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Confesso.
Dopo aver subìto due ore di pesante tribolazione, ero intenzionato a buttare giù, senza stare a perdere troppo tempo, una stroncaturina gelida e perentoria.
Il film di Maura Delpero, infatti, il Vermiglio osannato e premiato dalla critica, mi era apparso, sì, un lavoro costruito con passione, con grande cura ed impegno, certamente un prodotto di indubbia serietà, ma, al contempo, lo avevo patito come una narrazione impregnata di sofferenza atavica, di millenaria pena di vivere, esteticamente attraente solo quando qualche immagine sembrava ricalcare (non certo per caso) le pennellate di Segantini o quando le note di Chopin e di Vivaldi riuscivano a far entrare qualche sprazzo di infinito in quel mondo cupo e dolente di misera vita di montagna.
Confesso.
La tentazione della fuga, già dopo una decina di minuti di massacranti dialoghi dialettali sottotitolati, è stata forte.
Forse arginata soltanto dalle sapienti parole di uno dei protagonisti spese in elogio della “vigliaccheria”, sanamente e santamente apprezzata (forse invocata) come efficacissimo antidoto per tutte le guerre.
Insomma, visti i riconoscimenti e gli elogi apologetici di tanta critica verbosa ed erudita, nella speranza che qualcosa di particolarmente significativo irrompesse, prima o poi, sullo schermo, sono riuscito ad approdare ai titoli di coda.
Rientrato in casa, ho preso fiato, cercando di riflettere meglio in profondità e cercando anche di raccogliere tutte le informazioni utili in circolazione sul web.
Che dire, a questo punto, di Vermiglio?
Dal marasma pirotecnico di tante recensioni raffinatamente cerebrali inneggianti ad un “film dell’incanto”, “ammaliante” e dal “valore universale”, ad un film di “pura poesia”, di “secca poeticità”, anzi addirittura definibile come “sinfonia ipnotica e ascendente”, gli unici aggettivi degni di essere salvati e utilizzati sono:
sincero, onesto, intimo, sentito.
Sì, si tratta di un lavoro fatto con grande sincerità di interessi e di affetti;
onestissimo nel suo volerci parlare di una umanità lontana e dimenticata, senza ricorrere a finzioni, senza abbellimenti e senza alcuna indulgenza;
intimo perché capace di mettere a nudo speranze, sogni e timori di cuori grandi e di cuori piccoli;
sentito perché costruito con autentica empatia e delicata pietas.
Qualità belle che certamente rispecchiano con fedeltà la dimensione interiore di Maura Delpero.
Tutto questo, però, non può bastare a trasformare in un capolavoro un film implacabilmente noioso e mai in grado di suscitare, nel malcapitato spettatore, un vero coinvolgimento emotivo.
Vermiglio, pur con i suoi indubbi meriti culturali di ordine storico-antropologico e nonostante l’ amorevolezza (sincera, onesta, intima e sentita) di cui è impastato, resta un film che si vede e si sopporta a fatica, un film che, soprattutto, non si ha minimamente voglia di ritornare a vedere.