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L'accordo tra Russia e USA porta sullo scacchiere siriano una tregua traballante, cui dovrebbe seguire un processo di transizione politica; ma Ankara annuncia di proseguire le sue operazioni contro i “terroristi” e la questione curda rischia di alimentare nuove tensioni
La fragile tregua in Siria è principalmente il frutto di un delicato riassetto delle relazioni che interessano il Medio Oriente e le sue potenze regionali, attuali o aspiranti. Ed è proprio questo uno dei fattori che potrebbero determinarne il fallimento. Da un lato la Turchia esercita pressioni per le dimissioni del presidente siriano Bashar al-Assad, ma ha come priorità di evitare che l'alleanza tra Washington e il curdi siriani per combattere i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Daech) diventi per i curdi siriani e soprattutto per i curdi turchi uno strumento per avanzare richieste di autonomia, o peggio di indipendenza. Dall'altro c'è la Russia, che con l'Iran è tra gli alleati storici di Assad, e considera Daech come minaccia anche interna, dato il pericolo rappresentato dal ritorno dei foreign fighters. La maggior parte delle persone arrestate a seguito degli attentati rivendicati da Daech in Turchia è di provenienza cecena o più generalmente caucasica, come anche lo stretto collaboratore del “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, il georgiano Abu Omar al-Shishani, ucciso lo scorso luglio in Siria. Quanto agli Stati Uniti, che a livello diplomatico sostengono i cosiddetti “ribelli moderati”, sul fronte siriano sono alleati delle Unità di protezione popolare (YPG), falange armata del Partito di unione democratica (PYD) dei Curdi siriani, escluso dai negoziati di Ginevra. Un atteggiamento che ha provocato tensioni con Ankara, che considera le YPG formazioni terroristiche, al pari del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che continua a essere uno dei bersagli privilegiati della repressione e della propaganda del governo.
La debole tregua, ottenuta dopo lunghi e difficili negoziati, arriva infatti in un momento in cui il peso della Turchia nell'assetto regionale è aumentato in modo esponenziale. Un elemento importante, se si considera che già tre anni fa Ankara ha lanciato diverse campagne aeree sulle montagne del Qanadil, in territorio iracheno, senza ricevere moniti seri dalla comunità internazionale. Se il vertice dell'Alleanza atlantica (NATO) di Antalya del maggio 2015 le aveva conferito un importante ruolo “logistico”, le recenti distensioni con la Russia e la possibilità di un asse economico tra i due paesi basato sul progetto del gasdotto Turkish Stream, ne hanno fatto un un importante attore nei conflitti mediorientali. Ciò le ha consentito di inviare truppe di terra in Siria, ufficialmente impegnate contro i cartelli del jihad ma, secondo osservatori locali, mandate a evitare che le formazioni curde siriane possano consolidare il loro controllo del Rojava. A prescindere dall'obiettivo, il loro intervento ha reso ancor più difficile una cessazione delle ostilità, presupposto necessario di una soluzione politica. Eppure da NATO, Russia, USA, Unione Europea nessun tentativo di dissuasione. Infatti, il Governo regionale del Kurdistan (KRG), in Iraq, è stata finora l'unica entità politica in grado di fronteggiare in modo efficace l'avanzata di Daech oltre alle YPG. A Erbil, capitale del KRG, in molti parlano di diritto all'autodeterminazione, fino a prevedere un referendum in un imminente futuro. Intanto, nel Kurdistan siriano, nel marzo 2016 viene proclamata una regione federale nella regione di Rojava, con l'unificazione dei tre cantoni di Afrine, Kobane e Jazire. Tiepida la reazione della Russia, che tra le varie opzioni per la transizione politica immagina anche una soluzione di tipo federale. I primi a opporsi, invece, sono il regime siriano e le opposizioni, le uniche forze rappresentate ai negoziati di Ginevra, ma anche Turchia e USA.
L'indifferenza ufficialmente ostentata dalle diplomazie internazionali, ad esempio di Turchia e USA, ma in parte anche Russia, rischia dunque di aprire un nuovo conflitto regionale sulla questione curda, che coinvolgerebbe Iraq, Siria, Turchia e Iran. Inoltre, ignora deliberatamente l'esperimento istituzionale avviato dal PYD nella regione di Rojava, che potrebbe essere un'interessante proposta di democratizzazione non solo in Medio Oriente. La teoria politica di riferimento è il municipalismo libertario teorizzato dal filosofo statunitense Murray Bookchin, alternativo al modello dello stato-nazione, che in alcune regioni si è rivelato inadeguato: un sistema di comunalismo democratico basato sulle assemblee popolari, organizzate secondo il principio della democrazia diretta. A gennaio 2014 questa regione si era dotata di una sorta di bozza costituzionale, redatta nella forma di un contratto sociale (https://peaceinkurdistancampaign.com/charter-of-the-social-contract/). Uguaglianza di genere, etnia, religione, rispetto delle autonomie, giustizia sociale. Progetto ambizioso, soprattutto in una regione devastata dai conflitti, ma che esprime una volontà di autodeterminazione di cui la comunità internazionale non può non tener conto. Chissà che non sia Rojava il prossimo esportatore di democrazia, magari con la dialettica anziché con le armi.