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Ottimi gli attori, così pure regia, scenografia e immagini. Il film ricalca il solito cliché dei film americani, dove chi finanzia detta modi e condizioni. Dopo gli eventi di Wonder, il bullo Julian è stato espulso dalla scuola e cerca di ambientarsi nel nuovo istituto. Sentendolo in difficoltà, la nonna lo sorprende, gli fa visita da Parigi e gli racconta la storia della sua infanzia. Di come lei, giovane ragazza ebrea nella Francia occupata dai nazisti, fu nascosta e protetta da un compagno di classe. Di come la sensibilità e il coraggio di questo ragazzo le abbiano salvato la vita. Di quanto può essere forte il potere della gentilezza, tale da cambiare il mondo. Amore, paura, morte, buoni e cattivi che di solito, se non sono i comunisti sono i nazisti, e finalmente arriva la luce, l’amore, la libertà, la grande America, gli esportatori di democrazia, oggi diremmo a suon di bombe. I più deboli e perseguitati, come al solito sono gli ebrei, e a Hollywood sanno bene che la formula, adottata da più di mezzo secolo, ha il potere di narcotizzare le masse e addomesticarle. Libertà contro tirannia. Si parla di un popolo
perseguitato, ma mai di altri popoli perseguitati o annullati per la sola colpa di esistere. Si gioca con il sangue e le disgrazie di un popolo che, guarda caso, è sempre lo stesso. Se pur a fini educativi questa messa in scena a senso unico puzza molto di propaganda. Comunque sia, l’altro messaggio che vuole veicolare il film, il potere della gentilezza, principio universale, qualora fosse adottato da tutti, potrebbe veramente cambiare il mondo. Il film da modo allo spettatore di riflettere sul potere del cinema e degli interessi economici che ci sono dietro.
WONDER - WHITE BIRD
un film di MARC FORSTER
con HELEN MIRREN, GILLIAN ANDERSON, BRYCE GHEISAR
Il nuovo spettacolo di Pippo Franco, composto da monologhi, affronta il tema dell'evoluzione dell’uomo coraggiosamente, addentrandosi in un panorama molto vasto.
Con molta umiltà e simpatia, l'artista affronta questa sfida interessando e coinvolgendo il pubblico su argomenti che bene o male coinvolgono tutti, e si fa accompagnare nel viaggio dalla melodiosa e virtuosa chitarra di Giandomenico Anellino.
Lo spettacolo è arricchito da immagini per meglio supportare spiegazioni e narrazioni che ci porteranno in un interessante cammino attraverso l’arte, la storia e la cultura, con un approccio del tutto particolare e molto profondo, condito da simpatiche battute o gag ironiche.
Sono cresciuto con i suoi film, ben sessantuno, e con i suoi numerosi programmi televisivi. Un’artista che ha lasciato il segno nella comicità, nella commedia all’italiana, nel cinema e nel teatro.
Finalmente per la prima volta stasera riesco a vedere Francesco Pippo (questo è il suo vero nome) dal vivo al teatro e a conoscerlo di persona. Al solo rivederlo, i ricordi della mia adolescenza sono riaffiorati prepotentemente, riportandomi indietro nel tempo alla mia adolescenza e a quella che considero un’icona della vecchia e sana comicità italiana, che ha accompagnato gli anni della mia giovinezza.
La serata parte subito con un fantastico medley di brani famosi reinterpretati dal fantastico chitarrista, che miscela sonorità tra musica classica, jazz e spagnola. Possiede una tecnica ineccepibile che gli consente di esprimere un gusto melodico ricco e un’attenta ricerca del suono. Pippo Franco gli lascia tutto lo spazio che serve per farci cullare dalle sue infinite note. Interverrà più volte durante la serata per inserirsi tra un argomento e l’altro con brani conosciuti ed interpretati con virtuosismo. Pezzi di Battisti, di De Andrè, di Lucio Dalla , ma anche altri brani come “O sole mio”, “We are the world”, “Strangers in the night”, La Guerra di Piero”, Piazza Grande… si susseguono e ammutoliscono la sala che poi esplode in uno spontaneo applauso. Questo musicista, che vagamente mi ha ricordato per l’aspetto Ninetto Davoli ( di cui ha sicuramente la stessa simpatia e cordialità), ha colpito anche il grande Ennio Morricone, tanto che gli chiese di incidere i suoi brani… E adesso, mentre sto scrivendo, li sto ascoltando… Bellissimo.
Pippo ci regala due ore abbondanti di “Stand up comedy” donandoci uno spettacolo maturo, con inserzioni ironiche e umoristiche sì, ma attento e molto intimo mentre guarda con attenzione il cammino dell’uomo attraverso l’arte, la storia e la conoscenza. Pitagora, Adamo ed Eva, Augusto, Giulio Cesare, Boccaccio, Machiavelli, Michelangelo, Darwin, Freud, Leonardo Da Vinci, Neil Armstrong… tutti personaggi storici a cui l’artista lega un aneddoto buffo sconosciuto ai più.
Tante le immagini proiettate di opere famose, come “Il sole del mattino” di Edward Hopper o “L’artista e la modella” di Jack Vettriano, l’ “Allegoria del trionfo di Venere” di Bronzino, il “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Jan Van Eyck, “Il mercato degli schiavi” di Salvatore Dalí, le “Quattro stagioni” di Giuseppe Arcimboldo e le “Donne con salamandra” di Fausto Pirandello… Sono opere di artisti distanti per stile e tempo, ma paradossalmente legate da una simbologia che a prima vista sfugge allo spettatore, svelata in modo affascinante. La platea così scopre di poter vedere con altri occhi questi quadri e di coglierne il nesso in un forte messaggio che li accomuna.
Quello di stasera è uno spettacolo improntato sulla cultura ricco di aneddoti e storie interessanti raccontate con grande trasporto, come farebbe un nonno con il nipotino. Un artista che mette a disposizione del pubblico saggezza, conoscenza ed esperienza. Ci si alza soddisfatti, sorridenti, coccolati, ma soprattutto più ricchi e con qualcosa di interessante e unico da raccontare a casa.
L’Elettra è un piccolo, minuscolo e delizioso teatro a due passi dal Colosseo, che stasera ospita la storia di tre donne.
Hanno età diverse ed estrazione sociale ed esperienze di vita molto lontane, ma anche qualcosa in comune: il carcere per aver compiuto lo stesso reato. La prigionia allora le obbliga ad una condizione di stretta “vicinanza”, da cui il titolo.
Entrano in sala e si dispongono davanti al sipario chiuso, di fronte al pubblico, con spavalderia, come se dovessimo giudicarle noi, e con molta onestà e sfrontatezza si confessano.
Sono vestite di nero, impettite e con aria di sfida. In un monologo ci spiegano chi sono e cosa hanno fatto, come dovessero sostenere un interrogatorio davanti ad un’autorità giudiziaria. Lo spettatore viene allora trasformato in giudice mentre le ascolta, sobbarcandosi l’onere di giudicarle. Forse sperano di ricevere quella comprensione che non hanno avuto, e un giudizio diverso da quello della legge e dela società.
I tre monologhi sono molto intensi, già dopo poche parole abbiamo un quadro completo delle donne.
Tiziana è una prostituta che ha ucciso un cliente da cui si sentiva minacciata; Franca ha ammazzato il marito che la tradiva e sfruttava; Giovanna si è macchiata di omicidio nei confronti di uno sconosciuto che voleva abusare di lei.
La proposta sembra andare controcorrente in questi giorni in cui non si fa altro che parlare di femminicidio e della triste e cruenta fine di Giulia Cecchettin, da cui continuano ad emergere particolari sempre più raccapriccianti. In ognuna delle storie l'orco, almeno in apparenza, sembra essere la donna, ma in realtà è una vittima. Le tre hanno reagito istintivamente per proteggersi, seppur attraverso un atto riprovevole.
Nel trascorrere dello spettacolo realizziamo che Tiziana è una donna temprata dalla vita, calma, posata, in parte rassegnata, che ha maturato una certa stabilità espressa con i suoi atteggiamenti comprensivi e materni. La gestualità, l’espressività e soprattutto la cadenza della voce risultano sempre pacate e controllate.
Franca è la più fragile ed instabile; soffre di attacchi di epilessia che si manifestano quando è sottoposta a forti stress emotivi. È molto ansiosa ed insicura e lo dimostra con atteggiamenti infantili, nascondendosi dietro alla sua immaginazione e cercandovi rifugio. Interroga i tarocchi per conoscere il suo e l’altrui futuro. Vive così una vita parallela in cui si rifugia rifiutando il suo passato.
Giovanna si dimostra ancora sociopatica, scontrosa, apparentemente dura e coriacea. Nasconde però una fragilità e una profonda sensibilità che probabilmente avverte come punto debole, perciò vi costruisce sopra una corazza impenetrabile da cui però trasuda la sua vera natura.
Tutte e tre le donne hanno anche questo in comune: un grande e profondo trauma. Come degli animali selvatici, messe con le spalle al muro, alle angherie di un uomo hanno reagito nel peggiore dei modi: l’omicidio. Paradossale e stridente soluzione, se si pensa che la donna è quella votata a donare e preservare la vita…
Le tre, terminata la loro arringa-confessione, si girano di spalle come per chiudere il rapporto con lo spettatore, che evidentemente rappresenta la sorda ed insensibile società giudicante che le ha ostracizzate. La regia le fa spogliare dei loro abiti civili come fossero una divisa che integra nella società, e glieli fa lasciare a terra proprio davanti ai nostri piedi, piedi come quelli che ne hanno calpestato i diritti. Le loro scarpe, nere e non rosse, vengono ben allineate vicino a quella “pelle sociale” dismessa, riconducendoci al simbolo della violenza sulle donne. Forse attraverso il colore nero vogliono alludere lutto, alla morte sociale. Nel carcere infatti si viene dimenticati, ci si trasforma in un numero della statistica e si perde il diritto ad esistere come membro della società. Questo rito di iniziazione spoglia l’essere umano della sua personalità per poi abbandonarla in uno stato subumano senza diritto di replica.
Sono delle sopravvissute ad una società maschilista e con il loro gesto di ribellione estrema hanno infranto non solo la legge, ma anche la morale comune, quella che vuole la donna succube e silenziosa.
Il tribunale le ha condannate, come è giusto che sia, ma nessuno ha tenuto conto che il loro tremendo errore è stato dettato dal disperato tentativo di rompere gli schemi precostituiti e di rifiutare il ruolo di vittime sacrificali e capri espiatori della società maschilista.
Nonostante la loro diversità, hanno in comune una profonda solitudine esistenziale e manifestano il bisogno di comprensione, e chi può capirle meglio se non loro stesse? Riescono così a creare una forte unione, e anche se non mancano dissidi e crisi, rimangono un gruppo compatto. Nel loro rapporto si palesano ancora di più i ruoli: Tiziana, privata dei figli, si comporta come una madre comprensiva soprattutto con Franca, delicata e un po’ svampita, sempre con i calzini spaiati, persa dietro a inutili e strane congetture; è invece comprensiva con Giovanna, che come una pecora nera rifiuta per non essere rifiutata e tiene tutti a distanza con fare rabbioso e scostante.
La scenografia ricostruisce una cella in maniera molto realistica, donandole un immagine sciatta e trasandata di contenitore di vite sprecate. Ci sono pochi oggetti che le tre condividono rivelandone il potere di catalizzatore e collante. Ci troveremo immersi nei loro bisticci, negli scherzi, nelle crisi, condividendone le speranze e gli sfoghi.
Quello che emerge è che a dover essere incarcerato è tutto il sistema che hanno avuto intorno, che non ha saputo proteggerle costringendolo a difendersi da sole nel peggiore dei modi e a precludersi ogni speranza di comprensione e redenzione.
Le attrici spingono molto sui loro personaggi per marcarne le differenze e farne spiccare il carattere, le debolezze e le speranze. Una musica ripetitiva e ossessiva le accompagnerà sempre, soprattutto per sottolineare momenti salienti o spezzare le scene. Suggestivo l’uso delle luci che crea pathos e tensione, in special modo quando escludono tutto l'ambiente circostante ed immortalano i personaggi per esaltarne la coscienza messa a nudo.
Un’accurata regia dirige le attrici che si muovono dinamicamente sfruttando ogni minima parte del palco, e le spinge a esternare tutte le loro capacità recitative.
La storia è drammatica, ma non manca di tenerezza e di qualche sorriso, l’epilogo invece è assolutamente inaspettato.
“Vicinanze”
Di Massimo Cardinali
Regia di Ines Le Breton
Luci e suoni di Alberto Buccolini
Con Maria Adelaide Terribili (Tiziana), Nicoletta Conti (Franca), Violetta Rogai (Giovanna).
Nell’estrema periferia romana, sulla Salaria vicino all’aeroporto dell’Urbe troviamo, lontano dalle mete abituali, questo originale centro. Si tratta di una ex cartiera trasformata in polo culturale. Siamo accolti da uno staff sorridente ed ospitale che ha preparato in un angolino qualcosa di caldo da bere per gli ospiti. Un ampio corridoio e una sala enorme sono utilizzati per una mostra temporanea di quadri.
Nella sala che ospita il teatro ogni fila è posta su un piano superiore in maniera da permettere una buona visione dello spettacolo ad ognuno.
Stasera avrò modo di vedere una replica rodata, visto che lo spettacolo è già proposto da tempo su questo stesso palco.
Del Riccardo III di Shakespeare va in scena la stesura originale, con qualche taglio per renderla più fruibile e scorrevole e un’ambientazione alquanto originale.
Non amo particolarmente le riproposizioni di originali storici in ambientazioni e costumi fuori epoca, preferisco solitamente la fedeltà all’originale con costumi coevi. Quindi lo ammetto, sono venuto con i piedi di piombo, ma ho lasciato comunque sulla soglia dell’entrata ogni mio preconcetto per cercare di essere oltremodo obiettivo.
Pur stridendo con i miei gusti, questa serata si presenta invece assolutamente interessante. Troviamo un’atmosfera onirica e surreale grazie all’uso di pareti di un bianco accecante. L’iniziale aspetto asettico si trasforma con un’illuminazione che via via è sempre più suggestiva, con l’inserimento a volte di colori tenui, a volte più forti a sottolineare la tensione delle scene.
Il tutto è amplificato da una colonna sonora per lo più fatta da musica classica con inserzioni di brani più moderni.
Gli attori e gli spettatori si trovano così inghiottiti in una scena innovativa, composta da pannelli mobili e scorrevoli movimentati con grande perizia, atti ad ingrandire o rimpicciolire suggestivamente l’ambiente che ricorda la scenografia di “2001 Odissea nello spazio”, o che si ispira ai quadri metafisici di Giorgio De Chirico.
Lo spettatore è suggestionato da questa mirabile scenografia che racchiude il palco in una sorta di scrigno sospeso in un non tempo e lo trasforma in testimone dell’ascesa al potere di Riccardo, duca di Gloucester, ultimo sovrano inglese della casata degli York.
Il monarca regnò dal 1483 al 1485, quando morì ucciso in battaglia da Enrico Tudor.
Dai ritrovamenti archeologici risulta che fosse deforme, e infatti era soprannominato “Il fermo” per la disabilità che lo impediva nei movimenti. L’immagine di questo monarca è tuttora controversa, Shakespeare lo presenta sotto le vesti di un grande maestro dell’inganno.
Pietro Faiella si adegua a questa visione restituendoci un re che fa il verso al Roy Batty, l’androide di “Blade Runner interpretato dall’ indimenticabile Rutgher Hauer, e a Grima Vermilinguo, l’ispido consigliere del re Theoden nel “ il Signore degli anelli” interpretato da un magistrale Brad Dourif. Il costume che indossa ricorda quello del comandante Ed Straker interpretato da un insolito ed androgino Ed Bishop nella serie fantascientifica “UFO” degli anni ’70.
Tutti i costumi degli attori si rifanno ad un'immagine per lo più fantascientifica inquinati da inserti che rimandano al periodo classico. Sono di fantasia, ma di indubbia qualità e particolarmente evocativi. Tutti in tinta unita, scarpe comprese. I loro colori sembrano voler esternare l’essenza di ogni personaggio, senza donargli volutamente delle sfumature caratteriali.
Insieme al protagonista si muove tutta una pletora di personaggi sviliti e umanamente discutibili, corrotti dal potere e dall’ ambizione.
L’ambientazione gioca un ruolo determinante trasmettendo efficacemente forti sensazioni.
Il mix tra suoni e colori serve a disorientare ed infastidire continuamente il pubblico, e anche la recitazione cerca di indurre una forma di repulsione nello spettatore, la stessa che emanano la maggior parte dei personaggi con le loro vicende.
Riccardo III viene rappresentato in tre fasi: ascesa, elezione e caduta, in cui Pietro si trasforma camaleonticamente rappresentandosi sempre come emblema della più decaduta corruzione morale, che ben si sposa con la sua spiacevole presenza fisica. Profondamente bieco e manipolatore, nella prima fase è un subdolo e viscido arrivista; nella seconda uno sprezzante monarca; nella terza scivola nella più profonda viltà e codardia.
Pietro veste talmente bene i panni di questo personaggio così meschino, opportunista, falso, fastidioso e vigliacco da arrivare ad infastidire con la sua bravura.
Con lui sul palco orbitano ben sedici figure che si muovono tra inganni e tranelli, interpretati da altri otto validi attori e attrici.
Interessante è il divario creato tra le figure maschili e femminili. Gli uomini cercano di prevaricare e di imporsi tra loro, rendendosi servili e ruffiani, e interpretano più personaggi. Questa scelta registica forse vuole sottolineare l’ambiguità maschile nella storia. Le donne interpretano invece un unico personaggio che rende così la figura femminile più stabile e naturale mentre cerca di preservare i propri amati e di piangerne i destini.
A dispetto del gruppo maschile, quello femminile crea una particolare e compatta uniformità da cui sprizzano speranza e disperazione ma anche una grande forza d’animo. Appaiono struggenti, romantiche e passionali e il loro fascino, seppur costantemente schiacciato dalle vicissitudini, traspare timidamente nei gesti e nelle esternazioni.
Luca Ariano si rivela un regista attento, che volge lo sguardo all’avanguardia portando il suo Riccardo III nel futuro, ambientandolo in uno spazio vuoto ma dinamico anche se privo di oggetti. Muove magnificamente i suoi attori in questa dimensione claustrofobica ed asettica che pare voler imprigionare i personaggi che, come un demiurgo, sposta per sfruttare ogni angolo e creare dei suggestivi quadri sulla scena.
Faiella è il protagonista indiscusso, ha la parte del leone, è il burattinaio che muove i fili del destino di tutti. Con gesti altezzosi, nonostante la mano storpia, si muove con eleganza dirigendo a suo piacimento luci, personaggi e scenografia.
Il resto del cast non è da meno e crea con lui un magico e drammatico contorno, fatto di perfette interazioni. Uno spettacolo ricco di fascino con un cast preparato e perfettamente affiatato.
Spazio Citylab 972m,“Riccardo III” - Progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella
Regia di Luca Ariano
Adattamento e aiuto regia Natalia Magni Scenografia Luca Ariano con la collaborazione di
Alessandra Solimene Costumi Elisa Leclè Luci Luca Ariano
Assistente alla regia
Tessa Perrone
Responsabile di Produzione Romina Delmonte
Ufficio Stampa Viola Sbragia
Produzione Officina Teatrale di Massimo Venturiello
Con: Pietro Faiella (Riccardo III), Roberto Baldassari (Clarence, Hastings, Sindaco) Gilda Deianira Ciao (Elisabetta), Romina Delmonte (Margherita), Luca Di Capua ( Catsby, sicario)
Lucia Fiocco (Lady Anna), Mirko Lorusso (Rivers, Stanley), Liliana Massari (Duchessa), Alessandro Moser (Buckingham, sicario)
Non so se Claudia sia consapevole di avere in mano un gioiello. Ha creato uno spettacolo perfetto sotto ogni aspetto. Musiche, luci, scenografia, stacchi, recitazione, idea, scrittura… tutto si fonde insieme dando vita ad un’opera di grande valore artistico.
Un’ora e mezza intensa in cui si ride e ci si commuove, trasportati in un’ atmosfera onirica e irreale, mentre quello che si racconta invece è realistico, concreto, ha i piedi ben piantati per terra. Questa fusione tra reale ed immaginario è sublime, un matrimonio perfetto frutto dell’estro creativo e fantasioso di un’ ispirata ed attenta Claudia.
Tutto è chiaramente studiato nei minimi dettagli, come la particolare disposizione delle sedie nella sala, che stasera sono posizionate per obliquo rispetto al solito, permettendo di vedere il palcoscenico che stasera è sfruttato per intero. Qui allo Spazio, infatti, ha una forma insolita ad angolo retto, solitamente non usata completamente come in questa occasione.
Claudia ha deciso di rompere gli schemi anche in questo ed inghiottire così il pubblico nella sua storia con questo singolare “abbraccio” virtuale, dimostrando peraltro una grande presenza scenica senza mai una minima incertezza ed esitazione.
Già entrando ci si trova immersi in un’atmosfera surreale, la sala è pronta per questo viaggio nel fantastico mondo di una ragazza dall’insolito nome di battesimo, Minerva, che nella mitologia è considerata la divinità vergine della guerra giusta (quella che combatterà con la vita), della saggezza (che in fondo matura), dell'ingegno, delle arti utili (il suo approccio con le vicissitudini si rivela dopo un iniziale difficoltà tutta umano e alquanto ingegnoso). Anche nella scelta di questo nome c’è dunque una rispondenza al personaggio (Omen nomen), che solo apparentemente ci appare sciocchino, infantile, ingenuo e a tratti sprovveduto perché molto timido, ma tenerissimo e dolcissimo.
Si prepara a spiccare il volo e seguire, non senza difficoltà, la sua strada che percorreremo per mano con lei.
La scenografia è vivace e colorata, ricca di vestiti appesi e disseminati ovunque, come a rappresentare un percorso esistenziale. Credo siano la manifestazione delle varie tappe che sviluppano la personalità di Minerva che comincia dalla prima infanzia fino ad arrivare alla vecchia.
La scorsa stagione questo monologo ha ricevuto notevoli consensi da parte del pubblico e ha vinto il concorso “Idee nello Spazio 2022”, scritto, diretto e interpretato da Claudia che si cala egregiamente nei panni di questa dolcissima ragazza un po’ paranoica, insicura e con qualche fisima rappresentata in maniera buffa ma efficace. Strattonata continuamente dalle scelte che la vita le pone davanti e che dovrà prendere.
E’ una storia in cui ogni donna può ritrovarsi e rispecchiarsi, condita di momenti felici e di altri più tristi, attraverso ansie, paure, errori, non detti e qualche rimorso…
Il monologo ripercorre le varie fasi della crescita di questa ragazza, che alla fine prenderà in mano le sorti della sua vita, affrontando le sue paure e trovando in sé stessa il coraggio per scegliere, forse non sempre correttamente , ma almeno ci proverà.
Passerà attraverso i vari stadi evolutivi che ogni persona ha affrontato: la vergogna infantile per l’apparecchio ai denti, il rapporto conflittuale con le amichette dispettose e quello profondo con l’amica del cuore, la palpabile armonia con i genitori, i primi maldestri approcci amorosi, la convivenza e il matrimonio, ma anche lo studio, il lavoro, la famiglia che vuole creare e la vecchiaia. Un percorso perfetto raccontato attraverso una recitazione sublime che non tralascia nulla, soprattutto l’intento di emozionare e travolgere lo spettatore.
Claudia si trasforma continuamente, modulando la voce ed adeguandola alle varie fasi della vita; contorce le dita delle mani nei momenti più drammatici o soffocando il suo urlo di dolore in una smorfia che fa più male a vedersi che a sentirsi. Ripropone quegli atteggiamenti e quelle movenze tipiche dell’adolescenza e poi della maturità in maniera eccelsa, e questo avviene sempre, in ogni passaggio o cambiamento della ragazza su cui Claudia si sofferma; cambia pelle ma porta sempre con sé le sue fisime e i suoi piccoli disturbi psicosomatici.
Si ride e ci si commuove, tanto che ho dovuto calare un velo di protezione per staccarmi da quello stato empatico che Claudia riesce a creare con il pubblico, per cercare di essere più obbiettivo, meno di pancia e concentrarmi anche sul contorno; ma questo stato è durato poco perché questa talentuosa e portentosa artista è talmente trascinante da generare un virtuale cordone ombelicale con lo spettatore da cui è impossibile staccarsi.
Lo stesso cordone ombelicale è rappresentato dai pomodori col riso, inseriti in ogni battuta per spezzare la tensione e descritti come pietanza evitata fin da bambina per tutta la vita. Ecco, quei pomodori sono la rappresentazione di quel piatto che tutti abbiamo odiato da piccoli e da cui abbiamo cercato di scappare solo per scoprire che in realtà sono un importante simbolo del cordone ombelicale che ci lega alla famiglia e ai suoi ricordi, dai quali non solo non si può sfuggire, ma che alla fine sono sempre nostro rifugio e sicurezza.
Ci si affeziona inevitabilmente al personaggio interpretato da Claudia, con cui si condividono le ansie e le difficoltà tipiche di ogni essere umano.
Il viaggio in Australia, poi, altro non è che una grande scelta di vita: affrontare l’ignoto e le sue paure portandole inevitabilmente dietro con sé come una compagnia di cui non si può fare a meno e che paradossalmente diventano una sicurezza, una presenza su cui fare paradossalmente affidamento. Tutte le insicurezze che bisogna imparare ad affrontare o con cui convivere sono rappresentate da una valigia onnipresente sul palco che la protagonista porta sempre con sé, un fardello a volte pesante come il piombo, altre leggero come una piuma, a simboleggiare vittorie e sconfitte. Perché la vita è così, come ce la presenta questa splendida e profonda artista.
Non sembra di assistere ad un monologo ma ad un dialogo, perché la Genolini riesce con la sua bravura a far sentire quella voce muta a cui si rivolge, rispondere attraverso di lei grazie alle sue incredibili espressioni, movenze e smorfie. I vestiti intorno a lei si illuminano e lei, sfiorandoli, ci avverte così di un suo cambiamento in atto, di un momento particolare della sua vita che vuole condividere con noi.
Insomma, che Claudia Genolini fosse un’artista di valore lo avevo capito quando la vidi al fianco di Elda Alvigini in “Bomba”, fantastica nei panni di una trapper, ma qui, con questo suo lavoro raggiunge l’apoteosi. Siamo davanti ad un livello artistico altissimo. È un vero peccato perdersi questo spettacolo!
“Come l’Australia”
Scritto, diretto e interpretato
da Claudia Genolini
Disegno luci Pietro Sperduti
Regista Assistente Maria Cristina Gionta
Aiuto Regia Veronica Ceci De Carli
Per arrivare al Teatro di Villa Lazzaroni bisogna immergersi nel suo verde, attraversare i vialetti cosparsi di brecciolino che segnano ogni passo con un delicato e rilassante scricchiolio. Il teatro sembra volutamente nascosto in questa atmosfera bucolica. Uno staff gentile e cortese accoglie gli spettatori prima che entrino in una bella, confortevole e moderna sala.
Una volta varcata la soglia, si viene accolti da una musica che crea una strana atmosfera e che lascia in sospeso fino all’inizio dello spettacolo, quando incontreremo tre donne che ci racconteranno le loro vite.
Sara (Patrizia Casagrande) è una donna gentile e piena di interessi; sempre disponibile con gli altri si dedica al volontariato. Suo marito è un uomo piuttosto premuroso, ossessivo ed eccessivamente geloso e possessivo.
Rebecca (Valeria Zazzaretta) invece è una giovane e gradevole donna. Ha da poco tempo chiuso una relazione con un ragazzo gentile ma alquanto introverso, forse troppo, di quelli che non accettano la fine
di una storia…
Romina (Jaqueline Ferry) è la più grande delle tre, è indipendente, una capace donna separata e in carriera. Per lenire la solitudine, ma anche per rimettersi in gioco e sconfiggere l’apatia, ha iniziato una relazione con un uomo più giovane che scoprirà essere dipendente della cocaina e avere un carattere alquanto mutevole ed altalenante.
Le tre donne hanno in comune il peso di un rapporto malato di cui, per amore o per timore, diventano succubi fino a subire mortificazioni, ferite nell’animo e maltrattamenti fisici. Si tratta di un’escalation graduale, un circolo vizioso di cui diventano inconsapevoli vittime a al contempo passive testimoni della loro ineluttabile fine. Camminano incapaci di reagire sul bordo di questo perverso baratro, dove l’amore è uno sbiadito ricordo. È come una flebile e tremolante luce di una candela che non riesce ad illuminare i pericoli insiti nelle loro esistenze. Una luce talmente tenue pronta a spegnersi, come la loro vita, da un momento all’altro. Pongono inconsapevoli la loro esistenza sul filo di un rasoio, accecate dall’illusione. Prendono degli orchi, uomini disadattati, e ne fanno dei compagni ideali che pian piano svelano la loro vera essenza gettando la maschera.
È però ormai troppo tardi per tornare indietro, sono già cadute nella tela del ragno, stritolate dai loro tentacoli.
Il testo è molto complesso e volutamente contorto, ciò dimostra le capacità e l’adattabilità delle tre attrici sul palco, che si avvicendano nei loro racconti con brevi ed intensi monologhi ricchi di pathos, spezzati da dialoghi tra che le uniscono e le dividono.
Prendono poi, come fossero possedute, le sembianze caratteriali e fonetiche dei loro aguzzini, alternandosi freneticamente nelle parti e rendendo ancora più duro e crudo sia il testo che l’argomento.
Ci appaiono come bloccate in un luogo imprecisato e in un tempo indeterminato. Una sorta di purgatorio che non meritano, se non per la superficiale ma umana, anzi femminile mancanza di riguardo e attenzione per loro stesse. Un sacrificio altruistico che sentono di dover fare ma con l’uomo sbagliato.
Sembrano qui per attendere gli eventi, sospese nel tempo mentre con una forte espressività
comunicano rabbia, paura, sofferenza. Indiscutibilmente brave.
Le luci e la musica creano un’atmosfera lugubre, pesante, tetra e pesante, spezzata da luci improvvise che illuminano le tre donne facendone risaltare le espressioni, gli stati d’animo e la recitazione.
La scenografia è inesistente, è e deve essere fatta solo del buio, quello che le circonda e le inghiotte, insieme alle loro storie. Sono scalze, forse per rappresentare il loro stato di donne indifese, di capri espiatori, di vittime sacrificali designate.
Solo più avanti compariranno tre paia di scarpe, che accoppiate e non indossate rappresentano la violenza sulle donne, anche se non sono rosse ma nere, come il colore della morte che le insidia costantemente. Ognuna di loro porta con sé una valigia, che sembra simboleggiare la loro vita, il fardello che portano dietro, la loro condanna, o anche la loro esistenza, le esperienze e il dolore. Sembrano legate alle valigie, le trattano con cura e le portano sempre con loro come con un invisibile cordone ombelicale. Ne estraggono poi degli indumenti che sembrano la pelle che hanno cambiato, la rigenerazione. Ma ne estraggono anche dei capi maschili con cui costruiscono dei feticci, rappresentazioni dei loro uomini, vuoti e sgonfi, inoffensivi con cui parlano, si confidano, si sfogano, condannano, ma che ancora temono.
Alla fine, verso il triste l’epilogo, svuoteranno con rabbia queste valigie come un solenne atto di liberazione. Un grido silenzioso, una sorta di ribellione e senso di rivalsa se non fisica quanto meno psicologica sui loro persecutori.
Un bel testo, intenso, profondo, complesso e difficile, duro, diretto ma anche rispettoso ed attento a non degenerare. La confusione che si avverte in alcuni passaggi è voluta e serve per ricreare lo stato d’animo delle protagoniste, reso chiari dalle capacità delle artiste che raggiungono empaticamente lo spettatore. Le attrici si rivelano all’altezza del testo e ne restituiscono una proposta teatrale emozionante e toccante che lascia letteralmente inchiodati e col fiato sospeso sulle poltrone.
“Tutte le notti sono una”
di Massimo Natale, Ennio Speranza, Mary Griffo
regia di Fabio di Gesto
collaborazione artistica di Massimo Natale
con Patrizia Casagrande, Jacqueline Ferry, Valeria Zazzaretta
musiche di Massimiliano Lazzaretti
Teatro Roma:“La setta dei romani estinti” - Il varietà della romanità - Da Trilussa a Califano - Da un’idea originale di Fabrizio Giannini
Con Fabrizio Giannini, Stefano Ambrogi, Federica Cifola, Fabrizio Gaetani, Christian Generosi, Barbara Boscolo E con la partecipazione dell’ensemble musicale “Montanari e Targhini” e la direzione musicale di Gabriele Berretin. E ancora Adriano Giannini, Denise Alfonsi, Elisa Olivieri, Luigi Martini
Ci ritroviamo al Teatro Roma, a distanza di un mese dalla loro ultima apparizione, con la “Setta dei romani estinti”, in verità più redivivi che mai. C’è stato un piccolo accomodamento del cast e della programmazione, dovuto per lo più agli impegni professionali di alcuni artisti. Ma la carica comica e soprattutto la verace romanità non ne hanno minimamente risentito.
La platea è piena. Complici un'ottima organizzazione, la riuscita promozione, il valido e simpatico cast e soprattutto la brillante idea che Giannini ha avuto nel proporre uno spettacolo atto a risvegliare la romanità sopita in noi, riempiendolo la serata con aneddoti che riguardano la storia di Roma.
Apre nei panni di portabandiera, presentatore, e showman lo stesso Fabrizio Giannini che si rivelerà un ottimo padrone di casa esibendosi in sketch, canzoni e duettando a turno con il resto del cast. Viene subito raggiunto dall’insostituibile e romano fino all’osso Fabrizio Gaetani, seguito a ruota da Federica Cifola, Barbara Boscolo, Christian Generosi e Stefano Ambrogi, in una sorta di animata presentazione in cui tutti discutono con Giannini proponendo il loro asso da inserire nella formazione storico calcistica in rappresentanza della capitale. Ovviamente questa virtuale squadra sarà composta da personaggi storici e di artisti legati all’Urbe come Romolo, Nerone, Sisto V, Fabrizi, Sordi…
Appare dunque dalle quinte in una bella e riuscita imitazione di Aldo Fabrizi: è il grande Gaetani. Magistrale la sua esecuzione. Atteggiamenti, fonetica e postura riportano immediatamente alla mente l’amato artista romano. Quello di Gaetani è un vero e proprio tributo ottimamente riuscito che diverte e strappa applausi a tutti.
C’è spazio poi per una gag tra la Cifola e Giannini, che raccontano una versione rimaneggiata e tutta loro della famosa canzone “Te la ricordi Lella”, storico brano di Lando Fiorini, raccontata proprio dalla Cifola, che rivede tutto il testo in maniera davvero esilarante. Federica ha una carica notevole, spiritosa e grintosa, e rivelerà di avere anche una bella voce e di saperla usare egregiamente.
È il momento di Ambrogi e Gaetani che duettano insieme sciorinando una serie di detti romani che hanno come tema il cibo. Ambrogi, con la sua inimitabile e profonda voce, proseguirà la sua brillante performance interpretando un testo di Califano in maniera sublime.
Christian e Barbara sono una coppia inossidabile; propongono come tema l’eterna rivalità a suon di battute tra Roma e Milano, una gag assolutamente efficace e divertente. I due insieme si spalleggiano e si provocano suscitando l’ilarità dei presenti.
Apre il secondo atto il trio musicale “Montanari e Targhini”, preparati musicisti che accompagnano tutta la serata con una colonna sonora delicata e piacevole. Arriva Luigi Martini, un giovane e promettente attore che ormai fa parte di questo cast e che stasera ha uno spazio maggiore per farci conoscere le sue doti artistiche. Ci presenta il suo libro “A me gli gnocchi please”, parafrasando simpaticamente il titolo di uno spettacolo del grande Gigi Proietti. I suoi aforismi sono tutti ispirati alla cucina romana, assai divertenti.
Gaetani rientra nei panni di Aldo Fabrizi in un improbabile versione vegana. Con la Sora Lella erano rinomati per la passione per la buona cucina. Ve lo immaginate a combattere oggi con queste nuove tendenze culinarie?
Giannini ci espone altri aneddoti sui Borgia, i re di Roma e Nerone, passando così la palla a Christian che si propone in una versione buffissima di questo imperatore nella conosciuta ma antistorica versione di maniaco piromane. Barbara invece impersona una divertente versione di Poppea. Trascinanti e sempre estremamente comici, si rivelano inequivocabilmente una coppia molto affiatata.
La “voce di Roma” stasera è impersonata da una deliziosa Elisa Olivieri, che con un approccio nostalgico presta la sua voce alla nostra Roma permettendosi di raccontarsi. Giannini poi ci canterà “Roma non fa la stupida stasera” in coppia con una travolgente e toccante Cifola che rivela di nuovo tutte le sue doti canore.
Ma non è finita: ritorna Gaetani per raccontarci aneddoti divertenti su sua nonna, portando sul palco una serie di oggetti legati agli anni Ottanta, che arricchiranno il suo riuscito monologo. È semplicemente un grande! Sia da solo che al fianco di altri artisti si rivela sempre una succulenta ciliegina sulla torta.
Arriva ora un omaggio al poeta Trilussa attraverso la calda e profonda recitazione di Ambrogi, che darà vita alle sue deliziose favole dedicate agli animali. La sua non è una voce, è una vibrazione che attraversa come un fremito lo spettatore e produce una sensazione paragonabile all’ “Om” pronunciato in coro dai monaci tibetani. Travolge, conquista, ammalia, seduce…
Giannini poi, insieme a Denise Alfonsi, canta una suggestiva e toccante ninna nanna.
La serata giunge al termine e l’esuberante e camaleontico onnipresente Giannini fa salire sul palco un bambino dall’aspetto furbetto e scanzonato; è Adriano, il figlio di Fabrizio che il conduttore punzecchierà interrogandolo sulla cultura romana, dandogli modo di esternare riusciti aforismi perfettamente in tema con la serata.
Lo spettacolo sembra finito, ma lascia ancora un piccolo spazio per coinvolgere il pubblico, con il quale declamare insieme la formazione finale vincente pseudo calcistico-storico-artistica, che coinvolge l’intera platea con tanto di cori da stadio. Così Ciceruacchio, Sisto V, Adriano e Cesare, Fabrizi e Sordi appariranno su delle slide con la divisa calcistica di questa virtuale ed imbattibile formazione.
La piece è una trovata intelligente, nostalgica e romantica che risveglia l’interesse verso le nostre origini, verso quelle radici che ci legano alla nostra fantastica città.
Teatro Roma
“La setta dei romani estinti”
-Il varietà della romanità-
-Da Trilussa a Califano-
Debora Caprioglio veste i panni di Artemisia Gentileschi in un emozionate monologo che prenderà vita nel suo studio di pittura. Un luogo dove svolge l’attività che più ama, ma anche suo rifugio.
Il Teatro Arcobaleno è per me una sorpresa inaspettata, non c’ero mai stato. Ben tenuto e accogliente, in questa stagione propone spettacoli incentrati sui classici greci, latini e in generale storici, come quello di oggi.
Si entra nella sala e ci accoglie una delicata musica barocca in tema. Il palco è molto spazioso, il sipario è già aperto per lo spettatore che può saggiare subito l’atmosfera seicentesca, quasi fatata.
La scenografia è composta da cavalletti che sorreggono delle tele, al momento tutte coperte perché verranno svelate durante la storia. Due sedie e uno sgabello, pennelli e tavolozza completano la scena. Tutto è già suggestivamente illuminato.
Debora appare in scena con un bel costume, in linea con il periodo rappresentato. Si muove con dinamismo sfruttando tutto il palco e mentre si racconta nei panni della Gentileschi, scopre le sue tele una ad una rivelando e i capolavori e facendone stazioni che scandiscono il suo racconto.
L’ottima regia di Roberto D’Alessandro si avvale di questa bella scenografia e di un gioco di luci molto suggestivo che esalta il monologo. La recitazione è ricca di contrasti che sottolineano i vari passaggi della vita della pittrice.
Debora, attraverso un testo articolato e ben strutturato, racconta con passione tutta la vita di Artemisia: l’adolescenza, la famiglia, gli esordi nella pittura, i contrasti con il mondo artistico maschile, fino ad arrivare alla violenza subita e alle terribili conseguenze. Si prosegue con il racconto del suo matrimonio fallimentare che le darà la figlia Palmira e del suo lavoro che la porterà da Roma a Firenze, poi a Venezia, Genova, Napoli, fino a Londra.
Ogni passo è ben raccontato da Debora, che dona al personaggio tutte quelle sfumature che la rendono oltre che. viva, credibile, anche grazie al testo che si caratterizza per l’uso moderato ma funzionale di termini e inflessioni del parlato seicentesco. Ne esalta ogni sentimento, da quello più drammatico a quello più toccante, non senza qualche istante di ironia.
L’attrice si sofferma su alcune tecniche e materiali della Gentileschi usati per mescolare i colori e ne descrive opere e momenti di vita, mentre si muove nello studio impegnata nella pulizia dei pennelli o nella pittura. Questo approccio ci permette di conoscere la Gentileschi sia dal punto di vista artistico che umano.
Non ci dimentichiamo che Artemisia è una pioniera nel suo ambito, vive in un mondo che non le appartiene, è una figura scomoda ed insolita perché l’arte è appannaggio degli uomini. Anche se è figlia di Orazio Gentileschi, un artista di fama, troverà davanti sempre porte chiuse. Il padre, però intuendo il suo talento, cercherà lo stesso di avviarla nel campo della pittura. Nonostante sia molto portata, attenta, perspicace, alacre e dotata, si scontrerà con un mondo maschilista, chiuso e misogino.
Figlia d’arte, avrà l’opportunità di conoscere i grandi pittori del suo tempo, tra cui Caravaggio che molto la ispirerà. Il padre la affiderà alla bottega di un suo amico, Agostino Tassi perché ne curi le doti e possa fare con lui esperienza. Ma il Tassi abuserà di lei. Questo dramma segnerà inevitabilmente la vita e la pittura della donna, e sarà un trauma che porterà con sé insieme al peso di un lungo ed umiliante processo che la vedrà addirittura sotto accusa. Debora Caprioglio interpreta Artemisia con rabbia, amore, grande forza d’animo e forte tempra.
Le vicissitudini di Artemisia e lo studio dei grandi pittori contemporanei la porteranno a seguire il modello pittorico di Caravaggio, con cui peraltro ha in comune una vita travagliata. Riprenderà dal Merisi i suoi caratteristici chiaroscuri rotti dal raggio di luce, che forse per entrambi rivela la speranza o una particolare e profonda fede in Dio e nella sua giustizia. Questo aspetto artistico verrà riproposto sulla scena con un suggestivo uso delle luci laterali che conferiranno drammaticità al racconto.
Così Artemisia, come Caravaggio finirà per esorcizzare le sue paure e i suoi drammi attraverso la pittura, in cui sarà possibile ritrovare il loro mondo interiore.
Toccanti i momenti in cui Debora ci parla della violenza subita, così come la descrisse Artemisia; dell’umiliante e sofferto processo, del rapporto conflittuale con gli uomini e del tradimento subito dal padre, che per motivi lavorativi ritirerà la denuncia.
L’attrice evidentemente ama questo personaggio e vivendone gli stati d’animo, riesce ad ammaliarci con un testo profondo in cui mette tutta sé stessa. Ci intrattiene con grande impegno per quasi un’ora e mezza senza stancarci, regalandoci di continuo forti emozioni ma soprattutto facendoci conoscere un importante pezzo di storia dell’arte con le vicende della prima donna che con la sua tenacia è riuscita a scardinare le porte di un settore esclusivamente riservato agli uomini, entrandovi di prepotenza e lasciando il suo segno indelebile.
"Non fui gentile fui Gentileschi” -La vita “di Artemisia Gentileschi-
Di Roberto D’Alessandro e Federico Valdi
Regia Roberto D ’Alessandro
Con Debora Caprioglio
Un testo crudo, diretto, velenoso che in un'ora e qualche minuto mette a nudo dinamiche e mentalità del perverso mondo camorrista. Utilizzando il dialetto napoletano, perlopiù fruibile e comprensibile a tutti, la piece risulta ancora ancora più realistica.
“L’imparata” è traducibile come “la lezione”, che il povero venditore ambulante Matteo (Antonello Pascale) dovrà, suo malgrado, sorbire da Vincenzo (Antonio Grosso). Il malvivente è inspiegabilmente uscito di prigione prima di aver scontato tutta la sua condanna. L’uomo sembra inasprito dagli anni passati in carcere e rabbioso cerca qualcuno su cui sfogarsi, ma al contempo sembra anche roso da sensi di colpa o da chissà quale tarlo che lo ossessiona. Così, prende come capro espiatorio il povero venditore terrorizzato. Unica colpa del lavoratore, è quella di aver mancato di rispetto alla sua famiglia, ma come? Proponendo una vendita di biancheria a rate! Pretesto, questo, per scatenare l’ira del malvivente, che inspiegabilmente si sente offeso davanti a tutto il quartiere e alla comunità criminale che lo circonda perché non è in grado d pagare in un'unica soluzione...
Questo atteggiamento palesa la bieca mentalità di un malvivente, che cerca solo un pretesto per scaricare la sua frustrazione. Vincenzo sembra prepararsi per un viaggio, o forse una fuga, insieme ad un altro poco di buono, mal visto dalla famiglia anche perché particolarmente pericoloso. Con lui, quando è al telefono, cambia completamente atteggiamento, dimostrando una sudditanza psicologica ed emotiva che stona con la sua rudezza e prevaricazione contro il povero venditore.
Antonio, nei panni di questo malvivente, manifesta il peggio di sé: violento, provocatorio, frustrato, ma in lui traspaiono anche delle debolezze che cerca di nascondere.
Questo è ben sottolineato dalla regia, che si direbbe abbia voluto intrappolare l’uomo nella scenografia in una gabbia inesistente, quella mentale del protagonista. Impossibilitato ad uscirne, si muove come una tigre in gabbia o una mosca che sbatte continuamente sulla finestra chiusa, vomitando ansia, frustrazione, paura e sfogando tutto sull’altro. Attraverso questa “imparata” il malvivente vorrebbe insegnare al disgraziato il rispetto e come vivere, ma attraverso la lente distorta della malavita in cui è cresciuto e dove si è ritagliato uno spazio che ora però sembra essergli stretto, soffocarlo, fagocitarlo.
Il malavitoso sembra a volte rispecchiarsi in quel piccolo uomo in cui rivede le sue fragilità, e così lo aggredisce; in lui vede il suo alter ego dall’aspetto più umano e debole che deve distruggere, annichilire e soffocare. Una parte da disconoscere, una voce della coscienza diventata opprimente, il suo punto più debole e conflittuale.
Allora, per ritrovare quel potere ormai svilito in cui si è sempre rifugiato, cerca di soffocare questo stato d’animo attraverso il sopruso.
Il testo sottolinea la povertà d’animo e la vigliaccheria di un uomo armato che abusa di una persona semplice e indifesa, mettendo a nudo la difficile realtà di un pentito che ancora non si è staccato dalla mentalità criminale, che ora lo ostracizza e lo vede come traditore. Vincenzo ora vive nel terrore e mostra la paura per le inevitabili ripercussioni che si abbatteranno su lui e sulla sua famiglia. Così, tutto gli crolla addosso, perde la sua identità e il posto in quella parvenza di società malata di cui non fa più parte.
Subentreranno nella scena altre due importanti figure. La prima è la riuscitissima moglie (una bravissima Marika De Chiara), anche lei maltrattata dal marito seppure riesca a tenergli testa, tanto che l’uomo nel confronto manifesta le prime crepe con momenti di estrema fragilità.
La seconda figura è la fantastica Teresa Del Vecchio nei panni della madre. Con lei si svela un altro aspetto del malvivente, ancora più profondo. Lo troviamo rispettoso, si direbbe succube della figura materna, pur manifestando sempre il suo umore altalenante, insofferente, insicuro ed agitato. La madre ha ormai capito qual è il segreto che lo divora.
Antonio Grosso si rivela perfetto nella sua parte in bilico tra violenza, viltà e conflitto interiore. Antonello Pascale gli fa magistralmente da spalla in questo duetto iniziale ricco di forti emozioni che svelano l’intimo di entrambi i personaggi, fino all’epilogo.
Marika invece adotta magnificamente quegli stessi atteggiamenti delle donne della camorra. Si muove, parla e si atteggia rispecchiando magnificamente questa triste realtà. Anche i cambi di umore durante i confronti con il marito sono ben studiati, realistici ed emozionanti. Teresa del Vecchio, la madre, si rivela l’asso nella manica del dramma; espressioni, atteggiamenti, movenze, toni di voce, tutti sono assolutamente perfetti e chiudono questo malsano cerchio, questo circolo vizioso. Grandiosa.
Quattro bravissimi attori coadiuvati dall’attentissima regia di Felice Della Corte, in complicità con gli azzeccati costumi di Lucia Mirabile perfettamente in tema, esaltano personaggi e testo.
Alcune scene in penombra sembrano voler strizzare l’occhio ad opere artistiche di rilievo, una sorta di allegoria drammatica atta a sottolineare i sentimenti espressi dai personaggi, che mi hanno riportato alla mente opere di artisti famosi come Gustave Corbet, Caravaggio, Michelangelo, Francisco Goya, Perez Fabian… La scenografia e le luci giocano molto su effetti che esaltano momenti, situazioni ed espressioni che sembrano ispirarsi a questi autori.
Insomma, il dramma si fa sempre più pesante, si comincia a realizzare che il malvivente ha fatto una scelta che metterà in pericolo tutta la famiglia, ma forse anche peggio, ne macchierà l’onore e la reputazione ed evidenzierà il fallimento dell’educazione ricevuta, tanto da far disperare prima e scatenare poi l’ira della madre, trascinando la storia verso un epilogo tragico ed inaspettato che rivelerà l’assurda ed inconcepibile mentalità camorristica.
Ben lontana, L’imparata, dal voler esaltare queste figure come nei vari Gomorra. Tutt’altro, qui questo sistema e i suoi personaggi sono sviliti, umiliati, mostrati nella loro pochezza e miseria d’animo attraverso il loro linguaggio e il pensiero, che ne mostrano l’essenza degradata e la sudditanza morale, senza inutili orpelli ed ipocriti abbellimenti.
Bell’idea, interessante proposta, ottimo cast e testo.
Teatro Manzoni - “L’imparata”
Di Roberto Iannucci
Regia Felice Della Corte
Compagnia Mania Teatro
Con Antonio Grosso, Teresa Del Vecchio, Antonello Pascale e Marika De Chiara
Aiuto Regia Andrea Goracci
Costumi Lucia Mirabile
Teatro Petrolini
“Giacche arancioni e manici di scopa”
-Memorie tragicomiche di un netturbino sentimentale-
Di Riccardo Massaro
Riadattato ed interpretato da Marco Zordan
Quale effetto vi farebbe ascoltare la vostra vita raccontata da un altro? Sarebbe capace di procurarvi le stesse emozioni e sensazioni che avete
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Marco Zordan |
vissuto in prima persona? Marco Zordan ne è stato capace.
Devo dire che mi ha fatto uno strano effetto questa particolare esperienza. Conosco il talentuoso Marco da anni perché lo seguo spesso in teatro. Dunque, con molta fiducia gli ho messo in mano una parte della mia vita, quella professionale, con tutte le emozioni ad essa legate.
Qualche decina di fogli pieni di righe nere. Righe formate da parole che raccolgono parte del mio mondo. Non avevo dubbi su come si sarebbe impegnato nel realizzare la mia proposta, e lo spettacolo di stasera me ne ha dato la conferma. Non avrei potuto fare scelta migliore.
Non nascondo di essere stato teso in sala, sentivo di aver gettato quasi egoisticamente sulle spalle di Marco una grande responsabilità: portare in scena un tema scomodo in cui si sarebbe esposto per me, mentre io sarei stato comodamente eclissato e protetto dal buio della sala.
Il monologo sarebbe piaciuto? Sarei riuscito a presentare il mestiere del netturbino sotto una luce diversa da quella che tutti immaginano? Saremmo riusciti a far riflettere il pubblico attraverso un testo apparentemente leggero e simpatico, che però affronta con onestà tutti i luoghi comuni che affliggono me e i miei colleghi?
Con molta sincerità ho raccontato aneddoti veri, esperienze scaturite dall’affrontare dubbi e incertezze, difficoltà e problemi. Ma il pubblico avrebbe capito? Avrebbe apprezzato? Questo prodotto artistico avrebbe funzionato?
Sì, ha funzionato, grazie a Marco Zordan che quasi come un mio alter ego, ha vestito gli stessi panni che ogni giorno indosso per il mio servizio, è riuscito ad entrare con la sua proverbiale delicatezza e profonda sensibilità negli aspetti più intimi del mio racconto e attraverso il suo impetuoso e sfrontato temperamento, ha esaltato gli aneddoti più divertenti che mi hanno coinvolto durante vent’anni di servizio.
Marco è un fuoriclasse che con tanta ironia mi ha raccontato, facendo ridere e commuovere anche me, insieme al pubblico in sala. Con il suo talento si è immedesimato nella figura dell’operatore ecologico, cogliendone e riproponendone gli aspetti più comici ma anche quelli meno evidenti e più profondamente umani.
Ha trasformato e arricchito il mio testo adattandolo ed esaltandolo senza snaturarlo, riuscendo a cogliere tutte quelle sfumature che desideravo far emergere.
Così, ha restituito dignità ad una delle categorie più discusse e criticate dai cittadini. Con la sua grande professionalità, preparazione artistica e senso dello humor, ha inserito delle trovate che ritengo geniali e che hanno esaltato il monologo.
A fine spettacolo ho ascoltato i pareri e i commenti dei presenti che mi hanno colpito, così come la profondità delle domande che mi sono state rivolte sul mio lavoro, a dimostrazione che lo spettacolo aveva raggiunto lo scopo che mi ero prefissato.
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Marco Zordan e Riccardo Massaro |
Questo era il mio intento: rompere le barriere e i preconcetti su questa figura da parte dell’utenza cittadina.
Marco, con una verve, non si è risparmiato e senza darci fiato ci ha divertito, colpito, fatto riflettere ed emozionare in un continuo e travolgente sfogo, ricco di brillanti trovate personali inserite nel testo.
Tanti sono stati i complimenti che abbiamo ricevuto, sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori, direi unanimi e questo mi ha fatto un enorme piacere.
Ringrazio Marco per tutta l’attenzione e l’amore con cui ha adattato e rielaborato le mie parole e per il risultato ottenuto, sperando di riproporre quanto prima questo spettacolo e farlo conoscere ad altri spettatori.
Sì, avete letto bene, il 14 e il 15 settembre andrà in scena il mio monologo, interpretato da Marco Zordan, che concorrerà al Comic Off.
È una strana sensazione essere “dall’altra parte”, anche se non sarò certo io sul palco. Dopo aver visto e scritto articoli per quattro anni su tanti spettacoli teatrali, ora tocca al mio, di cui certo non scriverò una recensione, semmai racconterò le sensazioni di questa nuova esperienza.
Marco è un grande artista e mi lusinga che abbia voluto interpretare questo testo in cui si farà portavoce del mio mestiere di operatore ecologico. A scriverlo mi spinse un altro attore che stimo moltissimo, Gianluca Delle Fontane, senza il quale non so se mi sarei cimentato in questa avventura; lo ringrazio sia per avermi spronato che per i suoi consigli e il suo aiuto.
Non credo ci sia una pièce che parli del mestiere del netturbino, soprattutto raccontato in prima persona. Ho voluto inserire aneddoti, curiosità, problematiche, il rapporto con i cittadini… raccontando anche di me e dei miei colleghi; tutto per sorridere con voi e con loro, ma anche per presentare il lato umano, spesso nascosto ma profondo, di chi opera in questo settore del lavoro.
Un settore sempre al centro di polemiche, discusso e criticato, sbeffeggiato a volte a ragione, altre senza conoscere i retroscena che, per questo, in parte ho voluto svelare.
Ringrazio la genialità, la comicità e lo spessore umano di Marco Zordan per aver voluto dare voce al mio pensiero, che, sono sicuro, farà con grande maestria e professionalità.
Lo spettacolo è scritto, diretto ed interpretato con molta sensibilità da Alessio Chiodini, anche nella veste della Bestia, proprio quella ispirata alla famosa favola. Al suo fianco Alessio ha voluto la deliziosa e bravissima Valentina Corti nel ruolo di Belle (la Bella) e Giovanni Pelliccia nelle vesti di narratore.
Questi bravi artisti ci porteranno virtualmente nella sala di un castello, riproposto in questo suggestivo teatro, per raccontarci una loro versione della famosa favola che alcune fonti fanno risalire alla metà del XVI secolo e alla penna dello scrittore italiano Giovanni Francesco Straparola, anche se comunemente viene attribuita a Jeanne-Marie Leprince de Beaumont che la propose nel 1740.
La storia potrebbe essere stata ispirata da un fatto reale.
Nel 1537 a Tenerife nacque Pedro Gonzales, afflitto da ipertricosi, una rara e particolare malattia genetica che ricopre di peli tutto il corpo, viso compreso. È questa disfunzione che forse ha ispirato anche l’ideazione di Chewbacca, lo strano peloso personaggio di Guerre stellari, come può aver ispirato le credenze popolari sull’esistenza dei lupi mannari…
Pedro arrivò ad essere “adottato” dal re francese Enrico II, che lo educò e ne fece un nobile istruito a tutti gli effetti. Nonostante la sua particolarità, la giovane Caterina di innamorò di lui sposandolo e dandogli ben sette figli, di cui cinque afflitti dallo stesso disturbo.
Dopo le repliche romane, lo spettacolo sarà ospitato in alcuni castelli italiani, a partire dal Castello Fittipaldi Antinori di Brindisi Montagna, e percorrerà varie tappe nello stivale fino ad arrivare in Trentino Alto Adige in estate, dove terminerà il tour.
Il Teatro dei Documenti si presta molto bene a questa proposta. A ridosso del Monte dei Cocci di Testaccio, è una sorta di labirinto pieno di sale con un loro particolare fascino, che permettono una realizzazione scenica molto suggestiva. Credo unico nel suo genere, alcune sale mi hanno ricordato i mitrei romani o le tombe precristiane. L’ambientazione dunque è perfetta, grazie anche alla sapiente illuminazione che gioca con dei bellissimi effetti creando un’atmosfera surreale. Qui i personaggi si muovono in quella che sembra la sala da pranzo di un castello, con tanto di pianoforte parlante. In questo ambiente irrompono facilmente ed immediatamente la quarta parete, sfruttando l’idea del metateatro.
Il primo ad apparire è il narratore menestrello Giovanni che presenta la storia, ben sviluppata e concentrata in cinquanta minuti. La recitazione, come la voce di Giovanni, sono perfette per questo ruolo, così come la sua gestualità. Ci apparirà anche nei panni del padre di Belle e presterà la voce, oltre che come narratore, anche al pianoforte parlante, rendendolo simpatico con i suoi discorsi e con un caratteristico accento francese con cui dialoga con i personaggi.
Alessio, che ho apprezzato pochi giorni fa in “L’amico ritrovato” e tempo addietro in “L’acqua e la farina”, indossa una maschera che ricorda il dio celtico dei boschi Cernunno. Eclissato dalla maschera, non puoi contare sulla sua particolare espressività, dunque si riscatta con un’ elegante gestualità e l’uso di toni di voce profondi o suadenti, alternando modi bruschi a più dolci per caratterizzare la Bestia. Ci riserverà poi un momento davvero toccante, alla fine dello spettacolo, quando apparirà con le sue fattezze umane ad incantesimo spezzato.
Valentina mi stupisce. Esprime una dolcezza, una delicatezza ed un’ espressività che incantano. Ho avuto modo di apprezzarla poco tempo fa in un bellissimo spettacolo dal titolo “Più vera del vero”, in cui impersonava un androide. Semplicemente fantastica! Valentina sa giocare bene con la voce e la gestualità, ma soprattutto con la sua inesauribile gamma espressiva. I suoi sguardi sempre profondi, che passano dal malinconico al gioioso, sono in grado di trasmettere forti emozioni che colpiscono inevitabilmente lo spettatore. Stasera sembra davvero uscita dalle pagine di questa favola. Insieme ad Alessio e a Giovanni ci porta per mano in questo mondo incantato attraverso un dramma fino al suo toccante, commovente e delicato epilogo che mi ha particolarmente commosso con il loro bellissimo abbraccio finale e le romantiche frasi che si sono scambiate, complici anche la belle parole di alcune poesie di Prevert inserite nella sceneggiatura da Alessio.
Una bella favola che tra suoni, luci e una buona regia, riesce a lasciare il segno.
Produzione: Produzione spettacoli teatrali
Seguo con interesse le proposte di Alessandra che si rivelano sempre divertenti e profonde, ma soprattutto vincenti. Mi piace il suo approccio artistico, personale e riconoscibile.
Stasera ci propone uno spettacolo i cui temi e personaggi rivelano il suo modo di pensare, di vivere la vita, di interpretarla e di affrontarla, attraverso il suo forte spirito ironico e pungente.
In questa nuova proposta ci parla della sua grande passione per Muccino, nei cui film Alessandra si rivede. Ispirata dal regista, partorisce questo riuscito monologo tragicomico in cui, dopo aver sottolineato le similitudini della sua vita con i film del regista, prende una direzione narrativa in cui riconosco la sua penna e la sua linea di pensiero.
Uno dei temi trattati è quello della donna “di contorno” in una relazione, il suo essere sempre al secondo posto sul podio dell’amore, sempre all’ombra di una madre, di una ex, dell’amica del cuore o addirittura del cane. Impelagata in relazioni con uomini dagli atteggiamenti discutibili, o in triangoli amorosi di cui lei è l’ignaro terzo vertice, Alessandra sembra in balia di un karma funesto, al quale cerca comunque di opporsi.
Non mancano, nel suo divertente sfogo, i racconti dei suoi drammi familiari che finiscono per ripercuotersi sulla sua esistenza e condizionarne le scelte, con l’aggravio delle piccole ma numerose beghe quotidiane che, seppur futili, non fanno che esasperare il già precario equilibrio emotivo. Nel suo sfogo troviamo anche il riflesso di una crisi generazionale, che Alessandra inserisce brillantemente nel monologo. Una generazione dal futuro buio ed incerto, in cui l'artista si riconosce e da cui si sente tradita. La sua sembra una vana ricerca di una stabilità economica, familiare, relazionale, emotiva e sentimentale da poter vivere serena e felice, così come in un film di Muccino.
Seppur le storie del regista siano sempre ricche di drammi, tradimenti, crisi, litigi e relazioni sull’orlo del baratro, in ognuna appare sempre uno spiraglio, una speranza che porta verso un lieto fine. Proprio quello che si aspetta la nostra Alessandra; illusa da queste pellicole, sente di essere rimasta con un pugno di mosche in mano, ancora in attesa di beneficiare di un bel finale disegnato su misura per lei.
Si sente come Giulia, la protagonista de “L’Ultimo bacio”, ci rivede la sua energia, ne ha ereditato lo spirito e ora si aspetta di vivere un epilogo felice come il suo. Ma la vita non è come quella proposta nei film…
Alessandra dimostra tutta la sua forza espressiva divertendoci con singolari personaggi, che in fondo altro non sono che la pessima rappresentazione della nostra società, che lei critica e ridicolizza con gusto.
Eccola, allora, nelle vesti di un cantante dalle discutibili doti, che approda non si sa come a San Remo; e poi in quelle di una cinica scrittrice che presenta il suo libro sulla bellezza interiore, ma che finisce per vessare la figlia bruttina; gag che darà poi vita ad una simpatica e attualissima digressione sul body shaming, attraverso affermazioni che ben conosciamo e che solo oggi ipocritamente vengono messe alla gogna mediatica. Poi è il turno della finta radical chic di periferia, piuttosto opportunista che vorrebbe creare un partito fondato sulle sue discutibili idee.
A questi personaggi parossistici ma, ahimè, anche piuttosto realistici, Alessandra, con un versatile uso della voce e di varie parlate dialettali, conferisce una bieca personalità ed un’esasperata espressività che racconta questa strampalata generazione con una buona dose di simpatia ma anche tanta profondità.
Il monologo segue la linea tracciata del suo riuscito “Vita grama di un’eroina moderna”, e senza ripetersi o cadere nello scontato, continua efficacemente il viaggio introspettivo che parte dalla sua infanzia, quando forgia il suo carattere influenzata dagli sfortunati personaggi dei cartoni animati giapponesi che hanno accompagnato lei e tutta la sua generazione, per proseguire con aneddoti divertenti dell’adolescenza e della maturità.
Forse il suo è un modo per esorcizzare i suoi vissuti, che colora con tenui tinte attraverso la grande autoironia che la contraddistingue. Senza veli, ci svela le sue fragilità ma anche i suoi punti di forza, i sogni e le speranze che la portano ancora a credere nella vita e nell’amore. Si mette in discussione davanti a noi affrontando con coraggio e determinazione quelle che sono state anche le sue debolezze e le scelte sbagliate, e quei traumi familiari che hanno condizionato la vita e condotto ad avere relazioni a senso unico tossiche e deleterie.
Alessandra ci sorprenderà con un vibrato e sentito finale in cui dimostra una evidente capacità di passare dalla leggerezza intrisa di comicità alla serietà dell'introspezione.
Sono rimasto molto colpito da questo inaspettato finale, assolutamente riuscito.