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Economia: Il benchmark

By Roberto Casalena September 07, 2017 11124

Il benchmark

Nel sistema bancario italiano vi sono circa 200 miliardi di sofferenze lorde (cioé prestiti che le banche non riescono più a recuperare dai loro debitori) a fronte delle quali le stesse banche hanno accantonato in bilancio perdite per il 55-60%. Dunque le sofferenze nette sono pari a circa 85 miliardi valutate al 40-45% del loro valore nominale. Ecco, quando a fine novembre 2015 Banca d’Italia ha disposto la risoluzione delle famose quattro banche, Pop Etruria, CariFerrara, CariChieti, Banca delle Marche, le sofferenze di questi istituti sono state svalutate fino al 18% del loro valore e questa percentuale ha fissato il punto di riferimento (benchmark) per le valutazioni di tutte le altre banche da parte di analisti finanziari e investitori. Di colpo, quindi, quegli 85 miliardi di sofferenze nette nel sistema sono diventati 40, con 45 miliardi che dalla sera alla mattina mancano all’appello e di conseguenza devono essere coperti con altrettante ricapitalizzazioni.

 

Il crollo di Borsa

Da quel momento in poi per chi ha investito sui titoli bancari di Piazza Affari si è aperta una fase di lunga agonia che oggi è ancora in corso. Le performance da fine novembre 2015 a martedì 29 novembre 2016 mostrano meglio di qualunque altra cosa la dimensione di questa debacle. Mps meno 89,2%, Carige meno 84,7%, Banco popolare meno 82%, Banca popolare di Milano meno 69%, Ubi Banca meno 67%, Unicredit meno 65%, Intesa Sanpaolo meno 38%. A queste si aggiungono Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza le cui azioni non sono quotate in Borsa ma a cui fanno capo diverse obbligazioni quotate che hanno subito forti perdite nonostante la rete di salvataggio predisposta tempestivamente dal fondo Atlante (un fondo partecipato dalle principali banche e assicurazioni italiane). Nel luglio scorso, con il varo del piano di ricapitalizzazione di Mps da 5 miliardi, e che prevede la cessione proprio al fondo Atlante di circa 28 miliardi di sofferenze, si è cerato di mettere un argine a questo diluvio fissando un nuovo benchmark. Il prezzo implicito a cui Atlante ha accettato di accollarsi tali sofferenze è pari a 28 centesimi, ma la situazione non è migliorata più di tanto poiché la soluzione finale per Mps è stata prolungata almeno fino all’esito del referendum costituzionale.

 

Le colpe dei banchieri

Occorre ammettere che nel corso del 2016 i banchieri italiani non hanno fatto molto per rassicurare i mercati finanziari, anzi hanno peggiorato la situazione. Prendiamo qualche caso concreto, partendo dalla fusione tra Bpm e Banco popolare, la prima operazione nata sulla scia del decreto governativo del gennaio 2015 che obbliga le banche popolari a trasformarsi in società per azioni entro la fine di quest’anno. La banca veronese guidata da Pier Francesco Saviotti ha in pancia una quantità di sofferenze non banale, con un Texas ratio (rapporto tra crediti deteriorati e patrimonio più accantonamenti) che a fine 2015 arrivava a 158, più elevato di Mps (147), mentre la Bpm è molto più virtuosa sotto questo profilo, essendo a quota 87. Prima di unirsi in matrimonio la Banca centrale europea ha dunque obbligato il Banco a lanciare un aumento di capitale da un miliardo, anche se si dice che la richiesta della Bce già allora era di 2 miliardi. Saviotti e la Banca d’Italia sono riusciti a contenere la ricapitalizzazione a 1 miliardo in seguito alla quale l’azionariato della nuova banca è stato suddiviso in 54% (soci del Banco), 46% (soci della Bpm). Ma il mercato ha fin da subito cominciato a scontare il fatto che la nuova banca ha bisogno di un altro aumento di capitale affossandone il corso dei titoli in Borsa (se ci si aspetta l’emissione di nuove azioni quelle esistenti varranno di meno). A essere arrabbiati sono soprattutto gli azionisti di Bpm che in presenza di un nuovo aumento di capitale si sentirebbero raggirati dall’amministratore delegato Giuseppe Castagna, che in sede di fusione avrebbe acconsentito a un rapporto di concambio tra le azioni delle due banche come se l’aumento di 1 miliardo fosse sufficiente. Essendo ormai una spa comandano gli azionisti e nel caso arrivasse un nuovo aumento di capitale per Bpm-Popolare è molto probabile che Castagna sarebbe costretto alle dimissioni.

Ma anche Victor Massiah, ad di Ubi Banca, ha molto da farsi perdonare. Nonostante la banca, con solide basi tra Bergamo e Brescia, abbia indici patrimoniali soddisfacenti, Massiah è riuscito a far trascinare Ubi nel gorgo della speculazione di Borsa associandola al salvataggio di Mps. Quando a giugno il Tesoro ha chiesto a Massiah e Castagna di unirsi per salvare il Monte, il banchiere di Bpm ha prontamente declinato l’invito mentre quello di Ubi ha creduto nel progetto a tre salvo poi comprendere l’impossibilità della sua realizzazione. Ma nel frattempo il mercato ha avuto buon gioco a buttare giù il titolo nel timore che Ubi volesse marciare da sola verso Siena. Poi, non contento di questa performance, Massiah ha risposto al nuovo appello di Bankitalia per evitare che le quattro banche salvate finissero nelle mani dei fondi avvoltoio per pochi euro. Così Ubi ha presentato un piano per accollarsele a prezzi vantaggiosi, ma anche così ha bisogno di un aumento di capitale da circa 500 milioni. E il titolo Ubi è andato giù ancora, reagendo a questa notizia.

Che dire poi di Unicredit. Per almeno un anno e mezzo, e cioè fino al giugno 2016, l’ex amministratore delegato Federico Ghizzoni non ha fatto altro che ripetere al mercato e alle autorità che la banca non aveva alcun bisogno di un aumento di capitale. Ma quando gli azionisti si sono infine decisi a dare il benservito a Ghizzoni affidandosi alle cure di Jean Pierre Mustier, il mercato ha scoperto che in realtà l’aumento di capitale ci vorrà e sarà anche molto ampio, nell’ordine di 8-12 miliardi. E come poteva reagire il titolo in Borsa a una notizia del genere, per di più associata al fatto che occorre svalutare pesantemente i 57 miliardi di sofferenze lorde che sono ancora in pancia a Unicredit? Male, ovviamente.

 

Se poi si aggiunge:

•che Veneto Banca e Popolare di Vicenza sono state salvate dal fondo Atlante in quanto non sarebbero riuscite a mandare in porto i rispettivi aumenti di capitale, ma che è molto probabile servano altre risorse fresche da iniettare in vista di una fusione tra i due istituti veneti.

•Che la Carige ha respinto un’offerta del fondo Apollo di acquisto di sofferenze e contestuale ricapitalizzazione poichè il principale azionista della banca, la famiglia Malacalza, non voleva farsi prendere per il collo e alla bisogna ha le risorse per far fronte a un aumento di capitale.

•E che il Monte dei Paschi, terza banca italiana in forte difficoltà, da almeno sei mesi è sulla graticola per un piano di rafforzamento del patrimonio da 5 miliardi che però deve passare per le forche caudine del referendum,

allora si può ben capire che i banchieri italiani e l’Abi possono anche gridare al mondo che il sistema bancario italiano è sano e che i fondi stranieri speculano sulle sofferenze italiane; ma è anche vero che nessuno di lorsignori, né Bankitalia né il governo, è stato in grado di porre un argine a questa deriva, mettendo in sicurezza almeno l’istituto più vulnerabile, cioé il Montepaschi. Hanno preferito trascinare la situazione e sperare in un ravvedimento del mercato, col risultato che la perdita di valore delle banche in Borsa nell’ultimo anno è stata di circa 60 miliardi, cifra di gran lunga più elevata delle centinaia di milioni che sarebbero serviti a promuovere un “bail in” controllato del Monte.

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Last modified on Friday, 08 September 2017 18:42
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