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L'estrazione del prezioso minerale, indispensabile per la fabbricazione di prodotti high-tech, alimenta guerra e sfruttamento nella Repubblica Democratica del Congo
Coltan è l'acronimo con cui è nota una varietà di columbite-tantalite relativamente ricca di tantalio, prodotta in Australia, ma, soprattutto, nella Repubblica Democratica del Congo, ex Zaire e fino al 1960 colonia belga. Nelle foreste pluviali di questo paese, situate nelle regioni confinanti con Ruanda e Uganda, migliaia di persone, armate di machete, ascia, pala e qualche panno, lavorano in assenza di tutele e a ritmi disumani, per estrarre il prezioso e raro minerale. Molti sono bambini, le cui dimensioni consentono loro di penetrare in profondità nelle miniere. Il mercato del coltan, inoltre, ha dato vita a una serie di “attività collaterali”, come quelle di chi affitta stanze, spesso con prostitute incluse nel prezzo, o di chi “protegge” i minatori dalle bande di rapinatori, all'interno di una sorta di racket delle estorsioni: sia le stanze, che le prostitute, che le milizie armate sono a carico del lavoratore. Così, anche se le retribuzioni sono le più alte del paese, una grossa fetta finisce nelle tasche di trafficanti (di donne) e formazioni armate.
I conflitti che hanno interessato il paese negli ultimi decenni, culminati con una crisi umanitaria ancora in corso, non hanno ricevuto sufficiente attenzione da parte della comunità internazionale, a parte le opere di mediazione sfociate in fragili tregue (la situazione, soprattutto nelle province orientali resta tesa). Basti pensare che uno di questi conflitti si è verificato negli anni '90, lo stesso decennio che ha visto crescere le vendite di coltan del 300 percento. Questo minerale, o meglio il tantalio che contiene, è indispensabile per la fabbricazione di prodotti come telefoni cellulari, satelliti, televisori al plasma, dispositivi MP3 e MP4, fotocamere, ma anche i sistemi computerizzati di razzi spaziali e missili e, in generale, i sistemi elettronici militari. Tutti prodotti che alimentano una parte consistente del mercato internazionale. A nulla sono servite le segnalazioni da parte di organizzazioni umanitarie sul fatto che l'esercito del Ruanda, quando controllava la regione del Kivu, avesse sfruttato prigionieri di guerra per il lavoro nelle miniere. Anzi, la stessa caccia al coltan ha alimentato le rivalità tra fazioni, in parte perché ha reso economicamente strategiche le aree ricche di questo minerale, in parte perché le milizie armate spesso controllavano direttamente le miniere.
Ugualmente devastante l'impatto delle estrazioni di coltan sulle foreste pluviali e, in generale, sull'ecosistema del paese. Per scavare le miniere, infatti, è necessario disboscare, quindi privare la fauna locale del suo habitat naturale. Si stima che la popolazione degli elefanti sia diminuita dell'80 percento, mentre quella degli elefanti ha subito una flessione del 90 percento. Inoltre, il lavoro nelle miniere, che può fruttare dai 10 ai 50 dollari la settimana (quando lo stipendio medio è di 10 dollari al mese), ha provocato il crollo della produzione agricola, impedendo alla popolazione di conquistare la sicurezza alimentare. Per lo stesso motivo, molti bambini abbandonano la scuola per fare i minatori, un ulteriore colpo all'economia. Anche se l'era del colonialismo è finita, la decolonizzazione non è stata un processo verso l'autosufficienza, come aveva auspicato per l'Africa l'ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, ucciso nel 1987 nel colpo di stato organizzato dal suo ex alleato Blaise Compaore. Il coltan, come il petrolio libico o gli scisti bituminosi del Congo Brazzaville, fa gola a multinazionali che trattano prodotti di fondamentale importanza per i mercati internazionali. Lo stesso meccanismo che privilegia agricoltura e pesca industriali, basate sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, rispetto a quelle su scala familiare, che al contrario potrebbero creare uno sviluppo solido ed ecosostenibile.