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TURCHIA: E’ LECITO PARLARE DI STRATEGIA DELLA TENSIONE? All'indomani della strage, cortei per la pace a Istanbul, Ankara e Izmir

By Carlotta Caldonazzo October 11, 2015 11920

 di Carlotta Caldonazzo

 

Decine di migliaia di persone, dalle organizzazioni sindacali al Partito democratico dei popoli (Hdp, il partito filocurdo), dai movimenti sociali ai comuni cittadini, hanno sfilato l'11 ottobre per le strade delle tre principali città della Turchia, per chiedere giustizia per le vittime dell'attentato suicida che ha fatto strage in un raduno di sindacati e pacifisti ad Ankara. Ma soprattutto per chiedere pace e porre l'amministrazione del presidente Recep Tayyip Erdoğan di fronte alle sue responsabilità. Alcuni, intanto, suggeriscono un coinvolgimento di apparati di governo nella strage di sabato, con lo scopo di proseguire sulla linea dell'accentramento dei poteri e del rifiuto di qualsiasi forma di dialogo politico, con il pretesto della “sicurezza”. Tra gli slogan gridati durante le manifestazioni di domenica c'era appunto katil devlet, “stato assassino”. Uno slogan tristemente noto, che riporta alla mente le immagini del decennio nero algerino. Anche allora, dopo l'ondata di proteste sociali e civili del 1988, il governo in carica scelse la linea della repressione e, per percorrerla fino in fondo, innescò (attraverso i movimenti islamici radicali) la scintilla che provocò la guerra civile. Altro elemento comune, anche in Algeria a trainare le proteste erano spesso i movimenti e partiti di sinistra sensibili ai diritti delle minoranze, in particolare alla causa berbera (autonomia e riconoscimento culturale per la minoranza berbera in Cabilia).

A meno di venti giorni dalle nuove elezioni parlamentari del 1 novembre, indette dopo la perdita della maggioranza assoluta del partito di governo (Akp, Partito Giustizia e Sviluppo) alle elezioni del 5 giugno e il fallimento delle successive trattative per formare una coalizione, lo staff di Erdoğan si trova nuovamente sotto una pioggia di critiche per l'atteggiamento accentratore e dispotico, da molti giudicato irresponsabile. Ancora una volta il casus belli riguarda il processo di pace con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), avviato nel 2013 grazie alla mediazione di Selahattin Demirtaş (co-segretario dell'Hdp) e interrotto unilateralmente da Ankara lo scorso luglio. Vale forse la pena ricordare che la decisione di lanciare una nuova campagna militare era arrivata dopo quella che il governo considerava una rappresaglia del Pkk per l'attentato di Suruç, costato la vita a oltre trenta giovani attivisti, riuniti per discutere della ricostruzione della città curda siriana di Kobane. In comune con la strage di Ankara, oltre all'obiettivo (movimenti vicini alla causa curda) e alla tattica dell'attentato suicida, ci sarebbe (a quanto risulta dalle prime analisi) il tipo di esplosivo utilizzato. Solo che allora, trattandosi di Kobane, le autorità avevano scelto con fulminea sicurezza la pista dei cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Daech), mentre questa volta il primo ministro Ahmet Davutoğlu ha incluso tra i sospetti anche il Pkk e due organizzazioni di “estrema sinistra”, ovvero il Partito-fronte rivoluzionario di liberazione del popolo e il Partito comunista marxista leninista. La prima, peraltro, sospettata di legami con il deep state, ovvero gli apparati di stato “occulti”, soprattutto da quando una militante di spicco, arrestata nel 2008 ma rilasciata nel 2012 in attesa di un nuovo processo, è stata uccisa dopo aver dichiarato in un'intervista di essere disposta a rivelare i legami tra il Movimento-fronte ed Ergenekon (gruppo ultranazionalista clandestino, accusato di infiltrare suoi elementi nell'esercito e nei servizi di sicurezza, sul modello di Gladio). Inoltre, c'è un terzo attentato simile per dinamica e obiettivo a quelli di Ankara e Suruç, ovvero quello compiuto il cinque giugno scorso da due attentatori suicidi (in tutti e tre i casi la dinamica è simile) a Diyarbakır, durante un raduno dell'Hdp. Una trentina di morti e un pericoloso aumento di tensione a due giorni dalle elezioni parlamentari.

Così, mentre in Tunisia il “quartetto nazionale per il dialogo” ha vinto il premio Nobel per la pace per aver salvato il paese dalla guerra civile, l'amministrazione Erdoğan viene accusata, oltre che di autoritarismo e censura (in particolare per l'atteggiamento repressivo nei confronti della stampa), anche di attuare una strategia della tensione con lo scopo di imporre un controllo più capillare in vista delle prossime elezioni. In effetti, in gioco per il presidente turco c'è la possibilità di fare della Turchia una repubblica presidenziale, completando l'iter di accentramento dei poteri. Nondimeno, l'Akp questa volta sarà costretto ad accettare i risultati delle elezioni parlamentari, a meno che non voglia trascinare il paese verso una guerra perpetua. Tanto più che l'ultima strage (la più sanguinosa della Turchia moderna) è avvenuta nella capitale amministrativa, malgrado i ripetuti contatti tra Erdoğan e i mukhtar, rappresentanti di quartieri e comunità locali. Incontri che vanno avanti da gennaio e riguardano la creazione di un sistema informativo speciale protestationche permetterà a questi “notabili” di comunicare direttamente con il Ministero degli interni. Per ora il presidente turco ha chiesto loro di informare la polizia locale di eventuali attività sospette e luoghi di ritrovo di militanti del Pkk. Decisione anche questa assai controversa, visti i rischi che si corrono nel tentare di gestire un paese incoraggiando la pratica della delazione, che rischia, al contrario, di distruggere il tessuto sociale e le relazioni che lo costituiscono.

La situazione in Turchia, dunque, desta preoccupazioni. Anzitutto per il timore diffuso che Erdoğan possa tentare di guadagnare consensi mettendo in atto una strategia della tensione che potrebbe avere ripercussioni nefaste non solo sulla situazione interna ma anche sui conflitti in Siria e Iraq. Infatti, malgrado le promesse di Ankara di sostenere la coalizione internazionale contro il cosiddetto Stato islamico (una strategia, peraltro, di per sé discutibile), i bombardieri turchi finora hanno preso di mira quasi solo presunti rifugi del Pkk. Inoltre, a seguito della strage di Ankara, le autorità potrebbero prolungare il coprifuoco imposto in molte città del Sud-est a maggioranza curda, una misura che rischia di mettere in difficoltà chi vorrà recarsi alle urne il prossimo 1 novembre. Di contro, un serio confronto politico unito a una ripresa fruttuosa del processo di pace con il Pkk potrebbe essere il primo passo verso una maggior considerazione dei diritti fondamentali di tutti i cittadini turchi. Basti pensare che tra i deputati dell'Hdp entrati in parlamento alle parlamentari di giugno c'erano, oltre a un cospicuo numero di donne, vari attivisti dei movimenti in difesa di Lgbt. Occorre ricordare inoltre che, con quasi il 30% dei voti ottenuti alle ultime elezioni, Demirtaş, da anni avvocato dell'Associazione turca per i diritti umani e tra i fondatori del presidio di Amnesty international a Diyarbakır, avrebbe potuto offrire un contributo fondamentale al processo di democratizzazione della Turchia (che ovviamente passa anche per la soluzione della questione curda), garantendo rappresentanza politica non solo ai Curdi ma anche a quei movimenti che chiedono giustizia sociale. Significative le parole da lui pronunciate ad Ankara, durante la manifestazione all'indomani dell'attentato. “Il partito di Erdoğan ha le mani sporche di sangue”, ha detto il co-segretario dell'Hdp, “ci vogliono far tacere, ma noi continueremo la nostra lotta pacifica”. Ankara, tuttavia, non sembra intenzionata a cambiare linea, e non solo sul Pkk. Qualche giorno fa, ad esempio, un giornalista del quotidiano Hürriyet è stato aggredito da un gruppo di sostenitori dell'Akp, mentre il direttore del quotidiano Zaman è stato arrestato per un commento critico su Erdoğan sulla rete sociale Twitter. Insomma, finora, sullo sfondo delle richieste di pace, lavoro e democrazia (questo sarebbe stato lo slogan del corteo di Ankara del 10 ottobre) di movimenti e sindacati, l'unica forza ad aver chiesto un cessate il fuoco in vista delle elezioni è stata proprio il Pkk.

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Last modified on Monday, 12 October 2015 23:06
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