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Ogni tanto, sommersi da tanti altri urgenti e ingarbugliati problemi, finiamo un po’ tutti per dimenticarci di piaghe che sembrano oramai relegate a tempi lontani da noi. E’ questo il caso, credo, della pena di morte, relegata spesso, molto diffusamente e troppo sbrigativamente, a questione di scarsa attualità.
Scriveva Albert Camus che abolire la pena di morte avrebbe rappresentato “imprimere un colpo di freni spettacolare e proclamare, nei princìpi e nelle istituzioni, che la persona umana è al di sopra dello Stato”. Che nessun potere umano, cioè, nessuna istituzione, per quanto importante, nobile e “sacra”, potrà più considerarsi in diritto di prendere nelle sue mani, come una cosa, la vita delle persone. Per stritolarla. Per gettarla via …
Ma, nonostante i numerosissimi e continui progressi compiuti sulla strada abolizionistica, il cammino appare ancora lungo. La pena di morte continua ad esistere in molti stati del mondo e continua a rappresentare molto spesso, fra l’altro, il punto di approdo di iter giudiziari privi dei minimi requisiti di decenza giuridica.
E’ il caso, ad esempio, di due giovani, un ragazzo saudita, e una ragazza iraniana, su cui la sezione italiana di Amnesty International sta cercando di attirare l’attenzione, al fine di tentare impedire le loro forse imminenti esecuzioni:
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Ali Mohammed Baqir al-Nimr (https://www.amnesty.it/appelli/arabia-saudita-attivista-rischia-di-essere-messo-a-morte/) e Zeinab Sekaanvand (https://www.amnesty.it/appelli/salviamo-zeinab/).
Ali Mohammed Baqir al-Nimr è un attivista sciita, nipote dell’eminente religioso sciita Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, di al-Awamiyya in Qatif, nella zona orientale dell’Arabia Saudita (messo a morte il 2 gennaio 2016).
Il 14 febbraio 2012,Ali al-Nimr, è stato arrestato (quando aveva ancora 17 anni) e condotto presso la Direzione generale delle indagini (Gdi) del carcere di Dammam, senza possibilità di incontrarsi con il suo avvocato e, secondo quanto da lui riferito, torturato da ufficiali della Gdi affinché firmasse una “confessione”.
E’ rimasto detenuto nel centro di riabilitazione giovanile Dar al-Mulahaza per un anno e poi, a 18 anni, ricondotto nella Gdi di Damman.
Ora, Ali al-Nimr, avendoesaurito ogni possibilità di appello,potrà essere messo a morte appena il re ratificherà la condanna.
Il 27 maggio 2014, il tribunale penale speciale di Gedda lo ha condannato a morteper reati che vanno dalla partecipazione a manifestazioni antigovernative, all’attacco alle forze di sicurezza, dalla rapina a mano armata al possesso di un mitra. La cosa sconcertante è che il tribunale avrebbe raggiunto simili conclusioni sulla base della “confessione” estortagli con tortura e maltrattamenti, su cui si è sempre rifiutato di indagare.
Ad agosto 2015 il caso è stato inviato al ministro dell’Interno per rendere attuativa la sentenza.
A settembre la famiglia ha diffuso la notizia che la sentenza è stata confermata dai giudici di appello presso la Corte penale speciale (Scc) e della Corte suprema.
Riportiamo qui di seguito, i passaggi più significativi di una lettera della madre di Ali, del 12 febbraio dello scorso anno.
“Quando ho sentito per la prima volta il verdetto di condanna del mio bambino, mi sono sentita come se un fulmine mi stesse colpendo in testa. Era come essere a lutto e di colpo ho perso le cose più care e belle che ho. (…)
Ho pianto tanto quando è stato preso, ma non mi sarei mai aspettata che sarei andata avanti a piangere per quattro lunghi anni. È stato strappato via dal calore della nostra casa e costretto ad essere detenuto nel freddo intenso di prigioni oscure. È stato allontanato dalla sua casa e dalle persone a lui care per gustare l’insipido sapore amaro della vita in cella.
Nessuna situazione mi è stata più dolorosa di quando ho visto mio figlio in carcere. Desideravo ardentemente vederlo, ma ho dovuto girare la faccia perché non l’avevo riconosciuto. Non aveva il suo aspetto normale né la sua voce perché era stato torturato.
Non ebbe bisogno di dirmi quello che era successo perché il suo volto, le mani, i piedi e il corpo parlavano per lui. Sul suo corpo erano chiaramente visibili ferite e gonfiori da contusioni. Era debole e sciupato, ma anche evidentemente molto giallastro e fragile. Tutto questo era il risultato dei calci e delle percorse subite. (…)
Mi affido a tutte le persone di umanità affinché facciano appello ai funzionari perché rilascino mio figlio. Ali dovrebbe essere libero di vivere la vita alla quale aspira in quanto giovane pieno di ambizione e di desiderio di dare. Quanto meno, dovrebbero avere un nuovo processo che sia pubblico ed equo e in conformità con gli standard internazionali, basato su prove piuttosto che su accuse inventate”.
Anche per Zeinab Sekaanvand, iraniana di appena 22 anni, ogni giorno potrebbe essere l’ultimo.
Dopo essere scampata all’esecuzione della pena capitale prevista il 14 ottobre dello scorso anno, la sua vita è ancora a rischio.
Zeinab, arrestata nel febbraio del 2012, all’età di 17 anni, con l’accusa di aver ucciso suo marito, ha sottoscritto la sua confessione dopo essere stata trattenuta per 20 giorni in una stazione di polizia, dove – secondo quanto ha denunciato – è stata picchiata dagli agenti.
Anche il processo risulta essersi svolto in maniera gravemente irregolare: Zeinab ha potuto incontrare il suo avvocato (assegnatole di ufficio) solo nell’ultima udienza del processo. In quell’occasione, ha deciso di ritrattare la “confessione” resa quando era priva di assistenza legale, denunciando che l’assassino era stato il fratello del marito. Tali dichiarazioni sono state totalmente ignorate dai giudici che, il 22 ottobre 2014, l’hanno condannata a morte.
Ora, le autorità iraniane dovrebbero essere chiamate a condurre una indagine rapida, indipendente e approfondita sulle accuse di tortura e altri maltrattamenti che Zeinab Sekaanvand ha denunciato, e a fare in modo di garantire che tutte le dichiarazioni ottenute da lei sotto tortura, con la coercizione o senza presenza di un avvocato, non vengano assolutamente utilizzate come prove contro di lei.
Manifestazione di Amnesty International contro la piaga delle “spose bambine” |
Inoltre, le autorità sono chiamate a non dimenticare il divieto assoluto sull’uso della pena di morte per i reati commessi da persone minori di 18 anni, come stabilito sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici sia dalla Convenzione sui diritti dei minori, documenti internazionali entrambi ratificati dall’Iran.
Il caso sventurato di Zeinab non è un caso isolato. I matrimoni precoci sono una pratica ancora molto diffusa in Iran. Da quando Zeinab è stata costretta (a 15 anni) al matrimonio, da quel momento violenze e abusi sessuali sono entrati prepotentemente nella sua vita: oltre al marito, a picchiarla e ad abusare di lei, oltre al marito, ci sarebbe stato anche il fratello di questo.