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Come l'Artico e l'Indo-Pacifico, il Mediterraneo orientale rappresenta una linea di faglia tutt'altro che stabilizzata, dove si scontrano gli interessi strategici di potenze regionali e mondiali: Russia, Turchia, Francia, ma anche Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita; la distensione tra Abu Dhabi e Tel Aviv offre ad Ankara un nuovo appiglio per ergersi a paladina dei diritti dei fratelli musulmani (e dei Fratelli musulmani), mentre Riyadh preferisce per ora la linea del silenzio; potrà la retorica espansionista mettere a tacere le tensioni sociali?
Mentre i tre principali rivali per la supremazia globale, Cina, Stati Uniti e Russia, si contendono l’egemonia e il controllo del cyberspazio, nello spazio fisico diversi paesi aspirano al ruolo di potenze regionali, taluni con l’obiettivo finale di ritagliarsi il proprio spazio nell’ordine (o disordine) mondiale che si sta delineando da almeno un decennio. La potenza statunitense, eredità del secolo scorso e dell’implosione del sistema sovietico, sembra ne stia uscendo indebolita, mentre assiste agli scricchiolii che incrinano la solidità, peraltro mai del tutto affermata, della sua sfera di influenza, istituzionalmente rappresentata dall’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Lo stesso organismo che secondo il presidente francese Emmanuel Macron versa in condizioni di morte cerebrale. Anche perché la testa, con sede fisica a Bruxelles, ma idealmente situata a Washington, stenta a controllare le ambizioni di quelle che avrebbero dovuto essere le sue membra. Il deterioramento delle relazioni tra Grecia e Turchia, ma anche tra quest’ultima e la Francia, non sono che il sintomo della metamorfosi del rapporti di forza all’interno di un organismo, la NATO, istituito nell’intenzione di creare un fronte compatto contro un nemico comune, che allora era l’Unione sovietica. E la percezione indotta di tale minaccia era già di per sé un efficace strumento di coesione, o meglio di controllo e di dominio, come dimostra la complessa e ramificata rete di cellule stay behind presenti nei paesi alleati (ad esempio, Gladio in Italia). Di conseguenza, non vi era alcuna esigenza di mobilitare realmente l’arsenale bellico, anche perché una simile mossa sarebbe risultata suicida. Non è quindi affatto casuale che le prime operazioni militari NATO, presentate all’opinione pubblica come interventi umanitari, siano state lanciate dopo la fine della guerra fredda, quindi una volta venuta meno, per il blocco vincitore, la necessità di compattezza e coesione. In altri termini, dopo l’imposizione dell’assoluto dominio mondiale della superpotenza USA, se ancora nel
1990-91, quando Washington, seguita da qualche alleato, lanciò le operazioni Desert Shield e Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein, la NATO non fu chiamata in causa. Tutt’al più, allora si andava affermando la tendenza ad agire a colpi di risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), come appunto quella che legittimò l’operazione Desert Storm.
Un discorso ben diverso riguarda il disordine mondiale attuale, che dura all’incirca da un quindicennio, caratterizzato dall’assenza di attori in grado di imporre la propria egemonia su tre dimensioni: il globo terraqueo, lo spazio e il cyberspazio. Questa fluidità degli equilibri di forze sullo scacchiere mondiale è terreno fertile per coltivare aspirazioni a restaurare vecchi imperi o a crearne di nuovi. In tale contesto, diversi paesi hanno colto l’occasione per perseguire i propri interessi strategici, sia pure senza esplicite dichiarazioni di rottura. In primo luogo la Turchia, che con l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, ha saputo trarre vantaggio dal ruolo di gendarme regionale affidatole dagli Stati Uniti negli anni ‘90, per rinvigorire le proprie mire imperiali neo-ottomane; in secondo luogo la Germania, attualmente attore economico regionale di un certo rilievo (è la seconda finanziatrice della NATO dopo gli USA), alla quale dopo la caduta del muro, la superpotenza aveva concesso di proiettare il proprio soft power sui Balcani e sull’Europa orientale, in una sorta di ripresa-rielaborazione dell’Ostpolitik di Willy Brandt; in terzo luogo la Francia, l’alleato riluttante ma economicamente rilevante (è il terzo dei suoi finanziatori), che dal comando unificato NATO è rimasta fuori dal 1966 al 2009, e che di recente ha rilanciato i propri tentativi di affermazione su scacchieri regionali di grande interesse strategico: basti citare, a titolo di esempio, Nord Africa, Africa subsahariana (la Françafrique essendo stata ridotta ai minimi termini dall’espansionismo economico cinese), Medio Oriente (si pensi alla visita di Macron a Beirut dopo la recente devastante esplosione) e Mediterraneo orientale (dove Parigi ha aumentato la sua presenza militare, per fronteggiare l’intraprendenza turca, e non solo nei confronti della Grecia), con un occhio alla Bielorussia; dulcis in fundo, il Regno Unito, che alla NATO diede i natali e che ne ha fatto da sempre il perno della propria strategia difensiva, spesso in linea con la sua antica colonia, divenuta in seguito più potente della madrepatria, al pari di quanto fece anticamente Cartagine rispetto a Tiro.
All’elenco dei paesi che mirano a trarre profitto dall’attuale disordine mondiale, si potrebbe aggiungere il Giappone, con le dispute marittime che lo oppongono a Cina e Russia e con un’alleanza con gli USA che, se lo protegge dalle potenze rivali, gli ha imposto finora pesanti restrizioni in tema di armamenti. Tokyo potrebbe quindi approfittare del timore statunitense dell’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, una paura condivisa inoltre dall’India e dall’Australia. Dal canto suo, dopo decenni di quiescenza nel ruolo di fedele alleato e oggetto di protezione di Washington, l’Arabia Saudita, negli ultimi anni, fronteggia le insidie della Turchia nel ruolo di guida dell’islam sunnita. In merito all’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti del 13 agosto 2020, negoziato con la mediazione di Trump, Riyadh non ha ancora commentato ufficialmente, ma da anni ha instaurato con Tel Aviv una cooperazione ufficiosa in funzione anti-iraniana (come ha fatto, peraltro, il Bahrein). Relazioni che sono risultate proficue anche al di fuori della disputa con Tehran, dato che il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre 2018, era stato sorvegliato mediante il malware di produzione israeliana Pegasus. Malgrado il sostegno assoluto di Trump e di Jared Kushner, suo genero e consigliere, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) ha sperimentato gli strali del Congresso USA all’epoca dell’uccisione di Khashoggi all’interno del consolato saudita a Istanbul. Inoltre, il 14 agosto ha ricevuto dal tribunale distrettuale di Washington DC una convocazione in merito alle accuse lanciategli da Saad al-Jabri, ex funzionario dell’intelligence saudita residente in Canada dal 2017. Al-Jabri, consigliere dell’ex ministro dell’interno saudita Mohammed bin Nayef, grande rivale di MBS, sostiene infatti che quest’ultimo, nel settembre 2017, ha adottato nei suoi confronti un metodo assai simile a quello scelto per eliminare Khashoggi. Intanto, pur essendo improbabile che gli USA rinuncino all’alleanza con la monarchia saudita, Riyadh è ora sotto i riflettori dell’intelligence statunitense, che nutre sospetti a proposito del suo programma nucleare, in particolare per un probabile coinvolgimento della Cina. L’Arabia saudita, che ufficialmente nega di voler produrre, con la cooperazione di Pechino, combustibile nucleare utilizzabile per costruire armi atomiche, ammette tuttavia di aver siglato con l’Impero centrale contratti per la ricerca di uranio yellowcake in diverse regioni del regno. L’obiettivo, ha spiegato il ministero dell’Energia saudita, è diversificare l’economia e produrre uranio per scopi civili, in linea con il Trattato di non proliferazione nucleare del 1986. Intanto, Riyadh ha annunciato l'avvio della sperimentazione umana di un vaccino contro il Covid-19, come parte di un accordo di cooperazione con la Cina.
Dalla rivalità turco-saudita per la guida dell’islam sunnita (che Ankara, al contrario di Riyadh, vorrebbe unificare, eliminando la divisione tra arabi e non arabi), era rimasto fuori l’Egitto laico e militarista di Abd al-Fattah al-Sissi, che con l’islam politico aveva chiuso i conti appena insediatosi, dopo il colpo di Stato che aveva rovesciato il presidente Mohammed Morsi. In buone relazioni sia con le petromonarchie del Golfo, sia con Israele (al-Sissi, come il presidente israeliano Benjamin Netanyahu, consigliava Trump di non rompere le relazioni con l’Arabia Saudita a seguito dell’affaire Khashoggi), il Cairo è intervenuto negli equilibri regionali del Mediterraneo orientale solo quando ha percepito il pericolo del progetto neo-ottomano di Erdoğan, sull’onda dei successi turchi in Siria e in Libia. Minacciato dall’intervento di Ankara in Libia a sostegno del governo di Fayez al-Sarraj (peraltro riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite – ONU), l’Egitto ha reagito dichiarandosi pronto a inviare a sua volta un contingente militare in aiuto del generale Khalifa Haftar. Una mossa bollata come illegale dalle autorità turche, che inoltre hanno accusato al-Sissi di aver inviato truppe in Siria per sostenere l’esercito di Assad. Contestualmente, il Cairo cerca di costruire un consenso tra i paesi arabi sulla linea da seguire per risolvere il conflitto libico. Tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, infatti, l’Egitto ha promosso gli incontri tra il portavoce del parlamento libico di Tobruk (che fa riferimento a Haftar) ed espon
enti dei governi marocchino, tunisino e algerino. Tale iniziativa ha seguito i colloqui di inizio giugno tra al-Sissi e Haftar, durante i quali il presidente egiziano ha annunciato un piano di pace (Cairo initiative) per la Libia, lanciando un appello a tutte le parti coinvolte per il cessate il fuoco e il ritorno all’unità del paese. Al-Sissi ha inoltre invitato tutte le potenze straniere implicate nel conflitto a ritirarsi. Una strategia radicalmente diversa dall’interventismo monolitico turco, la cui minaccia viene percepita dal Cairo anche nel Mediterraneo orientale. Infatti Ankara, che lo scorso luglio ha condannato il sostegno di Egitto ed Emirati Arabi Uniti al generale Haftar, ha ribadito, insieme al Qatar, il suo sostegno ad al-Sarraj, durante una visita dei ministri della Difesa dei due paesi a Tripoli, alla quale ha preso parte anche il ministro degli Esteri tedesco. Inoltre, la Turchia ha definito vano e vacuo l’accordo siglato il 6 agosto da Egitto e Grecia (e ratificato il 17 agosto dal parlamento egiziano) per la delimitazione dei confini marittimi e per la definizione di una zona economica esclusiva.
La battaglia per le materie prime nel Mediterraneo orientale, i conflitti per il controllo degli stretti e di altre aree strategiche, terrestri e marittime, le guerre commerciali o i cosiddetti interventi umanitari in difesa di opposizioni politiche o di minoranze etniche o confessionali (che spesso celano intenzioni o velleità imperialiste), sono alcuni degli strumenti utilizzati per ridefinire gli assetti geopolitici mondiali a seguito di fasi di saturazione dei vecchi equilibri. Ma si tratta altresì di stratagemmi per distogliere l’attenzione delle opinioni pubbliche sulle diseguaglianze e sull’ingiustizia sociale che negli ultimi anni si sono sensibilmente aggravate. Una potenza regionale come la Turchia, ad esempio, è colpita da una grave crisi economica, acuita dall’impatto dell’emergenza sanitaria da Covid-19. L’allarme relativo alla pandemia, d’altronde, ha sprofondato le economie mondiali nell’incertezza, in un momento in cui non erano stati completamente superati i postumi della crisi finanziaria del 2008. Una situazione difficilmente gestibile, a meno di non imprimere svolte autoritarie rischiose, soprattutto nella prospettiva della transizione verso un futuro digitale.