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Se i principali terreni di scontro tra Stati Uniti, Cina e Russia sono la supremazia tecnologica e il controllo delle risorse dell'Artico, le questioni mediorientali lasciano intravedere due potenziali sistemi di alleanze, sia pure ancora instabili
Dopo il collasso dell'Unione sovietica, gli Stati Uniti, unica superpotenza mondiale, hanno imposto un assetto unipolare globalizzato, utilizzando essenzialmente tre strumenti: l'economia di mercato, diffusa tramite organismi come il Fondo monetario internazionale e l'Organizzazione mondiale del commercio; un unico sistema di sicurezza aggressivo-difensivo facente riferimento al Patto atlantico (NATO); infine, un'unica rete di comunicazione e informazione mondiale (internet) controllata e gestita dagli USA, con funzioni di spionaggio e di diffusione del soft power della potenza egemone. A ciò si aggiungeva una “riconfigurazione” dell'Organizzazione delle nazioni unite (ONU), più volte utilizzata per conservare gli equilibri di forza regionali o per indirizzare eventuali cambiamenti in direzione di un'ulteriore consolidamento della supremazia mondiale statunitense, anche mediante il rafforzamento del ruolo geopolitico dei suoi satelliti regionali. All'interno di tale quadro, ad esempio, alla Turchia, paese NATO dal 1952, è stato concesso di espandere la propria influenza culturale e religiosa tra i musulmani dei Balcani, del Caucaso e di parte dell'Asia Centrale, per limitare al massimo la probabilità che la Russia (sul cui territorio abitano circa venti milioni di musulmani) potesse in futuro riemergere come potenza. Un ordine mondiale che nell'ultimo decennio ha mostrato segni di cedimento sia sul piano economico, sia sul piano delle relazioni internazionali, in particolare da quando, nell'ultimo decennio, Russia e Cina insidiano l'egemonia USA.
Con il vertice di Varsavia, Stati Uniti e Israele intendevano quindi creare un fronte compatto che individuasse nell'Iran la principale minaccia alla stabilità del Medio Oriente e che, di conseguenza, fosse disposto a collaborare attivamente con Washington per preservare l'attuale assetto mondiale. Lo stesso paese ospitante, la Polonia (scarsamente interessata, almeno in apparenza, alle questioni mediorientali), è con la Croazia uno dei promotori del progetto Trimarium, intesa economica ma con significative ripercussioni geopolitiche, perché si snoda in una regione compresa tra tre mari di rilevanza strategica, oggetto di contesa tra Stati Uniti, Russia e Germania: il Mar Nero, il Mar Mediterraneo e il Mar Baltico. Negli ultimi anni, alcuni paesi di questa regione, in particolare la Polonia, hanno acconsentito alla linea dell'attuale presidente USA Donald Trump. Basti ricordare che, lo scorso settembre, Varsavia ha dichiarato di essere disposta a sborsare due miliardi di dollari per ospitare una base statunitense sul suo territorio. Una mossa che Mosca non ha gradito, come non ha mai digerito l'espansione NATO nei Balcani. Al vertice di Varsavia sul Medio Oriente, tuttavia, Washington non è riuscita a coinvolgere i paesi membri dell'Unione Europea (UE), che hanno disertato le consultazioni, hanno inviato rappresentanti “di livello inferiore” (come Francia e Germania) o hanno partecipato esclusivamente all'apertura (come la Gran Bretagna). Di fondo, l'UE continua infatti a essere restia alla rottura delle relazioni con l'Iran. Unico successo parziale, peraltro più per Tel Aviv che per Washington, è stato probabilmente il riavvicinamento “ufficiale” tra Israele e alcuni paesi arabi, in particolare le petromonarchie del Golfo.
Già dopo l'esplosione dell'affaire Khashoggi, il giornalista saudita ucciso nel consolato di Riyadh a Istanbul, a esortare Trump a non mettere in dubbio l'alleanza con l'Arabia Saudita del principe ereditario Mohamed bin Salman, furono il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, che ne avevano sottolineato il ruolo chiave nella lotta al “terrorismo” (Iran, il movimento palestinese Hamas e altri gruppi che si ispirano all'islam politico dei Fratelli musulmani). Negli ultimi giorni, media arabi del calibro di Al-Jazeera e Al-Quds al-arabi hanno pubblicato diversi articoli sulle relazioni segrete tra Israele e paesi del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti in primis, fino al sostegno di Riyadh all'attacco israeliano al Libano. Tuttavia, questo fronte manca di compattezza, anzitutto a causa dell'isolamento diplomatico del Qatar, voluto dall'Arabia Saudita; in secondo luogo, perché non tutti i paesi del Golfo aspirano a normalizzare le loro relazioni con Israele: il viceministro degli esteri Khaled al-Jarallah ha precisato che il Kuwait sarà l'ultimo a intraprendere questa via, dopo una soluzione adeguata della questione palestinese. Quest'ultima costituisce peraltro la linea di divisione simbolica tra due diverse forme di islam politico: quella promossa da Riyadh, di ispirazione wahhabita (secondo la quale la “minaccia” principale è rappresentata dall'Iran), e quella caldeggiata da Ankara, che sostenendo la “causa palestinese” e i Fratelli musulmani si propone come punto di riferimento per tutto l'islam sunnita, inclusi i Rohingya in Myanmar e gli Uiguri turcofoni in Cina.
La Turchia, infatti, è consapevole del proprio ruolo determinante per i due schieramenti del fronte mediorientale, sia per quello di USA-Arabia Saudita-Israele-Egitto, sia per quello (più fragile) di Russia e Iran, con i quali condivide il tavolo dei negoziati sul conflitto siriano. Senza delegati al vertice di Varsavia (al pari di Libano, Palestina e Qatar), il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha incontrato invece i suoi omologhi russo e iraniano (e bielorusso) a Sochi, sul Mar Nero, nel quale Mosca sta cercando di espandere e affermare il proprio controllo. A conclusione del vertice, dal quale è emersa qualche divergenza, Erdoğan ha ribadito che acquisterà il sistema di difesa antimissile russo S-400, malgrado l'offerta “concorrente” di Washington, che ha peraltro precisato che le apparecchiature russe non sono integrabili nel sistema di difesa aerea della NATO. Washington considera infatti con preoccupazione l'eventualità di un'alleanza tra Turchia, Russia e Iran, per ora allontanata dal progetto neo-ottomano di Ankara e dall'intenzione turca di creare manu militari una zona cuscinetto ai suoi confini, nella Siria settentrionale. Nondimeno, sia pure sotto forma di intesa tattica, le relazioni con la Turchia sono fondamentali per l'Iran, su cui Israele, USA e Arabia Saudita aumentano la pressione. Tale senso di accerchiamento, in parte fondato, si è manifestato lo stesso giorno dell'apertura del vertice di Varsavia, quando in un attentato suicida nella provincia del Sistan-Baluchistan (alla frontiera con il Pakistan) sono morti 27 Guardiani della rivoluzione. L'attacco è stato rivendicato dal gruppo fondamentalista sunnita l'Esercito della giustizia, ma le autorità iraniane hanno accusato i paesi della regione che sostengono il terrorismo. Qualche giorno dopo, il ministro degli esteri iraniano Jawad Zarif (che aveva commentato il vertice di Varsavia sottolineando l'attitudine statunitense a commettere sempre gli stessi errori aspettandosi risultati diversi), in un messaggio rivolto alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza, ha accusato esplicitamente Israele di “cercare la guerra” e di aumentare, con gli USA, le occasioni di scontro in Medio Oriente. Un riferimento agli attacchi israeliani, giudicati illegittimi da Tehran, contro obiettivi iraniani in Siria.
Nel corso della stessa conferenza, Tel Aviv ha risposto che è l'Iran a rappresentare un pericolo per il Medio Oriente e per il mondo. Inoltre, la domenica, sono stati costituiti un gruppo di discussione sulla Siria, cui hanno preso parte i rappresentanti di USA, Russia, Turchia, Libano ed Egitto, e uno sulla sicurezza umanitaria. All'interno di quest'ultimo, il premio Nobel per la pace Tawakkul Karman ha criticato l'indifferenza della comunità internazionale per le devastazioni provocate dagli attacchi della coalizione saudita ed emiratina in Yemen, con il pretesto della guerra contro gli Houthi. Il sabato, invece, era stata la volta di al-Sisi, che nel suo discorso ha invitato i paesi europei a controllare le moschee che sorgono sui loro territori, per evitare che prendano piede gruppi estremisti, e a moltiplicare gli sforzi nella lotta contro il terrorismo, che si combatte anche favorendo lo sviluppo economico. “Trenta milioni di egiziani”, ha aggiunto, “sono scesi in strada” per respingere una visione fondamentalista dell'islam che avrebbe potuto causare una guerra civile. Un'allusione al colpo di stato militare che nel 2013 ha rovesciato l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, guida dei Fratelli musulmani. Non meno significative le dichiarazioni di al-Sisi sulla questione palestinese come “fonte di instabilità in Medio Oriente” e sul diritto dei palestinesi di fondare un Stato all'interno dei confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale: una linea analoga, del resto, a quella portata avanti dal Kuwait al vertice di Varsavia.
Trent'anni dopo la fine del bipolarismo mondiale, la supremazia USA è dunque insidiata in misura crescente. I conflitti che interessano il Medio Oriente, come la crisi venezuelana o i tentativi di Russia e Cina di svincolarsi dal controllo statunitense sulla rete internet mondiale, sono altrettante faglie sulle quali l'attuale assetto mondiale potrebbe crollare, come i suoi predecessori. D'altronde, al pari delle istituzioni che governano uno Stato, ogni assetto mondiale resiste solo finché rappresenta l'equilibrio effettivo tra le forze in campo.