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La nostra concezione del matrimonio è legata a quella classica: l'unione tra uomo e donna. In seguito, nella nostra società si è allargata anche al matrimonio tra due persone dello stesso sesso. Ma se a sposarsi fosse chi è semplicemente legato da un profondo affetto? Non è amore anche questo? Danila si pone e ci pone questo quesito con velata simpatia...
È sempre un piacere rivedere sul palco attori che apprezzi e stimi per dedizione, impegno e capacità. Stasera sono di scena Leonardo Bocci, Antonia Di Francesco e Danila Stàlteri che seguo volentieri da tempo, ed ho anche la possibilità di conoscere ed apprezzare Roberta Grazia in quella che si presenta come una commedia divertente, ma che in realtà racchiude ben altro.
La storia parla di Sara e Valentina, due amiche quarantenni che hanno scelto di vivere insieme dopo una serie di brutte esperienze con gli uomini. Profondamente amiche, condividono un appartamento. Con loro, di tanto in tanto, c'è Maria, una domestica piuttosto indiscreta che ama più chattare al telefono e impicciarsi dei fatti altrui che tenere in ordine la casa.
Valentina da qualche tempo, all’insaputa di Sara, frequenta Santo, più giovane di lei e arrivato da un fantomatico paese nei dintorni di Roma. L’uomo, si capisce subito, è uno scansafatiche che si arrangia a lavorare come cameriere quando proprio non può farne a meno. Inoltre, sembra nascondere un torbido segreto…
Sara non è del tutto convinta della sincerità e dei sentimenti di Santo nei confronti dell’amica, anzi, è alquanto dubbiosa. Quando casualmente scopre il segreto dell’uomo, che inspiegabilmente scompare senza preavviso, da buona amica cerca di stare vicino a Valentina e di consolarla senza rivelarle quanto ha scoperto, ma questo le costerà un caro prezzo quando Valentina scoprirà che era a conoscenza del segreto. Fino a qui, penserete, sembra una trama come tante altre… E invece ci saranno delle sorprese…
La commedia ha un inizio un po’ lento, spiazzante, per crescere gradualmente e raggiungere il picco con l’entrata in scena di Maria, la governante, un’Antonia piuttosto in forma, a cui Daniela ha cucito addosso un personaggio perfetto che con disinvoltura ed ironia porta avanti magistralmente e che viene particolarmente apprezzato dal pubblico ogni volta che entra sul palco.
Dal suo arrivo si nota un cambiamento: tutti i personaggi cominciano a sbocciare, ad esprimere una maggiore vitalità e personalità, pur rimanendo sempre contenuti e mai eccessivi. Così, quella che sembrava una commedia comica, si rivela tutt’altro. Con una sottile e pungente intelligenza ed una buona dose di ironia, la pièce affronta tutta una serie di argomenti molto seri. Tra un sorriso e l’altro si sviluppano temi come l'amicizia e l'amore, ma soprattutto quello dell’affetto profondo e genuino tra due persone dello stesso sesso legate da un amore amicale, a cui Danila ha voluto dare spazio e voce. Sì, perché si sorride, indubbiamente, ma soprattutto si riflette grazie ad un testo profondo e non sempre immediato, sicuramente originale, che fa emergere il tema poco considerato della famiglia come nucleo di persone che scelgono di vivere insieme per un’amicizia incondizionata. Quello tra le protagoniste è un amore alternativo che rompe gli schemi ed esplora nuovi confini, al di là della coppia classica o arcobaleno, e ci restituisce una realtà poco conosciuta.
Ci si trova di fronte a una proposta originale, anche coraggiosa, che vuole mettere in primo piano due anime, due esseri umani che si sono incontrati e che rompendo ogni schema culturale predefinito, hanno deciso di unirsi rispettandosi, ascoltandosi, aiutandosi in quanto amici.
Lo spettacolo è arricchito da frequenti cambi di scena con inserti originali, fatti di balletti e intermezzi musicali godibili e brani cantati dal vivo da Danila che ci delizia con la sua voce.
Leonardo, come sempre, esprime una romanità simpatica e spigliata nei passaggi più leggeri ma anche profondità nei momenti più toccanti.
Roberta è deliziosa nella parte di donna dal cuore infranto; vivace, coinvolgente, naturale e brillante, si rivela una valida artista.
Danila sembra una donna coriacea, diretta e pragmatica, che maschera con un apparente distacco una grande sensibilità dietro una corazza emotiva.
Una proposta che non può essere catalogata, a mio avviso, né come una commedia né come un dramma, bensì come una pura rappresentazione di sentimenti umani profondi e granitici.
Teatro De Servi
"Ti va di sposarmi?”
Scritto e diretto da Danila Stalteri
Con Roberta Garzia (Valentina), Leonardo Bocci (Santo), Danila Stàlteri (Sara) e Antonia Di Francesco (Maria)
“Esterino” è una commedia delicata e deliziosa adatta sia ai grandi che ai più piccoli. Dirò di più: sembra studiata per farci tornare in contatto con il bambino che è rimasto in noi. Esterino è un bambino di otto anni molto curioso, brillante e perspicace che si pone domande mettendo in crisi gli adulti. Questo aspetto si evidenzia soprattutto quando si relaziona con il suo analista. Con l’insolito e prematuro pensiero critico, riesce a mettere in difficoltà il discutibile specialista da cui è aiutato ad affrontare la dolorosa morte del tanto caro nonno.
Il bambino inizierà una sorta di viaggio onirico e profondamente introspettivo attraverso un dialogo interiore volto a creare una realtà fiabesca ed irreale, che gli permette però di continuare a relazionarsi con l’amata figura di nonno Lello. I genitori, preoccupati per gli insoliti comportamenti del figlio e al corrente dei suoi immaginari incontri notturni con il defunto nonno, lo metteranno nelle mani di uno psicoterapista piuttosto incompetente: il dottor Bellachioma.
Non si può in questa proposta non ritrovare quel sapore de “Il Grande Grabski”, sempre di Marco Rinaldi, dove trovavamo un particolare psicologo impegnato nel suo confutabile lavoro. A Marco, evidentemente, piace mettere alla berlina gli psicanalisti poco seri. Stavolta lo fa provocatoriamente con la complicità di un bambino nomen omen, perché il nome Esterino significa “saggezza e coraggio”. Io lo vedo come un moderno Pinocchio, o un Peter Pan, che con la loro brillante spontaneità scalciano contro la dura realtà che gli ha tolto figure importanti e fondamentali per la sua inevitabile crescita.
La scenografia essenziale ripropone tre ambienti diversi e separati tra loro, in analogia con la trina personalità di cui parla Freud (che peraltro apparirà in veste onirica alquanto provocatoria). Troveremo la sua teoria spiegata con difficoltà dal terapeuta al bimbo, visto che anche lui sembra averla capita poco. L’ Es, l’Io e il Super-Io vengono spiegati come tre bambini, “uno che fa le cose, uno che controlla, e un altro che fa come gli pare perché non lo vede nessuno...”
In uno dei tre ambienti si muove Esterino con il nonno ancora vivo, in quello all’altro estremo del palco Esterino si relazionerà con lo psicologo cialtrone, mentre sullo sfondo, dietro un telo che solo quando debitamente illuminato, svela la stanzetta di Esterino. Questo spazio sembra rappresentare il suo inconscio, dove infatti il ragazzino incontra il nonno in sogno.
I tre interagiscono, ma quello che succederà e che si diranno non voglio svelarlo. Mi limito a dirvi che le dinamiche sono molto divertenti, originali, coinvolgenti e profonde. Grazie a un bel testo, il sogno e la realtà si inseguono e si sposano in maniera sublime con l’uso di una piacevole ironia dai ritmi serrati alternati a momenti più posati e riflessivi, che esprimono una genuina comicità e tanta tenerezza.
La figura di Esterino è deliziosa, rispecchia la personalità di tanti fantasiosi bambini della sua età. Figlio unico, adora il nonno che, nonostante sia anziano e svampito e lo intrattenga con fantasiosi ed irrealistici racconti delle sue passate esperienze, rimane il suo punto di riferimento. Figura perfetta per confidarsi, divertirsi e sentirsi protetto. Il bambino non può proprio fare a meno di lui, e così lo materializza nei suoi sogni. Questa tenera e dolce fuga dalla realtà evidenzia però anche la grande solitudine e l’incolmabile vuoto di cui soffre il bambino. Inutili, per alleviare la sua pena, saranno le risposte ricevute al catechismo sulla vita e sull’aldilà, e anche quelle dello psicologo con la sua illogica psicoanalisi. Il nonno, che rivive attraverso il ragazzino come il suo alter ego, consente alla mente brillante del nipote di confrontarsi con il truffaldino dottor Bellachioma mettendolo continuamente in difficoltà. Che anche Bellachioma sia stato suggestionato da questa figura? O che empaticamente sia entrato in contatto, attraverso il bimbo, con i suoi nodi irrisolti?
La storia è dolce, tenera, simpatica e molto profonda. La recitazione? Neanche a parlarne! Roberto, Riccardo ed Antonello sono una possente macchina da palcoscenico che funziona perfettamente, diverte, esalta, commuove, fa brillare i tre diversi caratteri dei protagonisti e le loro sfaccettature evidenziandone difficoltà e punti di forza in maniera sempre divertente. Quello che mi ha colpito di più è l'atmosfera magica, incantata, eterea che culla lo spettatore riportando in contatto con la sua parte infantile sopita. Le sinergie in campo riescono a produrre un felice connubio tra storia, recitazione, musica, regia e ambientazione. Bella la figura del nonno, simpatico con i suoi esagerati racconti. Accattivante, grazie all’espressività travolgente, Riccardo; dolcissima la figura del bambino, così realistico e tenero nella recitazione di Alessandro; simpaticamente antipatica è la figura dello psicologo cialtrone costruita con grande capacità da Roberto.
Questo cast esprime la bellezza di un testo appassionato e profondo coinvolgendo in un’ atmosfera in cui ci si sente coccolati e accarezzati in compagnia di figure ironiche, che seppur con tratti esagerati e caricaturali, rispecchiano le esagerazioni dell'essere umano, le debolezze e i punti di forza. Esterino crescerà e si forgerà attraverso questa esperienza che lo ha toccato profondamente.
Mi piace pensare che imparerà a convivere con l’ineluttabilità della morte, a mantenere il ricordo del nonno senza cadere nelle sue esagerazioni portandolo nel suo cuore, e ad imparare a relazionarsi senza soccombere a loschi figuri come il terapeuta e tirare fuori il meglio di sé per inserirsi nella società in maniera sana… in Esterino vedo l’opportunità del libero arbitrio. Voi?
Roma - Teatro 7 Off -
“Esterino”. Scritto da Marco Rinaldi e diretto da Paolo Vanacore.
Con Riccardo Bàrbera, Roberto D’Alessandro, Antonello Pascale
Regia di Paolo Vanacore
Musiche originali di Alessandro Panatteri
Scene di Alessandro Chiti
Disegno luci Camilla Piccioni
Foto e grafica di Manuela Giusto
Assistente alla regia Cinzia Corsetti,
Produzione CMR Project Camera Musicale Romana srls
Ebbene sì, siamo arrivati al quarto episodio di questa divertentissima sagra, che ad ogni episodio si arricchisce inesorabilmente in un crescendo di idee sempre più geniali e divertenti. In questo capitolo, in realtà più sobrio e ponderato del solito, oltre i video con Massimiliano Bruno, Pasquale Petroli e Claudio Gregori nei panni dei mariti delle Stremate, si inserisce per la prima volta nel cast tutto al femminile, una vera e propria novità: un maschietto, che risponde al nome di Vito Buchicchio. L’attore veste u panni di un buffo, ma anche ambiguo maggiordomo. Dopo la classica apertura di Stremate a base di rimproveri reciproci e lamentele personali, è Vito che si inserito come ciliegina sulla torta nella storia da quel tocco di originalità alla storia e un po’ di pepe.
Devo dire però, che ho assistito a questo nuovo episodio con una certa amarezza di fondo, questo perché alla fine della programmazione di “Tre stremate e un maggiordomo”, la serie verrà interrotta. Peccato, perché oltre ad essere molto divertente, ben fatta e ben recitata, la proposta è un unicum. È infatti al momento, una vera e propria novità nell’ambito teatrale, cioè la prima e unica serie ad episodi mai proposta in teatro e che ha riscosso anche un bel successo di pubblico… peccato davvero.
Sinceramente mi auguro ci sia un ripensamento, perché questo prodotto artistico merita veramente molto. Giulia Ricciardi come Patrizio Cigliano, ma come anche tutto il resto del cast, hanno messo il cuore in questa proposta, che merita di raggiungere platee sempre più numerose e non certo di rimanere congelata…
Marisa, per il suo compleanno, stanca della vita coniugale, ha lasciato suo marito ed ora vive in un mini appartamento da sola. Come al solito le due eterne ed immancabili amiche per starle vicino la vanno a trovare, per sondare il suo stato d’animo e per vedere la sua nuova sistemazione. Si tratta di una casa un po’ arrangiata e raffazzonata, che strapperà da subito i sorrisi del pubblico, che si troverà immerso in una semplice scenografia formata da scatoloni che testimoniano il recente trasloco e da una essenziale e misera mobilia.
Le amiche ascoltano il suo sfogo, in cui la donna accusa il marito di essere pigro ed indolente nella gestione familiare che è sempre ricaduta sulle sue spalle. Dunque si è trovata costretta sotto la costante pressione del marito, a lasciare il suo lavoro di arredatrice di interni per dedicarsi alla casa.
Ovviamente, per non smentire la serie, si gioca subito sul provocatorio ed ironicamente indolente carattere delle donne, ormai ben conosciuto dai fedelissimi di questa serie. Si parte con un iniziale sfogo di Maria a cui uniscono quelli di Elvira e Mirella in cui le donne liberano le loro frustrazioni e delusioni nei confronti dei rispettivi mariti. Uomini che pretendono che la propria moglie sia sempre efficiente, determinata e presente, ma soprattutto relegata ad un ruolo subordinato e dipendente dal maschio. In questo si evidenzia ironicamente l’inefficienza dei tre uomini che avremo modo di conoscere attraverso le video chiamate dirette alle rispettive mogli e in cui ascolteremo le loro puerili lamentele.
Questi simpatici video vengono inseriti dalla pièce e dalla regia nella storia in maniera molto efficace, non solo per spezzare le scene, ma anche per dare modo alle tre protagoniste di spostare gli oggetti in scena per nuove situazioni e per cambiarsi gli abiti, peraltro davvero belli ed eleganti che ne esaltano la femminilità. I costumi sono stati forniti dall’elegante e raffinata RS Boutique dell’estroso Raffaele Marchese, che oltre stilista si rivela inaspettatamente anche un valido costumista.
La nuova location di Marisa (Milena Miconi), si rivelerà un ottimo escamotage per le altre due donne (Beatrice Fazi e Giulia Ricciardi). Permetterà loro di dare vita ad una sorta rivincita sui loro mariti, allontanandosi dalle loro famiglie per trasferisi nell’appartamento di Marisa, li obbligheranno ad autogestirsi e potranno respirare e disintossicarsi dall’ombra prevaricatrice e nefasta degli strampalati ed inetti mariti.
Neanche a dirlo Lillo, Greg e Massimiliano ci appariranno sempre più smarriti, esauriti ed incapaci di autogestirsi e con le loro gag ci faranno sbellicare dalle risate.
Ma non è tutto, Marisa decide per sfizio, di assumere un maggiordomo, ovviamente uomo, forse per cercare di prevalere almeno figurativamente sulla figura maschile e godersi quello che almeno all’inizio sembra una rivalsa sul sesso forte. Intanto ogni marito dovrà impegnarsi e dimostrare di sapersela cavare da solo e accettare poi di essere disposto a servire con attenzione e cura la propria consorte.
Le Stremate daranno vita come di consueto a tutta una serie di divertenti battibecchi, dispetti reciproci e toccanti confessioni, tutto con ritmi veloci ma anche molto realistici, arricchiti di simpatiche trovate partorite dalla prolifica mente di Giulia, coadiuvata dall’inconfondibile regia di Patrizio Cigliano che esalta ogni scena.
Ormai le tre veterane attrici del mondo spettacolo, sono più che affiatate, si direbbero una cosa sola. Ognuna di loro porta avanti il suo personaggio esaltandone pregi e difetti evidenziando una palpabile passione e indiscutibile professionalità e capacità personali, frutto di un profondo lavoro artistico e una evidente maturazione artistica, di cui giova sia il gruppo che lo spettacolo.
Non vanno però dimenticati anche tutti coloro che hanno collaborato alla riuscita di questa proposta, come la regia, l’ aiuto regia, la fonia e le luci, che hanno creato questa magica e professionale sinergia.
Speriamo che la serie venga ripresa, me lo auguro profondamente.
Teatro Golden
“Tre Stremate e un maggiordomo”
di Giulia Ricciardi
Con Giulia Ricciardi, Milena Miconi, Beatrice Fazi e Vito Buchicchio
regia Patrizio Cigliano
aiuto regia Claudia Genolini
special video guest Massimiliano Bruno, Greg, Lillloscene Fabiana Di Marco
luci e fonica Elisa Martini
Quanti sono 7 minuti? Abbiamo riflettuto su quanto poco tempo sia rispetto al trascorrere di una giornata? O al contrario, a quanto invece possano essere lunghi o preziosi in una situazione critica?
Probabilmente non ci si fa caso, oppure ognuno di noi associa questo tempo a qualcosa di personale. Ebbene, è un po' quello che accade sul palco: sacrificare sette minuti per una pausa, in fondo, non è poi un grande sacrificio rispetto al rischio di un licenziamento. Ma è davvero questa la motivazione che sta dietro a una rinuncia del genere? Quanto una decisione di questo tipo può influire invece su chi ci è vicino, o paradossalmente su chi non conosciamo, determinando un drastico cambiamento a causa di una superficiale decisione, o come in questo caso, di una reazione istintiva?
Il peso di questi “7 minuti” grava sulle spalle di ognuna delle povere operaie che sembrano non rendersi conto di quanto vitale ed importante sia la scelta a cui stanno per essere sottoposte.
Stefano Massini in questa pièce ci presenta una storia vera, ispirata ad un fatto accaduto in Francia, a Yssingeaux, nel 2012, e da cui è stato anche tratto un film con lo stesso titolo.
In una fabbrica tessile francese, alle operaie fu proposta una riduzione del tempo dell’intervallo da quindici a otto minuti. Undici donne, che fanno parte della rappresentanza sindacale della fabbrica e diverse per età, cultura, provenienza, idee, verranno poste di fronte a questa decisione. Si confronteranno e si scontreranno animosamente attraverso dialoghi spesso aspri, serrati, concitati, ma non privi di qualche apertura delicata, profonda e toccante. Grazie al testo che lascia spazio ad ogni personaggio, e grazie ad un’attenta regia che dirige ottimamente ben undici attori, emergeranno il vissuto, la personalità, le speranze, le convinzioni, i timori, ma soprattutto il peso di quella che man mano si rivela un’enorme responsabilità.
Le donne temono che il rifiuto della proposta possa metterle a rischio di licenziamento. Sono quindi disponibili ad accettare, seppur con qualche remora, questo piccolo sacrificio richiesto dell’azienda. Ma è attraverso la visione di Bianca (magistralmente interpretata di Viviana Toniolo), la più anziana e la portavoce del gruppo, che cominciano a farsi strada considerazioni profonde maturate dopo una lunga e posata riflessione, che mette da parte i sentimenti più umani per concentrarsi su una visione obbiettiva della situazione.
Quest'analisi indurrà tutto il gruppo a comprendere che una decisione può nascondere una serie di insidie. Assisteremo ad un “Dividi et impera” che subdolamente i nuovi proprietari scatenano tra le operaie per affermare il potere del padrone sull’operaio.
Lo spettacolo si rivela avvincente, ricco di suspense e colpi di scena che lasciano col fiato sospeso fino all’epilogo drammatico della decisiva votazione finale. Lo svolgimento della storia riporta alla mente il film “Il Giurato”, in cui un esponente della giuria, attraverso un’attenta e profonda riflessione, spinge tutti i componenti della giuria, dapprincipio unanimi su un verdetto, a cambiare opinione. È esattamente quello che vedrete accadere sul palco.
Ognuna attraverso se stessa, arriverà per una diversa strada alla propria decisione uguale o diversa a quella di Bianca. L’anziana donna rappresenta in fondo una sorta di coscienza di gruppo, è la giusta spinta che mancava ad ognuna per trovare il coraggio di guardarsi dentro con obiettività e senza preconcetti, facendo prima i conti con i propri conflitti interiori ed interpersonali per poi liberamente fare una scelta che altrimenti potrebbe trasformarsi in un pericoloso precedente.
Un bel cast formato da undici attrici molto diverse come i loro personaggi. Si muovono dinamicamente, incrociandosi continuamente tra loro e creando concitate e animate discussioni ricche di rivendicazioni, che spesso cadono velenosamente sul personale. Riempiono una scenografia sobria, scarna ed essenziale in cui spicca un enorme orologio fermo ormai da anni, che forse rappresenta la staticità dei diritti in ambito lavorativo e al contempo il peso della decisione che dovranno prendere su quella manciata di minuti.
Mi rendo conto che sarebbe giusto e meritevole poter parlare singolarmente di ognuna di loro, ma ci sarebbero troppe cose da dire su ciascuna. Posso però evidenziare la perfetta sinergia che tutte insieme creano, dando vita ad una superlativa “prima” scevra da quelle piccole imperfezioni che caratterizzano sempre un esordio. Professionalità e capacità spiccano immediatamente. Queste artiste, poi, riescono a trasmettere forti emozioni, ma soprattutto a far riflettere su questa apparentemente semplice scelta.
È bello e stimolante scrivere un articolo su uno spettacolo come questo, che riflette la triste realtà del mondo del lavoro e la vulnerabilità del lavoratore da parte della classe dirigente.
È obiettivamente difficile restituire per iscritto tutti i miei stati d'animo, del pubblico e quelli provenienti dal palco. Ognuno di noi avrà provato emozioni differenti. Questo è il bello del teatro, questo è il bello di uno spettacolo riuscito che esalta il coraggio e la rivalsa dei diritti del lavoro e delle donne.
Da vedere!
7 minuti” di Stefano Massini regia di Claudio Boccaccini
“con Viviana Toniolo, Silvia Brogi, Liliana Randi, Chiara Bonome, Chiara David, Francesca Di Meglio, Mariné Galstyan, Ashai Lombardo Arop, Maria Lomurno, Daniela Moccia, Sina Sebastiani.
musiche originali Massimiliano Pace
scene Eleonora Scarponi
registi assistenti Fabio Orlandi, Andrea Goracci
tecnico luci e fonica Francesco Bàrbera
produzione Attori & Tecnici
in collaborazione con Associazione Culturale Pex
ZONA DI INTERESSE . (The Zone of Interest ) Cast: Sandra Hüller, Christian Friedel, Ralph Herforth, Max Beck, Stephanie Petrowitz, Marie Rosa Tietjen . Regia di Jonathan Glazer. Film 2023 - Drammatico, Storico - 105 min. Uscita 22 febbraio 2024.
Siamo ad Auschwitz negli anni ‘40. L'eleganza estetica della pellicola non può supplire alla mancanza di una trattazione chiara e specifica della relazione tra: la Germania, i suoi capi del tempo, e i campi di concentramento. L’ arte concettuale, che sembra essere il primo scopo del film, non sempre può essere accettata e soprattutto premiata.
Non è giustificabile che un film, che pretende in qualche modo di trattare l'argomento delicato della realtà del campo di concentramento di Auschwitz, possa essere privo di qualsiasi riferimento ai fatti: la storia insegna ma questo film non rappresenta la storia. Soprattutto perché manca la narrazione.
È un collage di momenti lunghi, e spesso noiosi, che vogliono sottolineare la pacifica vita familiare di un signore che non pare affatto sia un mostro. È educato, si comporta bene con moglie e figli. La sua realtà di vita, orrenda, il suo cuore, la sua iniquità, non viene affatto evidenziata. Se il film venisse visto da una persona completamente ignara dei fatti essa non potrebbe assolutamente comprendere cosa c'è dietro questa vicenda.
Assolutamente diseducativo per i giovani e totalmente privo di emozioni, risulta solo un giocattolo intellettualistico di cui parlare nei salotti.
I cenni ai momenti drammatici dello sterminio sono troppo brevi e rarefatti. Ad esempio la protagonista che dice alla sua domestica che potrebbe essere trasformata in cenere, la mamma che si stupisce che tenga degli ebrei al suo servizio. Oppure i bambini che giocano con i denti d'oro degli ebrei, Hoss che si lava dopo il rapporto fisico con un ebrea ecc. Durano solo pochi secondi e non hanno alcun impatto sul resto delle scene.
La sequenza del tecnico che parla della progettazione di nuovi forni di sterminio o il trasferimento di Rudolf Hoss a dirigere tutti i campi tedeschi, risultano essere, non evidenziati in maniera chiara e narrativa ma restano solo una traccia non sviluppata.
Le cose che vediamo nelle sequenze sono soprattutto immagini estetizzanti della vita del comandante di Auschwitz e sua moglie nei pressi del campo di concentramento, le gite sul fiume, i suoi fiori e i suoi giardini. Sullo sfondo il fumo dei forni del campo che bruciano. Troppo poco per giustificare questa pellicola che esalta la quiete borghese in una tenuta fuori città.
Sono passati dieci anni dal film Under the Skin dove lo stesso regista ha trattato i problemi e le inquietudini del mondo di oggi. In questo caso Jonathan Glazer prende spunto da un romanzo di Martin Amis, ma le parole non sono come le immagini e su di esse è più facile meditare. Un film piuttosto irrisolto, dove lo spettatore non fa altro che aspettare, per tutta la durata della pellicola, che accada qualcosa di significativo. Un’ opera che spreca le occasioni di poter raccontare, in maniera efficace, degli anni '40 e dell’ esecrabile vicenda dell' olocausto. In questo caso il vero protagonista è una simpatica cagna nera che gironzola dappertutto...e scusate se è poco!
Mi aspettavo una storia particolarmente drammatica e cupa, invece questa vicenda reale (forse ai più sconosciuta), è raccontata in maniera intensa e profonda ma in chiave leggera, ariosa e a tratti ironica, senza però perdere quella sua punta di drammaticità. La proposta così risulta fruibile e piacevole.
Conosciamo un uomo che sembra avere una doppia personalità e soffrire nel nasconderla, impelagato suo malgrado con il nazismo e a rischio di condanna per collaborazionismo; dovrà decidere se passare per un traditore o rivelare chi è veramente: un falsario di opere d’arte ma anche un grande artista che preferirebbe morire pur di non far disconoscere i suoi “originali”, ormai esposti in famosissimi musei.
Questa è la vera storia di Han Van Meegeren, accusato nel 1945 di collaborazionismo per aver venduto alcune opere d'arte di maestri olandesi del Seicento a Göring, il numero due del Terzo Reich. Si ritrovò all’improvviso ad essere osannato come un eroe nazionale per aver venduto dei falsi da lui stesso dipinti ed essere riuscito a frodare i tedeschi ottenendo, con un apparente scambio equo, la restituzione di altre opere d'arte precedentemente trafugate in Olanda dai nazisti per restituirle alla sua nazione.
Han è interpretato da un efficace e coinvolgente Mario Scaletta che lo propone come un uomo tenero, combattuto, un po’ svampito e confuso ma consapevole delle sue capacità di cui, a tratti, fa emergere il suo ego spavaldo. Rivive, attraverso una dinamica recitazione, la figura di questo valido falsario di opere d’arte che prediligeva emulare, tra i tanti, il pittori l’olandese Johannes Vermeer, tanto da arrivare a creare delle nuove opere mai esistite, gabbando famosi critici, esperti d’arte ed importanti musei.
Alla fine, per salvarsi la vita, Han deciderà di svelare il suo segreto grazie alla spinta dell’ex moglie, impersonata da una deliziosa e amorevole Tiziana Sensi, di un capitano medico militare olandese piuttosto convincente ed insistente, interpretato da un serioso ed amabile Felice Della Corte, e di una timida ma convinta giornalista a cui Caterina Gramaglia dona una serie di piacevoli sfumature. La giornalista segue con interesse e passione le vicende di quest’uomo dapprima come accusatrice, e in seguito, svelato il segreto, come aiutante.
Han sarà messo alle corde da un alacre pubblico ministero, severo ed incalzante impersonato da Paolo Gasparini, che renderà il suo personaggio provocatorio, antipatico ed odioso in maniera realistica nel suo impegno volto a smontare le tesi difensive del falsario.
Tiziana e Caterina efficacemente impersonano nei modi, negli atteggiamenti e nell’aspetto, due donne tipiche di quel periodo. Quasi si somigliano per l’approccio e l’abnegazione con cui cercano di aiutare Han. Acconciature, costumi, recitazione sono perfetti per l’epoca che ripropongono, ed insieme creano un quadretto idilliaco sul palco.
Han, secondo le testimonianze, era un bugiardo, un imbroglione, un grande bevitore, arrogante, donnaiolo dalle tasche bucate. Ma sapeva come apparire gentile ed affascinare con la sua passione per la pittura. Soprattutto per Vermeer. Mario fa trasparire questa indole, trasmette quella magica sintonia che unisce lui al famoso pittore fiammingo, presentandolo perlopiù con un carattere simpatico, amabile, un tenerone un po’ stralunato ed indeciso sul da farsi. Qualsiasi scelta faccia, autoaccusarsi di collaborazionismo o di falsificazione, ha davanti un processo ed una sicura condanna.
Ho molto apprezzato come il testo sviluppi e sottolinei l’umanità del trittico formato dal capitano e dalle due donne, e come loro si prodighino con scambi di vedute e confronti intesi ad ammorbidire la rigidità e la chiusura dell’uomo per indurlo a riflettere.
Avvincente il confronto tra Han e l’accusatore, dove il primo mostrerà tutta la sua forza d’animo nel tenere testa all’altro così pungente e sempre pronto a smontare le sue argomentazioni. Paradossale che nonostante si autoaccusi, non viene creduto, perché illustri critici riconoscono i suoi falsi come originali.
È qui che il testo approfondisce, con interessanti spiegazioni sia da parte del falsario che del procuratore, le tecniche in uso dei pittori del Seicento e quelle della contraffazione. Vengono spiegate con estrema semplicità e senza troppi tediosi tecnicismi, restituendo un quadro chiaro allo spettatore attraverso un linguaggio comprensibile.
Inoltre viene approfondita in maniera interessante la psicologia del protagonista, sempre in bilico tra verità e apparenze, in cui non manca un pizzico di ironia nel dramma che vede un uomo dalle grandi doti artistiche esprimersi come un falsario e costretto a vivere all’ombra dei grandi artisti che imita perfettamente senza però poterlo manifestare.
Alla fine il processo si rivelerà una liberazione da questo dualismo. Il bel testo di Letizia Compatangelo sottolinea questo conflitto interiore facendo spiccare il lato psicologico ed emotivo non solo di Han, ma anche dei personaggi coinvolti in questa particolare vicenda riproposta in una riuscita ed accattivante ricostruzione teatrale.
Teatro Marconi“
Il Grande inganno - La cena di Vermeer”
di Maria Letizia Compatangelo
Regia Felice Della Corte
Con Felice Della Corte, Mario Scaletta, Tiziana Sensi, Caterina Gramaglia, Paolo Gasparini
Costumi Lucia Mirabile, Tecnico luci e fonica Andrea Goracci
Grafica MDesign Studio
Foto di scena Valerio Faccini
Antonio Amurri è uno scrittore umorista satirico molto attivo negli anni ’70, conosciuto per aver dato alla luce una serie di libri molto divertenti dal titolo “Come ammazzare la moglie, e perché”, “Come ammazzare il marito senza tanti perché”, “Come ammazzare mamma e papà”, “Come ammazzare la suocera”. Amurri è stato anche soggettista radiofonico e televisivo e ha scritto opere teatrali.
Stasera viene riproposto un estratto ispirato a questo autore, attraverso un approccio profondamente comico ed irriverente. Ci si avvale di un “Telefono Amico”, che con una certa disinvolta eleganza, propone consigli per una rapida eliminazione del proprio fastidioso partner.
Sì parla di vizi, difetti, incomprensioni, egoismi, nevrosi e manie che trovano ispirazione, seppur ironicamente, da una realtà in cui si muovono coniugi asfissianti e petulanti che il partner “sano”, per vivere in pace, dovrebbe avere la possibilità di eliminare.
Una commedia dal gusto assai retrò che ricorda i film in bianco e nero in cui, peraltro, sono state proposte all’epoca alcune delle sue gag.
Lo spettacolo forse andrebbe riscritto o quanto meno rimodernato perché un po’ troppo datato; questa versione è a mio avviso più adatta ad un pubblico maturo over sessanta. Non manca comunque di comicità, grazie soprattutto all’approccio e all’improvvisazione degli attori che vi aggiungono una loro personale carica comica.
La scenografia ripropone degli ambienti interni disegnati su pannelli in bianco e nero, che rimandano inevitabilmente al periodo della scrittura al quale si ispirano. Il centralino del Telefono Amico non è un’ idea di Amurri, ma è stata aggiunta solo in seguito. Dietro al banco del telefono, a dare strampalati consigli ai coniugi in crisi troviamo un divertente Bruno Governale, raggiunto poi dalla fidanzata più scaltra, perspicace e alquanto pungente Alessandra Cavallari. Loro sono in procinto di sposarsi, ma le telefonate delle coppie sembrano minare la convinzione di questo passo…
Le coppie in scena, a cui il centralino dà consigli, sono proposte attraverso cambi repentini di abito (e capigliature) dal folle matador della risata Marco Cavallaro e dalla buffissima Maddalena Rizzi, che spesso deve impegnarsi per non ridere delle improvvise uscite fuori copione di Marco. I due danno vita ad una serie di personaggi divertenti e strampalati, si divertono e divertono.
C’è il marito che crede di avere una moglie di vedute aperte e di poter avere sia lei che l’amante, almeno finché questa non chiede consiglio al centralino… Poi c’è la donna impicciona che legge tutta la posta del marito che, indispettito per la mancanza di privacy, diventa sempre più intollerante… L’uomo che cerca di provocare inutilmente la gelosia della moglie, finché con l’intervento del centralino… Oppure la moglie petulante che non fa dormire lui perché teme sempre di aver lasciato aperto il gas o il rubinetto dell’acqua… E quella che per paura delle speculazioni, si dà all’acquisto compulsivo facendo inutili rifornimenti, provocando la disperazione economica del marito… Un’altra moglie petulante, eccentrica ed egoista pretende che il marito si accorga di ogni suo piccolo maniacale cambiamento, ma non vede quelli ben più importanti di lui… Poi l’uomo frustrato perché la moglie in casa è sempre super impegnata e distratta e non lo ascolta mai… O quella che critica il marito mammone e poi si rivela essere come lui…
Insomma, questi sono i divertenti quadretti che troverete al teatro per mano di quattro attori che strappano molti sorrisi grazie a trovate divertenti, e anche qualche sonora risata con gag irresistibili.
“Come ammazzare la moglie o il marito senza tanti perché “
Di Antonio Amurri
regia di Filippo D’Alessio
a cura di Francesco Fanuele
con Marco Cavallaro, Maddalena Rizzi, Bruno Governale, Alessandra Cavallari
musiche Francesco Fiumara
scene Tiziano Fario
produzione Seven Cults Srl
Grande serata al Golden! Una Prima con i fiocchi! Sala gremita, tanti nomi noti dello spettacolo per assistere allo spettacolo scritto e anche interpretato da Fabrizio Colica. Devo dire che ci troviamo davanti ad una bella proposta assolutamente riuscita e che ha riscontrato un meritato successo. Fabrizio ci offre un prodotto maturo e ben strutturato, che nasconde dietro la parvenza di una semplice commedia dinamica e divertente, un certo spessore e tanta profondità, sensibilità ed umanità intrinseca nei suoi personaggi.
Un viaggio introspettivo nelle paure di questi soggetti che rappresentano poi uno spaccato molto realistico della realtà delle persone comuni; quelle che fanno difficoltà ad accettare di mostrare se stesse per come sono, per timore del giudizio altrui, ma anche del proprio. La commedia è ben articolata, non ha cali di tono e alterna magnificamente comicità a riflessione, riuscendo a scandagliare efficacemente l’intimo di ognuno dei personaggi e a tirarne fuori l’essenza. I bello è che Fabrizio ha pensato di legare tutti con un unico cordone ombelicale, quello affettivo, forse per sottolineare quanto anche con l’amore e il rispetto reciproco, la barriera del giudizio lasci tutti restii e titubanti a mostrarsi per quello che sono. Una sorta di pirandelliana memoria si può scorgere tra i comportamenti con cui nascondono, a loro stessi e agli altri, la loro vera natura, imprigionati dalla retorica del senso comune della società.
Ma “Arancione”, vuole tagliare questo velo di ipocrisia e omertà. Già Il titolo è piuttosto emblematico, e gioca sull’ambiguità del “colore che si ottiene mescolando il giallo di chi siamo e il rosso di chi gli altri vorrebbero che fossimo”. Così cita la sinossi. In realtà questa parola è la distorsione di un’altra, che rivela tutta la difficoltà di un ragazzo di manifestare i suoi sentimenti, di vivere liberamente la propria omosessualità con il compagno. Capirete perché “arancione” in teatro…
La storia è ambientata in una bella e realistica scenografia che riproduce la casa di Fabrizio e Mauro (userò i nomi degli attori). Siamo all’ ora di cena, ma in realtà il pasto è un pretesto perché Fabrizio non ha preparato proprio nulla, con grande disappunto del fratello Leonardo, appena giunto, e più tardi dell'ex ragazza di Fabrizio, Paola, che sta arrivando per conoscere il nuovo ragazzo del suo ex fidanzato. Ma sta anche arrivando la madre, che crede che in quella casa ci sia lo studio di uno psicoanalista dal quale sta andando per fare terapia… non voglio togliervi la sorpresa di questa simpatica trovata…
Ogni cosa è in bilico in questa storia, ma tra una risata e l’altra, piano piano e con ponderata delicatezza si svelano i segreti più reconditi di ognuno. In modo dolce e senza troppi traumi, il testo ci fa conoscere i risvolti di tutti e il segreto che nascondono.
Ma Fabrizio sa dare ai suoi soggetti anche un lato toccante e profondo. Ognuno di loro, sotto pressione, istintivamente cambierà atteggiamento, rivelando di fondo molte similitudini con gli altri. Ognuno ha delle aspettative, delle speranze, dei desideri, e fondamentalmente tanta voglia di amare e di essere corrisposto, ma ancora più importante, di essere accettato per quello che è.
Nascondere se stesso è in fondo una sorta di prigione dove spegnersi sempre di più. Questo, credo, sia il messaggio di Fabrizio e di Riccardo. Per questo si dà l’opportunità a tutti di liberarsi con naturalezza magari perché no, affrontando qualche piccolo e naturale trauma.
Il legame affettivo che vincola tutti si rivela dapprincipio un freno, per poi diventare una forza di coesione che difende e protegge il gruppo permettendogli di spezzare le catene sociali.
Ma d’altronde chi è che non ha paura del giudizio altrui? Soprattutto di quello delle persone a cui si vuole bene?
Così, tra aspettative e delusioni, questa dolce commedia ricca di umorismo e romanticismo mette alla gogna i pregiudizi e gli stereotipi di oggi, finendo non solo per affrontarli elegantemente, ma anche sconfiggendoli.
Il cast è, neanche a dirlo, stupendo. Fabrizio è delizioso nella sua parte, ma lascia molto spazio agli altri; Mauro vi stupirà con la sua trasformazione, mostrandoci la parte più intima e arrivando a commuovere; Leonardo, nei panni del fratello burbero e scapolone, è assolutamente divertente, veste un personaggio perfetto per lui che lo rispecchia, almeno per come lo conosciamo sui video divertenti che ci propone spesso sul web, rivelandoci anche un segreto inaspettato; Paola è assolutamente spigliata, divertente e spumeggiante, un vero peperino, simpatica e verace. Anche lei sarà impegnata in una inaspettata rivelazione.
Patrizia, nei panni di una madre preoccupata per i suoi figli e per la sua nuova vita sentimentale e preoccupata dell’accettazione degli altri, ha una marcia in più: esuberante, divertente, toccante, sprintosa, poliedrica, camaleontica, sempre carica di energia da far arrossire una ventenne.
Insomma, il cast è perfetto per portare avanti una commedia intelligente e ricca di piccoli colpi di scena, di tante battute divertenti. Ottima prima prova di Fabrizio, superata a pieni voti.
“Arancione”
Fabrizio Colica, Leonardo Bocci, Patrizia Loreti, Paola Michelini, Mauro Conte
scritto e diretto da Fabrizio Colica
con la collaborazione di Riccardo Sinibaldi
produzione Lea Production
Arriva la Befana del 2018. Marisa (Milena), Mirella (Giulia) ed Elvira (Beatrice), le tre Stremate amiche inseparabili e storiche, si trovano in vacanza in un albergo quasi di lusso a Vico Equense, dove ha inizio il loro dramma.
Si tratta del terzo episodio della divertente e riuscita serie, ma qui c’è un finale aperto che ci lascerà con il fiato sospeso fino al nuovo appuntamento di marzo con “Tre Stremate ed un maggiordomo”.
Se avete perso gli episodi precedenti, potete vedere i prossimi, perché il sottile filo conduttore che li lega tutti non è così incisivo da impedirvi di godere delle singole proposte. Fossi in voi, non li perderei.
Ogni nuova vicenda si allontana sempre di più dalla classica commedia teatrale, in un’evoluzione costante. Grazie a idee sempre più geniali e a trovate tecnologiche che prepotentemente entrano sempre di più in ogni storia, ogni vicenda acquista un taglio del tutto innovativo ed originale. Suoni ambientali, colonna sonora, video con ospiti illustri dello spettacolo ed effetti speciali, che difficilmente troviamo inseriti in teatro, vengono usati magistralmente.
Marisa ha aggredito, pare colpendolo a morte, un cameriere dell’albergo, pensando che si trattasse di un terrorista; così, questo episodio di Stremate si tinge di giallo e di suspense, pur non perdendo la forte connotazione comica dai tempi velocissimi. Scopriremo che il “terrorista” ha una stretta relazione con una di loro, o forse con tutte e tre, visto che ognuna a modo suo avrà, suo malgrado, un incontro con lui…
Lo spettacolo è sempre più travolgente. Giulia, Beatrice e Milena ormai non sono più colleghe, ma vere e proprie sorelle sul palco. Sono tangibili la loro complicità e il loro affiatamento. Si muovono, si accapigliano, si beffeggiano con una tale naturalezza da far dimenticare allo spettatore di assistere ad una commedia.
Elvira rivelerà alle amiche di essere rimasta incinta con l’aiuto dell’inseminazione artificiale, che però le è sfuggita di mano e che le causerà una serie di circostanze paradossali che coinvolgeranno anche loro. Un riuscito espediente per creare nuove e riuscite vicende comiche e assurde in cui sarà coinvolto telefonicamente anche lo strampalato avvocato di Elvira, che manifesta un serio problema di balbuzie, si direbbe infettiva…
Ascolteremo telefonate esilaranti e avremo a che fare anche con un “cadavere” nascosto nel bagno dell’albergo!
Preparatevi allora a ridere di cuore con i continui ed aspri pettegolezzi, gli acidi battibecchi, le intime confessioni e tutte le acute battute accompagnate da trovate imprevedibili.
Giulia ha un modo di scrivere inconfondibile, una penna preziosa e di valore per il teatro. In scena porta con sé attrici competenti, esuberanti, trascinanti, vulcaniche. Lo spettacolo è diretto superbamente da Patrizio Cigliano, che aggiunge come sempre il suo inconfondibile stile, trasmettendo alle attrici la sua energia che, sommata alla loro, crea una miscela esplosiva.
Una commedia originale, creata e presentata con grande passione, la stessa che ritroviamo in ogni proposta. Stasera le Stremate hanno fatto tremare il teatro con la loro carica e passione e con la spiccata personalità ed espressività con cui hanno scatenato risate ed applausi continui.
Mi ha colpito particolarmente la trovata delle “comari”, quando a turno, in coppia, le donne sparlano dell’amica fuori scena e spettegolano sui suoi difetti fisici e caratteriali mentre lavorano con i ferri della calza.
Divertentissimo anche lo sketch con il centralino della polizia… fantastico!
E non dimentichiamoci della divertente apparizione in videochiamata con Barbara Begala nei panni di una divertente signora francese!
Le nostre artiste hanno una padronanza del palco impressionante, si muovono elegantemente nei loro splendidi abiti messi a disposizione dalla RS Boutique che ne esalta la femminilità in una scenografia essenziale, ma con uno sfondo molto suggestivo che cambia in continuazione.
Aspetto con ansia il quarto episodio!
Teatro Golden
“LE bisbetiche Stremate” (terzo episodio)
Di Giulia Ricciardi
Con Giulia Ricciardi, Beatrice Fazi e Milena Miconi
con la partecipazione in voce di Giancarlo Ratti
regia Patrizio Cigliano
Sapete chi è Hakaru Hashimoto? No, non è un saggio giapponese, né un eremita illuminato, tantomeno un ninja o un samurai. Si tratta invece di uno scienziato giapponese che ha legato al suo nome lo Struma Limphomatosa, una patologia della tiroide che conosciamo col nome di Tiroidite di Haschimoto. Stasera Giulia dedicherà parte del suo brillante monologo proprio a questo…
A sorpresa, apre la serata una simpatica comica napoletana con dieci focosi minuti di ironia partenopea in cui parla della sua famiglia, dell’ansia, della sua provenienza e di altri aneddoti personali. Lei è Rosa Di Sciuva, che rompe il ghiaccio con la sala gremita e riesce subito a mostrare tutta la sua simpatia per poi lasciare la serata in mano alla briosa ed esuberante Giulia.
Tra i temi toccati, la preparazione teatrale, le sue serate spettacolo e l’immancabile digressione sulle melanzane alla parmigiana di cui si definisce regina incontrastata, accusando imbufalita chi utilizza le melanzane arrosto anziché fritte. Il paragone è come quello fatto con la nostra amatriciana e con chi usa la pancetta al posto del guanciale e aggiungendo per di più la panna...
Giulia ci racconta che il suo sogno è sempre stato quello di fare la stand up comedy e spiega come ha imparato a proporla staccandosi dai soliti cliché americani. Poi si arriva al tema caldo della serata: riuscire a trovare la propria strade nella vita accompagnata dalla tiroidite di Hashimoto. Si tratta di un disturbo cronico ed incurabile con cui lei convive ogni giorno e che le porta una serie di fastidiosi disturbi. Giulia ha imparato ad accettarli come compagni di vita che non la fanno mai sentire sola.
Nonostante tutto, ha deciso di reagire alla malattia con il sorriso, l’ironia e tanta voglia di vivere, sicuramente facendo tanti sacrifici e rinunce, ma affrontando tutto con coraggio e forza. Il suo è un vero e proprio insegnamento per chi è in platea. Per chi non conosce Giulia, può sembrare una ragazza esile e delicata, e invece in lei ci sono una tempra invidiabile e una forza d’animo incredibile.
È una ragazza brillante, attrice, cantante, ukulelista e stand-up comedian che sprizza energia da ogni poro. La seguo da qualche anno e posso dire di averla vista crescere come artista, migliorarsi e sviluppare una sua personalità artistica. Continue apparizioni nei locali romani e non solo le hanno permesso di avere una ricca esperienza che inevitabilmente sfrutta e che si nota immediatamente quando calca i palchi. Che sia sola o accompagnata da suoi colleghi artisti, spicca sempre.
Teatro De Servi
“Hashimoto ha fatto anche cose buone”
di e con Giulia Nervi
scatti di Elena Tomei, che ringrazio
In questa nuova proposta di Veronica Liberale ci troviamo a vivere le avventure di quattro cinghiali diretti a Roma. Una commedia dolce ed amara in cui si racconta come la natura subisca lo stravolgimento a causa dell’essere umano, ma raccontato dall’altra parte: quella dei cinghiali.
Macchia Desolata è un posto al limite della città, dove Nerina e Calidone (Antonia e Duccio) cercano di sopravvivere quando arriva Amaranta (Veronica) dalla Maremma con la sua numerosa famiglia. Dei cacciatori li inseguono, e sulla strada incontrano Red (Giuseppe), che li convince ad andare con lui in città dove li aspetta un futuro migliore. I tre si illudono e lo seguono in questa avventura, sperando di poter trovare un equilibrio con i "dumani" e convivere serenamente.
“Cinghiali” è una proposta brillante, surreale e provocatoria, una piece per riflettere profondamente sullo stravolgimento della natura attuato dall'uomo, ma che non disdegna di inserire tematiche sociali attraverso metafore.
Il tema trattato è molto sentito, esploso nel periodo della pandemia e ancora attuale. Una realtà che divide coloro che vorrebbero preservare il mondo animale e chi è più pragmatico e vorrebbe risolvere il problema attraverso l’abbattimento dei cinghiali.
Ma che posizione prenderemmo se concedessimo la possibilità di esprimersi a questi animali? Se ascoltassimo il loro punto di vista, se dessimo voce alle loro paure e bisogni? Come in una favola per bambini che va alla ricerca di una morale, Veronica entra in questa scottante tematica con la sua profonda sensibilità, dando voce all’intimo del mondo e permettendogli di esprimersi, non solo attraverso qualche grugnito o con frasi che spesso contengono parole strampalate e distorte, ma soprattutto con concetti semplici ed elementari che ci svelano con ironia una realtà fantastica ma plausibile.
Veronica si discosta drasticamente con questa proposta dalle sue precedenti produzioni. Solo facendo molta attenzione si ritrova, è il caso di dire, la sua impronta. Questo testo è molto particolare, profondo e ricco di interessanti metafore.
Ho trovato delle forti analogie nei dialoghi, nei toni di voce e negli atteggiamenti, con il teatro dell’assurdo e del nonsenso. Dialoghi che si nascondono dietro un apparente paradosso volutamente infantile e strampalato, con cui i personaggi esprimono in maniera grottesca e ironica i loro disagi.
La prima cosa che traspare è una forte critica sul nostro modo di trattare la natura. Ma c’è anche un richiamo al mondo dei reietti, perché i nostri cinghiali sono rappresentati con l’aspetto di barboni, delle persone abbandonate agli angoli delle strade, di quelli con problemi mentali o sociali, scansati da tutti per il loro aspetto o per la loro situazione. Ci appaiono come i disagiati della irriverente pellicola “Brutti, sporchi e cattivi” che ai margini della società, vivono una vita dura e opprimente ignorati dalla società.
Questi cinghiali sono la rappresentazione di una minoranza schiacciata e dimenticata ma che esiste, pensa, desidera, spera e chiede aiuto al resto dell’umanità, che sorda e insensibile tira dritto e sorvola il problema, almeno finché questo non esplode e la travolge. Allora e solo allora, non potendo più girarsi dall’altra parte, dovrà farci i conti.
In questa proposta ho rivisto vicende vergognose legate alla storia dell’umanità, che spesso l’indifferenza ha foraggiato e permesso di crescere, acuirsi e degenerare. Vi ho visto riflesso l’esodo degli ebrei che fuggono vessati alla ricerca della Terra promessa, o le vittime dell’Olocausto, mentre a poco a poco si abbrutiscono perdendo i pochi residui di umanità che gli sono rimasti.
Durante lo spettacolo il pericolo è sempre incombente, si sparge per la sala opprimente, come un’ombra. È una presenza eterea che ci circonda, è come una cornice invisibile che imprigiona e al contempo evidenzia il lato umano più insensibile e malvagio.
Non vediamo i dumani, ma li sentiamo lontani avvicinarsi sempre di più attraverso degli inquietanti spari.
Così i nostri cinghiali, che sembrano un incrocio tra sfortunati animali mitologici tramutati in barboni, con il loro linguaggio semplice ed elementare si muovono in una realtà artefatta che sembra quella partorita dalle saghe nordiche.
Il loro aspetto e il loro status di braccati e reietti sembrano una trasposizione delle vicende che coinvolgono gli immigrati di oggi, che rifiutati dalla società che hanno “invaso”, scorrazzano per le nostre vie cittadine. Una forte allegoria del miraggio di trovare nella nostra città quel paradiso perduto tanto anelato, ma che rappresenta per loro un infelice connubio tra pericolo e salvezza: da una parte trovano i “buoni”, gli animalisti, e dall’altra i cattivi, i cacciatori assassini.
Tutto viene raccontato come fosse una favola per bambini. Il linguaggio e le scene si servono di un approccio volutamente leggero che però nasconde la profondità e la sensibilità di Veronica.
Così, in una scenografia semplice e minimale che mi ha ricordato quella del suo “Gregory”, tra i rumori e i versi della natura, i giochi di luce e l’attenta regia di Pietro De Silva, i quattro artisti sono riusciti a comunicare con la loro bravura i messaggi della storia raccontandoci paure, ansie, esperienze, speranze e sogni di queste creature selvatiche alle quali e impossibile non affezionarsi, che vivono alla giornata e a cui Veronica aggiunge una dote tutta umana: la spinta per andare oltre, per guardare al futuro. Così, come in ogni suo lavoro, ecco il suo fil rouge: la scelta e il riscatto personale.
Nel triste e drammatico, ma a mio avviso trionfante epilogo, ritrovo così tutta l’essenza della dolce Veronica.
“Cinghiali” di Veronica Liberale
regia di Pietro De Silva
con Duccio Camerini, Antonia Di Francesco, Veronica Liberale e Giuseppe “Zep” Ragone
La frase emblematica racchiude in sé il corpo dello spettacolo. L’amore qui non segue un cliché, rompe gli schemi e si libera. È semplicemente un amore che infrange ogni barriera, non vincolato alla coppia eterosessuale, che non ha obblighi. È un sentimento travolgente che arriva inaspettato.
Il testo sottolinea come l’amore non abbia sesso, come entri di prepotenza nella vita delle persone, cambiandole.
Pina è una prostituta che vive in uno squallido seminterrato da cui vede “la strada all’altezza degli occhi”, scorgendo il mondo indifferente che le passa accanto. La visione che ha di questo mondo è come quella di una lumaca o di un verme che per sopravvivere deve schivare quei passi distratti, che già l’hanno ampiamente calpestata.
Vive dunque ai piedi della società, non parla mai di volti scorti dalla sua finestra, ma solo di scarpe che le sfiorano il volto mentre passano indifferenti. Sono le orme di una società che vogliono nasconderla perché di lei si vergognano e solo dopo averla sfruttata di notte, preferiscono dimenticarla di giorno.
Pina ha un figlio che non può crescere perché è sola e forse anche a causa del suo mestiere e della sua situazione psichica.
Infelice, si appresta a scrivere una lettera, l’ultima.
Quest'azione però sembra essere l’inizio di una nuova vita. Forse la lettera ha inaspettatamente aperto la porta di un’altra dimensione, è stata ascoltata in forma di preghiera da qualche entità sovrumana.
Così, inaspettatamente nella sua vita appare l’unica persona che finora sia stata in grado di ascoltarla e capirla andando oltre i pregiudizi e le apparenze, ed è riuscita con delicatezza e discrezione a penetrare la sua intimità.
È Principessa, un uomo che probabilmente condivide, come lei, un marciapiede. Nella sua borsa ha una parrucca bionda e delle scarpe con i tacchi alti.
Tra i due nasce qualcosa di speciale, si capiscono, si sentono e cominciano a condividere una passione comune fatta di un sentimento vero e profondo privo di secondi fini.
A dare vita a questa particolare storia, scritta da Donatella Diamanti, sono due artisti d’eccezione: Tiziana Sensi e Mariano Gallo, in arte Priscilla.
La vicenda è raccontata con particolare delicatezza, sfruttando un’atmosfera onirica, eterea, fantastica.
Quando i due si incontrano, si specchiano in loro stessi, vedendo il loro riflesso. Seppur appaiano completamente diversi, si completano. Lei è frenetica, logorroica, infantile; lui posato, riflessivo e schivo.
Credo che una persona che arrivi a pensare al suicidio debba essere oltremodo disperata o coraggiosa. Pensare di affrontare l'ultimo viaggio con un biglietto di sola andata vuol dire aver superato abbondantemente il proprio punto di rottura, aver oltrepassato il proprio limite di resistenza al dolore. Significa essere arrivati ad uno stato di assuefazione che porta a convivere con quel dolore e cercare con questo gesto la pace.
Oppure, come sembra essere Pina, bisogna essere degli sconsiderati, dei folli, degli irresponsabili incoscienti ed immaturi. Effettivamente a primo impatto Pina può sembrare così.
Con il suo atteggiamento fanciullesco e superficiale nasconde però ben altro.
Pina è egregiamente interpretata da una mirabile Tiziana Sensi, che ci restituisce un personaggio candido, dolcissimo, estremamente delicato ed indifeso. Si aggira saltellando come la vispa Teresa per questo orrendo sottoscala ricreato da una scenografia che lascia a bocca aperta, impreziosita da effetti luce e sonori molto suggestivi.
Pina è molto particolare: loquace, logorroica ed infantile, probabilmente a seguito di diversi traumi si è chiusa in questo stato di perenne fanciullezza, in cui è regredita.
Satura di un’esistenza fatta di stenti e di infelicità, ha deciso di farla finita, ma lo fa in maniera impacciata e goffa. Finché nella sua vita entra “casualmente” questo singolare personaggio magico e misterioso interpretato da Mariano.
L’artista, come sempre, si muove delicatamente e fascinosamente, animato dalla sua essenza in cui due forze, quella maschile e quella femminile, si fondono e si compenetrano per dare forma ad un unico ed irripetibile essere dai tratti angelici ma anche profondamenti umani.
I due sembrano condividere un futuro simile, parallelo. Sembra che il destino li abbia voluti far incontrare, incrociandone le strade.
Dopo un iniziale impatto traumatico, almeno per Principessa, travolta dall’irruenza di Pina, trovano una sintonia.
Ho notato che mentre Pina rivela il suo vero nome, l’altro si nasconde dietro uno pseudonimo. Che celi la sua vera identità di essere celeste o immaginario?
La vita sembra non aver dato molto ai due, ma almeno ora si riscatta facendoli incontrare e rompendo la loro profonda solitudine. In meno di un'ora, la pièce con profondità ed intensità ci trasporta in questa romantica e drammatica vicenda rendendoci testimoni di un particolare rapporto che vediamo crescere piano piano, delicatamente, in punta di piedi.
Mariano è un artista fuori le righe, si muove con la sua forte e affascinante personalità. Quasi non sembra umano; è una specie di angelo caduto dal cielo ma per sua scelta e non per punizione divina. Sembra aver scelto scientemente il suo destino, quello di salvatore. Con il suo fascino maschile e femminile ammalia e seduce non solo il pubblico, ma anche questa dolce e amorevole donna.
Tiziana interpreta magistralmente questa creatura, restituendoci una donna svuotata della sua essenza ma bella e amabile che per proteggersi vive in un mondo tutto suo.
Nell'interpretazione di Tiziana vedo la quintessenza della donna abusata e sfruttata, mentre in Mariano l’ Angelo della morte che con estrema bontà, inviato chissà dal destino, dalla sorte o dal padreterno, viene in soccorso di questa fragile creatura.
Mariano è un personaggio iconico, surreale, onirico, che si muove sfiorando il palco in questa realtà che sembra immaginaria.
Poi, abbandona per un momento quei tratti divini e magici di cui è dotato per tramutarsi in un uomo che vuole proteggere e poi accompagnare questa donna verso l’ultimo passo.
Due personaggi suggestivi interpretati divinamente, toccanti, emozionanti, a tratti divertenti e sempre dolcissimi, che affrontano insieme un dramma che si tramuta in una storia di amore romantica che sembra volerli unire per l’eternità.
Tiziana e Mariano riescono a toccare l’intimo dello spettatore e ad emozionarlo, come la stessa creatrice del testo, che a fine spettacolo ci ha rivelato di essersi profondamente commossa.
L’amore che va oltre la distinzione dei sessi e si rivela senza confini, incanta e suggestiona.
“La Strada all’altezza degli occhi”
di Donatella Diamanti
con Mariano Gallo e Tiziana Sensi
Scene Alessandro Chiti
Regia Luca Gaeta
Aiuto Regia Caterina Gramaglia
Costumi Ilaria Ceccotti
Disegno Luci Francesco Bàrbera
Il 12, 13 e 14 gennaio, al Teatro degli Eroi, andrà in scena questa proposta alla cui prova ho l’opportunità di presenziare. Ormai il cast è affiatato e pronto e visto l’imminente esordio, si lavora sul perfezionamento in una funzionale sala prove dove prende posto parte della scenografia, mentre gli attori sono quasi tutti in costume. Il regista segue attento i dettagli…
Mi piace l’idea di poter assistere prima del pubblico ad uno spettacolo; mi permette di conoscere il cast, di vederlo lavorare per approntare le ultime modifiche prima del debutto. È un’interessante esperienza fatta dietro le quinte dove si respira la tensione, ma soprattutto l’entusiasmo nel presentare qualcosa di proprio su cui si è lavorato con impegno e dedizione. La soddisfazione è tanta, specie quando si è lavorato su un testo difficile come questo, e poi con un cast così numeroso. Penso alla difficoltà solo per organizzare le prove… ognuno con i suoi impegni personali… tutto per amore del teatro. Credo sia doveroso scrivere qualcosa su questi appassionati attori e sulle loro capacità.
Il dramma originale del 1882 è del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen e si svolge in ben cinque atti. In questa versione, viene ottimizzato con una riduzione a due ma senza perdere né il messaggio che vuole trasmettere, né tantomeno la sua drammaticità.
Si racconta di una società che almeno all’apparenza vuole essere democratica, ma dove si palesa immediatamente l’eterna lotta tra il potere dei forti e la democrazia. Tutto è manifestato attraverso il difficile rapporto tra i due fratelli Stockman. Il dottor Thomas, un idealista con le sue idee critiche e propositive che cozzano inevitabilmente con quelle del fratello Peter; il sindaco della città, un politico ambizioso e senza scrupoli bramoso di potere e attento agli interessi personali a scapito della salute pubblica messa in pericolo a causa di un inquinamento che ha colpito le terme cittadine e che, se scoperto, farebbe crollare il turismo e l’economia del centro. Un tema fortemente attuale e affrontato come tale, dove gli interessi economici e il prestigio di pochi interessati scavalca il bene e la salute di una comunità.
Il titolo può sviare, perché in realtà il nemico del popolo, o quello additato come tale, è al contrario colui che dovrebbe essere visto come il salvatore. Una persona coerente che cerca di preservare la società essendo lontano da ogni interesse personale, vuole informare del pericolo la popolazione.
Una contraddizione tipica della società moderna, in cui chi lotta per il bene comune dà fastidio ai poteri e viene ostracizzato dai potenti ed infine escluso proprio da quella maggioranza che vorrebbe preservare. Una maggioranza ignorante manipolata dal potere. Pensate a cosa è accaduto con l’Ilva, con la Terra dei fuochi, con i vaccini…
Mentre il dottor Stockmann cerca di salvaguardare la salute della popolazione con delle rivelazioni importanti su quanto sta accadendo, il fratello Peter, personificazione dei poteri forti, lo schiaccia e lo discrimina facendolo apparire al contrario, un soggetto cioè pericoloso in grado di distruggere il benessere di una cittadina per questo viene trasformato in un mostro, in un nemico del popolo. Il fratello dispotico arriva allora a distruggerlo socialmente ed economicamente, senza porsi il minimo scrupolo verso l’onesto consanguineo. Ecco che il cieco potere travolge con indifferenza anche gli affetti familiari, senza scrupoli o remore.
Nonostante tutto Thomas, il dottore, rimane fermo nei sui suoi propositi. Solo e abbandonato, percorrerà la strada che ritiene più giusta con coraggio e senso di giustizia, coinvolgendo suo malgrado la famiglia, che entra ovviamente in crisi.
La bellezza del testo, ma soprattutto la capacità del cast e il raffinato riadattamento riescono a ricreare queste tensioni e preoccupazioni in maniera coinvolgente e realistica.
Giorgia, la figlia del dottore, è una ribelle che pur vestendo i panni di una ragazza di altri tempi, ha la grinta di una ragazza moderna, schietta e battagliera. Agnese, la moglie, ci appare come una donna matura, indecisa sul da farsi per le ripercussioni che il gesto del marito avranno sulla famiglia, ma anche propensa ad appoggiarlo; Antonello, il dottore, trasmette il fardello che porta sulle spalle con una postura ingobbita, e gesticolando nervosamente esprime quando vede tutto crollargli intorno. I tre ricreano efficacemente queste tensioni familiari.
Riccardo, il fratello sindaco, è un personaggio forte; si mostra viscido e subdolo, dando l’impressione, con le sue movenze lente e riflessive, di tenere sempre in mano le redini della storia. Domina la scena e tutti sembrano pendere dalle sue labbra, costretti a rispettare i suoi tempi pacati prima di potersi esprimere. Come il povero balbettante giornalista (Antonio), che dapprima spalleggia il dottore con la sua denuncia, ma poi cede raggirato ed intimorito dalle velate minacce del politico, abbandonando il povero dottore al suo destino.
Una storia che racconta di manipolazioni ed interessi dove si scoperchia una pentola ricolma e tracimante di intrighi, in cui le flebili alleanze si tramutano presto in tradimenti. È affascinante come tutto venga presentato in un’epoca passata, ma attraverso questo riadattamento e alla recitazione si giochi tra l’anacronistico e il contemporaneo. La regia crea degli strappi temporali che attualizzano la storia. Si viene così sballottati in dimensioni parallele tra due momenti storici, che seppur distanti tra loro si compensano. Il tentativo è davvero coraggioso e il risultato assolutamente efficace.
La volontà del testo è quella di far vivere ed emergere le lotte intestine che vanno a scapito della collettività, e di sottolineare come la massa, invece di unirsi e sostenere chi vuole proteggerla, si schiera con chi vuole invece annichilirla. Questo ci appare in tutta la sua drammaticità nella scena con “La voce del popolo”: una scena forte, volutamente confusionaria, proposta con cinismo e attualizzata. La folla che crea una bagarre confusionaria ricrea quello stato di caos provocato da menti fuorviate e confuse, che con il loro atteggiamento decretano la morte della democrazia e della loro libertà. Paradossale ed assurdo, ma sempre attuale. Pensate a chi è più preoccupato al posto in classifica della propria squadra di calcio che alle problematiche del proprio paese…
Temi sempre attuali, affrontati in modo da far riflettere attraverso la provocazione, per condurre poi verso un finale inaspettato.
Forse quello che la proposta ci vuole dire è che per essere davvero liberi bisogna prima liberarsi della propria ignoranza e cominciare a pensare con la propria testa, invece di farsi pigramente indottrinare dal potere.
In questa battaglia contro i mulini a vento, in cui i sostegni vengono a mancare attimo dopo attimo, l’unico coraggioso è il capitano di Marina (Giovanbattista, stasera sostituito da Renato) che gli rimane al fianco. Compare poi l’armatore Giampaolo, che si rivela una figura viscida come quella di Peter e che cerca inutilmente di intimorire lo stoico capitano.
Si affacciano poi due camei, due figure forti che spezzano questo quadro: l’ubriaca, in cui ho visto una trasposizione del coro greco, l’unica che forse grazie al suo stato riesce a rimanere coerente e a gridare il suo sdegno. Lei è Eugenia, che seppure appaia solo all’inizio della storia, lascia il segno. L’altra è la suocera del dottore, Stefania, che mi ha riportato alla mente Elena Daskowa Valenzano, l’attrice che interpreta la madre del Marchese del Grillo con Alberto Sordi. Con la stessa verve e incisività segna ogni suo ingresso con forza.
Insomma, nonostante l’assenza delle luci, delle musiche e di alcuni accorgimenti che renderanno sicuramente più emozionante lo spettacolo in teatro, sono uscito da questa esperienza molto soddisfatto. Ho potuto concentrarmi maggiormente su ogni singolo artista e apprezzarne le doti, le sfumature, la gestualità, l’espressività, senza le “distrazioni” del contesto.
Un testo forte, difficile e ben presentato. Posso solo immaginare l’effetto che farà in teatro.
“Un nemico del popolo”
Teatro degli eroi
Di Henrik Ibsen
Adattamento e regia di Renato Piva
Con Riccardo Buttarini (Peter Stockmann), Antonio Di Marco (Hovstadt), Giorgia Finocchi (Petra), Stefania Mastroianni (Stephen Kill), Agnese Piccolomini (Signora Stockmann), Antonello Saponara (Thomas Stockmann), Giovanbattista Scidà (Chorster), Eugenia Brandi (l’Ubriaca), Giampaolo Vezza (Vik).
Con la partecipazione straordinaria de “La voce del popolo”
Questa storia è davvero deliziosa, dolcissima ed intrisa di passione. Ci svela come i personaggi coinvolti affrontino la vita ed imparino a gustarla sempre con un sorriso, focalizzandosi sull’amore per le proprie passioni, le aspirazioni, e le emozioni con cui si assaporano le cose semplici della vita. Tutto è raccontato attraverso un approccio delicato, quasi fatto in punta di piedi in cui si riconosce la mano di Michele, che oltre a scrivere il testo interpreta un particolare ed originale personaggio: Giacomo, un giardiniere un po’ filosofo e un po’ yogi che vive un rapporto molto singolare con il suo lavoro e con le piante del suo vivaio.
Il suo sembra essere un mondo a parte, forse un rifugio in cui coltivare non solo la passione per la botanica, ma anche il rapporto profondo con se stesso, in un luogo reso quasi magico, distante dal tran tran quotidiano che ingurgita tutti e schiaccia il senso della vita. Giacomo sembra prediligere il rapporto con il mondo verde, più che con quello degli uomini. Sembra volersi proteggere dai rapporti umani e distaccandosi da essi, dedica tutto sé stesso alle piante instaurando con loro un rapporto profondo e confidenziale.
Inaspettatamente, irrompe nella sua tranquillità Camilla, una donna dedita completamente alla carriera lavorativa. Vive per il lavoro che sembra dominarla occupandole ogni momento della giornata. I due apparentemente sono in perfetta antitesi, ma paradossalmente si rivelano anche molto simili. Hanno in comune lo stesso atteggiamento: quello di impegnarsi in qualcosa che li possa proteggere dal rapporto emotivo con gli altri.
Aldo invece è il dolcissimo assistente che lavora e aiuta Giacomo. Un sempliciotto con un lieve ritardo mentale che però lo rende spontaneo, vero. Privo di ogni forma di inibizione, dice sempre quello che pensa. Fortemente condizionato dalla madre, ha sviluppato anche lui un particolare rapporto con le piante, ma anche con il suo datore di lavoro. Anche lui sembra essere protetto da questo ambiente, che non lo ostracizza per la sua condizione. Qui tutti sembrano essere uguali, sullo stesso piano.
Tre caratteri e tre tipologie di vita assolutamente differenti si incontrano e si scontrano grazie ad una scrittura semplice ma efficace, che sprizza dolcezza e spontaneità in ogni suo passaggio. Un inno alla semplicità umana e un’ode alla vita, che vuole portarci a riflettere sul tempo che passa, sull’importanza del confronto con gli altri e sul valore e il piacere dell’attesa che va goduta nel preparare un evento, nel vederlo crescere per poi coglierne i frutti… proprio come si fa con le piante, entrando in sintonia con il naturale corso della natura e del destino, in attesa che questo si compia.
Tutto è affrontando con apparente leggerezza ma in realtà in modo molto profondo. Ogni forma di ansia e nervosismo dei personaggi viene curato da questo atteggiamento sempre positivo che domina la storia ricca di riflessioni, che porteranno via via i tre a riconsiderare le priorità della vita, donandoci l’opportunità di ritagliarci anche noi un attimo di riflessione.
Michele si presenta con il suo inconfondibile atteggiamento: un po’ sornione, calmo, spontaneo, spiritoso, estremamente riflessivo in ogni sua esternazione. La sua comicità ha il sapore di quella di una volta, cresciuta e maturata con i grandi nomi dello spettacolo e oggi personale e tutta sua.
Francesco interpreta un ragazzo le cui evidenti difficoltà per il suo lieve ritardo ne fanno un personaggio amabile e divertente per la spontaneità. Afflitto da visibili tensioni muscolari, Francesco con gesti e movenze inequivocabili svela le difficoltà motorie ma al contempo sottolinea il carattere mite in un modo davvero commovente.
Federica passa dallo stato di stress ed egocentrismo iniziale a manifestare tutta la sua dolcezza, la femminilità e la sensibilità inespressa. Abbandonando le sue frustrazioni, si trasforma in una piacevole ragazza, dolce e piena di sogni finora nascosti grazie all’incontro con una sorta di “mago di Oz” che ha i panni di un giardiniere, il suo aiutante schietto e sensibile, ma anche grazie a questo ambiente magico in cui il tempo pare non esistere ed essere fermo ad aspettare pazientemente la maturazione dei personaggi, proteggendoli intanto dal mondo esterno.
Questo apparentemente normale vivaio si rivela quindi un luogo pieno di vita ed emozioni, protettivo e fatato. Una suggestiva scenografia riempita di piante e vasi, a cui si aggiungono le luci, lo esaltano e lo rendono molto realistico.
Le scene si susseguono inframmezzate da brani di Pino Daniele, Lucio Dalla e da altri classici della musica italiana. In ogni scena c’è tutta la passione per il teatro che il lavoro di Michele riesce a trasmettere, supportato dal suo valido cast e dalla regia di Nicola Pistoia (di cui in una scena sentiremo anche la voce fuori campo registrata).
Uno spettacolo adatto a tutti, che dietro alla sua semplicità nasconde una forte dose di sensibilità, di profondità e una grande ricchezza di valori.
Ogni scena è un crescendo che ci rivela un pezzetto alla volta il carattere dei personaggi, che con i loro pregi appannano ogni loro difetto. Una commedia che sprizza positività e una grande passione per la vita, quella sana, fatta di persone che sanno ascoltarsi e ascoltare, o che vogliono imparare a farlo per arrivare a godersi la semplicità, abbandonando sterili e fugaci ambizioni, così come farà Camilla. La donna si accorgerà che la vita è fatta di altri valori da gustare dietro ai quali, chissà, può nascondersi anche il sogno d’amore al quale abbandonarsi senza paura. L’amore, questo sentimento che spesso spaventa per la sua intensità…
Imparare ad affrontare questa paura significa vivere in armonia sia con sé stessi che con gli altri. Questo credo sia il messaggio insito nella storia.
Teatro Sette Off
“Il Piacere dell’attesa”
Di Michele La Ginestra; regia: Nicola Pistoia, aiuto regia Loredana Piedimonte
Con Michele La Ginestra, Federica De Benedittis, Francesco Stella