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La filosofia del disprezzo nell'economia della concorrenza

By Carlotta Caldonazzo April 08, 2019 5684

Nei numeri di febbraio e marzo del mensile francese Le Monde Diplomatique, viene a più riprese chiamata in causa la filosofia del disprezzo dei “benestanti” nei confronti delle classi popolari, in riferimento a una sorta di lotta di classe rovesciata; una chiave di lettura per comprendere meglio i fenomeni che attraversano le attuali società occidentali, dai gilet gialli all'emergere dell'estrema destra in Europa

 

Dalla fine degli anni '70 del secolo scorso, all'interno delle società europee, si è assistito alla progressiva marginalizzazione dei movimenti che fino ad allora si erano fatti portavoce delle istanze delle classi popolari. Una repressione condotta non solo con i mezzi tradizionali, ma anche, e forse soprattutto, attraverso la diffusione di modelli di “sviluppo” e di “benessere” funzionali alle evoluzioni del capitalismo e del mercato del lavoro, quindi adatti a mantenere e rafforzare il potere delle classi dirigenti. In tal modo, le conquiste che avevano reso in una certa misura meno alienante la società di massa degli inizi del XX secolo sono state progressivamente erose, anche a causa della diffusione strumentale del cosiddetto edonismo reaganiano. Un individualismo miope e sfrenato, in cui vige il principio del bellum omnium contra omnes, della competizione e del consumismo; in cui l'autocritica è sostituita da un'autoesaltazione demenziale basata sull'illusoria identificazione della felicità con il successo economico, della personalità individuale con la posizione sociale “vincente”.

 

Successivamente, dopo l'implosione dell'Unione Sovietica, è venuto meno il termine di paragone di un sistema che faceva della giustizia sociale e dell'uguaglianza un pilastro essenziale della propaganda dei vari regimi. Di conseguenza, la globalizzazione è stata accompagnata dal motto di una presunta vittoria della libertà sull'oppressione, della democrazia sulla dittatura, come se i concetti stessi di democrazia e libertà fossero intrinseci al sistema economico capitalista. In altri termini, già a partire dagli anni '80, le classi dirigenti dei paesi occidentali, hanno imposto un nuovo paradigma culturale, un pensiero unico basato sul dogma dell'equazione tra comunismo (etichetta sotto la quale è confluito qualsiasi tentativo di instaurare un dibattito sulla giustizia sociale e sulla necessità di ridurre le diseguaglianze) e oppressione politica e sul postulato altrettanto dogmatico secondo cui la vera democrazia risiede nello spirito del capitalismo, in cui la libertà individuale viene assorbita negli ingranaggi del sistema produttivo. In tal modo, le forze politiche di sinistra, anche le più riformiste e moderate (si pensi allo scandalo internazionale suscitato dal tentativo di compromesso storico in Italia, portato avanti da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer), sono state progressivamente relegate ai margini della scena politica, impegnate più a difendersi dall'accusa di connivenze con il “vecchio sistema sovietico” che a portare avanti il loro autentico progetto politico. Un processo che, peraltro, è venuto incontro all'esigenza, emersa con la decolonizzazione, di trovare nelle classi meno agiate sacche di sfruttamento alternative ai vecchi imperi coloniali.

 

Contestualmente, i processi e le trasformazioni sociali innescati dalla terza rivoluzione industriale, tra i quali il più visibile è la cosiddetta terziarizzazione, hanno ridotto in misura crescente il peso economico e di conseguenza politico delle classi lavoratrici “tradizionali”, impegnate nel processo di produzione di beni destinati ad alimentare il mercato. Sul piano antropologico-culturale, una simile evoluzione ha favorito un cambiamento sensibile nel concetto stesso di lavoro: mentre il risultato della produzione di un bene è visibile una volta realizzato quest'ultimo, la valutazione di un servizio offerto coinvolge la soggettività della ricezione da parte di un utente-cliente, spesso influenzata da fattori estrinseci all'effettivo comportamento del lavoratore. Il che significa che l'aspetto pubblicitario conta più della preparazione effettiva di quest'ultimo, quindi che la forma ha preso il sopravvento sulla sostanza. Che sia per questo che nei vari sistemi di istruzione si preferisce parlare sempre di più di competenza (capacità di fare, di orientarsi in un determinato ambito) e sempre meno di conoscenza (che è sapere ma soprattutto spirito critico, saper organizzare ciò che si sa, saper mettere in dubbio le proprie conclusioni per aprirsi a un cammino potenzialmente infinito)? Nella competizione postindustriale, in altri termini, val più la competenza della sapienza.

 

Inoltre, l'ormai avviata quarta rivoluzione industriale potrebbe rendere il lavoratore “umano” del tutto superfluo ai fini del sistema di produzione, tanto più nel quadro del capitalismo finanziario attuale, in cui a farla da padrone sono “caste” oligarchiche che poco hanno a che fare con il lavoro tradizionalmente inteso. Peraltro, da un punto di vista geopolitico, da circa un decennio l'asse principale della competizione tra potenze si è spostato dall'egemonia territoriale (terra, mare e spazio) al cyberspazio, dando vita a un conflitto “a bassa intensità” per la supremazia in settori di alta innovazione tecnologica, come quelli dell'informatica e della robotica. Si tratta quindi di dinamiche da cui le “classi lavoratrici” sono praticamente escluse, anzi, ridotte a fonti di dati da vendere sul mercato dell'informazione. Una condizione che somiglia più a quella di merce, di prodotto, che non a quella di attore economico, politico e sociale.

 

È dunque legittimo domandarsi in che modo tali dinamiche influiranno sull'evoluzione ormai necessaria delle istituzioni politiche dei singoli Stati, soprattutto in una fase di transizione come quella attuale. In particolare, se alle “classi lavoratrici”, il cui peso negli anni '60 e '70 ha consentito a partiti e movimenti di sinistra di ottenere notevoli conquiste sul piano sia del diritto del lavoro, sia dei diritti civili, saranno garantite forme di rappresentanza adeguate, in grado di mantenere una relazione tra governo e corpo sovrano, ammesso che si potrà parlare ancora di corpo sovrano. Presumibilmente, infatti, saranno le “classi” sociali che conquisteranno il maggior peso economico ad avere più probabilità di incidere sull'evoluzione delle forme istituzionali, come già è avvenuto nei secoli passati. Per citare qualche esempio: in epoca moderna, l'affermazione della borghesia sull'ancien régime; nell'antichità, il conflitto tra fazioni e la crisi della res publica romana tra la fine del II secolo a.C. e il I secolo a.C., e il declino delle poleis greche dopo la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.; in questo periodo ad Atene si verificano due colpi di stato oligarchici, dei quali l'ultimo, quello dei Trenta tiranni, sfociato in guerra civile: come scrive il prof. Luciano Canfora nella Guerra civile ateniese, fu la “democrazia” restaurata a condannare a morte Socrate). In ognuno di questi processi, c'era alla base l'emergere di una “classe” sociale economicamente intraprendente, che conquistò progressivamente il potere di influenzare le dinamiche politiche.

 

Evoluzioni sociali a parte, anche il quadro internazionale lascia intendere la possibilità di significativi mutamenti, accelerati dall'emergere (che in alcuni casi è un ritorno) di potenze asiatiche come Cina, Giappone, India, e di potenze un tempo attive nell'assetto europeo, come Russia e Turchia. Occorre quindi una riflessione seria sulla necessità di gestire in modo razionale questo intrecciarsi di transizioni, interne e internazionali, perché un “ordine mondiale”, che risulta dalle relazioni tra i singoli Stati, è necessariamente influenzato dalle forme politiche di questi ultimi. In altri termini, se prevarranno forze politiche scarsamente disponibili alla dialettica e al compromesso, sarà più probabile l'emergere di conflitti sul piano internazionale, oltre che forti tensioni su quello interno. Per evitare ciò, occorre limitare quanto possibile i fenomeni di polarizzazione tra le diverse componenti della società e garantire un certo equilibrio nella dialettica politica interna. Altrimenti, il rischio è che si contrappongano diverse filosofie del disprezzo: quella della “casta” (che si arrocca per mantenere i propri privilegi) nei confronti delle “classi popolari”, quella (di reazione) del “paese reale” nei confronti della “casta” e quella (in certa misura più trasversale) nei confronti delle “minoranze”. Tre pensieri unici che si alimentano a vicenda imponendo una gara tra opposte mistificazioni, a discapito di una discussione lucida e ragionevole sui fenomeni politici e geopolitici in atto.

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Last modified on Sunday, 07 April 2019 23:47
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