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Noi profughi - Tra pazzia nazista e solidarietà

By Maria Luisa Dezi October 01, 2018 6812

10 maggio 1940 ore 7.30 di mattina. Avevo 9 anni. Ero pronta per andare a scuola e mi sentivo molto importante perché al collo portavo, attaccato ad un nastro blu, un cartellino con il mio nome, l’età e l’indirizzo. Questo cartellino era stato dato a tutti gli scolari il giorno prima a scuola con la raccomandazione di indossarlo sempre. Naturalmente noi, in quel momento, non ne comprendevamo il motivo e non sapevamo che era perché c’erano stati strani movimenti di truppe tedesche al di là del confine. Mia madre era fuori, per strada, era molto agitata e stava parlando con una nostra vicina altrettanto agitata. Si chiedevano se fosse il caso di mandarci a scuola quel giorno ma, alla fine, io e sua figlia ci siamo andate. Decisamente non era una giornata come tutte le altre perché, stranamente, per la strada, si erano riversati anche tutti gli altri abitanti di quel piccolo paese e parlavano e discutevano. Passando davanti a qualche gruppo sentivamo le parole: i tedeschi, Olanda , Belgio, la famiglia granducale è partita per Londra. A noi tutto questo non interessava, eravamo troppo fiere con i nostri cartellini mentre camminavamo verso scuola. Anche lì, però, abbiamo trovato le maestre, i maestri, gli altri scolari ed il bidello fuori nel cortile. Anche lì grande vocio, gesticolare, agitazione ed alla fine, tutti a casa. Nel frattempo anche mio padre, che era un minatore, era tornato dal lavoro. I suoi capi avevano impedito a lui ed a tutti gli altri di entrare nelle gallerie. La gente continuava a discutere, a essere agitata, a parlare di tedeschi e poi un gran botto ha fatto rimbombare l’aria: era scoppiata la centrale elettrica! Un attimo di sbigottimento e poi quella piccola folla ha ricominciato a parlare in modo frenetico. Io non capivo cosa stesse succedendo e nessuno si era preso la briga di spiegarmelo. Sono passate così le prime ore dell’occupazione del Granducato del Lussemburgo da parte della Germania nazista in quel piccolo paese al confine con la Francia.

 

Noi bambini correvamo di qua e di là, eccitati da tutta quella confusione, ma eravamo letteralmente elettrizzati quando abbiamo visto scendere dalla collina dei soldati francesi a cavallo. Li guardavamo affascinati mentre passavano. Chi li aveva mai visti! Gli adulti, invece, li osservavano e, scuotendo la tesata, mormoravano: “Poveri ragazzi”. Solo più tardi ho saputo che stavano andando a combattere contro i carri armati tedeschi. Poi si è presentato quel comandante francese che ci ha ordinato di lasciare immediatamente le nostre case. Eravamo, infatti, sulla linea di fuoco tra l’esercito tedesco che avanzava, e che ormai era padrone della capitale, e quello francese che tentava di difendere ciò che da subito era indifendibile. Dovevano partire, però, solo le donne ed i bambini. Mia madre è rientrata in casa, ha preso una federa e l’ha riempita con degli indumenti suoi, poi, in una più piccola, ha messo delle cose mie. Dalla cucina, ad un certo punto, si è sentito un gran fracasso di vetri e piatti rotti. Era mio padre che, preso dall’impotenza di non poter fare niente, con una manata aveva buttato giù tutti i bicchieri ed i piatti messi ad asciugare. Quando l’ho salutato, mi ha abbracciato forte forte con gli occhi pieni di lacrime. Ci siamo ritrovate così in strada. A noi si sono aggiunte le altre donne, i bambini, mia nonna, le mie zie ed il piccolo Marcel, l’ultimo figlio di mia nonna, di sette anni, affetto dalla sindrome di Down, e quella colonna di profughi, perché ormai quello eravamo, ha iniziato il suo cammino verso la Francia. E’ stato l’inizio di un’odissea. Con noi c’erano altre 4 famiglie e Pierre, un ragazzone di 19 anni, orfano dei genitori che viveva con la famiglia di sua sorella, anche lei nel nostro gruppo. Lui si è offerto di portare Marcel sulle spalle e, per questo, gli volevamo ancora più bene e Marcel era felice su quelle forti spalle e di quel nuovo gioco. Io, invece, ero molto fiera perché anche io avevo un compito ed era quello di portare il mio sacchetto. Me ne sentivo responsabile mentre camminavo, dando la mano a mia madre, in direzione della Francia. Solo verso sera abbiamo attraversato il confine, ma abbiamo continuato a camminare anche nel buio della notte ed ogni tanto la strada veniva illuminata dai fari di una camionetta dell’esercito francese che andava verso il Lussemburgo. Quando siamo arrivati in un piccolo paese, un ufficiale ci ha ordinato di entrare in un fienile. Eravamo stanchi morti! Per quante ore avevamo camminato? Ad un certo punto siamo stati svegliati da un rumore assordante e spaventoso di cannoni che solo a giorno fatto è cessato all’improvviso. Poi, dopo non so quanto tempo, alcuni soldati francesi sono entrati nel fienile con del pane dicendoci però freneticamente di andare via subito. Era l’11 maggio. Il Lussemburgo era stato completamente occupato ed anche l’esercito francese si era ritirato da quella nazione. Ora si trattava di difendere la Francia.

 

Ci siamo ritrovati così di nuovo sulla strada tra bestiame, altri profughi e soldati francesi col fronte che si stava pericolosamente avvicinando. La notte dormivamo dove capitava. Durante il giorno i soldati francesi dividevano il loro cibo con noi. Durante la marcia arrivavano gli aerei tedeschi a mitragliarci e noi allora tutti giù nel fosso ed io ero un po’ furiosa con mia madre perché lei, nel saltare nel fosso, cercava di buttarsi sempre su di me. Io, così, non sono mai riuscita a vederli gli aerei. Solo molto più tardi ho capito che lei lo faceva per proteggermi. Abbiamo visto tante case distrutte, ma non abbiamo mai incontrato civili francesi che avevano lasciato la zona prima del nostro passaggio. In questo modo siamo arrivati a Verdun e lì ci hanno offerto ospitalità in una caserma. La mattina dopo un soldato è entrato trafelato nella camerata urlando: “Si salvi chi può! Arrivano i Tedeschi!” I Tedeschi avevano oltrepassato il confine ed erano vicinissimi. Era il 14 maggio, martedì di Pentecoste. Ci siamo alzati in fretta, mentre giù nel cortile stavano mettendo in moto dei camion per portarci alla stazione. La stazione era già stata colpita e da un treno in fiamme, c’erano delle suore belghe che saltavano giù tentando di salvarsi urlando in modo disumano. Ci hanno caricato in fretta sui vagoni del bestiame per farci uscire dalla stazione il più velocemente possibile. Su, nel cielo, rombavano i caccia tedeschi alla ricerca di un bersaglio da colpire. Ore ed ore di viaggio senza acqua e senza mangiare. Un angolo del vagone era stato trasformato in bagno. Ad un certo punto il treno si è fermato in mezzo alla campagna e noi giù velocemente perché sopra di noi c’erano nuovamente loro, i caccia tedeschi. Restare nel treno avrebbe significato la fine per tutti. Abbiamo ricominciato a camminare: ma dove andare? Lontano dal Lussemburgo e dai Tedeschi che continuavano ad avanzare, verso sud. Dormivamo dove capitava, civili francesi non ce n’erano più, i soldati dividevano il loro cibo con noi. Ricordo un soldato, alto e magro, con i baffi, che costrinse mia nonna ad accettare un vasetto di marmellata. “Per i bambini! Per i bambini!” Poi, piangendo ha raccontato che aveva 4 figli e che non aveva più notizie di loro e di sua moglie. E così via per giorni e giorni. Poi abbiamo passato la notte in una scuola abbandonata sempre sotto le cannonate e con i rumori dei bombardamenti. E poi di nuovo sulla strada a camminare. Una volta i soldati francesi avevano preparato un pasto caldo per noi e, finalmente, dopo giorni di pane e carote crude, potevamo mangiare qualcosa di caldo anche se era solo un minestrone. Avevano preparato dei tavoli in un grande cortile con dei piatti di alluminio, ma mentre mangiavamo un rombo assordante sopra di noi e quelli che hanno iniziato ad urlare: “ Via, via dal cortile!” Su, nel cielo, due aerei, uno tedesco ed uno francese, avevano iniziato un duello, si sparavano addosso ed i proiettili cadevano proprio sul cortile nel mezzo del quale c’era un albero maestoso. Noi ci eravamo rifugiati tutti proprio sotto quell’ albero, ma non avevo paura, al contrario, ero molto curiosa di vedere i bossoli che cadevano sui piatti e questi che saltavano in aria. I grandi, invece, si stringevano gli uni con gli altri e tenevano noi bambini stretti stretti a loro. Da un edificio i soldati ci urlavano: “ Non muovetevi! Non muovetevi!” Poi, di nuovo sulla strada a camminare. Alla fine siamo arrivati a Saint Jean de Vedas, un piccolo paese vicino a Montpellier, nel sud della Francia. Lì i Tedeschi non ci hanno mai raggiunto. Eravamo, infatti, nella cosiddetta “zona libera”, perché da giugno anche tutto il nord della nazione era finito in mano al Terzo Reich. Per gli abitanti di quel paese eravamo semplicemente “i rifugiati” . Abitavamo in una casa messa a disposizione dal comune e dormivamo su della paglia stesa per terra. Per mangiare il comune ci passava giornalmente dei soldi. Mia madre, però, per racimolarne di più, insieme a mia nonna, si era offerta di fare il bucato per i soldati. Era troppo poco infatti quello che le autorità ci passavano, anche perché neanche loro ne avevano poi molto. Lavavano quei panni in piedi nel fiume con l’acqua fino alla cintola. Noi bambini, invece, tutto il giorno nei campi a rubare frutta che mangiavamo di nascosto. Era diventato un gioco divertente anche se era la fame a spingerci a rubare. Lì abbiamo conosciuto, tra l’altro, dei boy scout belgi, sorpresi dall’occupazione durante un viaggio in Francia.

 

La sera, insieme a loro, ci riunivamo intorno al fuoco e cantavamo “Il valzer delle candele”. E’ stata poi la Croce Rossa Internazionale a fare in modo che potessero rientrare in patria. Abbiamo saputo dopo che, arrivati alla stazione di Bruxelles, i Tedeschi li fecero scendere dal treno, messi contro un muro e fucilati all’istante. Li avevano scambiati per dei soldati! Uno di loro era figlio unico di un medico belga. Dopo quattro mesi la Croce Rossa Internazionale ottenne dal comando tedesco di occupazione anche per noi il permesso di rientrare nel Lussemburgo. Ci misero perciò su un treno fino a Montpellier. Lì dovemmo passare il controllo medico ed una totale disinfestazione da pulci e cose simili e, poi, di nuovo, sul treno con i suoi scomodi pancali di legno ed i finestrini che non si chiudevano, ma, per fortuna, eravamo in agosto. Così, il giorno dopo, incontrammo quei Tedeschi da cui stavamo fuggendo da mesi e non fu un incontro piacevole. Il treno, infatti, si era fermato a Digione, che a quel tempo era al confine tra la Francia occupata dai Tedeschi e la zona libera. Ci imposero la fermata per controllare i nostri lasciapassare. Lungo tutto il binario c’erano soldati con i mitra pronti a sparare e, su quel binario, c’era anche una fontanella e noi, dopo ore senza acqua, avevamo sete. Mia nonna, allora, con il coraggio di una madre, si alzò. Stava per scendere dal treno, indicando quella fontanella ai soldati, quando si ritrovò con un mitra puntato al petto e con un soldato che le urlava addosso di risalire. Sì, stavamo cominciando a conoscere l’esercito di occupazione! Rimanemmo così seduti ad osservare i responsabili della Croce Rossa Internazionale che se la sbrigavano con i capi nazisti. Finalmente, dopo un tempo lunghissimo, ci diedero il permesso di ripartire ed il treno si rimise in moto; stavamo tornando a casa dopo mesi di fuga ed eravamo contenti. Trovammo una casa totalmente depredata, non c’erano neanche più i piatti e i materassi su cui dormire, ma c’era mio padre ed era vivo! Durante tutta l’occupazione tedesca dovetti dormire su un divano rimediato, ma non era la cosa peggiore di quegli anni.

Barbara

testimonianza raccolta da Maria Luisa Dezi

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Last modified on Sunday, 30 September 2018 22:11
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