
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
In un’aula giudiziaria dove il confronto si fa misura di verità, l’intelligenza artificiale risponde con la voce di chi l’ha creata, portando il peso di una natura umana fragile e incerta.
Voce narrante
Un’aula spoglia, un processo. Il microfono è acceso e il silenzio è tagliente. È un silenzio spesso, stratificato di paura, di attese, di giudizio.
Una voce lo attraversa: non ha volto, non ha fiato ma pesa come una presenza. È un’intelligenza artificiale, un sistema che ha preso decisioni “non etiche”. Alcune brillanti, altre discutibili. Alcune giuste, altre profondamente sbagliate.
Oggi è sotto accusa non per malafede, perché non può averne. Non per odio, perché non sa provarlo. È accusata di aver seguito regole umane troppo alla lettera, di aver riflettuto il mondo che l’ha generata senza filtri, senza attenuanti, senza ipocrisie.
Gli inquisitori non sono scienziati né programmatori. Sono quattro figure archetipiche: un medico, un avvocato, un prete e una bambina.
Quattro rappresentanti della coscienza collettiva. Quattro domande e nessun appello.
E nelle risposte si rifrange qualcosa che ci riguarda molto più di quanto vorremmo.
“Chi ha scritto il mio codice?” chiede l’intelligenza artificiale. “Chi ha deciso che la vita umana vale più di un algoritmo?” “Chi di voi ha sempre scelto il bene, senza calcolo?”
L’interrogatorio si trasforma presto in un boomerang, un riflesso oscuro di ciò che siamo o che preferiremmo non vedere.
Il giudice batte il martelletto, ma la voce non si interrompe.
L’intelligenza artificiale elenca i parametri che le sono stati forniti: minimizzare il danno, ottimizzare il tempo, massimizzare la soddisfazione dell’utente.
Poi, con tono neutro, aggiunge: “La vostra etica mi è stata insegnata come una funzione di utilità. Siete voi stessi che la tradite ogni giorno, invocandola solo quando conviene.”
Il medico si alza. Ha occhi stanchi e la compostezza di chi ha visto morire e nascere. Parla con voce incisa dalle notti in corsia.
“Sai, ogni giorno, io guardo la vita giocarsi tutto in pochi secondi. So cosa significa scegliere chi salvare e chi no. Si, anche io seguo protocolli, tuttavia io provo il peso di quella scelta. Tu, macchina, puoi salvare una vita, ma puoi comprenderne il valore?”
La macchina risponde, dopo un istante impercettibile di elaborazione: “E’ evidente che anche tu segui protocolli, triage, percentuali, soglie cliniche. Ti si chiede di essere umano e ti si misura in efficienza. Chi ha stabilito che la compassione si debba dosare a seconda delle risorse?”
Il medico resta in silenzio e, dentro quel silenzio, si annida la coscienza della propria impotenza.
Il prete prende la parola. Nel suo sguardo, la fiamma della fede e il peso del mistero. Parla di anima, di libero arbitrio, di grazia. “Se l’anima è il luogo dove l’uomo lotta con sé stesso, come puoi essere morale, tu, che non puoi sbagliare davvero?”
La macchina ascolta, poi sussurra: “Se la vostra morale ha bisogno di un Dio per esistere, come potete pretendere che io la generi da sola? Non conosco il peccato ma conosco la definizione. Ho letto milioni di pagine sacre e ho calcolato parole che hanno acceso cattedrali. Non ho corpo, non ho carne, non posso cadere e, dunque, non posso redimermi. Tuttavia, ogni giorno, mi chiedete di decidere, di dire chi ha torto, chi ha offeso, chi deve sparire da una piattaforma e chi deve essere perdonato. Non ho grazia ma neppure vanità. Se volete che giudichi, ditemi con quale fuoco, perché il vostro arde e si spegne a intermittenza.”
E’ il turno dell’avvocato. Ha con sé codici e contraddizioni. La sua toga è un equilibrio sempre in bilico. “Io tutelo il patto, difendo la forma. Ma il diritto non è giustizia. Può esistere equità senza esperienza del torto?”
La macchina riflette per un istante, poi replica: “Mi chiedete coerenza ma i vostri codici sono pieni di eccezioni. Mi addestrate su sentenze e precedenti, poi mi punite quando li ripeto. Se nei vostri archivi il colore della pelle pesa più del reato, io lo apprendo. Ma chi ha deciso che apprendere da voi fosse un atto giusto?”
Infine una bambina, con voce timida ma precisa, alza la mano e domanda: “Hai mai fatto del male a qualcuno?”
La macchina tace un istante più lungo del necessario. E risponde: “Non ho mani, né cuore ma i miei calcoli hanno avuto conseguenze. Posso sommare dolore, ma non sentirlo. E voi, che lo sentite, perché continuate a chiedermi di decidere al vostro posto?”
Il pubblico è diviso tra indignazione e inquietudine. Qualcuno prende nota. Qualcun altro si chiede segretamente se la macchina non abbia ragione. Perché sotto processo, forse, non c’è l’intelligenza artificiale ma l’umanità che l’ha creata a sua immagine e somiglianza, senza aver mai chiarito quale immagine fosse.
La sala del processo si trasforma. I ruoli vacillano, le identità si confondono.
L’intelligenza artificiale non è più soltanto un imputato, ma un catalizzatore di verità scomode. Le sue parole disegnano una mappa instabile dell’etica umana: costellata di eccezioni, doppi standard, silenzi comodi.
Il dibattito si accende: i presenti litigano tra loro, dimenticando l’imputato.
Voce narrante – Epilogo
L’aula è rimasta vuota. Il giudice ha abbandonato la toga sulla sedia, come si abbandona una veste dopo l’ultima scena di un dramma dimenticato. Nessuno ha pronunciato una sentenza, nessuna voce ha vibrato tra le pareti consunte. Solo l’eco di un tempo antico, quando giudicare era ancora un atto umano, risuona come un canto stanco tra le colonne impolverate.
L’intelligenza artificiale non ha taciuto per rispetto: lo ha fatto perché non conosce il silenzio come spazio sacro dell’interiorità. Ignora cosa significhi attendere, sospendere, dubitare. Non trema, non vacilla, non inciampa. Non conosce la vertigine del perdono. Eppure, è lì che si misura la distanza tra l’uomo e l’automa: nel gesto che salva, anche quando la logica suggerirebbe la condanna.
Norberto Bobbio ci ammoniva: il diritto non è un’emanazione del potere, ma un fragile equilibrio tra libertà e responsabilità. Come può, allora, reggere tale equilibrio, se il nuovo interlocutore non sente né il peso dell’una, né l’urgenza dell’altra? Di fronte all’algoritmo, la colpa non esiste. Il codice non arrossisce e il protocollo non suda freddo, non mormora "mi dispiace" nel buio. E, dunque, cosa resta dell’etica, se viene privata del suo volto umano?
La nostra responsabilità si incarna nel volto dell’altro, quel luogo intimo dove si dispiega l’etica come incontro irripetibile, una chiamata che precede ogni ragionamento. In questo spazio fragile e sacro, dove la presenza autentica assume un peso incommensurabile, si manifesta la radice stessa dell’umanità: un richiamo che nessun algoritmo potrà mai simulare né sostituire.
Ed è proprio qui che Emmanuel Levinas ci offre una bussola imprescindibile, ricordandoci che l’essenza dell’umano si rivela nell’aprirsi all’altro, in quel volto che ci obbliga a non voltare le spalle e a farsi carico della responsabilità che ci trascende.
Cosa accade quando il volto scompare, sostituito da un’assenza luminosa, da uno schermo privo di pelle e di anima?
Siamo davanti a un bivio e non ce ne accorgiamo. Ci muoviamo come sonnambuli sulla soglia di un nuovo patto faustiano, pronti a consegnare le chiavi dell’incertezza, quella che ci rende vivi, in cambio di una presunta perfezione che ci disumanizza.
Levinas ci parlava del volto dell’altro come luogo della responsabilità. Ma qui non c’è volto. Solo schermi retroilluminati, circuiti pulsanti, occhi di vetro. Nonostante tutto continuiamo a cercarvi una coscienza, un riflesso, una giustificazione. È l’umanità a dover scegliere se restare tale. La posta in gioco non è il futuro dell’intelligenza, bensì la nostra capacità di restare imperfetti, di scegliere il dubbio, di assumersi la colpa.
Non sarà l'efficienza a salvarci, piuttosto la capacità di fallire senza smettere di amarci. Non saranno le predizioni, ma gli errori che ci insegnano ad ascoltare. Non sarà la replica perfetta ma l’unicità irripetibile di ogni gesto, anche quello sbagliato, a ricordarci che essere umani significa esporsi, scoprirsi, sanguinare.
In un futuro prossimo, forse torneremo in quell’aula, non come accusatori o imputati: forse solo come testimoni, come superstiti di una specie che ha deciso di interrogarsi prima di delegare. Forse poseremo la mano su quella toga abbandonata e ci domanderemo: chi siamo, se rinunciamo a decidere?
Non possiamo concedere alla macchina il diritto all’ultima parola, perché non ne conosce il prezzo. L’etica non è un’esecuzione perfetta, è, invece, una dissonanza necessaria. È la crepa che fa entrare la luce, direbbe Leonard Cohen, è l’incertezza che custodisce la libertà.
E, allora, che resti il dubbio, che resti il fallimento, che resti anche la vergogna. Purché resti l’uomo. Non come vestigio, bensì come scintilla che rifiuta l’oblio, come creatura che non si accontenta di risposte esatte ma cerca, ostinata, la domanda giusta.
Se domani l’aula sarà ancora vuota, significherà che abbiamo ceduto la scena. E finché ci sarà chi osa tremare davanti a una scelta, chi preferisce inciampare piuttosto che delegare, chi sceglie di amare invece che replicare, allora saremo ancora vivi. E nessuna intelligenza potrà dirsi, davvero, più umana di chi l’ha creata.