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RISPOSTA A GIUSEPPE DE RITA, CHE SUGGERISCE AGLI ITALIANI, NEL SUO ARTICOLO, DI ACCETTARE BENEVOLMENTE UN EVENTUALE INTERVENTO IN GUERRA.

By Francesco Piro December 12, 2015 16135

Egregio De Rita,


in primis, mi è ignoto da dove lei abbia appreso che gli italiani, oggi, si sentano estranei ad una guerra eventuale, perchè lei purtroppo non ne parla nel suo articolo. Per cui, mi pare sinceramente una sua completa deduzione, soggettiva. Soggettività che, nel suo articolo lei cita, peraltro, come causa di egoismo e del senso di separazione dallo Stato, dalla guerra, e forse dalla società tutta.

In secundis, vorrei sapere per quale ragione al mondo, bisognerebbe sentirsi disponibili a partecipare, di persona o in spirito, ad una guerra di cui, innanzitutto i mass-media più importanti negano evidentemente le cause ed i responsabili. Basta infatti seguire l’approfondimento delle notizie, su siti e blog fuori dal sistema main-stream, perchè emergano tutte le contraddizioni e le follie operate dai nostri politici e dimenticate o negate dai giornalisti, per ciò che attiene alla guerra già in corso.

Peraltro, lei cita la storia di Bush in Iraq e Sarkozy in Libia - eventi che hanno ampiamente dimostrato la follia di ambedue gli interventi e di cui stiamo pagando, giorno dopo giorno, a piè di lista, le conseguenze – cosa che, semmai, dovrebbero indurci, non certo ad imbracciare le armi, per andare a combattere una guerra che sta seguendo con chiarezza quello stesso filone d’intervento geopolitico, miope (e guidato da interessi non certo delle popolazioni europee), ma piuttosto a scardinare una parte delle attuali istituzioni, che ci stanno portando nella direzione della guerra. Nonchè i loro portavoce: i media di regime.

Infine, lei parla di “Essere o non essere una nazione solida e determinata”.. Mi scusi: ma qui l’intero sistema politico del nostro Paese sta scardinando, giorno dopo giorno, l’impianto costituzionale e con esso tutte le strutture pubbliche che ne sono espressione, e lei mi ritira fuori “la nazione solida e determinata”? Piuttosto, faccia pace col cervello, ed esprima un pò di coerenza e di rispetto, e di scuse (sopratutto) verso un popolo che è stato preso per il culo, non solo dalla sua classe politica – che oramai ha imbastito un sistema che si auto-riproduce, al di fuori di qualsiasi rapporto con la società (questa si chiama cieca soggettività) – ma di conseguenza, anche da tutti gli altri politici stranieri che a quelli nostrani hanno chiesto di fare “questo e quello”, cioè di tutto, meno che l’interesse del proprio popolo.

 

Perché gli italiani non si sentono in guerra

Corriere della Sera, venerdì 11 dicembre 2015

«Siamo in guerra». «Chi, io?». Se qualcuno volesse capire come l’italiano medio viva l’attuale drammatica congiuntura internazionale troverebbe la risposta più confacente proprio in quell’interrogativo, che ben riassume una radicata estraneità alle tensioni belliche.  
C’è tutto l’italiano d’oggi, antico e postmoderno insieme, in quel dichiarare «non mi compete». C’è la quasi ingenua ammissione di non essere adeguatamente pugnace; c’è l’antica prudenza di star lontano, se possibile, dalla linea del fuoco; c’è la sottintesa cinica propensione al «se posso, svicolo»; c’è l’abitudine ad allontanare l’angoscia e il ricatto di chi fa dell’angoscia un’arma di guerra; c’è l’implicito trincerarsi nella quotidianità e nella costanza degli stili di vita; c’è la constatazione che è quasi impossibile decifrare e capire la complessità di quel che sta avvenendo; c’è la resistenza a farsi trascinare dalle altrui pulsioni (tutti ricordano che facemmo male a seguire Bush in Iraq e Sarkozy in Libia); e c’è in fondo un antico fatalismo verso gli eventi che non si possono dominare, magari con la riscoperta di un po’ di impaurita devozione creaturale (quante preghiere e quanti ex voto hanno costellato la nostra vita collettiva, dal ’40 al ’45!). 
Essere o non essere una nazione solida e determinata. Questo è sempre stato il nostro dilemma, cui si può attribuire la frequente non eroica resistenza al «prendere armi contro un mare di guai e, combattendo, por fine ad essi». Oggi quella resistenza ritorna, mettendo in ombra e forse sottovalutando guai che per alcuni sono inseriti in un epocale scontro di civiltà, così violento da chiamare a una mobilitazione di massa, al limite anche bellica. Ma non opera soltanto la tradizione storica sotto tale resistenza; opera anche, e forse specialmente, la specifica evoluzione strutturale degli ultimi settant’anni, durante i quali, complici silenziosi la pace e la democrazia, siamo diventati una società ad alta, anzi altissima soggettività, dove ogni problematica viene ricondotta all’io individuale (mia è l’azienda, mio è il tempo, mio è il lavoro, mio il figlio, mio il corpo, mia addirittura la morte) in una grande frammentazione molecolare dei sentimenti e anche degli interessi. E a tale coazione egocentrica non può sfuggire un evento come la guerra (è difficile pensare un italiano che dica «la mia guerra»). 
Se si pone attenzione a ciò, si capiscono facilmente le difficoltà che incontra la politica, stretta fra quella necessità di un collettivo noi (la nazione, l’Europa, l’Occidente) che è indispensabile per gestire i conflitti internazionali e la necessità di un consenso interno tutto condizionato dall’imperante soggettività dell’«io che c’entro?». Stretta, in altre parole, fra le spinte a schierarsi con alleati vecchi o nuovi e la vocazione a navigare prudentemente nei flutti degli avvenimenti. Dio non voglia che arrivi il momento in cui dovremo schierarci; e più ancora che ci si schieri con l’avventatezza dell’ultimo momento. Di solito non ci riesce bene. 

Giuseppe De Rita

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Last modified on Friday, 11 December 2015 18:11
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