità e dell’inviolabilità della dignità umana!

 

 

 

                 

Qualche anno fa, il teologo valdese Paolo Ricca scriveva, con non poca amarezza, che, nel mondo contemporaneo, risultava non aver più alcun posto la questione dell’aldilà e di una possibile vita futura, questione “che in altri tempi appassionava l’opinione pubblica ed era considerata e vissuta come assolutamente prioritaria, cioè come la questione principale di questa vita, quella che ciascuno doveva affrontare, perché questa vita aveva senso e valore (così, allora, si pensava) proprio come preparazione al “grande salto” nell’aldilà”. 1)

Oggi, diceva, il tema dell’aldilà non interessa quasi più nessuno, perché: “La speranza generale è di prolungare il più possibile questa vita."2) Anzi, potremmo dire che l’unica vera preoccupazione che ci trova tutti d’accordo, credenti e non credenti, è proprio quella del vivere il più a lungo possibile, evitando sistematicamente di interrogarsi in merito all’evento del morire.

Non ci si interrogherebbe più, di conseguenza, in merito al vivere buono e giusto, ma soltanto in merito a come riuscire a proiettare sempre più lontano dalla nostra coscienza l’idea di quell’evento (visceralmente inaccettabile) che tutti ci attende. Potremmo dire che mai l’umanità è stata tanto risucchiata in una visione così banalizzante del vivere, in cui si fondono, in una sorta di sabbie mobili dello spirito: rozzo edonismo, semplicistico ottimismo e cieco fideismo scientista.

Il risultato di ciò è che, di fronte al fatto ineludibile della morte, mai ci siamo trovati così indifesi, così impreparati, così vulnerabili.

Due colossali conferme di tale nostra generale condizione psicologica le possiamo ricevere dall’ analisi di come l’opinione pubblica stia acriticamente accogliendo, da alcuni decenni ormai, la pratica dei trapianti di organi e come, in questi ultimi anni, abbia ampiamente subìto (o anche abbracciato) le politiche vaccinali.

In entrambi i casi, la vittima principale è il pensiero coraggioso e indipendente: anche il più elementare buon senso, infatti, si è ritrovato annichilito.

Di fronte al timore della morte incombente e all’allettantissima possibilità di riuscire a rinviarla a tempo indeterminato, ci siamo (in troppi e troppo facilmente) dimostrati pronti a spegnere gli interruttori del normale pensare, gettandoci incondizionatamente nelle braccia onniscienti ed onnipotenti dei Gran Sacerdoti di Santa Madre Scienza.

E, così, ci siamo ritrovati ad accettare, senza troppi indugi, che, una volta adottate parole ingannevoli come “morte cerebrale”, “donatore”, ecc.,  si possa essere dichiarati morti e quindi macellati come cadaveri, pur respirando, pur avendo sangue circolante e organi sessuali in grado di procreare; che si possa essere considerati morti anche se con organismo caldo e in grado di rispondere a eventuali cure.

E, così, siamo giunti ad accettare di subire poliziesche imposizioni, facendoci inoculare (disposti  ad assumerci ogni responsabilità in merito alle possibili conseguenze) un qualche siero dichiarato arbitrariamente “vaccino”, benché sprovvisto dei doverosi oggettivi requisiti; un qualche siero protetto dalla massima segretezza, in merito a cui nessuno (nemmeno chi lo produce) è in grado di fornirci alcuna reale garanzia.

In entrambi i casi, è il terrore della morte ad ammutolire il nostro intelletto, ad indurci a mettere da parte, nello stesso tempo,

innati princìpi logici,

universali paradigmi etici,

costituzionali valori civili.

Per salvarci dal naufragio esistenziale, individuale e collettivo, bisognerebbe quindi, oltre che non smettere mai di esercitare il  “dubbio metodico”, riuscire a liberarci da un rapporto malato con il problema della morte, recuperando quanto di meglio ci proviene dall’antica sapienza filosofica e dalla migliore psicologia contemporanea. Ovvero, riscoprendo la “naturalezza” del morire (indissolubilmente legato al vivere), magari anche riappropriandoci di prospettive aperte all’eventualità di ultraterrene esperienze.

Socrate, Epicuro, Seneca e tanti altri giganti del passato potrebbero esserci di grande aiuto:

“Tutte le cose – scrive, ad esempio, Seneca - procedono secondo tempi ben definiti: debbono nascere, crescere, estinguersi. Questi astri che vedi correre sopra di noi e questa materia terrestre a cui siamo attaccati e che ci sembra così solida, si logoreranno e finiranno: ogni cosa ha la sua vecchiaia. La natura, attraverso diseguali cicli di vita, dirige tutte le cose allo stesso punto. Tutto quello che esiste cesserà di essere, non per annullarsi, ma per decomporsi. La decomposizione noi la chiamiamo morte: noi vediamo solo l’aspetto esteriore delle cose, ma la nostra mente ottusa e a discrezione del corpo non vede che quel che sta al di là. L’uomo sopporterebbe con più coraggio la fine sua e dei suoi cari, se credesse che, come tutto il resto, la vita e la morte si avvicendano e i composti si dissolvono e si ricompongono i corpi dissolti, e a quest’opera si rivolge l’attività di dio, che tutto regola.” 3) 

E anche scienziati all’avanguardia e liberi da pregiudizi di ordine positivistico, come la psichiatra Elizabeth Kubler-Ross, potrebbero costituire una fonte di terapeutica saggezza:

“Se viviamo bene non dovremo mai preoccuparci della morte, anche se si vive solo un giorno. La questione tempo non è importante, è solo un concetto artificiale, creato dall’uomo.

Vivere bene significa soprattutto imparare ad amare.”4)

Insomma, non c’è vera possibilità di difenderci dalle schiavitù del presente e da quelle di un ipotetico-probabile avvenire, senza una vera liberazione interiore dalla paura più grande, quella del più non esserci. E l’angoscia della morte è curabile solo grazie alla carità illuminata dal giusto pensiero e coronata da un giusto operare volto ad occuparci della sofferenza del mondo.

Forse ha ragione Fernando Savater nel dirci che soltanto i veri poeti sanno rapportarsi alla morte:

 “i poeti accettano la morte opponendole l’altra grande forza che ci individualizza, che ci personifica: l’amore. Ciò che è incompatibile con la morte non è vivere (la vita esige la morte), ma amare: l’amore disconosce la forza della morte, anche se amiamo consci della nostra mortalità e di quella di ciò che amiamo.” 5)

Un cuore colmo di amore è e resterà luce che si espande.

 

 

 

 

 

  1. Paolo Ricca, Dell'aldilà e dall'aldilà , Claudiana, Torino 2018, p.9.
  2. Ibidem
  3. A. Seneca, Lettere a Lucilio , VIII, 71.
  4. Kubler-Ross, La morte e la vita dopo la morte , Mediterranee, Roma 2013.
  5. Dizionario filosofico , F. Savater, Dizionario filosofico, Sagittari Laterza, Bari 1996, p. 155.

 

 

 

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