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Molto ha fatto discutere la panciuta esibizione salviniana al Papeete Beach, con tanto di graziose fanciulle ghepardate gioiosamente zompettanti sulle note dell’ Inno di Mameli.
Credo, però, che su una cosa non ci si sia soffermati con la dovuta serietà, su una cosa che ritengo di primaria importanza:
l’uso ripugnantemente strumentale ed iniquo che si è fatto di quelle note musicali. Ovvero: il problema cruciale non credo sia tanto l’indiscutibile volgarità di scenografia e coreografia, bensì il connubio venutosi a creare tra un certo “significante” ed un certo “significato”. Cioè il fatto che (scientemente o incoscientemente, poco importa) si sia fatto uso di un determinato strumento comunicativo (l’Inno nazionale) per veicolare valori antitetici a quelli che quello strumento hanno partorito e per promuovere un processo identitario anch’esso antitetico alla sostanza ideale e ideologica originaria. Si è ridotto, infatti, un prodotto culturale altamente simbolico, scaturito da mille sofferenze e da lotte coraggiose e dolorose, nate dal nobile sogno della ricerca del bene comune e della costruzione di una società più giusta e più libera, a calamita aggregatrice faziosa e propagandistica, mirante non ad allargare orizzonti, ad abbattere antiche mura e ad oltrepassare ben consolidati fossati e terrapieni, ma a fomentare odiose contrapposizioni, ad alimentare un modo di essere, di pensare e di fare fondato sul feticcio ideologico del “noi”, del “solo NOI”, volto a rinchiudere (alcuni), a separare (gli uni dagli altri), ad estromettere (quelli che non risultano inseribili nelle anguste coordinate del “noi”).
Ed è su questa operazione politico-mediatica (ahimè abile ed efficace, come tante altre analoghe) che dovrebbero concentrarsi le nostre più che legittime preoccupazioni. Ciò che risulta davvero intollerabile, infatti, è il volersi appropriare di un simbolo che, al di là di ogni trita retorica, rappresenta (come il tricolore) qualcosa che si colloca necessariamente e doverosamente al di sopra di tutti, al di sopra delle opinioni e degli interessi di singoli individui, partiti, chiese, ecc., e che, pertanto, non appartiene e non può e non DEVE appartenere a nessuno in particolar modo, né appartenere a qualcuno di più e a qualcuno di meno.
Se quell’Inno ha un senso, esso consiste nell’essere in grado di continuare ad insegnarci che soltanto dallo stringersi insieme, dal sentirsi parte di qualcosa di unico ed unificante (l’essere italiani e, prima ancora, donne e uomini alla ricerca del BENE di TUTTI), soltanto dalla volontà e dalla capacità di abbandonare egoistici campanilismi vecchi e nuovi, soltanto dallo scegliere strategie improntate all’altruismo e alimentate da sincero spirito di fratellanza e di affratellamento, sarà possibile intraprendere un cammino di liberazione dall’ingiustizia e di costruzione di reale felicità.
Insomma, quell’Inno non è e non può diventare maschera nobilitante per settarie mire di potere, né arma di difesa di interessi bottegai, né tantomeno arma di offesa contro chi vorremmo collocare oltre il confine della nostra opinabilissima “italianità” o “umanità”. Meglio farebbero, dunque, Salvini e salviniani ad imitare i protoleghisti che, assai più coerentemente con i propri principi ed obiettivi politici, rifiutavano l’Inno nazionale, sostituendolo con l’aria verdiana dei “Lombardi alla prima crociata”. Perché la mentalità e la sensibilità dei primi quanto dei secondi erano e restano quelle che tante sventure nel corso della storia hanno prodotto:
quelle dei crociati, quelle presuntuose ed aggressive di coloro che, in nome di un qualche dio (o di qualche invocata Madonna!), sono sempre pronti a tutto per conseguire le proprie méte.