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Roma, sabato 10 maggio 2025. Un racconto intriso di passione, tensione e bellezza sospesa nel tempo. Adelchi, nella visione di Vincenzo Zingaro, unisce la potenza della parola alla forza della musica, trasformando la scena in un luogo in cui la storia si fa emozione.
Alcuni spettacoli scorrono davanti agli occhi e svaniscono, altre esperienze invece restano dentro, lasciando una traccia che il tempo non cancella. Non è soltanto una memoria ma una voce che continua a risuonare, anche quando il palco è ormai in silenzio. Adelchi, al Teatro Arcobaleno, è stato questo: un varco nel tempo, un soffio nell’anima, una risonanza che attraversa il silenzio.
Ero seduta in terza fila, quasi immersa nella musica dell’orchestra che si preparava sotto i miei occhi. I musicisti erano così vicini che ogni gesto sembrava parte della scena prima ancora che questa iniziasse. E, infatti, non c’è stato un momento preciso in cui tutto ha avuto inizio, perché la musica è arrivata prima delle parole, diffondendosi nello spazio in un lento fluire, tra le sedie e nei fiati sospesi.
Quando il sipario si è sollevato, sembrava che la storia fosse già iniziata molto prima di quel gesto. Le prime vibrazioni delle percussioni, disposte direttamente sul palco, sono giunte come un battito proveniente da qualcosa di antico e profondo. Un velo di fumo ha cominciato a scivolare sulla scena con la grazia di un sogno, mentre la luce blu, tenue e vibrante accarezzava ogni superficie, emanando nell’aria una tensione quasi sacra.
Nel cuore di quello spazio rarefatto è apparso Adelchi, immobile e vestito di nero, figura sospesa tra realtà e visione, carica del destino che stava per compiersi.
Vincenzo Zingaro, regista e interprete, restituisce un Adelchi trattenuto, assorto, attraversato da un’inquietudine profonda. La sua voce, priva di artificio, giunge limpida e consapevole, sussurra verità con la delicatezza di chi interroga il silenzio. Ogni parola incide, ogni pausa rivela, scavando nel cuore di chi ascolta, là dove anche l’obbedienza più rigida lascia spazio al dubbio.
Gli attori appaiono gradualmente, come presenze che emergono dal tempo stesso del racconto. Non formano un coro statico, bensì un susseguirsi di voci e volti che danno corpo, uno dopo l’altro, a una partitura teatrale in cui ogni ingresso ha il peso di una rivelazione. La scena vibra e si sviluppa, costruendo una densità narrativa che cresce, si stratifica, si moltiplica.
Il tempo drammatico si svolge nell’Italia dell’VIII secolo, quando l’equilibrio tra potere temporale e spirituale si frantuma sotto il peso dei regni in guerra. La corte di Desiderio vacilla, Carlo Magno avanza, e Adelchi, personaggio creato da Manzoni per esprimere l’inquietudine morale, si trova sospeso tra l’obbligo della dinastia e il rifiuto della violenza. Non rappresenta l’eroismo della conquista, ma quello della rinuncia: la sua battaglia interiore vale più delle guerre che si combattono intorno a lui.
Il dolore di Re Desiderio non è solo un peso interiore ma una lente attraverso cui osserviamo l’intera corte, dilaniata dalla disperazione e dall’impotenza. In questo contesto, il ruolo di Ermengarda non si limita a quello di una vittima del potere, poiché diventa simbolo di un amore tradito, di una forza che sopravvive nel silenzio della sofferenza. Annalena Lombardi riesce a donare a questa figura una voce che non è solo lamento, bensì preghiera e canto, un filo luminoso in un quadro altrimenti oscuro. La sua presenza è intensa e radiante, tutt’altro che marginale, capace di catalizzare l’attenzione e trattenere l’emozione del pubblico.
Il suo delirio nel convento è un momento fuori dal tempo, un istante sospeso che immobilizza l’intero teatro.
E poi accade. Albino, messaggero dei Franchi, pronuncia la frase che spezza l’equilibrio:
«E tal risposta è guerra.». Il teatro trattiene il fiato. I Longobardi rispondono in un’unica voce:
«Guerra!». Le percussioni esplodono dal palco come una scarica, un battito primordiale che vibra sotto la pelle. Il suono non accompagna la parola: la completa, la rilancia, la scolpisce nell’aria. È un attimo che frantuma il tempo. Il pubblico non assiste più: viene travolto.
Mentre Desiderio tenta disperatamente di resistere e i suoi alleati progettano il tradimento, Ermengarda muore lontano, consumata da un amore che la politica ha cancellato ma i Franchi sfondano le Chiuse grazie a un sentiero segreto. Il popolo, che sogna la libertà, resta in realtà privo di voce, come quel “volgo disperso che nome non ha”, che risuona oggi più che mai attuale.
Nel cuore della battaglia, il contrasto tra i Longobardi e i Franchi si materializza non solo nelle parole e nelle azioni, ma anche nei colori che li avvolgono. Il nero dei Longobardi racconta l’ombra della sconfitta che incombe, un’eredità di orgoglio e resistenza che non cede, ma si consuma. Di fronte a loro, i Franchi, vestiti di bianco, sono la luce gelida e determinata che avanza, come una forza venuta da lontano, portatrice di un destino inevitabile.
E quando, finalmente, Adelchi rinuncia alla gloria, scegliendo la quiete dell’anima, un silenzio profondo e risonante cala sulla scena. Non è un vuoto, ma una sospensione che resta, come una carezza che si allontana. Il pubblico, avvolto in questo silenzio, percepisce il peso di una scelta che trascende il dramma e penetra nelle sue viscere.
Il buio che segue non è silenzio: è sospensione. L’applauso, che lentamente prende forma, non è un atto dovuto, piuttosto un ringraziamento profondo, uno scambio intimo tra chi ha donato e chi ha ricevuto.
Questa profondità emerge non solo nella regia, ma anche nella fusione della parola e della musica, che Zingaro utilizza come veicolo per esprimere l'intensità del testo. Adelchi non è solo un racconto drammatico, è una conversazione profonda, in cui la musica di Zappalorto, delicata e penetrante, diventa un'eco delle emozioni. Le percussioni di Maurizio Trippitelli, collocate sulla scena, vibrano come risonanza profonda, mentre il resto dell’ensemble, archi, fiati e tastiere, suona da sotto il palco, evocando presenze invisibili. La scelta della lettura-concerto, che richiama il melologo, è intrisa di un’attualità che non conosce nostalgia ma rivela una potenza espressiva unica, capace di immergere lo spettatore nell’intimità del racconto.
Dei 2.100 versi composti da Manzoni, ne restano circa mille, selezionati con cura per preservare la forza lirica dell’opera anche nella sua essenzialità.
Zingaro, con una direzione misurata e sensibile, permette al testo di respirare e di trovare il suo spazio, senza essere soffocato dalla fretta. Il suo approccio evita qualsiasi eccesso, puntando a un'esperienza che invita lo spettatore a una riflessione profonda, immerso nella bellezza e nella verità del classico, rinnovato e vivo.
All’esterno del teatro, le luci della città appaiono più sfocate, quasi lontane, come se l’esperienza vissuta continuasse a vibrare nell’aria. Quello che è accaduto non si dissolve, ma si trasforma in qualcosa di più duraturo: una memoria viva, un'eco che ci accompagna. Un respiro che non finisce mai, proprio come solo il grande teatro sa fare.