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Amnesty International, in un rapporto pubblicato a metà dello scorso dicembre, ha provveduto a denunciare come, in almeno 60 stati, le forze di polizia, in nome dell’applicazione e del rispetto delle misure di contrasto alla “pandemia covid 19”, abbiano fatto ricorso a forme di violenza tali da produrre gravi violazioni dei diritti umani e, in alcuni casi, anche peggioramenti della crisi sanitaria.
Molti stati, inoltre, vengono accusati di aver utilizzato pretestuosamente e strumentalmente l’allarme pandemico, introducendo leggi e prassi che hanno violato i diritti umani, riducendo le garanzie in materia, come ad esempio le limitazioni innecessarie ai diritti alla libertà di manifestazione pacifica e alla libertà d’espressione.
Il quadro che scaturisce dal rapporto è quanto mai allarmante:
persone sospettate di aver violato le misure di contenimento o che protestavano per le condizioni di detenzione sono state ferite o uccise;
è stato violentemente represso il dissenso;
un po’ ovunque sono stati effettuati arresti di massa (persone accusate di aver violato la quarantena, trasgredito al divieto di spostarsi da un luogo all’altro, tenuto riunioni, preso parte a manifestazioni pacifiche e criticato la risposta del governo alla pandemia);
imposti rimpatri illegali;
effettuati sgomberi forzati e repressioni violente di manifestazioni pacifiche.
Ecco qualche caso particolarmente eloquente e emblematico:
· In Iran, le forze di polizia hanno usato proiettili veri e gas lacrimogeni per stroncare le proteste nelle carceri, uccidendo e ferendo parecchi detenuti.
· In Kenya, solo nei primi cinque giorni di coprifuoco, le forze di polizia hanno ucciso almeno sette persone e hanno costretto altre 16 al ricovero in ospedale.
· In Sudafrica le forze di polizia hanno sparato proiettili di gomma contro persone che “vagabondavano” in strada durante il primo giorno di lockdown.
· In Cecenia, alcuni agenti hanno aggredito e preso a calci un uomo che non indossava la mascherina.
· In Angola, tra maggio e luglio, sono stati uccisi almeno sette giovani.
· Nella Repubblica Dominicana, tra il 20 marzo e il 30 giugno, le forze di polizia hanno arrestato circa 85.000 persone accusate di aver violato il coprifuoco.
· In Turchia, tra marzo e maggio, 510 persone sono state arrestate e interrogate per aver scritto “post provocatori sul coronavirus”, in evidente violazione del diritto alla libertà d’espressione.
· In Etiopia, nella Zona di Wolaita, almeno 16 persone sono state uccise dalle forze di polizia per aver protestato contro l’arresto di dirigenti e attivisti locali accusati di aver manifestato in violazione delle limitazioni adottate per il contrasto alla pandemia.
· In numerosi stati le forze di polizia hanno mostrato un’attitudine discriminatoria e razzista nell’applicazione delle norme sul Covid-19, colpendo, in particolar modo, rifugiati, richiedenti asilo, lavoratori migranti, persone Lgbti o di genere non conforme, lavoratori e lavoratrici del sesso, persone senza dimora.
· In Slovacchia, durante la quarantena, le forze di polizia e l’esercito hanno isolato gli insediamenti rom, contribuendo ad alimentare lo stigma e il pregiudizio che quelle comunità già subivano.
· In Francia, tra marzo e maggio, i volontari di “Osservatori sui diritti umani” hanno documentato 175 casi di sgombero forzato di migranti, richiedenti asilo e rifugiati nella zona di Calais.
Dure ed inequivocabili le parole di Patrick Wilcken, vicedirettore del programma Temi globali di Amnesty International:
“Durante la pandemia, in ogni parte del mondo le forze di polizia hanno ampiamente violato il diritto internazionale ricorrendo a una forza eccessiva e innecessaria per far rispettare il lockdown e il coprifuoco. Col pretesto di contrastare la diffusione della pandemia, in Angola un ragazzo è stato ucciso per aver violato il coprifuoco e in El Salvador un uomo è stato ferito alle gambe mentre era uscito di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare”.
Aggiungendo che, pur considerando che il mantenimento dell’ordine pubblico rappresenta senza alcun dubbio un elemento fondamentale nella protezione della salute e della vita delle persone, un
“eccessivo affidamento a misure coercitive per applicare le limitazioni per motivi di salute pubblica sta facendo peggiorare la situazione” e che il “profondo impatto della pandemia sulla vita delle persone richiede che le forze di polizia agiscano nel pieno rispetto dei diritti umani”.
“È fondamentale - ha dichiarato inoltre AnjaBienert, direttrice del programma Polizia e diritti umani di Amnesty International Olanda - che le autorità diano priorità alle migliori prassi sanitarie rispetto ad approcci coercitivi che si sono dimostrati controproducenti. I dirigenti delle forze di polizia devono dare al loro personale istruzioni e ordini precisi affinché i diritti umani siano al centro di ogni valutazione posta in essere. Coloro che hanno esercitato i loro poteri in forma eccessiva o illegale devono essere chiamati a risponderne. Altrimenti, si verificheranno ulteriori violazioni dei diritti umani”,
L’organizzazione umanitaria invita, pertanto, i governi di ogni parte del mondo ad assicurare che le forze dell’ordine rispettino correttamente e coerentemente la loro più importante missione: servire e proteggere la popolazione.
Infine, Amnesty International richiede che, nei casi in cui si siano verificate violazioni dei diritti umani derivanti da operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico e dall’uso della forza, gli stati svolgano tempestivamente indagini approfondite, efficaci e indipendenti, in modo da assicurare che i responsabili ne rispondano in un giusto processo.
“ABBANDONATI”
Degno della massima attenzione risulta anche il Rapporto della sezione italiana di Amnesty, dall’eloquente titolo “Abbandonati”, presentato sempre alla metà del mese di dicembre, relativo alle violazioni dei diritti umani verificatesi nelle strutture di residenza sociosanitarie e socioassistenziali italiane durante la pandemia da Covid-19.
Lo studio, che raccoglie oltre 80 interviste effettuate in tre regioni d’Italia (Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto), analizza l’impatto delle decisioni e delle pratiche adottate dalle istituzioni all’interno di dette strutture, rilevando la mancata tutela del diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione degli ospiti anziani.
“Oltre a violare il diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione, decisioni e pratiche delle autorità a tutti i livelli hanno anche avuto un impatto sui diritti alla vita privata e familiare degli ospiti delle strutture ed è possibile che, in certi casi, abbiano violato il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti”, ha dichiarato Donatella Rovera, ricercatrice esperta di crisi di Amnesty International.
“La pandemia - ha aggiunto Martina Chichi, campaigner di Amnesty International Italia - ha mostrato l’inadeguatezza del sistema di controllo delle strutture per anziani. La nostra indagine ha evidenziato che nel periodo in cui i controlli avrebbero dovuto essere più frequenti e più approfonditi – vista l’impossibilità di vigilanza da parte dei familiari o altri nel periodo di chiusura delle case di riposo al mondo esterno – spesso invece le verifiche condotte dalle aziende sanitarie locali sono state solo formali e amministrative” .
Il Rapporto, fra le altre numerose osservazioni critiche, evidenzia come l’emergenza sanitaria abbia acuito problemi sistemici delle strutture oggetto della ricerca, come la carenza di personale (aggravata dall’alto numero di operatori sanitari in malattia e dai reclutamenti straordinari dei presidi ospedalieri), cosa che ha comportato un grave abbassamento del livello di qualità dell’assistenza e della cura degli ospiti e fatto sì che si realizzassero condizioni di lavoro terribili per gli operatori stessi, sottoposti a un grave stress fisico e psicologico e sovraesponendoli al rischio di contagio.
Infine, in considerazione del fatto che, a partire dall’inizio dell’emergenza sanitaria, governo e autorità regionali e locali non hanno mai reso pubblici dati e informazioni omogenei e completi relativi alla diffusione del contagio nelle strutture residenziali sociosanitarie e socio assistenziali (essenziali per una lettura puntuale del fenomeno e tale da consentire, tra le altre cose, di rispondere alle esigenze del settore evitando il ripetersi delle violazioni e della mancata tutela dei diritti alla vita, alla salute e alla non discriminazione dei pazienti anziani), l’Organizzazione umanitaria, oltre a richiedere alle autorità di garantire agli ospiti delle case di riposo il diritto al più alto standard di assistenza ottenibile e l’accesso non discriminatorio alle cure, nonché di attuare politiche di visita che permettano un contatto regolare con le famiglie, esprime l’importante esigenza di un’inchiesta pubblica e indipendente che chiarisca le responsabilità e suggerisca misure concrete per affrontare le criticità riscontrate (tra cui il miglioramento dei meccanismi di sorveglianza delle strutture) e sottolinea il dovere ineludibile delle autorità di assicurare la massima trasparenza sui dati relativi alla gestione dell’emergenza sanitaria.
Abbiamo il piacere di intervistare Moncef Marzouki, medico, attivista per i diritti umani e politico tunisino. È stato Presidente della Tunisia del dopo “primavere arabe” dal 2011 al 2014, il suo programma è stato incentrato sulle libertà civili, come l'abolizione della polizia politica, della censura e l'approvazione di una Costituzione rispettosa della Dichiarazione universale dei Diritti Umani .
Come Presidente della Lega tunisina per la difesa dei diritti umani che idea si è fatto sulla vicenda di Julian Assange negli ultimi dieci anni per aver denunciato i crimini commessi dallo Stato e soprattutto dall'esercito degli Stati Uniti?
Prima di tutto, grazie a Pressenza per avermi invitato e per avervi incontrato, sono un uomo della società civile, ho lavorato molto nelle ONG, quindi mi sento molto a mio agio con voi, grazie ancora per questo invito. Sì, sono stato e rimango ancora un'attivista per i diritti umani e rimango estremamente sensibile alla questione di Assange. Inoltre, come forse saprete, nel 2012, quando ero presidente, l'ho chiamato da Cartagine, e abbiamo avuto una comunicazione tra lui e me da Cartagine, e gli ho detto che sarei stato molto felice di riceverlo in Tunisia come attivista per i diritti umani, che era il benvenuto in Tunisia. E sono sicuro che se gli fosse stato permesso di uscire, avrebbe esitato tra due o tre paesi, ma in ogni caso sarebbe stato accolto molto favorevolmente in Tunisia. Io ero indignato per il modo in cui è stato trattato, che cosa ha fatto quest'uomo? Ha fatto quello che oggi chiamiamo un lavoro di denuncia. La democrazia non può vivere senza denuncia, ci sarebbero molti crimini che passerebbero inosservati, così quest'uomo ha fatto il suo dovere di informare, ha detto ciò che andava detto su una serie di crimini; purtroppo, sapete che il presidente uscente sta amnistiando alcuni di questi criminali per atti commessi in Iraq. Quindi per me è un uomo che ha fatto il suo dovere, il suo dovere di cittadino e di attivista per i diritti umani ed è per questo che sarebbe stato il benvenuto in questo paese, la Tunisia, che era all'epoca, e che è ancora un luogo di rifugio per gli attivisti per i diritti umani. Sono stato totalmente impegnato fin dall'inizio, sia quando ero al potere, sia oggi, nel caso di Assange, che è un tipico caso di violazione dei diritti umani.
Lei che è stato medico personale di Mandela e che ha fatto tanto, nel suo mandato presidenziale, per la difesa dei Diritti Umani cosa vorrebbe dire a coloro che torturano Assange nel “democratico” Regno Unito?
Vorrei correggere quest’informazione, non ero il medico personale del presidente Mandela, ho incontrato il presidente Mandela nel 1991 e ho avuto una lunga conversazione, in particolare sui diritti dei bambini, perché all’epoca stavamo discutendo dei diritti dei bambini e purtroppo l’ho visto una seconda volta quando sono andato a rappresentare la Tunisia al suo funerale. Così ho visto questo grande uomo in piedi, ed ero triste quando l’ho visto su un catafalco, per me è un maestro, ma non ho avuto l’onore di essere il suo medico, se non altro perché lui ha vissuto soprattutto in Sudafrica e io in Tunisia. Ma per me, lui è il mio maestro, è il mio maestro spirituale e per tutto il tempo che sono stato a Cartagine avevo il suo ritratto dietro di me, non avevo il ritratto di un tunisino, ma avevo il ritratto di Mandela.
Per me c'è un parallelo tra Mandela e Assange, perché Mandela è stato prigioniero per 27 anni in una piccola cella semplicemente perché si è opposto ai crimini dell'apartheid e anche Assange è in qualche modo prigioniero da tanti anni, allo stesso modo, perché si è opposto a un crimine. E quindi quello che mi sembra più aberrante in questo caso, è che nel caso Mandela possiamo accettare, possiamo capire che è stato imprigionato da un regime di apartheid, un regime razzista, un regime senza diritti, ma in quello di Assange che fosse un prigioniero e che è stato trattato in questo modo da uno Stato democratico, è al di là di ogni immaginazione. Sappiamo che dietro ogni stato, qualunque esso sia, c'è lo sfarzo e poi c'è la cucina, il cortile, e il cortile di tutti gli stati, compresi gli stati democratici, non è mai molto pulito, non è mai molto pulito. Quindi tutti gli Stati non sono conseguenti rispetto alle idee che sbandierano, ma ci sarebbe aspettato che la Gran Bretagna, con la sua tradizione democratica e il fatto di essere la sede di Amnesty International, si sarebbe comportata diversamente, ma purtroppo direi che la vigliaccheria delle autorità britanniche di fronte alle pressioni americane è stata grande. Hanno accettato questa situazione che è totalmente indebita, infame, penso che purtroppo i britannici non usciranno da questa situazione in modo positivo, compenseranno forse alla fine ma in questo momento si nascondono dietro la legge e dicono no, no, no, no, questa è la legge, è la legalità. Ma tutti sanno che si tratta di una questione politica per eccellenza e che, se avessero voluto, avrebbero trovato una soluzione che consentisse ad Assange,
Cosa direbbe a chi si ostina a stare in silenzio, ai governi ei giornalisti che cercano di mettere “sotto il tappeto” gli orrori compiuti in Afghanistan, in Iraq e in tanti altri contesti?
Sapete, il silenzio è assolutamente inaccettabile perché ci sono uomini e donne che sono lì per difendere i diritti, e uomini e donne per difendere gli interessi; penso a tutti i giornalisti e tutte le persone che non si sono mobilitate per il caso di Assange; perché, alla fine, questi uomini difendono la libertà di espressione, la libertà di diffondere informazioni soprattutto quando è così importante per la pace e la sicurezza mondiale; penso anche alle molte persone non sono cresciute con la minaccia americana; persone a cui può essere proibito di tornare negli Stati Uniti.
Più gente avrebbe dovuto prendere posizione, ma quando si tratta di attaccare piccoli paesi o governi deboli, va bene, tutti vanno avanti e attaccano quel paese africano per le violazioni dei diritti umani, ma quando si tratta di attaccare gli Stati Uniti e dire no no , ci sono violazioni dei diritti umani negli Stati Uniti, ci sono molte persone che esitano e questo non le fa sentire meglio, ma fortunatamente ci sono persone come te sono capaci nonostante tutte le difficoltà, nonostante tutti i rischi, tutti i problemi di presa di responsabilità; quindi rimango ottimista per il fatto che, nonostante tutte le pressioni che gli americani esercitano su Assange, ci sono ancora persone che sono in grado di dire: NO, non vogliamo questo, quest'uomo è una fonte di informazione,
Lei pensa che sia giusto che non esistano "segreti di Stato" e che chi commette crimini, anche se riveste cariche politiche e militari, vada perseguito?
Sì, c'è giustizia uguale per tutti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è molto chiaro; vi ricordo che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha una madrina chiamata Eleanor Roosevelt, quindi è americana, quindi gli americani hanno avuto un ruolo importante nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, come possono negarla oggi? Quella dichiarazione, è chiaro che c'è un divieto totale di torturare le persone e oggi quello che Assange sta subendo è tortura.
Il segreto di stato, tu sai cos'è il segreto di stato, tu sai cos'è? Va e viene, ci sono persone che hanno paura che i loro crimini vengono rivelati, ma qual è la cosa più importante? la verità, la pace. Il popolo americano vuole sapere tutto, perché questo non è più importante dei cosiddetti segreti militari che consistono nel nascondere i crimini e nel perdonarli? Quello che non perdono a Trump è il perdono dei crimini che sono stati rivelati, tra l'altro, in parte da Assange e da persone come lui. Ciò che è importante è che la società civile, che la gente dica NO NO, c'è qualcosa di più importante dei segreti, segreti di Pulcinella; la cosa più importante è il diritto della gente, cioè il diritto della giustizia di processare tutti i crimini perché così potremo andare avanti.
In un'intervista che Assange fece all'ex Presidente dell'Ecuador, Rafael Correa, nel 2012, Julian fece riferimento a lei in merito a un dialogo che avete avuto sul poco potere che spetta ai presidenti. Ci parli degli ostacoli che deve affrontare chi è un capo di un governo e degli ostacoli che cercano di imporre i poteri forti a chi realmente vuole cambiare le cose?
Un presidente non è una persona onnipotente: quando arriva al potere, ha una burocrazia, ha tradizioni di potere prima di lui, ci sono lobby estremamente importanti, e ci sono industrie dietro, ci sono interessi enormi, e poi c'è il suo stesso interesse a essere rieletto e così via… Quindi rimanere fedeli alle convinzioni è estremamente difficile perché ovviamente si entra in contatto con le lobby economiche, con i servizi segreti che hanno una loro politica, perché si sa che un presidente va e viene, ma i servizi e le autorità e le lobby economiche restano, sono lì da 20,30 anni, ma comunque i presidenti possono fare qualcosa. Io personalmente, quando sono arrivato, ho vietato la tortura ed è stata rispettata questa decisione; negli incontri che ho avuto con il Consiglio di sicurezza nazionale, sia che si trattasse di militari o di polizia, ho detto: “La tortura è finita in Tunisia”. E non venite a dirmi questo o quello, e non ci sono stati casi di tortura, o comunque, se ci sono stati, si trattava di veri e propri errori individuali, ma la tortura, che era qualcosa di sistematico in Tunisia, si è fermata . Così, nonostante tutto, si può fare qualcosa ed è così che le società possono andare avanti.
Assange è incriminato per l '”Espionage Act”, una legge americana del 1917 scritta “contro i traditori della patria” ma gli Stati Uniti non sono la sua patria perché lui è australiano e non ha tradito nessuno, al contrario ha denunciato governi e militari che, loro sì, hanno commesso crimini gravissimi e hanno tradito la patria ei suoi cittadini. Qual è il suo punto di vista sulla questione?
Il mio punto di vista è che non ha nulla a che fare con lo spionaggio, non ha nulla a che vedere, è una semplice vendetta e soprattutto un esempio, cioè voilà, vogliamo che Assange sia un esempio, voilà, se fai, se osi rivelare i nostri segreti ecc… questo è quello che probabilmente succederà, quindi stanno cercando di fare di Assange un esempio per intimidire tutti coloro che vorrebbero fare la stessa cosa. Ancora una volta, capisco che ogni paese mantenga un certo numero di segreti militari, io stesso non sono stato in grado di divulgare un certo numero di temi che erano veramente legati alla sicurezza del paese, segreti militari, i piani d'azione contro i terroristi ecc. Ma quando si tratta di crimini o di errori commessi dalle forze di sicurezza, non c'entra nulla la sicurezza nazionale. La sicurezza nazionale, al contrario, è obbligata a non accettare gli errori, a non tollerare che i soldati uccidano in missione, come è successo in Afghanistan: questo non è accettabile. C'è una confusione tra ciò che è veramente un segreto di Stato da mantenere perché anche lo Stato ha bisogno di mantenere segreti e il fatto di nascondere i crimini: i crimini non è un segreto di Stato, perché in linea di principio gli Stati non sono criminali, e in linea di principio gli Stati non proteggono il crimine, quindi non si può dire che sia un segreto di Stato. Per me l'atteggiamento del governo americano non ha nulla a che fare con i segreti di Stato, vogliono intimidire le persone afinché non lo facciano più, e questo pone un problema sul funzionamento della democrazia americana. I nostri alleati americani acquistano sollevare la questione su questo tipo di legge, di questo tipo di comportamento perché ciò mette in discussione la loro stessa “democrazia”, indipendentemente dall'influenza che essa ha sul mondo. Assange non è né americano né inglese, se deve essere giudicato, dovrebbe esserlo in Australia, per esempio, e certamente non dagli Stati Uniti.
Come forse saprà, Fatou Bensouda, Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale, a seguito dell'inchiesta per Crimini di guerra commessi da Israele in Palestina e degli USA in Afghanistan è stata minacciata e sanzionata dal governo USA insieme ad altri della Corte Penale Internazionale. Come ha accolto questa notizia e che cosa vorrebbe dirle se volesse mandarle un messaggio?
Ho avuto il piacere di ricevere Fatou Bensouda quando ero presidente perché è venuta a trovarmi per una storia simile, ma diversa, c'era una riunione tra i capi di Stato africani che non volevano che l'Unione africana riconoscesse il ruolo della Corte Penale Internazionale , perché i capi di Stato africani si sentivano minacciati dalla CPI. È venuta a chiedere il mio sostegno e la mia opinione, perché voleva che la CPI si applicasse a tutti, compresi gli africani, e mi ha detto, ma no, non vogliamo assolutamente prendere di mira i capi di Stato africani. Io le risposi che ero completamente d'accordo con lei, non c'è motivo per cui i capi di Stato africani debbano sentirsi più sotto mira o protetti perché sono africani e le ho detto che la consideravo una donna coraggiosa, e che le davo tutto il mio appoggio,
Non la vedo intimidita, per me questa donna non si lascia intimidire, le do il mio pieno appoggio e l'incoraggio a continuare, ed è grazie a uomini e donne come lei che il processo per uno stato di diritto internazionale sta prendendo forma, e questa sarà la cosa più importante.
Qualche tempo fa lei ha annunciato la sua uscita dalla scena politica: quali solo i suoi progetti per il futuro?
Sì, sono uscito dalla politica tunisina, cioè dalla lotta per il potere in Tunisia, ma sono ancora Presidente dell'Associazione per i Diritti Umani, quindi rimango impegnato nella causa palestinese, in cui sono molto coinvolto cercando di istituire un consiglio nazionale arabo per la promozione della democrazia e per la difesa della primavera araba, che è sotto estrema minaccia. Quindi sono ancora molto attivo, faccio parte di un gruppo di saggi africani, ci incontriamo ogni anno, siamo circa dieci capi di Stato africani che sono capi di Stato africani democratici e che non hanno precedenti di corruzione, ecc…, un club molto chiuso, ci incontriamo ogni anno per riflettere sul futuro dell'Africa, sullo sviluppo di una strategia ecc. Sono quindi molto attivo sul piano africano, sul piano arabo, ma ho effettivamente evitato,
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa internazionale Pressenza
Lunedì 7 dicembre alle 11 davanti al Ministero dello sviluppo economico si è svolta la conferenza stampa organizzata da Sardegna Pulita, Donne Ambiente Sardegna, Don
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Angelo Pittau della Pastorale del Lavoro e Wilpf Italia con il presidente, Patrizia Sterpetti.
L'obiettivo è stato la presentazione di un progetto studiato dal sociologo rurale Ennio Cabiddu per la riconversione della fabbrica produttrice di bombe RWM in un polo caseario regionale che produca vari tipi di formaggio locale in modo biologico, con il sistema della terra cruda, denominata universalmente Adobe. Il gruppo di attiviste/i ha rimarcato nei vari interventi l'urgenza di ottenere il rinnovo della sospensione delle licenze di vendita di bombe della RWM alla coalizione guidata dall'Arabia Saudita in vista dello scadere dei 18 mesi di blocco deciso dal Parlamento. È stata sottolineata l'importanza di usare il Recovery Fund per finanziare il progetto di riconversione, che è supportato anche da La Società della cura e coincide con la richiesta di Sbilanciamoci di usare in modo alternativo i sei miliardi stanziati dalla legge di bilancio 2021 per dotazioni d'arma.
Wilpf (Lega Internazionale Donne per la Pace e la Libertà), associazione pioniera nell'aver dimostrato il legame tra il commercio delle armi e le violazioni dei diritti umani nel Sistema ONU, ha ricordato come il disarmo sia un prerequisito per creare le condizioni di una pace duratura e che l'Italia è stata incalzata sul tema della vendita di armi a Paesi belligeranti in occasione dell'ultima Universal Periodic Review presso il Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra nel novembre 2019. Ancora nel giugno 2021 dovrà rispondere su questo tema alle raccomandazioni di tre Paesi: Namibia, Equadir e Islanda. La sospensione va quindi rinnovata.
È stato letto un comunicato della presidente Muna Luqman in rapporto con Wilpf Italia per un progetto sulla Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza (che riconosce il ruolo delle donne per la Pace), per un aggiornamento sulla situazione in Yemen. Un aspetto toccante della proposta di riconversione è la creazione di una filiale della nuova fabbrica di formaggi proprio in Yemen, a parziale risarcimento del danno procurato dalle bombe prodotte in Sardegna. La delegazione ha ottenuto di essere audita mercoledì 9 dalla Sottosegretaria del MiSE Todde.
Lo schiavismo, vergogna indelebile e prerogativa solo della specie umana, è sempre esistito, ma lo schiavismo moderno si è espresso nel modo più detestabile perché praticato ed accettato dai cristiani.
Nel 1344 Clemente V ordina la colonizzazione dei territori africani. Più tardi furono il re cattolico Ferdinando d’Aragona (1452-1516), l’imperatore Carlo V (1500-1558) e Luigi XV re Sole (1710-1774) che per primi diedero il permesso per trasportare i primi schiavi nel Nuovo Mondo. Ma fu il papa Alessandro VI, (1431- 1503) che,
appellandosi alla falsa donazione di Costantino delle terre di Occidente, a dividere il , globo e consegnarlo alle potenze coloniali nascenti, la spagnola e la portoghese con lo scopo di cristianizzare popolazioni pagane. E le conseguenze furono devastanti.
I Conquistadores distrussero le fiorenti civiltà Inca, Maya, Azteca. Nel 1500 nel continente americano c’erano 80 milioni di persone, 50 anni dopo era ridotta a 10 milioni. Nel giro di un secolo era stato sterminato un terzo della popolazione mondiale, come se oggi si uccidessero 2,5 miliardi di persone. E tra il 1600 e il 1900 altri 80 milioni di nativi perirono. La popolazione in Messico dal 1520 al 1595 passò da 25 milioni a meno di un milione e mezzo: avevano annientato il 95% della popolazione
locale.
Cortez per placare una ribellione convocò 60 dignitari aztechi con i loro eredi. Li fece bruciare tutti vivi alla presenza dei loro parenti per convincerli a non opporsi agli spagnoli. E Vasco da Balboa fece sbranare dai cani 40 indio.
Gli spagnoli si divertivano a provare il taglio delle loro spade sulla popolazione, staccando braccia, gambe, teste: 600 persone furono squartate come bestie. Nel 1517 nelle isole caraibiche alcuni cristiani incontrarono un’indiana che teneva in braccio un bambino a cui dava il latte; il cane degli spagnoli aveva fame, strapparono il bambino dalla madre e lo diedero in pasto al cane che lo fece a pezzi. Se i neonati piangevano li prendevano per i piedi e li sbattevano contro le rocce. Nel 1570 un giudice affermò pubblicamente che se dovesse mancare l’acqua per irrorare le piante delle fattorie degli spagnoli sarebbe stato utilizzato il sangue degli indigeni. E non era una metafora.
Quando nel 1592 C. Colombo sbarcò a Cuba c’erano 8 milioni di abitanti; dopo 4 anni la popolazione era ridotta a meno della metà. Usare la polvere da sparo contro i pagani era considerato come offrire incenso a Dio.
Oltre alle stragi, le malattie portate dai Conquistadores mieterono più vittime di tutte le guerre e massacri messi assieme. Las Casas denunciò episodi in cui gli spagnoli diedero in pasto agli indio la carne di altri indio trucidati oppure ai cani. Il vescovo dello Yacatan, Diego de Landa, narra di aver visto un grande albero ai rami del quale un capitano aveva impiccato un gran numero di indiane e alle loro caviglie aveva appeso per la gola i loro figlioletti.
Non si contano gli indigeni morti per costruire Città del Messico. Si camminava sui cadaveri, o su mucchi di ossa, per centinaia di km e le nuvole di stormi che venivano a divorarli erano così numerose da oscurare il sole.
Quando le epidemie di vaiolo, peste, morbillo uccidevano decine di milioni di persone i Conquistadores li consideravano un segno voluto da Dio. Molte tribù vennero contagiate di proposito attraverso indumenti o oggetti infettati. L’epidemia di vaiolo che distrusse l’80% della popolazione fu vista come un dono divino. Moltissimi indio si suicidavano dalla disperazione o si lasciavano morire di fame o di inedia. Rifiutavano perfino di accoppiarsi con le loro donne. I neonati morivano subito dopo il parto perché la madri erano debilitate.
Dopo aver sterminato quasi l’intera popolazione, visto che non vi erano più schiavi il vescovo Las Casas propose di importarli da altre parti del mondo.
Le guerre tra gli indiani potevano durare decenni, anche senza vittime e di solito risparmiavano le donne e i bambini, cosa che non fecero i cristiani.
Moltissimi indio morirono in campagne di avvelenamento come attuali derattizzazioni.
L’iscrizione sulla tomba di un puritano del 1600 diceva: “Alla memoria di Lynn S. Love che, nel corso della sua vita uccise 98 indiani che il suo Signore gli aveva destinato. Egli sperava di portare questa cifra a 100 quando si addormentò nella braccia di Gesù”.
Tra il 1500 e il 1900 si calcola che i Conquistadores abbiano causato la morte di 150 milioni di persone (100 milioni a causa di epidemie causate, 50 a causa di massacri e trattamenti disumani).
Dopo pochi decenni dell’arrivo degli inglesi molte popolazioni erano state distrutte fino al 98%. Il pastore Saloman Stoddard nel 1703 chiese al governatore del Massachusetts una grande muti di cani per stanare gli indiani alla maniera degli orsi.
I trattati di pace venivano stipulati con l’idea di violarli, mentre gli indiani non ruppero mai un trattato. Verso il 1850 vengono costruite le riserve indiane, veri e propri campi di concentramento, per rinchiudervi i popoli nativi.
I missionari venivano inviati per aprire varchi con trattati ingannevoli, se gli africani si rifiutavano di cedere arrivavano i Conquistadores. I missionari francescani benedicevano i massacri e fin dal 1500 organizzarono per contro proprio una tratta degli schiavi.
Nel 1650 la Compagnia di Gesù possedeva una quantità di schiavi tale da impressionare gli stessi portoghesi. Allo stesso modo si comportavano i missionari protestanti (metodisti, calvinisti anglicani) i quali per fiaccare gli schiavi ribelli li torturavano in piazza. Alla tratta parteciparono anche Olanda, Svezia e Danimarca. Decine di milioni di schiavi venivano trucidati durante la tratta. Per ogni schiavo catturato vivo altri 9 venivano uccisi nel tentativo di resistere. Solo da Goreè dal 1680 al 1700
vennero esportati 20 milioni di schiavi. Le donne venivano sistematicamente stuprate e chi si opponeva veniva uccisa. I domenicani, i gesuiti e la compagnia di Gesù divennero vere e proprie potenze economiche.
L’Africa era un serbatoio inesauribile di materia prima e gli schiavi potevano essere sfruttati fino all’estremo perché a differenza dei bianchi garantivano almeno dieci anni di duro lavoro, dall’alba al tramonto, a costo zero, se non un pò di cibo, e senza il diritto di poter chiedere nulla. Il prezzo di ogni schiavo in buona salute era di poche centinaia di pesos nelle colonie spagnole e portoghesi. Stenti, torture, fame, sete decimavano sulle navi a vela quei poveri esseri costretti in piccole stive, incatenati, in condizioni igieniche spaventose, stipati come sardine; per recuperare spazio nelle stive venivano fatti sdraiare per terra sul fianco a mò di cucchiaini e a mano a mano che morivano venivano gettati in mare. Tra inenarrabili sofferenze gli schiavi venivano portati nelle Americhe dove venivano smerciati con lauti guadagni per le compagnie schiaviste mentre nei salotti e nelle corti europee si dissertava di cultura, filosofia, diritti, libertà, giustizia. Solo dopo la guerra di secessione Americana, verso il 1800, si cominciò a dare libertà agli schiavi finiti in 10 milioni nelle piantagioni di canna da zucchero, di caffè, nelle miniere, nella coltivazione di cotone, nelle fabbriche e nelle industrie.
Anche nell’Enciclica Fratelli tutti, papa Francesco persevera nel suo appassionato impegno di rifiuto radicale nei confronti della pena di morte, operazione indubbiamente meritevole di essere apprezzata e salutata con gioia da parte di tutti coloro che hanno a cuore la sorte dei diritti umani e, quindi, dell’intera umanità.*
Ciò che disturba non poco, però, in tale operazione, è il palese tentativo di rilettura del passato mirante a far apparire la Chiesa cattolica come sostanzialmente abolizionista fin dalle sue origini, cercando di far scomparire, con un’ abile mossa tattica (in puro stile gesuitico) secoli e secoli non soltanto di mero assenso nei confronti della pena di morte, ma, anzi, di pugnace teorizzazione teologica, nonché di convinta e sistematica applicazione pratica.
Basterebbe, a tale proposito, ricordare che, nell’Antico Testamento, la legge mosaica prevede non meno di 36 peccati gravi punibili tramite lapidazione, rogo, decapitazione, strangolamento, che il libro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene venne messo all’Indice dei libri proibiti, e che lo Stato Pontificio, prima, e lo Stato del Vaticano, poi, hanno ritenuta la pena capitale pienamente legittima: nel primo, impiegata fino al papato di Pio IX (ultima esecuzione per ghigliottina nel luglio del 1870), mentre nel secondo è stata legale fino al 1969 e rimossa dalla Legge fondamentale solo nel 2001.
Ma, per quanto concerne il lontano passato, Francesco si limita a dirci che “Fin dai primi secoli della Chiesa, alcuni si mostrarono chiaramente contrari alla pena capitale” . E, “ad esempio” di ciò, cita le parole di Lattanzio, il quale ebbe a definire “un crimine” la pena di morte (al di là di qualsiasi distinguo) e quelle di Papa Nicola I, il quale esortò a liberare “dalla pena di morte non solo ciascuno degli innocenti, ma anche tutti i colpevoli”, aggiungendo poi un ampio stralcio di una lettera di S. Agostino al giudice cristiano Marcellino (lett.139), in cui si esorta a non fare ricorso alla pena capitale nel processo relativo ai crimini di sangue commessi da alcuni aderenti all’eresia donatista.**
Tutto questo dopo aver evidenziato che papa Giovanni Paolo II aveva espresso “in maniera chiara e ferma” che la pena capitale doveva essere considerata “inadeguata sul piano morale” e “non più necessaria sul piano penale”.***
In questo modo, con un vero e proprio gioco di prestigio, la rivoluzionaria scelta abolizionista attuata da Francesco (concretizzatasi nella revisione dello stesso Catechismo) finisce per essere presentata come cosa in piena sintonia sia con le lontane radici storiche della Chiesa che con il suo coerente sviluppo nel tempo, non risultando più un radicale quanto felice momento di rottura (quale essa incontestabilmente rappresenta), bensì soltanto il punto di approdo di un organico processo corale.
Ma la realtà è ben diversa! Secoli e secoli di sostegno teologico e di ricorso alla pena capitale (nonché alla tortura) non possono essere messi in soffitta da un paio di isolate citazioni di personaggi non certo di primissimo piano, né tantomeno da una lettera (innegabilmente bellissima) di un S. Agostino insolitamente mite e clemente, in cui, tra l’altro, non si condanna affatto la pena di morte in sé, ma soltanto se ne sconsiglia l’impiego esclusivamente in merito ad un ben determinato caso giudiziario. Quello che risulta, pertanto, particolarmente intollerabile e che indigna fortemente è l’indecente operazione volta a far apparire Agostino d’Ippona (fierissimo sostenitore della pena di morte e vero e proprio pilastro e punto di riferimento filosofico-dottrinale per tutti coloro che, nel tempo, si sono schierati a favore di questa) come alfiere e pioniere della causa abolizionista.
Siamo, cioè, costretti a riconoscere che, anche con un papa per tanti aspetti ammirevole come Bergoglio, ci ritroviamo, ancora una volta, di fronte ad una prassi ricorrentemente adottata dalla Chiesa cattolica, costituita da una intenzionale manipolazione della storia, dal tentativo, cioè, di una riscrittura del passato in funzione dei propri “superiori interessi”, al fine di poter sempre apparire come la somma, perenne e fedelissima annunciatrice e portatrice del Bene e del Vero.
Comprensibile, certo, l’imbarazzo di questo papa straordinario nell’assumere una posizione tanto radicalmente in antitesi con quanto predicato e praticato dalla propria amata Chiesa, il cui magistero, “per sapientissima disposizione di Dio”, pretende di essere sempre considerato indissolubilmente connesso e congiunto con la sacra Scrittura e con la sacra Tradizione****. Ma la sua è e resterà una scelta innovatrice e rivoluzionaria (forse la più rivoluzionaria del suo pontificato) e come tale merita di essere intesa ed apprezzata. Per fare questo, però, in maniera onesta (e quindi pienamente credibile) è indispensabile che ci sia, innanzitutto da parte dello stesso papa, coraggiosa chiarezza sul piano della conoscenza storica.
D’altronde, proprio nell’Enciclica Fratelli tutti, Bergoglio, con una lunga autocitazione *****, ci insegna che
«la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate. […] La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono. Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi. […] Ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci “diminuisce” come persone. […] La violenza genera violenza, l’odio genera altro odio, e la morte altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile».
E verità impone che, prima di ogni altra cosa, si riconoscano, da parte ecclesiastica, i propri difetti, i propri limiti, le proprie colpe, le proprie contraddizioni: operazione questa certamente difficile e dolorosa, meritevolmente avviata sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e ripresa più volte da Bergoglio, ma ancora troppo blanda e incompleta . E verità irrinunciabile dovrebbe essere, da parte di papa Francesco, in vista di un futuro di vera giustizia e vera misericordia, il riconoscere e confessare, senza censure, omissioni, minimizzazioni ed equilibrismi, le incommensurabili responsabilità nei confronti dei fiumi di sangue fatti scorrere dalla Chiesa di Roma per tanto tempo, in nome del cosiddetto mantenimento dell'ordine sociale e della preservazione dell'integrità dottrinale. Fiumi di sangue resi possibili da una Chiesa postcostantiniana, guidata dall’etica del compromesso e dominata dalla nefasta influenza del pensiero agostiniano. Da una Chiesa, cioè, rinnegatrice dei principi del Discorso della montagna, traditrice del suo dovere di farsi costruttrice di pace e sostegno dei diseredati. Da una Chiesa fattasi, invece, per innumerevoli volte, spietata persecutrice e sterminatrice di quanti, nel tempo, quegli altissimi principi e valori hanno tentato di ricordare, insegnare, difendere, diffondere e praticare.
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*https://www.flipnews.org/component/k2/e-la-chiesa-disse-no-alla-pena-di-morte.html
** Lettera Enciclica Fratelli tutti del Santo padre Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale, 265. http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html
***ibidem, 263.
****Dei Verbum, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione promulgata dal Concilio Vaticano II, Capitolo II, 10.
*****Discorso nel grande incontro di preghiera per la riconciliazione nazionale, Villavicencio, Colombia, 8 settembre 2017.
In questi giorni difficili, in cui il bombardamento mediatico e le misure governative ci gettano sempre più in una condizione psicologica di ansia e di timore, credo che la “Lettera aperta” redatta da numerosi medici e operatori sanitari del Belgio, inviata, già da diverse settimane, alle autorità e ai media del proprio Paese, possa aiutarci ad assumere una visione più corretta e oggettiva dell’attuale “fenomeno pandemico”.
Si tratta di un documento che andrebbe seriamente e serenamente esaminato, meditato e discusso, evitando arroccamenti aprioristici e abbandonando i tanto diffusi atteggiamenti di rifiuto nei confronti di qualsivoglia voce fuori dal coro. Ed evitando, soprattutto, di lasciarsi fuorviare dalle ben collaudate (e sempre tragicamente efficaci) strategie di delegittimazione del dissenso, che tendono a gettare qualsiasi tentativo di analisi critica e indipendente nel tanto comodo e rassicurante calderone dei cosiddetti negazionismi, acchiappanuvolismi, irresponsabilismi, ecc.
Quello che colpisce, in particolare, del documento, è la fortissima corrispondenza fra quanto viene riscontrato accadere, a livello mediatico-governativo, in terra belga con quanto possiamo riscontrare quotidianamente nel nostro Paese, soprattutto per quanto concerne l’assenza di un corretto, rispettoso e pluralistico confronto fra diversità di opinioni.
Pur invitando i nostri amici e simpatizzanti alla lettura integrale dell’interessante documento, ne propongo qui una schematizzazione sintetica, avvalendomi spesso di ampi e significativi stralci del testo in traduzione italiana.
La “Lettera aperta” risulta firmata, al momento, da 611 medici, 1.928 professionisti della salute con formazione medica e 14.248 cittadini.
(https://docs4opendebate.be/en/openletter/;http://omgekeerdelockdown.simplesite.com/?fbclid=IwAR0sQJmD6tyBo1jOgMrVnGJCDQQDYnvqdFdnWOViGhrmG_nkrZTZKgJLDzc)
Non intendiamo usare i nostri pazienti come cavie.”
“ Le opinioni alternative sono state ignorate o ridicolizzate. Non abbiamo assistito a dibattiti aperti sui media, dove si potrebbero esprimere opinioni diverse.”
Fonte: https://docs4opendebate.be/en/open-letter/
In tutta l’Unione europea, anche per via dell’inasprimento rozzo ed esasperato del dibattito relativo ai flussi migratori, le minoranze religiose hanno continuato, in questi ultimi anni, ad essere spesso bersaglio di odio e di fenomeni di discriminazione. Fra le minoranze colpite, emerge in maniera lampante la situazione di quelle musulmane, verso cui si è andato focalizzando, in molti ambienti, un diffuso sentimento di diffidenza e di sospetto, quando non di vero e proprio rifiuto.
In un sondaggio dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (2018) si rileva che 4 musulmani su 10 si sono sentiti discriminati in modo ricorrente nei cinque anni precedenti e che il fenomeno dell’islamofobia ha interessato più fronti, dalla ricerca di casa e di lavoro all’ambito educativo. Il 27% degli intervistati, inoltre, ha dichiarato di aver subito aggressioni che, 9 volte su 10, non sono state denunciate alle forze dell’ordine né ad altre autorità.
Soprattutto in seguito alle tragedie dell’11 settembre 2001, la dilagante (spesso esibita) ignoranza, con la relativa incapacità o indisponibilità ad operare opportune ed adeguate distinzioni all’interno dello sconfinato universo islamico (tra differenti orientamenti dottrinali ed ideologici, tra arabi e islam, tra le diverse condizioni dei paesi arabi, nonché tra questi e i paesi non arabi ma a maggioranza musulmana, tra governanti e governati, ecc.), ha fatto nascere o rinascere terrori, rigide chiusure e atteggiamenti di disprezzo nei confronti di coloro che professano l’islam.
In vista di una convivenza più aperta, armoniosa e collaborativa, la strada maestra da percorrere appare essere, oggi più che mai, quella di una corretta conoscenza e di una educazione capace di bonificare la mente dalle innumerevoli immagini deformate e deformanti dell’Altro.
In questa direzione, si è nuovamente ed encomiabilmente mossa, con il suo ultimo lavoro, l’islamologa Viviana Isernia*, con la quale è nata la conversazione che qui riportiamo.
- Il tuo ultimo lavoro presenta una impostazione di carattere educativo molto accentuato. Viene quasi da pensare che sia stato progettato e realizzato come una sorta di applicazione pratica in ambito didattico del tuo precedente Mille e un volto dell'Islam. **
E' così o i due libri vanno intesi come del tutto svincolati l'uno dall'altro?
In realtà sì, lo vedo come il prosieguo di Mille e un volto dell'Islam che è prevalentemente un saggio che può essere utilizzato per approfondire alcune nozioni rilevanti in due o tre attività presenti in questo manuale educativo. Il fine di entrambi è di abbattere quegli stereotipi e pregiudizi che nella nostra società colpiscono persone di fede musulmana.
Ho ricevuto alcune critiche sul “pensare solo ai musulmani e non alla fobia nei confronti di altre religione in primis quella cristiana”. Così come una studiosa di piante da frutto difficilmente scriverebbe un libro sui funghi velenosi, io da islamista non mi cimenterei su un tema diverso dal mondo arabo-islamico, senza opportuni studi.
Però, come suggerito nella legenda di alcune attività presenti nel manuale Allah Akbar***, un altro obiettivo di questo manuale è sensibilizzare il lettore a saper accettare chi ha una diversa cultura, una diversa lingua, una diversa religione e una attività presente nel manuale può essere strutturata per esplorare il diritto di libertà di qualsiasi altra religione.
- Quanto ti appare grave il problema dell'islamofobia nel mondo giovanile? E quali fattori ritieni costituiscano le cause di maggior rilievo del fenomeno?
Il problema dell'islamofobia sta crescendo molto a causa soprattutto dell'errato uso dei socialmedia e il proliferare delle fake news e i primi utenti di questi attuali mezzi di comunicazione sono sì sicuramente i giovani, i quali senza una guida su determinati temi condividono le notizie senza accertarsi della loro veridicità o meno. Ma il fenomeno non ha età: nel 2019 la comunità musulmana è stato il gruppo religioso maggiormente bersagliato dal discorso politico italiano online (da parte dei candidati e dai loro followers) ed anche oggetto di molte aggressioni per strada o su mezzi pubblici a danno di donne musulmane - anche italiane - da parte di altre donne o uomini adulti.
- Ti sembra che nel mondo scolastico il problema venga adeguatamente avvertito e, almeno in parte, anche affrontato?
Dalla mia esperienza nel mondo scolastico ritengo che in buona parte venga affrontato in classi con alta presenza di giovani stranieri e/o giovani musulmani o grazie alla diffusione di svariati progetti educativi contro gli stereotipi e pregiudizi proposti da enti associativi esterni.
Le vittime dell'islamofobia possono essere ancora tante: prese in giro a causa del hijab (velo islamico), chiamate con nomignoli e soprannomi a causa della religione, minacciate perché si vuole seguire la fede islamica; queste vittime però non sono solo a scuola, quindi spero che una maggiore attenzione nella lotta contro i pregiudizi religiosi cresca in tutti gli ambienti frequentati dai giovani.
- Pensi che un libro come il tuo possa venire agevolmente utilizzato all'interno dell'insegnamento curricolare? Nell'ambito di “Cittadinanza e Costituzione”, forse, o della neoresuscitata Educazione Civica?
All'interno dell'insegnamento curricolare certamente può essere un buono strumento per la materia di Educazione Civica o Cittadinanza e Costituzione, soprattutto perché l'obiettivo di queste materie, secondo il nuovo Decreto Ministeriale, è di portare gli studenti e le studentesse alla consapevolezza che i principi di solidarietà, uguaglianza e rispetto della diversità - quindi anche quella religiosa - sono i pilastri che sorreggono la convivenza civile e favoriscono la costruzione di un futuro equo e sostenibile. Ma non si può limitare solo a queste materie. Potrebbe essere utile durante le lezioni di insegnamento della religione cattolica o se si affronta la Storia delle Religioni, in Storia o Geografia se si studia la storia di determinati Paesi arabi; o ancora può essere sperimentato durante lezioni di lingua straniera. E, viste le disposizioni anti-Covid, alcune attività potrebbero essere prese come spunto di attività all'aperto durante l'Educazione Fisica.
Il libro, inoltre, essendo un manuale di educazione, è pensato per essere utilizzato in qualsiasi contesto educativo anche extrascolastico, ma soprattutto – e ci tengo a sottolinearlo – non è rivolto ad un target di educatori precisi: le attività presenti nel libro vengono proposte con una legenda che permette di valutare durata, numero dei partecipanti, materiali e svolgimento della stessa e accorgimenti di facilitazione. I giovani stessi, dopo aver appreso tali attività con la facilitazione di un educatore, potranno sperimentarle con i loro coetanei …
- Il tuo lavoro ha ricevuto l'importante Patrocinio da parte di Amnesty International. Questo significherà anche che Amnesty ne farà uso all'interno dei suoi progetti educativi (EDU)?
Amnesty Italia lo ha inserito in alcuni progetti. In particolare, voglio menzionare la formazione per operatori e operatrici di Ong, all'interno del progetto europeo “Hatemeter” (Hate speech tool for monitoring, analysing and tackling Anti-Muslim hatred online) coordinato dall’Università di Trento e con cui Amnesty International ha collaborato insieme a Fondazione Bruno Kessler, Teesside University (UK), University Toulouse1 Capitole (FR), Stop Hate UK (UK) e Collectif contre l’islamophobie en France (FR).
Poi verrà inserito nel progetto denominato “Hatemeter 2”, il quale prevede un corso per insegnanti e laboratori per studenti sui discorsi d'odio, con particolare attenzione all'islamofobia e alla xenofobia.
Infine, è stato inserito nel Catalogo “Educare ai diritti umani - 2020/2021”, consultabile online al seguente link: https://www.amnesty.it/entra-in-azione/progetti-educativi/ e che arriverà nelle scuole grazie agli educatori e alle educatrici di Amnesty International presenti su tutto il territorio nazionale.
*Viviana Isernia ha conseguito un corso di diploma universitario presso l'IBLV in Tunisia e due lauree in Italia, rispettivamente in “Arabo Moderno”, “Filologie, Storia e Culture dei Paesi Islamici e del Mediterraneo” e “Traduzione Araba”. Da diversi anni collabora come traduttrice di lingua araba per tribunali, agenzie di traduzione italiane ed estere e privati.
Ha pubblicato presso il Centro di Cultura Italia-Asia (Collana Quaderni Asiatici) articoli sulla letteratura e cultura arabo-islamica; infine con Edizione Efesto nel 2017 ha pubblicato “Mille e un volto dell'Islām” (Collana Theoretika).
E' attivista volontaria di Amnesty International dal 2005, in cui ha ricoperto diversi ruoli e da circa dieci anni si occupa della educazione ai diritti umani per ogni ordine e grado, tenendosi in continuo aggiornamento sulle metodologie partecipative. Nel 2019 ha partecipato al HRE-Load COMPASS National and Regional Training Courses in Human Rights Education (NRTC’s) promosso da APICE in partenariato con Redu Cifa, Giosef Italy, GCE e Amnesty International, Hreyn e NO HATE Speech Movement Italia.
Nel 2020 fonda, insieme ad altri educatori, una Associazione di Promozione Sociale dedita alla educazione non formale e informale sui temi ambientali e sviluppo sostenibile.
I settori di suo maggiore interesse sono l'agricoltura, la lingua e calligrafia araba, la lingua esperanto, i diritti umani.
** https://www.flipnews.org/component/k2/mille-e-un-volto-dell-islam-una-guida-preziosa-contro-i-diffusi-travisamenti-e-banalizzazioni.html
***Viviana Isernia, Allak Akbar- Manuale di educazione ai diritti umani contro l’islamofobia, Edizioni Efesto, Roma 2020
Marcia della Pace Perugia-Assisi |
Il 24 settembre, il Presidente del Parlamento Europeo, on. David Sassoli, ha voluto rendere omaggio alla figura di Aldo Capitini, ricordando la Marcia della Pace Perugia-Assisi del 24 settembre del 1961 ed evitando encomiabilmente la vuota retorica e servendosi di parole ben ragionate, espressione di conoscenza approfondita e corretta.
Una iniziativa così merita di essere sottolineata con vera gioia.
Aldo Capitini, infatti, intellettuale antifascista e anticlericale fuori da ogni coro e da ogni parrocchia, dalla filosofia convintamente nonviolenta, pacifista e animalista, continua, nel nostro Paese, ad essere tristemente trascurato quando non del tutto dimenticato. Il suo pensiero, straordinariamente acuto e preveggente, costantemente accompagnato da inesausto impegno civile e pedagogico, dovrebbe invece essere considerato come un prezioso quanto inesauribile serbatoio di riflessione critica e di proposte operative, sia in ambito politico e civile che in ambito etico e sociale.
Questo il testo diffuso da David Sassoli:
"Il 24 di settembre cadeva di domenica, quando Aldo Capitini, con un seguito di coraggiose e coraggiosi cittadini, diede vita sulla strada che conduce da Perugia ad Assisi alla prima Marcia della Pace e per la fratellanza dei popoli nel 1961.
Brillante filosofo che sotto il regime fascista aveva conosciuto l'isolamento, l'ostracismo e la galera, Capitini con l'iniziativa visionaria della Marcia testimoniò che "il pacifismo, la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta
nelle solidarietà così come nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte".
Aldo Capitini
Un'intuizione formidabile, così come l'utilizzo, per la prima volta in Italia, della Bandiera della Pace con i colori dell'arcobaleno, oggi conservata presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni a Perugia, con i colori un po' sbiaditi dal tempo.
Dopo il grandissimo successo, molti enti ed associazioni gli chiesero di ripetere l'iniziativa annualmente. Capitini rifiutò sempre, per evitare il rischio che la Marcia, e di conseguenza lo stesso ideale di Pace, divenissero ritualità e stanca ricorrenza.
Oggi la responsabilità dell'eredità di quella visione di Pace la viviamo noi. Sta a noi tentare di esserne all'altezza, con uno sguardo sempre aperto verso il futuro che abbiamo dinanzi; non dimenticando, mai, il passato che l'ha reso possibile."
Mentre la situazione relativa alle misure anti-covid nel nostro paese continua a presentare aspetti contraddittori e anche assai poco convincenti, l’ultimo Rapporto di Save the Children ci permette di entrare in possesso di un quadro planetario estremamente preoccupante in merito alle conseguenze della dichiarata pandemia e ancor di più delle politiche intraprese per fronteggiarla.
In chiara dissonanza con la nota fiduciosa con cui si chiudeva un comunicato risalente all’inizio di aprile, in cui si confidava nell’eventualità di un opportuno impegno governativo a favore di sistemi socio-economici più inclusivi, l’attuale Rapporto*, risultato di una vasta indagine condotta in 37 Paesi, attraverso le esperienze dirette di oltre 25 mila bambini e adulti coinvolti nei propri programmi di intervento, ci parla di una situazione definita, senza esitazione alcuna, come catastrofica, contraddistinta da una vera e propria“generazione perduta di bambini”, conseguenza diretta di una gravissima intensificazione delle diseguaglianze già esistenti.
Di fronte a quanto potrebbe verificarsi nei prossimi anni, il tanto sperato raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile si presenta sempre più come qualcosa di puramente retorico:
a livello mondiale, soltanto per l’anno in corso, ben 117 milioni di bambini in più potrebbero cadere in povertà; 9,7 milioni di minori stanno rischiando di non riuscire a tornare mai più a scuola e 80 milioni di bambini rischiano di non poter ricevere vaccini essenziali. A livello nazionale, invece, entro la fine dell’anno, 1 milione di minori in più potrebbero scivolare nella povertà assoluta, il doppio rispetto al 2019.
Nei 37 Paesi del mondo esaminati, tre famiglie su 4 hanno dichiarato di aver perso parte del proprio reddito, 2 su 3 non riescono a nutrire adeguatamente i propri figli e 9 su 10 non hanno possibilità di accesso alle cure mediche. I nuclei di maggiore povertà sono arrivati a subire diminuzioni di reddito superiori all’80% . Particolarmente gravi e allarmanti risultano le conseguenze in ambito educativo, con 8 bambini su 10 che, con la chiusura delle scuole, hanno finito per essere privati di qualsiasi forma di apprendimento.
Inoltre, i minori privati della possibilità di studiare si sono ritrovati ancora più esposti al rischio di violenze, anche all’interno delle proprie case dove le violenze risultano più che raddoppiate, e molti si sono trovati costretti a lavorare per contribuire al bilancio familiare, cosa che ha fatto ulteriormente aumentare le diseguaglianze di genere:
“Una delle conseguenze più drammatiche è che molti bambini non torneranno più a scuola, - ha affermato Daniela Fatarella, Direttrice generale di Save the Children - perché la povertà estrema nella quale sono cadute le famiglie li esporrà al lavoro minorile e al rischio di abusi e violenze. Un rischio ancora maggiore per le ragazze più giovani, la cui unica possibilità rischia di essere quella di sposare un uomo molto più grande di loro e fare dei bambini quando loro stesse sono ancora delle bambine”.
L’impennata dei prezzi relativi ai generi alimentari e soprattutto la perdita di risorse economiche sta gettando numerose famiglie in una condizione di insicurezza alimentare ai limiti della sopravvivenza: quasi 2 famiglie su 3 (62%) tra quelle coinvolte nell’indagine hanno infatti manifestato difficoltà nel reperimento di cibo nutriente, come carne, latte, cereali, frutta e verdura. Situazione questa che riguarda particolarmente bambini e famiglie che vivono in aree urbane, in cui vive 1 bambino su 3 tra coloro che sono colpiti da malnutrizione cronica.
Non certo ultima per gravità risulta poi la questione relativa alle difficoltà per quanto concerne l’accesso alle cure mediche e ai medicinali: quasi 9 famiglie su 10 tra quelle intervistate (89%) sta incontrando notevoli ostacoli, e la percentuale arriva anche al 95% tra le famiglie con bambini con problemi di salute cronici e al 96% tra quelle con minori con disabilità, a causa della chiusura delle strutture o della sospensione di molti servizi. Ovviamente, nella maggioranza dei casi, il principale ostacolo all’accesso alle cure è di natura economica: il 93% delle famiglie che ha perso più della metà del proprio reddito non riesce ad accedere ai servizi sanitari, mentre quasi la metà delle famiglie in condizioni economiche disagiate (45%) non ha i soldi per pagare le medicine.
“Il mondo - ha detto ancora Daniela Fatarella - deve agire in fretta per proteggere un'intera generazione di bambini dalla perdita di un futuro sano e stabile. Occorre intensificare gli sforzi per cancellare il debito dei Paesi a basso reddito e degli Stati più fragili, in modo che possano investire più facilmente nelle vite e nel futuro dei loro bambini, i cui bisogni e le cui opinioni devono essere al centro di qualsiasi piano per ricostruire ciò che il mondo ha perso negli ultimi mesi”.
*(Protect a generation: https://s3.savethechildren.it/public/files/uploads/pubblicazioni/protect-generation-impact-covid-19-childrens-lives.pdf )
Già nell’oramai lontanissimo mese di marzo, manifestammo la sensazione che la vicenda del supervirus maleficus avrebbe potuto modificare in maniera forse irreversibile i rapporti fra cittadino e Stato, in modo analogo a quanto accaduto con la tragedia dell’11 settembre.*
Quanto verificatosi in questi ultimi mesi ha purtroppo ampiamente confermata (nonostante i dovuti distinguo) la legittimità di un simile accostamento fra le due pur tanto diverse vicende. E ciò perché, in entrambi i casi, indipendentemente dai numerosi lati oscuri relativi alle cause reali e dai “sospetti di occulte regie”, una cosa appare indubitabile: molte istituzioni governative, sfruttando la eccezionale debolezza venutasi a creare nelle collettività terrorizzate, hanno finito, in nome di interessi “superiori”, per accentuare e rafforzare le proprie inclinazioni autoritarie, esercitando una ampia gamma di azioni arbitrarie e antidemocratiche e, perciò, palesemente lesive dei diritti umani.
E’ quanto si è verificato e si continua a verificare, in particolare, ai danni dei difensori dei diritti umani, ovverosia di persone coraggiosamente impegnate, individualmente o in gruppo, per la difesa e la promozione dei diritti umani in modo nonviolento, raccogliendo e diffondendo informazioni, sostenendo le vittime di violazioni dei diritti umani, denunciando e combattendo l’impunità, favorendo scelte ed iniziative diplomatiche, politiche, culturali ed educative a favore dei diritti umani.
Nonostante, infatti, l’Alto commissariato Onu per i diritti umani, già lo scorso 25 marzo, abbia richiesto a tutti gli stati, in risposta al problema Covid-19, il rilascio di “ogni persona detenuta senza una sufficiente motivazione giuridica, anche dei prigionieri politici e di coloro che sono detenuti per le proprie posizioni critiche o dissenzienti“, molti paesi hanno escluso i difensori dei diritti umani dalle misure di decongestione delle prigioni e di altri luoghi di detenzione, proseguendo, allo stesso tempo, con gli arresti di attivisti, giornalisti e oppositori.
Secondo le ricerche di Amnesty International, si sarebbero verificate aggressioni nei confronti dei difensori dei diritti umani, durante la pandemia, almeno in 46 paesi, tra cui Egitto, India, Iran e Turchia, paesi in cui i prigionieri di coscienza sono stati abbandonati in terribili condizioni, nonostante i piani di rilascio di detenuti abbondantemente quanto ipocritamente pubblicizzati.
“Il Covid-19 è stato un’ulteriore punizione per i difensori dei diritti umani che sono detenuti ingiustamente ed è stato anche utilizzato come pretesto per ulteriori aggressioni, accuse e persino uccisioni“, ha dichiarato in una nota stampa Lisa Maracani, ricercatrice di Amnesty International sui difensori dei diritti umani.
“L’esclusione dei difensori dei diritti umani dai provvedimenti di rilascio mette in luce la natura politica della loro detenzione. In Turchia, ad esempio, giornalisti, avvocati, attivisti e oppositori politici, in regime di detenzione preventiva per accuse infondate, restano in carcere nonostante le misure governative che hanno permesso da aprile il rilascio di oltre 100.000 persone. È evidente che il governo turco ancora teme più le critiche che la pandemia“, ha aggiunto Lisa Maracani.
In India, molti studenti e attivisti che hanno preso parte alle proteste pacifiche contro la discriminatoria legge indiana sulla cittadinanza continuano a essere detenuti ingiustamente.
In Egitto, il governo non ha rilasciato i difensori dei diritti umani detenuti esclusivamente per aver espresso le proprie opinioni, né migliaia di altri detenuti in regime di detenzione preventiva, molti dei quali affrontano accuse di “terrorismo” eccessivamente vaghe con la preoccupazione di violazioni di un equo processo.
In Iran, nonostante le autorità abbiano annunciato di aver rilasciato provvisoriamente 85.000 persone detenute, molti difensori dei diritti umani continuano a essere detenuti in condizioni disastrose sulla base di accuse di matrice politica.
In numerosi paesi dove le carceri sono già gravemente sovraffollate, i governi hanno continuato ad arrestare difensori dei diritti umani servendosi di accuse false, mettendo a rischio ancora più persone.
In Azerbaigian, ad esempio, il governo ha dato vita a una nuova ondata di arresti e procedimenti nei confronti di decine di attivisti politici, giornalisti e difensori dei diritti umani, spesso in risposta alle loro contestazioni delle modalità di gestione della pandemia da parte del governo. In Tunisia, Marocco, Nigeria, Zimbabwe e Angola, si sarebbero verificati altri arresti di difensori dei diritti umani .
“ La cooperazione internazionale - afferma sempre la Maracani - deve provvedere a esercitare la propria pressione sui governi affinché rilascino le persone detenute esclusivamente per aver esercitato i propri diritti umani in maniera pacifica e che adesso rischiano seriamente di contrarre il Covid-19”.
Bisogna tener presente, poi, che le limitazioni agli spostamenti imposte dal lockdown hanno finito per mettere a repentaglio la stessa vita di molti difensori dei diritti umani, rendendoli obiettivi ancor più facili per coloro che vogliono mettere a tacere le loro voci. In Colombia e Messico, ad esempio, le misure di protezione della polizia sono state ridotte.
In Honduras, merita una particolare segnalazione la sparizione forzata di cinque giovani, quattro dei quali attivisti dell’Organizzazione fraterna nera honduregna – Ofraneh. Sono stati portati via dalle proprie abitazioni il 18 luglio da uomini in uniforme della polizia e da allora scomparsi.
In Colombia, l’organizzazione della società civile Indepaz ha denunciato 166 uccisioni durante i primi sei mesi del 2020. Tra questi, figura Carlota Isabel Salinas Pérez, attivista dei diritti delle donne uccisa all’esterno della sua abitazione a marzo. Carlota era un’esponente molto rappresentativa della comunità e il giorno in cui è stata uccisa si stava occupando di una raccolta per famiglie bisognose.
“Il lavoro di coloro che difendono i diritti umani è fondamentale ora più che mai nella lotta per un equo accesso alla sanità, al cibo e all’alloggio e per dare informazioni alle persone sul virus e su come proteggersi. I governi che sfruttano la crisi per attaccare i difensori dei diritti umani dovrebbero sapere di essere strettamente osservati“, ha dichiarato Lisa Maracani.
E’ fondamentale, infatti, che i governi offrano protezione adeguata ai difensori dei diritti umani, facendo sì che l’allarme pandemico non venga odiosamente sfruttato per zittirli o, addirittura, eliminarli.
“Invece di lasciare che i difensori dei diritti umani realizzino le proprie attività per affrontare la pandemia e per prepararsi a una ripresa equa, gli stati stanno attuando misure controproducenti per mettere a tacere presunti oppositori“, ha commentato Lisa Maracani.
Per maggiori informazioni, è possibile scaricare gratuitamente il recente rapporto di Amnesty International (https://www.amnesty.it/il-covid-19-entra-nelle-carceri-liberare-e-proteggere-i-difensori-dei-diritti-umani/ ), in cui vengono documentati in maniera inequivocabile attacchi nei confronti di difensori dei diritti umani, in 46 paesi, mostrando, fra l’altro, come le normative in materia di “fake news” e una maggiore intolleranza alle contestazioni abbiano portato a nuovi giri di vite in tutto il mondo, anche nei confronti dei segnalatori di illeciti nel settore sanitario e di coloro che mettono in luce l’inadeguatezza delle risposte alla pandemia.
Amnesty International ha identificato 131 persone impegnate nella difesa dei diritti umani in tutto il mondo che sono state aggredite, perseguite, uccise o detenute con pretesti relativi, in un modo o nell’altro, al Covid-19.
Inutile dire che, in questo come in tanti altri casi, è altamente probabile che questo dato rappresenti soltanto la punta dell’iceberg.
*https://www.flipnews.org/component/k2/il-sorriso-che-argina-la-paura.html
Massimo Tomaselli |
Il Potere trasformativo dell’individuo, inteso come processo di miglioramento che restituisca dignità, non è soltanto un ideale ma una opportunità per chi nel “tunnel” della propria esistenza, si è ritrovato a fare i conti con il minimo delle possibilità, risorse, energie…
Troppo spesso i ragazzi provenienti da famiglie sbagliate e multi-problematiche, si sono trovati soli e condizionati da contesti di disperazione, miseria, non solo materiale ma anche e più spesso culturale.
La cooperativa "Il Futuro Quadrifoglio” offre loro una seconda opportunità, quella di Ri-pensare, Ri-progettare una strada percorribile nella realizzazione personale, che fino ad ora era stata negata…
L’Istat ha stimato che sono 6,2 milioni gli utilizzatori di cannabis, un milione quelli che usano cocaina, 285mila gli eroinomanie 590mila i drogati ‘chimici’ di ecstasy, Lsd, amfetamine. Da 27.718 del 2015 arriviamo ai 38.613 del 2017, +39%, e la tendenza è ancora in aumento. Nei dati rilevati, troviamo che il numero delle vittime nell’uso di droga, fra gli adulti è raddoppiato, fra i minori è quasi quadruplicato. Dal 2016 sono aumentati i decessicorrelati alla droga, soprattutto correlati al consumo di eroina. Il primo contatto con le sostanze per 1 ragazzo su 2 è avvenuto entro i 14 anni.
A fronte di queste evidenze statistiche, troviamo in controtendenza la realtà della Cooperativa Sociale “il Futuro Quadrifoglio” che si trova vicino Roma in una tenuta affacciata sul mare ad Ardea. Arriviamo presso il Centro e la prima impressione che ne riceviamo è quella di totale armonia e bellezza. Mi viene spiegato in seguito, quanto importante sia anche l’attenzione agli ambienti che ospitano queste persone, che siano in armonia con la bellezza e la natura, è un requisito terapeutico. Entriamo ed è infatti una inaspettata esplosione di verde, di alberi e siepi, tutte ben curate.
La Cooperativa nasce con lo scopo di fornire un servizio di assistenza socio-sanitario a soggetti affetti da disagi psicosociali, dipendenze di vario tipo in regime di pena detentiva alternativa e detenuti tossicodipendenti. Il lavoro che si svolge qui, consente di poter mettere mano nuovamente ad un proprio Progetto Personale, ad una nuova consapevole opportunità di vita.
Accogliendo e prendendo in carico il background di ciascuno, si aiuta l’utente a individuare le proprie capacità mediante il sostegno e lo sviluppo del proprio potenziale, specifico quanto unico.
L'equipe da noi incontrata è di tipo multidisciplinare, costituita da psicologi, educatori, assistenti sociali e operatori sanitari che, con la loro professionalità, sono in grado di garantire ai richiedenti il supporto necessario per il pieno raggiungimento degli obiettivi prefissati.
I fautori di questa iniziativa Massimo Tomaselli e Giada Pacifici, psicologa, ci anticipano che lavorano anche con il prezioso supporto di un’equipe multidisciplinare e degli
Giada Pacifici |
operatori di settore. Spendono la loro vita per aiutare i più deboli e il riscontro positivo dell’iniziativa li ripaga del loro impegno umano e professionale.
Massimo ci dice inoltre che il Progetto, è stato valutato e misurato ed il positivo riscontro nel conseguimento dei risultati, va da un minimo di 60% fino ad arrivare in alcuni casi anche ad un recupero totale.
Dottoressa Pacifici, quali sono le problematiche di dipendenza che si trova ad affrontare nel suo lavoro?
La dipendenza è la parte su cui lavorare perché la dipendenza parte dal presupposto che la sostanza che prima veniva assunta dal tossicodipendente, venga in qualche modo sostituita. Spesso la sostanza stessa viene assunta per coprire il vuoto di un legame affettivo di tipo problematico. Il modello educazionale acquisito dalla famiglia di origine viene inoltre di solito reiterato, creando così ulteriori problematiche anche ai figli. Pertanto, il supporto psicologico è finalizzato all'ascolto dei bisogni dell'utente, allo sviluppo della responsabilità individuale e alla maturazione psico-emotiva mediante l'individuazione di modalità affettive, emotive e relazionali più adeguate.
È previsto uno specifico programma?
Certamente Si, siamo organizzati con un programma di "dimissione protetta" ovvero un trattamento educativo-riabilitativo, specifico e individualizzato, con la partecipazione ad attività strutturate attraverso le quali, progressivamente, migliorare la qualità della vita dell'utente in carico, potenziandone le abilità presenti e favorendo lo sviluppo di competenze sociali, culturali e lavorative.
Vi sono anche attività ludico-ricreative che possono aiutare in questo percorso?
Si, fra le attività strutturate, sono previsti dei laboratori di tipo espressivo-creativo che lavorano potenziando la capacità espressiva e specifica della persona, in un contesto di crescita educativa, che favorisca il desiderio ed il bisogno di esprimere sé stessi, dando così libero spazio al proprio mondo interiore, alle proprie emozioni ed ai propri pensieri.
Insieme agli educatori, sono state condivise attività di pittura creativa, di realizzazione di oggetti vari sia in legno che ornamentali. Stiamo riservando ancora ulteriori nuovi spazi all’interno del Centro, dedicati ad iniziative comunitarie e di socialità, una per tutte… ad esempio cucinare insieme, collaborare pertanto per un fine comune di tipo creativo e conviviale.
Massimo Tomaselli, quando e come nasce questo progetto? Cosa ci racconta in merito?
È un Progetto questo che ha tantissimi anni, è stato a lungo pensato e desiderato e finalmente si ha successo. Non è la solita comunità, qui lavoriamo anche con il contesto specifico di vita del detenuto, con la sua famiglia. L’utente qui ha la possibilità di ridefinire il proprio futuro, un’altra opportunità, una seconda chance di vita. Abbiamo un recupero delle tossicodipendenze che si attesta attualmente su una percentuale che va dal 60% fino al 100% in alcuni casi, ci dice con orgoglio Massimo che poi prosegue” amo definire il nostro Centro “il Futuro Quadrifoglio” quasi una struttura a “carcere aperto”, considerando che vi alloggiano soprattutto detenuti nel loro personale quanto delicato lavoro di recupero e piuttosto che isolare, punire, emarginare il soggetto, come avviene nelle carceri, si lavora in controtendenza, ovvero si creano nuove connessioni, Reti di significato, connessioni con i loro contesti, gli affetti, le aspirazioni di vita. Si pone cioè il soggetto di nuovo al centro della propria esistenza.”
Massimo ci parla poi delle specifiche problematiche all’interno del contesto familiare d’origine, c’è infatti nel più dei casi una vera e propria disconnessione tra i componenti familiari ed forte sfilacciamento del loro tessuto sociale. Un altro problema sono le evidenti difficoltà che presentano i figli dei detenuti all’interno del contesto scolastico di riferimento… Gli interventi dell’equipe specialistica del “il Futuro Quadrifoglio” sono quindi anche di mediazione tra tutti i soggetti coinvolti.
Sono inoltre importanti, e ben definite, le regole e le strutture di contenimento e sviluppo del proprio Sé, che probabilmente non si sono mai ricevute nell’infanzia all’interno delle famiglie di provenienza, di tipo multi-problematico. È infatti, fondamentale, imparare un Nuovo Modo di essere sé stessi insieme agli altri. Ecco quindi che si ritrova la capacità di condividere, di imparare un linguaggio che sia anche rispettoso e congruo all’ambiente in cui si vive.
Massimo Tomaselli, parliamo nello specifico dell’organizzazione e degli interventi messi in atto.
Abbiamo previsto delle abitazioni residenziali di pronta accoglienza per detenuti concepite in modo ‘'trattamentale'', in esse il detenuto può ritrovare la propria dignità di persona umana, nel senso che ha degli spazi personali a disposizione, chiari, luminosi, e che in qualche modo lo "ristrutturano* dentro e dove può organizzarsi anche per ricevere i suoi familiari. Infatti, è frequente che si organizzino anche pranzi insieme ai bambini degli ex detenuti che sono in visita dai genitori, ad esempio nei fine settimana.
Il programma prevede inoltre una collaborazione con il S.E.R.T. (struttura della ASL che si occupa dei tossicodipendenti) al fine di concordare, con la nostra equipe, un programma che accompagni all'esterno i tossicodipendenti/detenuti.
Si può fruire anche dell’assistenza socio-sanitaria, presso il proprio domicilio, che preveda la partecipazione ad attività strutturate, volte a favorire un processo pedagogico e curativo suscettibile di modificare in senso socialmente adeguato il comportamento del soggetto, tale da rendere favorevole la prognosi di un reinserimento sociale.
Sono previste anche “uscite protette” per i detenuti, ovvero in sicurezza, effettuate con gli operatori specializzati del Centro. E in fine è disponibile anche un “sostegno telefonico”, organizzato in fasce orarie concordate, con lo scopo di fornire supporto in situazioni di forte stress emotivo.
La passione in questo lavoro guida le azioni di ogni giorno, l’obiettivo è quello di reinserire il soggetto che vive nel buio del suo tunnel senza uscita, in un nuovo possibile e radioso futuro.
Non ci rimane che ringraziare Giada e Massimo, per la loro collaborazione, nonché la disponibilità a mostrarci questa splendida e promettente realtà.
per info: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Nello scorso maggio, per i Quaderni Satyagraha prodotti dal Centro Gandhi di Pisa, è uscito, a cura di Maria Elena Bertoli, un volume di indubbia attualità contenente vari pregevoli saggi, dal titolo La nonviolenza al tempo del coronavirus. Nell’esaminarlo, subito, mi hanno particolarmente colpito l’originalità e l’incisività delle tesi proposte da Francesco Pistolato* nel suo La necessità di un nuovo paradigma nei Peace Studies** .
In esso, partendo dall’antica concezione mistico-teosofica (rivisitata e brillantemente corroborata in sede scientifica) secondo cui tutti i prodotti della psiche rappresenterebbero energie vere e proprie capaci di influire oggettivamente sul mondo circostante, si sostiene l’urgenza di passare, nell’ambito del pensiero e della ricerca dell’attuale pacifismo, da un paradigma incentrato prevalentemente su cause materiali dei conflitti ad uno che conferisca centrale rilevanza alle cause energetiche. Ciò perché la dimensione del pensare e del sentire non potrebbe più essere ritenuta come qualcosa di semplicemente “astratto”: pensieri, emozioni e sentimenti, infatti, di natura agapica ed amorevole generano inevitabilmente una realtà fenomenica di pace, mentre, in caso contrario, innescano e alimentano, altrettanto inevitabilmente, fenomeni di tensione e conflittualità.
Alla luce di tale tesi, e rifacendosi esplicitamente al pensiero e all’opera di Gandhi, Francesco Pistolato ci invita ad intendere il principio etico del trasformare se stessi in vista della trasformazione del mondo non più semplicemente come un insegnamento di impronta nobilmente ascetica, bensì come un progetto strategico rigorosamente logico e concretamente pragmatico.
Basandosi, poi, soprattutto su un’affermazione di Max Planck, si arriva anche a postulare che tutta l’energia cosmica non sia mera forza cieca, ma sottenda una coscienza immanente, che i Peace Studies dovrebbero, pertanto, seriamente cominciare a rendere oggetto di indagine.
Una coerente presa in considerazione dell'insegnamento di Gandhi, quindi, alla luce anche della scienza d'avanguardia contemporanea, dovrebbe, secondo Pistolato, poter favorire un'autentica “rivoluzione copernicana” nel campo del dibattito pacifista-nonviolento e nell'approccio individuale di chiunque intenda operare efficacemente a favore della pace.
Assai positivamente stimolato dalle tesi presentate nel suddetto saggio, non ho potuto resistere al desiderio (prontamente realizzato) di dare vita ad una corposa intervista con il suo Autore.
- La tua interessante dissertazione prende le mosse dal timore che il mondo del pacifismo contemporaneo non abbia preso nella dovuta considerazione l'invito gandhiano ad impegnarsi a trasformare se stessi in vista di una possibile trasformazione del mondo. Si tratta di un semplice sospetto o della registrazione di un fenomeno da te effettivamente riscontrato sulla base dei tuoi studi e della assidua frequentazione di molteplici ambienti pacifistico-nonviolenti, in Italia e in altri Paesi?
- Quello che intendo sottolineare con il mio articolo non è la perfettibilità dell'ambiente pacifista e nonviolento, cosa che si può dare per scontata a priori in ogni ambito e per ogni singolo individuo. Da quando seguo e studio i temi di pace e nonviolenza ho conosciuto un gran numero di persone molto in gamba e di ottime intenzioni. Ciascuno fa del proprio meglio, e non lo si può rimproverare per questo. Chi si mette d'impegno, per raddrizzare un po' questo mondo così pieno di ingiustizie e violenza, va incontro a molte frustrazioni. E' questo un punto molto delicato, al quale secondo me non ci si prepara adeguatamente. Il risultato è che spesso si reagisce a quanto si vede anche in modi che, pur risultando perfettamente urbani, generano una controreazione, finendo così per alimentare tensioni, anziché scioglierle. Ogni nostro pensiero, parola e sentimento, la scienza comincia ora a dimostrarlo (e il mio articolo questo intende sottolineare), genera effetti in un campo condiviso con gli altri. Occorre quindi essere consapevoli che ogni più recondito moto del nostro animo immette nel campo energie che, se non sono perfettamente pulite, "inquinano", cioè non migliorano una situazione che già spesso è grave per conto suo, ma la rafforzano. Ovvero proprio il contrario di quello che si vuole ottenere.
Nonviolenza è un'attitudine dell'animo tale per cui quello che esce da noi è sempre pacificante, anche per una controparte particolarmente agguerrita che, se pure continua con i suoi comportamenti, quantomeno non se li ritrova rafforzati dalla nostra reazione e che, alla lunga, è suscettibile di ammorbidire le sue posizioni. Per arrivare a cotanto risultato bisogna che ci chiediamo, noi pacifisti e amici della nonviolenza, se davvero non solo i nostri atti e le nostre parole, ma persino i nostri pensieri e le nostre emozioni, non siano mai di rabbia e di volontà punitiva nei confronti di chi pratica apertamente la violenza. Per arrivare a essere scevri di queste emozioni c'è molto lavoro da fare su se stessi. Se non lo si fa, le emozioni si riversano nell'ambiente - diciamo così, con un'immagine di tipo ecologico - e arrivano fino agli altri oggetto della nostra critica, i quali molto probabilmente reagiranno con ancora maggiore violenza. Questo Gandhi lo sapeva bene, perciò ogni sua iniziativa di protesta era preceduta da giorni di digiuno e purificazione da parte di tutti coloro che l'avrebbero messa in atto.
- Si potrebbe dire che, di fatto, ispirandoti a Gandhi, hai cercato, con il tuo lavoro, di convalidare e di riproporre quanto asserito in maniera cristallina nelle prime meravigliose righe del Dhammapada buddhista?
“Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione che nasce da un pensiero torbido è seguita dalla sofferenza, come la ruota del carro segue lo zoccolo del bue.
Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione che nasce da un pensiero limpido è seguita dalla gioia, come la tua ombra ti segue, inseparabile.”
Non pensi, però, che ciò potrebbe far arricciare il naso a più di un esponente del movimento pacifista, di formazione culturale marxista o positivista?
- Domanda elegante ma di facile risposta. Sia la cultura positivista che la marxista risalgono all'Ottocento, un'epoca in cui si tendeva a pensare che tutto l'esistente fosse materiale e il resto fumo per i gonzi. Dagli inizi del Novecento, però, i fisici, che studiano la materia, hanno cominciato a riconoscere che essa, come ricordo nell'articolo in questione, esiste solo in senso molto relativo. Tuttavia gran parte degli scienziati, trovandosi in difficoltà con una dimensione immateriale di cui non sanno come servirsi, hanno continuato ad operare secondo linee positivistiche. Questo spiega il perdurare di una visione del mondo condivisa che, pur giustificandosi sempre meno, corrisponde alla nostra percezione sensibile e per questo appare fondata.
Questa messa da parte di evidenze scientifiche vecchie ormai di 100 anni - e dalle quali sono derivati i laser e la telefonia cellulare, tanto per fare esempi molto chiari - non può durare in eterno. Prima o poi bisognerà prendere atto non dell'esistenza di una dimensione energetica, che nessuno scienziato ormai nega, ma delle sue implicazioni, tanto più che il nostro corpo ad essa reagisce, e la nostra mente anche. Questo per quanto attiene al positivismo. Discorso analogo per il marxismo, che annega di fronte a una messa in second' ordine della materia, su cui esso si fonda. Se ritiene di avere basi scientifiche per riaffermare, oggi, la preminenza della materia, anzi la sua assoluta ed esclusiva esistenza, come faceva nella seconda metà dell'Ottocento, le mostri e apra un dibattito all'interno del mondo scientifico.
Aggiungo due ulteriori osservazioni: né il positivismo, né il marxismo, si sono mai posti fino in fondo il problema della violenza, e se mai il discorso è emerso, l'hanno giustificata ampiamente. Un discorso di pace e nonviolenza su basi positivistiche o marxiste, quindi, non ha senso.
Che la sinistra si sia ritrovata o si ritrovi su posizioni pacifiste è un dato di fatto, ma qui siamo fuori dalla dottrina marxista. Né Marx, né Engels, né Lenin hanno mai condannato la violenza, considerandola anzi un mezzo legittimo per il raggiungimento e la difesa del potere.
- Ma, al di là di tutte le possibili differenziazioni e controversie ideologiche, è fuori discussione che la questione di centralissima importanza è quale sia il modo più efficace (non ancora trovato) per pacificare il mondo. Giusto?
- Esatto. Ma se questo è l'interrogativo prioritario - e non il progresso scientifico tout court, né l'instaurazione di un regime definito giusto, o di una determinata religione considerata l'unica vera, o qualsivoglia altro obiettivo che prometta la felicità e il benessere - se, ripeto, l'interrogativo è: come facciamo ad arrivare ad una condizione priva di violenza, allora dobbiamo cominciare da noi stessi, non solo per dare il buon esempio, ma perché è l'unico modo che ora la scienza ci sta indicando che funziona.
Se poi tutto questo finisce per implicare il riconoscimento che quanto Buddha diceva 2500 anni fa era fondato, non vedo dove sia il problema. Che cosa importa chi lo ha detto per primo? Che danno potrò mai ricevere io positivista o marxista o cristiano dal riconoscere che qualcuno di un'altra cultura aveva visto più in là dei miei ispiratori? Se andiamo a guardare più da vicino, Cristo, però, non era in contraddizione con Buddha, si esprimeva solo diversamente. E' vero che il cattolicesimo rivendica di essere l'unico interprete doc degli insegnamenti di Gesù, ma, all'interno del cattolicesimo, ci sono sempre state, nella prassi, interpretazioni opposte: San Francesco e la Santa Inquisizione non si assomigliano molto.
Concludendo: per un pacifista e un nonviolento l'obiettivo è lavorare per la pace. Come lo si è fatto finora, non ha funzionato. Il mio articolo indica un'altra strada e si onora di essere nella scia di insegnamenti antichissimi, pur non fondando le sue argomentazioni su di essi.
- Tu attribuisci una grande importanza alle ricerche portate avanti dall’Heartmath Institute (www.heartmath.org) sul tema della cosiddetta “coerenza cardiaca”, considerata indicatore prezioso della salute della persona, in stretta correlazione con il concetto di campi magnetici propri ed altrui, addirittura anche di ordine planetario.
Di cosa si tratterebbe esattamente e come si è giunti ad una simile scoperta?
- All'inizio degli anni Novanta l'Heartmath Institute cominciò a indagare non solo l'effetto negativo prodotto sul sistema nervoso, su quello ormonale e sull'immunitario, da emozioni che provocano stress, ma anche l'effetto di emozioni positive generate da apprezzamento, empatia e accudimento. Misurando le onde cerebrali, la conduttività della pelle, effettuando elettrocardiogrammi, verificando la pressione sanguigna e i livelli ormonali, i ricercatori si resero conto che l'indicatore più significativo e dinamico di tutti quelli presi in considerazione erano i ritmi cardiaci. Il cuore, cioè, era l'organo che reagiva di più non solo alle emozioni, ma anche ai pensieri. Ciò indicava un collegamento del cuore con tutto l'apparato e, in particolare, col cervello. Si misero così a studiare la relazione cuore-cervello, notando che il cuore si comportava come se disponesse di una mente propria ed era in grado di influenzare la consapevolezza, le percezioni e l'intelligenza. L'influenza esercitata dal cuore sul corpo, particolarmente sul cervello, sulle ghiandole endocrine e sul sistema nervoso venne denominata coerenza cardiaca, e questa, a sua volta, definita come “la misura dell’ordine, della stabilità e dell’armonia nell’oscillazione dei sistemi di regolazione [corporea]”. In parole povere, la coerenza cardiaca è un indicatore della salute della persona, dello stato di equilibrio (o disequilibrio) generale all’interno del corpo.
-Nel tuo articolo, sempre a proposito della coerenza cardiaca, fai riferimento al cosiddetto “effetto Maharishi”. In che relazione sarebbero le due cose?
- L' ”effetto Maharishi” è provocato dalla pratica simultanea della Meditazione Trascendentale da parte di un certo numero di persone in un dato luogo, al fine preciso di determinare un maggiore livello di pace sull'ambiente circostante. Gli studi rivelano che basta la radice quadrata dell'1% della popolazione del luogo interessato per determinare livelli considerevoli di abbassamento di violenze, crimini e addirittura incidenti stradali nel luogo in cui la meditazione si tiene con l'intento descritto. L'affinità con la coerenza cardiaca è data dal fatto che la meditazione calma la mente e le emozioni del meditante, e, di conseguenza, il cuore è in maggiore coerenza, cioè più in armonia col resto del corpo, e in particolare col cervello.
- Ritorniamo ora alla questione-pacifismo.
Tu batti e ribatti sul concetto ilozoistico-panteistico, tanto caro al grande Giordano Bruno, secondo cui tutto sarebbe colmo di vita, anzi, che tutto sarebbe Vita, ovvero Energia.
Quindi?
- Allora, se tutto è energia, l'energia è dappertutto, non occorre andarla a cercare sventrando la terra, provocando guerre, inquinamento e conseguente distruzione del pianeta (sembra che Tesla e altri fossero arrivati a questa conclusione e, mentre stavano lavorando all'applicazione pratica, alla liberazione cioè del mondo da tutti gli inquinamenti e da tutte le distruzioni, siano stati "invitati" a smettere).
E se l'energia, che è tutto, è stata capace di costruire l'universo, allora tanto stupida non deve essere. Quindi il Geist, la Mente, postulata da Planck - come dico nel mio articolo in questione - quella che ben prima Buddha aveva riconosciuto essere la fonte di tutto, come molto opportunamente hai ricordato tu - è un altro degnissimo, anche se difficilissimo, oggetto di investigazione, di un'investigazione che comunque è già cominciata, v. Chopra, Deepak et al.. How Consciousness Became the Universe: Quantum Physics, Cosmology, Relativity, Evolution, Neuroscience, Parallel Universes, Cambridge, Cosmology Science Publishers. 2016.
- In pratica?
- Qui viene il bello, che ci riguarda direttamente: se noi pacifisti e amici della nonviolenza vogliamo smetterla di essere i paria della ricerca scientifica, nonché l'oggetto di canzonatura del potere, che di tanto in tanto ci elargisce briciole per i nostri convegni in cui ci asciughiamo vicendevolmente le lacrime (perché abbiamo ragione noi!), ma il mondo non ci capisce, mentre fondi immensi dalle stesse tasche - che alla fine sono le nostre - vanno per la distruzione del pianeta e dei suoi abitanti, se tutto questo ci ha stufato, e ci siamo anche stancati di leggere e magari, di tanto in tanto, anche scrivere, trattati di politica, sociologia, economia, teologia, filosofia, che ci spiegano perché le cose vanno male e come dovrebbero invece andare, se ... etc. etc. Tutto questo lo abbiamo già fatto: ci siamo acculturati e informati su un panorama che è l'oggetto dei nostri tormenti, abbiamo protestato in maniera nonviolenta e ogni tanto raccolto la solidarietà di qualche star mediatica, ma, alla fine, nulla è cambiato.
Ammettiamolo, se ci sembra, oppure andiamo avanti così ad libitum, finché non ce ne saremo convinti. Una volta convinti, e da qui muove il mio articolo, dovremo renderci conto che occorre cambiare occhiali vecchi di 4 secoli, appena ritoccati due secoli dopo, cioè almeno 150 anni fa. Con un paio di occhiali nuovi cominceremo forse a intravvedere quello che Buddha ha visto chiaramente due millenni e mezzo fa. Certo, dovremo ammettere di essere stati preceduti, ma ce ne faremo una ragione: ne abbiamo già mandate giù tante, non moriremo per questo. E in fondo, diciamocelo, arrivare secondi dopo Buddha non è poi così umiliante, c'è di peggio!
E così, se dio vuole, magari scopriremo, cioè vedremo con i nuovi occhiali, che l'Energia, essendo tutto quello che c'è, è onnipresente, è nel qui ed ora, e che la Coscienza che la genera e la guida, non può non essere onnipresente, cioè nel qui ed ora.
E, se tanto mi dà tanto, vuoi vedere che anche la pace, la Pace, è pure essa nel qui ed ora?
*Francesco Pistolato, cofondatore del Centro Interdipartimentale di Ricerca IRENE dell’Università di Udine, ha conseguito, presso l’Università di Granada il Master in Cultura di pace e il Dottorato in Sociologia, con una tesi su Ekkehart Krippendorff. È autore di svariate traduzioni in ambito storico, filosofico e giuridico, di opere di didattica delle lingue e di vari testi di cultura di pace, nonché membro della redazione dei Quaderni Satyāgraha, per il Centro Gandhi Edizioni.
**La necessità di un nuovo paradigma nei Peace Studies, in Maria Elena Bertoli (Ed.), La nonviolenza al tempo del coronavirus, Quaderni Satyagraha n. 37, Pisa, Gandhi Edizioni 2020, pp. 193-205.
Nel caso si incontrassero difficoltà a trovare il QS 37 (di solito è su http://www.ibs.it), si può scaricarne gratuitamente la versione in inglese, diversa in pochi passaggi in modo irrilevante e leggermente meno ricca:
Transforming Ourselves First. The Need of a Paradigm Shift in Peace Research and Peace Education, in In Factis Pax, Volume 14 Number 1, 2020, 56-65 http://www.infactispax.org/journal
Ci sono vicende di fronte alle quali è difficile riuscire a trovare, dentro di sé, un punto di compromesso, una sorta di equilibrio fra ironica amarezza, senso di desolante sconcerto, gioiosa euforia …
Quella di Clifford Williams e di suo nipote Nathan Myers è sicuramente una di queste.
I due, accusati ingiustamente di aver ucciso una donna in Florida nel 1976, dopo per aver passato ben 43 anni in carcere, hanno ricevuto un cospicuo indennizzo in denaro: il primo (condannato a morte) di 2.150.000 dollari; il secondo (condannato all’ergastolo) di 2.000.000 di dollari.
La relativamente positiva conclusione di una storia tanto orribile è stata resa possibile dalla recente indagine portata avanti dal Conviction Integrity Unit, un nuovo organo giudiziario destinato a riesaminare casi giudiziari presentanti dubbi di un qualche rilievo. Dal rapporto è risultato che nessuna prova fisica era in grado di autorizzare una correlazione fra Williams o Myers e la sparatoria che originò la morte di Jeanette Williams (omonima ma non parente di Clifford). Inoltre, risultò che un altro uomo, tale Nathaniel Lawson, a suo tempo, aveva riferito a diverse persone di essere stato lui l’unico l’autore del crimine.
Dall’inchiesta è anche emerso che la polizia, in un fascicolo del 1976, aveva scritto di aver appreso della presenza di Nathaniel Lawson sulla scena del delitto nel momento in cui il delitto fu commesso.
Il risultato finale è stato quindi inequivocabile, tanto che ha permesso a Shelley Thibodeau, direttrice del sopramenzionato organo giudiziario, di asserire, in maniera lapidaria, che
"l’insieme di tutte le prove, la maggior parte delle quali non vennero viste né sentite dalla giuria, toglie ogni credibilità alle condanne e alla colpevolezza degli accusati.”
Intanto, però, a congelare (e a congedare) subito quel pizzico di soddisfazione derivante da una simile paradossale vicenda, ha provveduto una decisione oltremodo dolorosa:
le esecuzioni capitali nella giurisdizione federale degli Stati Uniti, sospese dal 2003, sono state riprese.
E’ stato infatti ucciso, attraverso iniezione letale, dopo un momentaneo rinvio, Daniel Lee, suprematista bianco accusato nel 1999 della morte di una coppia e della loro figlioletta di 8 anni.
Nei prossimi giorni, dovrebbe essere il turno di Wesley Purkey, Alfred Bourgeois e Dustin Honken.
Da notare che Wesley Purkey, affetto dal morbo di Alzheimer, è ora ritenuto del tutto demente.
“La decisione dell’amministrazione Trump di riavviare le esecuzioni federali dopo una pausa di 16 anni è scandalosa. È l’ultima indicazione del disprezzo di questa amministrazione per i diritti umani“. Così, già la scorsa estate si era espressa Margaret Huang, direttrice esecutiva di Amnesty International Usa.
Daniel Lee |
C’è da sottolineare, tra l’altro, che la scelta dell’amministrazione Trump appare in contrasto con le crescenti moratorie sulla pena di morte adottate da vari Stati negli ultimi dieci anni: da un lato per le controverse iniezioni letali, accusate di causare eccessiva sofferenza, dall’altro per la carenza delle sostanze da usare, perché le grandi case farmaceutiche rifiutano di fornirle nel timore di essere associate ad una prassi che molti considerano inumana e incivile.
“L’uso della pena di morte - ha aggiunto poi la Huang - non è in linea con le tendenze nazionali e internazionali. Ventuno stati negli Stati Uniti e oltre la metà dei paesi del mondo hanno già stabilito che la pena di morte non rispetta i diritti umani e non ha posto nelle loro leggi”.
"Non posso descrivere il tipo di dolore che provi quando vedi il tuo fratellone, quello a cui ti sei ispirato per tutta la vita intera morire, morire chiedendo della mamma. Si è rivolto ai poliziotti chiamandoli 'signore' - ha continuato Floyd - ha avuto un atteggiamento mite, non ha reagito. All'uomo che gli ha tolto la vita, che lo ha soffocato per otto minuti e 46 secondi lui ha continuato a rivolgersi chiamandolo 'signore' e a supplicarlo".
Philonise Floyd (fratello di George)
In merito al brutale omicidio di George Floyd a Minneapolis, nell’ormai lontano 25 maggio, è emerso con indiscutibile chiarezza che non si è trattato di una tragedia isolata, bensì di uno degli ultimi casi di una lunga serie di atti di violenza di stampo razzista ai danni, in particolar modo, dei neri statunitensi e delle persone di origini ispaniche. Basti pensare, infatti, solo per fare qualche esempio di cronaca, all’uccisione di Ahmaud Arbery, uscito a fare jogging, a quella di Breonna Taylor, che dormiva nel suo appartamento allorquando la polizia ha aperto il fuoco, a quella (nello scorso aprile) del ventisettenne di origini ispaniche Carlos Ingram Lopez, o a quella recentissima (18 giugno) della guardia giurata di origine salvadoregna Andres Guardado di 18 anni.
Negli Stati Uniti, la polizia commette violazioni dei diritti umani a un ritmo estremamente insistente, soprattutto nei confronti delle minoranze, in particolare contro i neri afro-americani. Gli elementi oggettivi a disposizione sono oltremodo impressionanti:
sia nel corso del 2018 che nel corso del 2019, circa 1.000 persone sono state uccise a seguito dell’utilizzo di armi da fuoco da parte degli agenti.
Secondo i dati disponibili, gli afroamericani risultano colpiti dall’uso di forza letale da parte della polizia in maniera sproporzionata: sebbene costituiscano solo il 13 per cento della popolazione, rappresentano il 23 per cento delle vittime di queste uccisioni.
Una ricerca condotta da Amnesty International sulle leggi applicate a livello statale (laddove queste esistono) riguardo all’uso della forza letale da parte degli agenti delle forze di sicurezza, ha rilevato che nessuna di queste rispettava il diritto e gli standard internazionali relative all’uso della forza letale, secondo cui questa dovrebbe essere considerata solo come risorsa estrema, di fronte a una minaccia imminente di morte o ferimento grave.
Inoltre, dal 26 maggio al 5 giugno, i ricercatori di Amnesty International hanno identificato 125 casi in 40 stati degli Usa e nel Distretto federale di Columbia in cui è stata usata forza illegale nei confronti di manifestanti pacifici, giornalisti e persone che si limitavano a osservare.
Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha raccolto quasi 500 video e fotografie delle proteste attraverso le piattaforme dei social media. Questo materiale è stato verificato, geolocalizzato e analizzato da esperti in armi, in tattiche di polizia e nelle norme vigenti negli Usa e a livello internazionale sull’uso della forza.
In una nota ufficiale, Brian Castner, alto consulente di Amnesty International su armi e operazioni militari, ha dichiarato:
“La nostra analisi è chiara: quando gli attivisti e i sostenitori del movimento Black lives matter sono scesi in strada per manifestare pacificamente, hanno per lo più incontrato una risposta di tipo militare e subito violenze da parte proprio di quella polizia di cui chiedevano la fine dell’attitudine razzista“,.
L’uso illegale della forza, comprendente pestaggi, uso improprio di gas lacrimogeni e spray al peperoncino, impiego inappropriato di proiettili di gomma e granate a spugna, chiama in causa le forze di polizia locali e statali, le agenzie federali e la Guardia nazionale.
Ha poi aggiunto Castner che
“Il tempo per applicare un cerotto sulle ferite e chiedere scusa per poche ‘mele marce’ è finito. Ora occorre una riforma profonda e sistemica delle forze di polizia che ponga termine all’uso eccessivo della forza e alle esecuzioni extragiudiziali dei neri negli Usa. Queste comunità non possono più vivere nel terrore di essere colpite proprio da coloro che hanno giurato di proteggerle. I responsabili dell’uso eccessivo della forza e delle uccisioni illegali devono essere chiamati a rispondere”.
In alcuni casi, i ricercatori di Amnesty International hanno anche avuto modo di intervistare vittime e funzionari dei dipartimenti locali di polizia, che hanno confermato le condotte illegali degli agenti.
La mappa interattiva di Amnesty International ha evidenziato violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia nell’80 per cento degli stati degli Usa.
Infatti, le forze di polizia si sono rese responsabili di violazioni dei diritti umani non solo nelle grandi città come Minneapolis, Philadelphia e Washington, ma anche in piccoli centri come Louisville in Kentucky, Murfreesboro in Tennessee, Sioux Falls in South Dakota e Albuquerque in New Mexico. A Fort Wayne, in Indiana, ad esempio, un giornalista ha perso un occhio a causa di una granata contenente gas lacrimogeno.
Dal punto di vista giuridico, l’uso eccessivo della forza nei confronti di manifestanti pacifici viola sia la Costituzione degli Usa che il diritto internazionale dei diritti umani.
Le forze di polizia, che hanno, a ogni livello, il dovere di rispettare, proteggere e favorire lo svolgimento di manifestazioni pacifiche, di fronte a episodi di violenza, invece di reagire esclusivamente nei confronti dei responsabili, hanno fatto uso di forza sproporzionata e indiscriminata contro intere proteste, senza operare alcuna distinzione tra chi stesse minacciando realmente la vita di altri (circostanza nella quale l’uso della forza sarebbe stato legittimo) e chi stesse manifestando del tutto pacificamente.
Comunque, in seguito al diffondersi e all’intensificarsi delle proteste, non sono mancati, fortunatamente, concreti segnali di carattere positivo:
- alcuni dipartimenti di polizia locali e di stato hanno avviato riforme parziali, come la sospensione dell’uso di alcune munizioni per il controllo della folla, come i gas lacrimogeni;
- a Minneapolis il Consiglio locale ha votato a maggioranza per lo smantellamento delle forze di polizia e il rafforzamento di istituzioni dedicate a proteggere in modo efficace la sicurezza pubblica.
Ciò nonostante, Amnesty International ritiene indispensabile e non più procrastinabile una riforma concreta e duratura delle forze di polizia in tutti gli Usa, che dovrebbe comprendere:
In conclusione, si potrebbe constatare come, nelle scorse settimane, siano state davvero numerose le riflessioni e le concrete prese di posizione in merito alla vicenda di George Floyd e dei volti efferati del fenomeno razzista negli USA ancora perduranti a più di mezzo secolo dall’assassinio di Martin Luther King, il quale continuamente ci ricordava che
“Va oltre ogni immaginazione pensare quante vite potremmo trasformare se dovessimo cessare di uccidere.”
Molto efficace, fra le tante parole di dolore e di analisi intelligente che sono state pronunciate, quanto scritto dalla giovane filosofa Marie Moise.
“Il corpo di Floyd, nel momento in cui è percepito come nero è già pericoloso, già da disarmare, già aggredibile per diritto. E ogni gesto di autodifesa del Nero, non può che essere percepito come riprova della sua natura violenta e aggressiva, da cui «legittimamente» difendersi. Ogni suo appello alla vita è inascoltato per definizione – Floyd non respirava, ma il poliziotto non si è preoccupato nemmeno per un attimo che potesse davvero morire – perché dai tempi della schiavitù la vita – e la morte – del Nero dura solo fino a che non può essere rimpiazzata con la successiva. È in particolare il corpo del nero uomo che ricade in questo schema percettivo, quello di una maschilità bruta e bestiale, antitetica all’unica riconosciuta, ovvero quella che crea l’associazione immediata tra maschio bianco e essere umano e che fa del nero un non-maschio e quindi non-umano.”
(http://www.osservatoriorepressione.info/diritto-respirare-nel-nome-george-floyd/)