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Mentre i tempi delle collettività confinate dalle misure adottate dai governi come mezzi di contrasto della diffusione dei contagi da Covid-19 sono scanditi da bollettini quotidiani e decreti, la transizione tecnologica, ed energetica, definita terza rivoluzione industriale è ormai accettata come il male minore; talvolta come unico baluardo contro un nemico invisibile, quindi più minaccioso persino del terrorismo; e come conseguenza di un cambiamento di stile di vita imposto da due emergenze di fronte alle quali ogni dibattito è azzerato: la salute e l’ambiente
Ben prima della diffusione globale dell’allarme Covid-19, serie riflessioni sull’organizzazione delle società contemporanee e sulle diseguaglianze e le contraddizioni che le contraddistinguono erano sorte a seguito della crisi finanziaria globale del 2008 e, risalendo ancora nel tempo, in occasione della crisi petrolifera degli anni ‘70 del secolo scorso. Due cataclismi economici e soprattutto sociali, che hanno messo in discussione il rapporto dell’essere umano con la natura e con le sue risorse da un lato, e con il sistema di produzione capitalista e i suoi risvolti finanziari dall’altro. Con una differenza di non poco rilievo: nel 2008 la globalizzazione aveva già da tempo esteso il modello capitalista al mondo intero, ben al di là della linea di demarcazione tra i due blocchi, e aveva individuato nella Cina, entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) nel 2001, un anello fondamentale, soprattutto nell’estrazione e nella lavorazione a buon mercato di materie prime essenziali allo sviluppo dell’industria hi-tech, ma dall’impatto ambientale devastante, e nello smaltimento dei rifiuti. Già nel 1992, mentre gli Stati Uniti si apprestavano a gestire l’ordine mondiale come unica superpotenza dopo il crollo sovietico, Deng Xiaoping, padre dello sviluppo economico cinese, aveva intuito il futuro peso geopolitico di Pechino: il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare, che nella terza rivoluzione industriale hanno lo stesso ruolo che ebbe il petrolio nella seconda. Da esse dipende infatti l’industria aerospaziale, militare ed elettronica, tre settori strategici, tanto per l’organizzazione delle società, quanto per la gestione delle relazioni internazionali, poiché in grado di assicurare il controllo del globo terracqueo, dello spazio e del cyberspazio. Su questi tre assi si proietta attualmente la potenza di un’entità politica affermata.
Come rilevato dal documentario La sale guerre des terres rares di Guillaume Pitron e Serge Turquier, fino agli anni ‘90, il monopolio nell’estrazione dei metalli rari era degli Stati Uniti, ma la loro raffinazione avveniva in buona parte in Francia. In tal modo, Washington si spartiva con il satellite europeo (che allora includeva la Gran Bretagna) l’amministrazione di un ordine mondiale che immaginava unipolare, lasciando che Parigi, che con il sistema euro-atlantico non è stata sempre allineata, svolgesse una sorta di ruolo di co-gestore. L’azienda statunitense Molycorp, che estraeva questi minerali dalla miniera più grande del mondo, situata a Mountain Pass, nello Stato dell’Indiana, iniziò tuttavia a perdere progressivamente i suoi acquirenti, che preferivano comprare gli stessi elementi dalla Cina, a costi inferiori. La chiusura della miniera nel 2002, imposta dalle leggi di mercato, segnò infine il passaggio del monopolio estrattivo da Washington a Pechino, che attirava nel suo territorio investitori e tecnologie industriali occidentali. Fu questo spostamento a consentire la produzione di telefoni portatili a costi ridotti, quindi la loro diffusione come mezzo di comunicazione di massa su scala globale. E fu questa evoluzione, la cui portata è stata probabilmente sottovalutata, a permettere alla Cina di intraprendere, nel quadro della terza rivoluzione industriale, un cammino di sviluppo economico ipercapitalista, sul quale ha potuto fondare una crescente e inarrestabile crescita geopolitica, a costo della devastazione ambientale irreversibile di intere porzioni del suo territorio, soprattutto le più ricche del petrolio del XXI secolo. Dai tempi di Deng Xiaoping, che ne è stato l’ideatore, ma soprattutto dai primi anni Duemila, l’ascesa cinese è avvenuta lungo due assi fondamentali, tra loro correlati: primo, l’affermazione all’interno del mercato mondiale e grazie alle sue stesse leggi (in un momento in cui, verosimilmente, l’attenzione di Washinton era concentrata sugli effetti dello sprofondamento di Mosca e sulla conquista e la gestione dei suoi ex-satelliti); secondo, l’occupazione progressiva di posti di rilievo nell’Organizzazione delle nazioni unite (ONU), ancora in corso.
Come rilevato dal quotidiano francese Libération, in un articolo pubblicato il 15 aprile, sulle 15 agenzie ONU, quattro sono dirette da cinesi, tra le quali l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e l’Organizzazione dell’aviazione civile internazionale (OACI), mentre l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), accusata di recente di inclinazioni filocinesi, è guidata da Tedris Adhanom, ex ministro degli Esteri dell’Etiopia, bastione della Cina in Africa. La presa di coscienza del peso geopolitico di Pechino avvenne, tardivamente, nel 2010, lo stesso anno in cui la Cina scavalcava il Giappone divenendo la seconda potenza economica del pianeta. Un incidente marittimo apparentemente banale nel Mar Cinese orientale impose allora all’attenzione internazionale, in particolare a Washington, la questione della dipendenza da Pechino dei settori chiave del mercato mondiale, sempre più bisognoso di terre rare. Le autorità giapponesi arrestarono infatti l’equipaggio di un peschereccio cinese che, entrato nelle acque territoriali di Tokyo, aveva rifiutato di fermarsi entrando in collisione con due imbarcazioni della guardia costiera. Immediata la reazione di Pechino, che interruppe le esportazioni di terre rare al Giappone, paralizzandone un quarto dell’economia nazionale. Malgrado gli allarmi lanciati dal Senato statunitense nel 2010, dopo la sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump ha ridotto drasticamente i finanziamenti americani all’ONU, mentre la Cina ha continuato a impegnarsi incessantemente sui due fronti, economico e geopolitico, della sua affermazione, che dal 2013 si concretizza nel progetto delle nuove vie della seta, la Belt and Road initiative, estensione della strategia marittima del filo di perle. Analogamente, la guerra commerciale nel settore tecnologico lanciata da Washington contro Pechino non è bastata a ridimensionarne il peso economico e geopolitico.
Negli ultimi mesi, la diffusione su scala globale dell’allarme per i contagi da Covid-19, che ha avuto origine nella provincia cinese di Wuhan, ha messo in discussione gli stili di vita dominanti nelle società europee, asiatiche e americane. I governi di quasi tutti i paesi occidentali hanno adottato misure di confinamento e di reclusione che hanno radicalmente trasformato sia i sistemi di relazioni interpersonali, sia il rapporto dell’individuo con la collettività, con conseguenze potenzialmente destabilizzanti per il tessuto sociale. La sfera relazionale, finora articolata nelle due dimensioni della realtà fisica e di quella virtuale, si è vista quindi privare della sua componente concreta e materiale. In altri termini, il distanziamento sociale sta trasferendo le relazioni sociali della maggioranza degli individui che vivono nelle collettività organizzate nella Rete, che in molti paesi, come l’Italia, si sta rivelando (ancora) insufficiente a soddisfare le esigenze di una società attuale, proprio mentre la terza rivoluzione industriale sembra apprestarsi a raggiungere il suo momento culminante. Quello che i media descrivono come un cambiamento, forse irreversibile, degli stili di vita imposto dall’allarme per la minaccia invisibile del virus potrebbe avere quindi per effetto un’accelerazione dei due processi storico-economici iniziati dopo la guerra fredda: in primo luogo, la transizione energetica dai combustibili fossili alle terre rare, indispensabili per fabbricare le apparecchiature per la produzione di energia green o le batterie per i veicoli elettrici; in secondo luogo, la transizione economica verso la sparizione di buona parte dei mestieri tradizionali e la dipendenza sempre maggiore del mercato del lavoro dalla Rete, e in generale dal progresso tecnologico, che senza terre rare sarebbe impossibile.
Ciò significa che, dopo anni di crescente sensibilizzazione sull’emergenza ambientale, sul riscaldamento climatico, sulla necessità di trovare forme di energia cui ricorrere preservando le risorse del pianeta, l’emergenza sanitaria ha accresciuto notevolmente l’importanza strategica delle terre rare, con due conseguenze gravide di pericoli: anzitutto ha creato i presupposti per una competizione tra potenze sulla loro estrazione e lavorazione, forse analoga alla corsa agli imperi coloniali della fine del XIX secolo; inoltre, ha impedito qualsiasi dibattito sull’impatto ambientale e sulla salute umana dello sfruttamento di questi minerali. Infatti, si tratta di 17 elementi senza i quali il progresso tecnologico non sarebbe possibile, dal LED ai pannelli fotovoltaici, dagli impianti eolici ai droni. Che cosa direbbe dunque la coscienza (o la sensibilità) ecologica di fronte al fatto che, ad esempio, per estrarre un kilo di lutezio occorrono 1.200 tonnellate di roccia, 8,5 per un kilo di vandalio, 16 per un kilo di cerio, 50 per un kilo di gallio? E che cosa penserebbero coloro che esortano ad agire prontamente per arrestare l’impatto distruttivo dell’attuale modello economico sulla natura e sull’uomo, considerando che nei villaggi situati nei pressi della miniera di terre rare di Baoutou, nella provincia cinese della Mongolia interna, la radioattività è 32 volte superiore alla norma? Lo stesso discorso varrebbe peraltro per l’estrazione del cobalto nella provincia del Katanga, nella Repubblica democratica del Congo, dove la concentrazione di questo elemento nelle urine degli abitanti è 43 volte più elevata della media. Eppure, senza alcun dibattito pubblico, le misure restrittive imposte alla circolazione e all’assembramento degli individui in nome dell’emergenza sanitaria stanno di fatto rendendo necessario lo sfruttamento intensivo di terre rare, litio e cobalto.