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LA PAURA DELLA MORTE CI RENDE SCHIAVI: LIBERIAMOCENE!

By Roberto Fantini April 02, 2023 677

                 

Qualche anno fa, il teologo valdese Paolo Ricca scriveva, con non poca amarezza, che, nel mondo contemporaneo, risultava non aver più alcun posto la questione dell’aldilà e di una possibile vita futura, questione “che in altri tempi appassionava l’opinione pubblica ed era considerata e vissuta come assolutamente prioritaria, cioè come la questione principale di questa vita, quella che ciascuno doveva affrontare, perché questa vita aveva senso e valore (così, allora, si pensava) proprio come preparazione al “grande salto” nell’aldilà”. 1)

Oggi, diceva, il tema dell’aldilà non interessa quasi più nessuno, perché: “La speranza generale è di prolungare il più possibile questa vita."2) Anzi, potremmo dire che l’unica vera preoccupazione che ci trova tutti d’accordo, credenti e non credenti, è proprio quella del vivere il più a lungo possibile, evitando sistematicamente di interrogarsi in merito all’evento del morire.

Non ci si interrogherebbe più, di conseguenza, in merito al vivere buono e giusto, ma soltanto in merito a come riuscire a proiettare sempre più lontano dalla nostra coscienza l’idea di quell’evento (visceralmente inaccettabile) che tutti ci attende. Potremmo dire che mai l’umanità è stata tanto risucchiata in una visione così banalizzante del vivere, in cui si fondono, in una sorta di sabbie mobili dello spirito: rozzo edonismo, semplicistico ottimismo e cieco fideismo scientista.

Il risultato di ciò è che, di fronte al fatto ineludibile della morte, mai ci siamo trovati così indifesi, così impreparati, così vulnerabili.

Due colossali conferme di tale nostra generale condizione psicologica le possiamo ricevere dall’ analisi di come l’opinione pubblica stia acriticamente accogliendo, da alcuni decenni ormai, la pratica dei trapianti di organi e come, in questi ultimi anni, abbia ampiamente subìto (o anche abbracciato) le politiche vaccinali.

In entrambi i casi, la vittima principale è il pensiero coraggioso e indipendente: anche il più elementare buon senso, infatti, si è ritrovato annichilito.

Di fronte al timore della morte incombente e all’allettantissima possibilità di riuscire a rinviarla a tempo indeterminato, ci siamo (in troppi e troppo facilmente) dimostrati pronti a spegnere gli interruttori del normale pensare, gettandoci incondizionatamente nelle braccia onniscienti ed onnipotenti dei Gran Sacerdoti di Santa Madre Scienza.

E, così, ci siamo ritrovati ad accettare, senza troppi indugi, che, una volta adottate parole ingannevoli come “morte cerebrale”, “donatore”, ecc.,  si possa essere dichiarati morti e quindi macellati come cadaveri, pur respirando, pur avendo sangue circolante e organi sessuali in grado di procreare; che si possa essere considerati morti anche se con organismo caldo e in grado di rispondere a eventuali cure.

E, così, siamo giunti ad accettare di subire poliziesche imposizioni, facendoci inoculare (disposti  ad assumerci ogni responsabilità in merito alle possibili conseguenze) un qualche siero dichiarato arbitrariamente “vaccino”, benché sprovvisto dei doverosi oggettivi requisiti; un qualche siero protetto dalla massima segretezza, in merito a cui nessuno (nemmeno chi lo produce) è in grado di fornirci alcuna reale garanzia.

In entrambi i casi, è il terrore della morte ad ammutolire il nostro intelletto, ad indurci a mettere da parte, nello stesso tempo,

innati princìpi logici,

universali paradigmi etici,

costituzionali valori civili.

Per salvarci dal naufragio esistenziale, individuale e collettivo, bisognerebbe quindi, oltre che non smettere mai di esercitare il  “dubbio metodico”, riuscire a liberarci da un rapporto malato con il problema della morte, recuperando quanto di meglio ci proviene dall’antica sapienza filosofica e dalla migliore psicologia contemporanea. Ovvero, riscoprendo la “naturalezza” del morire (indissolubilmente legato al vivere), magari anche riappropriandoci di prospettive aperte all’eventualità di ultraterrene esperienze.

Socrate, Epicuro, Seneca e tanti altri giganti del passato potrebbero esserci di grande aiuto:

“Tutte le cose – scrive, ad esempio, Seneca - procedono secondo tempi ben definiti: debbono nascere, crescere, estinguersi. Questi astri che vedi correre sopra di noi e questa materia terrestre a cui siamo attaccati e che ci sembra così solida, si logoreranno e finiranno: ogni cosa ha la sua vecchiaia. La natura, attraverso diseguali cicli di vita, dirige tutte le cose allo stesso punto. Tutto quello che esiste cesserà di essere, non per annullarsi, ma per decomporsi. La decomposizione noi la chiamiamo morte: noi vediamo solo l’aspetto esteriore delle cose, ma la nostra mente ottusa e a discrezione del corpo non vede che quel che sta al di là. L’uomo sopporterebbe con più coraggio la fine sua e dei suoi cari, se credesse che, come tutto il resto, la vita e la morte si avvicendano e i composti si dissolvono e si ricompongono i corpi dissolti, e a quest’opera si rivolge l’attività di dio, che tutto regola.” 3) 

E anche scienziati all’avanguardia e liberi da pregiudizi di ordine positivistico, come la psichiatra Elizabeth Kubler-Ross, potrebbero costituire una fonte di terapeutica saggezza:

“Se viviamo bene non dovremo mai preoccuparci della morte, anche se si vive solo un giorno. La questione tempo non è importante, è solo un concetto artificiale, creato dall’uomo.

Vivere bene significa soprattutto imparare ad amare.”4)

Insomma, non c’è vera possibilità di difenderci dalle schiavitù del presente e da quelle di un ipotetico-probabile avvenire, senza una vera liberazione interiore dalla paura più grande, quella del più non esserci. E l’angoscia della morte è curabile solo grazie alla carità illuminata dal giusto pensiero e coronata da un giusto operare volto ad occuparci della sofferenza del mondo.

Forse ha ragione Fernando Savater nel dirci che soltanto i veri poeti sanno rapportarsi alla morte:

 “i poeti accettano la morte opponendole l’altra grande forza che ci individualizza, che ci personifica: l’amore. Ciò che è incompatibile con la morte non è vivere (la vita esige la morte), ma amare: l’amore disconosce la forza della morte, anche se amiamo consci della nostra mortalità e di quella di ciò che amiamo.” 5)

Un cuore colmo di amore è e resterà luce che si espande.

 

 

 

 

 

  1. Paolo Ricca, Dell'aldilà e dall'aldilà , Claudiana, Torino 2018, p.9.
  2. Ibidem
  3. A. Seneca, Lettere a Lucilio , VIII, 71.
  4. Kubler-Ross, La morte e la vita dopo la morte , Mediterranee, Roma 2013.
  5. Dizionario filosofico , F. Savater, Dizionario filosofico, Sagittari Laterza, Bari 1996, p. 155.

 

 

 

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Last modified on Tuesday, 04 April 2023 08:25
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