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“Vi è nella coscienza dell’uomo un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare. La storia dell’utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace.”
Ignazio Silone
Quando fra noi non più giovanissimi, che abbiamo letto, studiato e amato i libri di Hermann Hesse, Erich Fromm, Etty Hillesum, ecc., e i nostri ragazzi, i quali, continuamente attingendo a tv, cinema, web, hanno accatastato nei sotterranei della loro psiche una mole incommensurabile di immagini di deflagrante violenza, si viene ricorrentemente a creare, parlando del senso della vita umana, del suo valore e del suo destino, una netta spaccatura, sarebbe opportuno non lasciarsi scivolare in una contrapposizione da guerra di trincea, bensì tentare di promuovere, secondo il più franco stile colloquiale, una riflessione serena intorno ai termini esatti della questione. Quando un ragazzo (magari nostro figlio o nostro alunno) ci dice che, secondo lui, tutti i nostri illuminati discorsi sull’uguaglianza, la solidarietà, la pace, ecc., non sono altro che “utopie”, belle sì, ma destinate a restare nel mondo dell’iperuranio, dichiarandosi pertanto, in nome di un presunto “realismo”, ostentamente pessimista, invece che essere commiserato oppure sommerso da fiumi di accorata retorica, avrebbe bisogno - credo - di essere invitato ad esaminare con maggiore attenzione il senso delle proprie affermazioni, in modo da comprendere quanto siano labili, opinabili, sfuggenti e ineluttabilmente soggettivi i confini fra ciò che possiamo classificare o meno come realistico, raggiungibile e razionalmente pretendibile.
In campo filosofico e socio-politico, in particolare, potrebbe risultare utile far riferimento alla concezione di K. Mannheim di utopia intesa come progetto destinato a realizzarsi (in alternativa a ciò che dovrebbe essere inteso come mera ideologia) e a quella di E. Bloch che, dell’utopia, fa ben risaltare la funzionalità critico-propositiva e, quindi, felicemente rivoluzionaria. Ma un occhio di tutto riguardo dovrebbe essere riservato, ancor prima, a Rousseau e, successivamente, a Kant, vero punto di riferimento per quanto concerne la fondazione concettuale della funzione dell’utopia nella storia.
Nella prefazione all’Emilio, nella quale il filosofo francese, rivolgendosi ai tanti critici che lo rimproveravano di avanzare proposte troppo ardite e contrastanti con la realtà dei fatti, così scriveva:
“Proponete quello che è fattibile, non si cessa dal ripetermi. E’ come se mi si dicesse: proponete di fare ciò che si fa …”
Infatti, nel dichiarare irrealizzabile un’aspirazione, che pur riconosciamo degna di apprezzamento, e nell’invocare maggiore adesione al cosiddetto “reale”, in verità noi non facciamo altro che assolutizzare il presente (anzi, soprattutto il passato), trasformando un particolare momento del cammino storico nell’unica realtà possibile. In pratica, ci stringiamo forte a questo presente qui, per paura che qualcuno o qualcosa ce lo porti via, lasciandoci in cambio chissà quale futuro.
“ Un viaggiatore - scrive Nietzsche in apertura del suo Schopenhauer come educatore - che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato, rispose: essi sono inclini alla pigrizia.
A molti - prosegue - parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni.”
E sì, se siamo tanto rapidi nel marchiare con l’etichetta dell’utopia (intesa come fantasticheria vuota, patetica o ridicola) qualsiasi discorso che vada oltre lo stato presente delle cose, ciò accade perché c’è, in noi, una grande paura di perdere quello che siamo e quanto abbiamo, unitamente al timore di dover intraprendere un cammino duro, faticoso, nonché denso di interrogativi.
Dire no a tutto ciò che sa di “utopistico” ( e quindi di strappo, di lacerazione, di rifiuto del vecchio e del collaudato) è una permanente strategia difensiva della nostra psiche e delle nostre società, nel tentativo di conservare quanto già conseguito. Potremmo dire che, molto spesso, finiamo per parlare di “utopia” ogni volta che ci viene proposto di allargare le nostre coordinate mentali un poco più appena di quanto ci riesca possibile senza che si producano in noi sforzo e dolore. Perché, si sa, ogni cambiamento radicale e sostanziale dei nostri schemi interpretativi della realtà e delle nostre prassi per la risoluzione dei problemi rischia sempre di apparire come un attentato a quanto di noi ci è più caro.
Accanto a Rousseau, prima, citavo Kant. Questo perché il discorso kantiano sul valore regolativo delle idee della ragione, e, pertanto, sull’esigenza della mente umana di trascendere (pur senza la pretesa di certezze di ordine metafisico) i limiti di quanto acquisito, potrebbe servire come valido strumento orientativo. Utopia, dunque, non verrebbe qui a significare irrazionale rifiuto dei dati empirici e conoscitivi, ma capacità di prospettare, intravedere (e produrre) aperture teoriche e rinnovamenti pratici che possano rappresentare delle risposte valide a problemi di ardua risoluzione.
Si veda, come esempio particolarmente emblematico, il caso della geniale operetta sulla Pace perpetua, nella quale il filosofo tedesco lumeggia un progressivo trionfo della forza della ragione e del diritto sulla forza delle armi e degli interessi particolari.
Queste le parole conclusive:
“ Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico, anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino ad ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota. Ed anzi sarà un compito che, assolto per gradi, si avvicinerà sempre più velocemente al suo adempimento (perché è sperabile che i periodi di tempo in cui avverranno tali progressi si faranno sempre più brevi)”.
Un esempio, questo kantiano, sicuramente assai eloquente, anche per il fatto che, ad avversare tale irenico progetto, sarà poi Hegel, idealista fin troppo incatenato alla ben poco realistica e razionale fede nella perfetta coincidenza fra reale e razionale.
E un’operazione assai efficace, per fare breccia nelle arroccate posizioni dei tanti giovani rassegnati al ripetersi ineluttabile quanto di iniquo della storia, potrebbe essere quello di guidarli ad una attenta analisi dei tanti aspetti (spirituali e materiali) felici e irrinunciabili del mondo in cui si trovano a vivere (dalla libertà di pensiero a quella di espressione e di libera associazione, ecc.), mettendo ben in evidenza come, dietro ad essi, ci siano grandi e durissime lotte, grandi e straordinarie conquiste, scaturite sempre da un pensiero vivo e creativo, da una immensa capacità di pensare l’impensabile e di credere nel cosiddetto irrealizzabile. Particolarmente proficuo potrebbe risultare, quindi, il cercare di favorire una chiara consapevolezza della travagliata e faticosa genesi storica di quanto siamo soliti chiamare nostri diritti inviolabili e libertà fondamentali, affermatisi in questo mondo, per dirla con Rousseau, non certo per merito dei sostenitori del “fattibile”.
Tutto ciò cercando sempre di ribadire come sia arbitrario tracciare un confine netto tra possibile e impossibile, essendo sempre, tale linea, relativa al soggetto che la pone ed essendo continuamente la nostra visione del mondo suscettibile di infinite e imprevedibili variazioni. E sottolineando anche che, come stigmatizza Seneca, nulla ci potrà mai risultare tanto impossibile quanto le cose che noi sceglieremo di ritenere impossibili.
“… ognuno fu grande secondo quello che sperò. Uno fu grande sperando il possibile; un altro sperando l’eterno; ma chi sperò l’impossibile fu il più grande di tutti”.
S. Kierkegaard
Riferimento ai due precedenti articoli di "Utopia"
http://www.flipnews.org/human-rights/se-l-utopia-muore-oltre-ottimismo-e-pessimismo.html