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Quali sono le macro-dinamiche che influenzano le relazioni internazionali? E quale profilo assumono i Paesi che si muovono nel tempestoso oceano della realtà geopolitica odierna? Queste sono le domande che fanno da sfondo all’incontro organizzato da Advant NCTM e che vengono sagacemente poste dal giornalista Federico Giuliani.
Lo stesso afferma che oggettivamente è difficile seguire il corso degli eventi e farsi un’idea chiara sugli equilibri sempre in mutamento, ma ciò non significa che non esistano dei punti di partenza tramite cui sviluppare un’analisi interpretativa. Nel caso del meeting in questione, i fulcri sarebbero ambiente ed economia, giustificati dal fatto che entrambi riguardano e coinvolgono ogni singolo individuo, ergo ciascuno di noi. La chiave di lettura, necessaria a collegare i due punti, risiederebbe nella cooperazione, in particolare quella tra Unione Europea e Cina, perché parlare di economia ed ambiente conduce in maniera abbastanza logica alle problematiche incentrate sul clima e sulla sostenibilità.
Lungi dall’essere, questo, un incontro in cui trattare dell’impatto antropico sulla biosfera, l’obiettivo è invece quello di sensibilizzare alle immense opportunità offerte dalla Belt and Road Initiative cinese (lanciata dall’attuale Presidente Xi Jinping nel 2013) analizzate alla luce degli sforzi europei in tema di decarbonizzazione e transizione energetica; non a caso un tema che racchiude proprio economia (in particolare del settore energetico) ed ambiente.
Il Dragone dispone, infatti, di un potenziale esplosivo per contribuire a ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera, manifestando al tempo stesso un sincero interesse per l’Europa ed un’altrettanta sincera volontà di cooperare al fine di costruire un sistema integrato che crei benessere sostenibile proprio attraverso la “Nuova Via della Seta”.
Enrico Toti, consulente legale presso Advant NCTM, esperto e docente di diritto cinese presso l’Università Roma Tre e visiting professor presso la School of Law della Shanghai International Studies University, afferma che è la passione nei confronti della Cina a doverci spingere verso una più solida cooperazione, la quale, in realtà, sarebbe già florida, ma bisognosa di nuovi stimoli e spinte per crescere ancora, vista la complessità della realtà contemporanea.
Cooperazione e diplomazia giocano un ruolo vitale, perché solo se si riesce a intessere legami e relazioni in grado di soddisfare le esigenze di tutti si possono fronteggiare le sfide globali che minacciano le comunità che abitano il pianeta.
Siccità, inquinamento delle acque e dell’atmosfera, riscaldamento globale e perdita di biodiversità sono una realtà dovuta in parte anche all’attività dell’uomo, ed è qui che subentra la necessità di costruire un meccanismo che unisca le forze e generi sostenibilità a livello collettivo.
“Da soli non si può fare nulla, le sfide di oggi rappresentano un puzzle interconnesso che richiede uno sforzo di tutti”. Così esordisce il Presidente dell’Istituto Diplomatico Internazionale Paolo Giordani.
Secondo il relatore, alla diplomazia spetta l’arduo compito di costruire ponti atti a legare tra loro i paesi e le comunità. Come? Ad esempio attraverso il diritto internazionale. Gli accordi di Parigi del 2015, negoziati dai rappresentanti di 196 Stati, sedimentano un framework importantissimo per la lotta internazionale contro le emissioni di gas serra e la promozione di percorsi di sviluppo sostenibile che si smarchino il più possibile dall’utilizzo dei combustibili fossili. L’accordo vede anche Pechino firmataria, a dimostrazione del fatto che non si può ignorare l’impellenza di evitare un aumento delle temperature globali oltre la soglia dell’1,5° Celsius rispetto ai livelli preindustriali.
Checché se ne dica, è innegabile che la Cina si stia adoperando, come l’Unione Europea, per incrementare sia la sostenibilità della sua economia, sia quella globale. Lo dimostra la serietà con cui affronta gli SDGs (Sustainable Development Goals) dell’Agenda 2030.
Trattasi di un programma molto ambizioso, approvato nel 2015 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, avente in programma una serie di obiettivi (con scadenza il 2030) per rimodulare le vie di sviluppo affinché esse si rendano sostenibili, promuovano il benessere umano e rispettino l’ambiente. L’Agenda si compone di 17 elementi essenziali, ciascuno equivalente ad un obiettivo preciso.
Ciò su cui merita concentrarsi nel nostro caso sono, in particolare, l’obiettivo 7, volto ad assicurare a tutti un accesso all’energia che sia sicuro, affidabile e sostenibile, e l’obiettivo 13, finalizzato, invece, a promuovere azioni di ogni tipologia che siano funzionali a combattere il cambiamento climatico. Soffermarci un attimo sui suddetti ci permette di osservare le policies cinesi attuate proprio per ottemperare agli obiettivi delle Nazioni Unite. la vertiginosa velocità con cui Pechino è riuscita a crescere fino ad oggi le ha permesso non solo di rendere l’energia disponibile a tutti i suoi cittadini, ma anche di ottenere rilevantissimi risultati nel campo della transizione energetica.
Nel tentativo di giustificare tali affermazioni, e volendo arricchire l’incontro con qualche numero, Demostenes Floros, responsabile della sezione Energia presso il Centro Europa Ricerche, interviene lanciando una dovuta ed obbligatoria premessa: quando analisi statistiche vengono pubblicate in materia di emissioni di CO2, spesso si considera la sola quota immessa nell’atmosfera da parte di coloro che producono, trascurando invece quella introdotta da coloro che consumano. In poche parole, rientra nel conto finale la quantità di emissioni di gas serra che vengono registrate durante i processi di lavorazione dei produttori, ma non quelle che si potrebbero registrare dal lato dei consumatori.
Un tale bias metodologico comporta una distorsione anche della percezione dei vari Paesi, specialmente quando a questo indicatore si affianca il peso relativo in termini, appunto, di produzione e manifattura. Pechino, da sola, detiene il 30% della manifattura a livello globale, spiega Floros, mentre la locomotiva d’Europa (aka Berlino) appena il 4%. Sarebbe logico, per quanto affrettato, accusare la Cina di essere il Paese più inquinante al mondo, ma ciò sarebbe fondato solo se non si contassero le emissioni al consumo.
Correggendo il tiro, non a caso, emerge che la Cina non copre il primo posto per la quantità di CO2 immessa nell’atmosfera; anzi, Stati Uniti e Unione Europea presenterebbero numeri ben più alti.
Per tornare, invece, all’ affair “sostenibilità” occorre fare un’analisi comparativa mettendo a confronto il paniere energetico cinese (quale percentuale spetta ad ogni fonte nel produrre energia in uno Stato) per come appariva prima nel 2012, e poi nel 2022. Stando ai dati, nel 2012 la Cina dipendeva dal carbone per circa il 69%, mentre le fonti rinnovabili contavano un timidissimo 1%. Il trascorrere di un decennio, invece, rivela grosse sorprese: Pechino ha ridotto di 14 punti percentuali la dipendenza dal carbone (scesa al 55%), aumentando dell’800% la rilevanza delle fonti rinnovabili (salite all’8%).
Aprendo una piccola parentesi, sempre sulla questione, ad eccezio ne dell’anno 2021 (particolarmente influenzato dalla pandemia da Covid-19) la Cina non ha mai mutato il proprio valore di dipendenza energetica dall’estero (già molto basso per se), potendo quindi attuare la trasformazione in maniera quasi completamente autonoma.
I fatti rivelano, quindi, una non celata sensibilità sul tema della transizione energetica, contrariamente a quanto alcune testate giornalistiche vorrebbero far credere.
Pechino avrebbe, a tal proposito, un proprio approccio e una vera ideologia in materia, al punto da divenire “un argomento al centro del dibattito ai massimi livelli del Partito Comunista e della società”, come afferma il giornalista e scrittore Thomas Fazi.
Non solo con i fatti, ma anche a “parole” l’amministrazione di Xi Jinping sembrerebbe voler dare la giusta rilevanza al tema ambientale e alla transizione green: Il tristemente noto 2020 è stato anche l’anno di pubblicazione di un libro bianco intitolato “l’energia nella nuova era della Cina”, in cui si dà spazio ad innumerevoli iniziative ed investimenti finalizzati a favorire una crescita tecnologica in grado di far
progredire il potenziale sostenibile cinese.
Tralasciando gli sforzi politico-amministrativi, il dibattito pubblico sul tema rivela una peculiarità tutta cinese: Fazi, per l’appunto, spiega come la sfida venga affrontata dal Dragone con una mentalità tanto razionale quanto olistica. Facendo un paragone con l’approccio euro-occidentale, Pechino cerca di sfruttare le proprie risorse al fine di individuare soluzioni pragmatiche, le quali si integrano a loro volta con tutte le altre esigenze economiche e sociali tipiche di un paese emergente; la risposta del quadrante Atlantico Settentrionale appare, invece, per certi versi isterica, catastrofica e piena di appelli carenti di un serio approccio scientifico e sistemico. La narrativa tipica occidentale tratta la sfida del cambiamento climatico proponendo soluzioni ad un unico problema che sì, riguarda tutti i cittadini, ma che difficilmente riesce ad essere valutato includendo altre questioni imprescindibili e legate a doppio filo all’energia e all’ambiente.
La Weltanschauung cinese non ignora, dunque, che il clima e l’ambiente siano questioni estremamente importanti: La celebre e pessima qualità dell’aria è un argomento sensibile agli occhi dell’opinione pubblica, e ciò ha portato ad una grande consapevolezza, da intrecciare con la già olistica e collettivista mentalità del Dragone, la quale vuole ogni aspetto della realtà legato l’uno all’altro indissolubilmente.
In conclusione, se si scava in profondità, si osserva come Cina e Unione Europea siano in simbiosi e perfettamente allineati quanto ad obiettivi green, e su questo punto torna ancora una volta Paolo Giordani, ricordandoci che è proprio grazie alla diplomazia ed al dialogo che si possono “costruire ponti tra obiettivi e settori affinché le soluzioni siano sostenibili”.
Ecco l’opportunità per sfruttare la Belt and Road Initiative (in quanto progetto destinato ad interconnettere Asia, Europa e Africa) e intavolare un negoziato che porti il risultato finale a raggiungere l’obiettivo connettivo senza perdere di vista il criterio della sostenibilità.
La speranza è quella di riuscire ad inserire la BRI nel framework degli SDGs, garantendo la possibilità a tutti gli stakeholders di prendere parte attiva alla sua ultimazione; potendo dunque plasmarla riducendo le emissioni, azzerando l’impatto ambientale, e, infine, apportando benefici a tutte le comunità coinvolte.
Per gentile concesione di Vision & Global Trends. (International Institute for Global Analyses)