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Controstoria linguistica dell'Italia divisa

By Carlotta Caldonazzo February 06, 2017 10857

L'italiano, nato come lingua “volgare”, assunse dignità letteraria quando divenne lo strumento di espressione dell'élite politico-culturale; le attuali oligarchie finanziarie, invece, hanno imposto il modello del profitto a tutti i costi e il paradigma “vincente” dell'anti-cultura.

 

La lettera recentemente inviata al governo da 600 docenti universitari, in cui si osserva che gli studenti commettono “errori appena tollerabili in terza elementare”, potrebbe essere un interessante spunto di riflessione sui cambiamenti sociali in atto negli ultimi decenni. La necessità della scolarizzazione di massa è un'istanza affermata con successo, negli anni '60 e '70, da movimenti che lottavano, oltre che per la giustizia sociale, per il diritto all'accesso alla conoscenza, contro le discriminazioni economiche e sociali della scuola classista. È una delle poche eredità sopravvissute che hanno lasciato le utopie di sinistra del secolo scorso: Ernesto Che Guevara considerava l'istruzione una componente indispensabile del progetto rivoluzionario. Per i movimenti studenteschi, quindi, il sapere, la cultura erano un diritto fondamentale, in quanto basi imprescindibili dell'autosufficienza intellettuale ed etica dell'individuo, quindi, fattori di emancipazione dai meccanismi alienanti e oppressivi della società capitalistica. Contro questi ultimi nulla si può fare se gli oppressi non elaborano un progetto di vero progresso.

Inoltre, da un punto di vista più strettamente materiale, nell'immaginario collettivo dei decenni passati un titolo di studio più elevato avrebbe permesso di cercare lavori più remunerativi e meno usuranti, ma negli ultimi quindici anni questa motivazione è venuta meno. Contestualmente, i media più seguiti (e più potenti) hanno contribuito ad affermare il modello del profitto a ogni costo, che ha tra le sue caratteristiche principali l'opposizione manichea tra i perdenti, esclusi dal “mercato globale” e tenuti ai margini della società a prescindere da ciò che sanno o sanno fare, e i vincenti, che per essere e mantenersi tali possono limitarsi a sostenere efficacemente le forme di competizione demenziali che dilagano nel “mondo del lavoro”, anche facendosi portatori di messaggi anti-culturali. A tutto ciò fa specchio una classe politica che esalta le “tre I” (Inglese, Informatica, Impresa) o parla di rottamazione liquidando come un ferro vecchio la totalità della cultura politica pregressa, invece di considerarla una base su cui fondare un vero cambiamento. Questa ossessione di opporre nell'immediato un “nuovo” al “vecchio” impedisce (o almeno rende più difficile) una riflessione che permetta di distinguere tra autentica evoluzione e falso progresso. Quanto all'uso dell'italiano, per tornare allo spunto di partenza, l'élite politica sia di maggioranza, sia di opposizione, con poche eccezioni, non offre di certo esempi edificanti.

Praticando la “religione” del profitto a qualsiasi costo, peraltro, poco importa che si si tragga guadagno dall'economia legale o dal crimine organizzato, anche perché entrambi, con le dovute differenze di forma, non disdegnano metodi oppressivi e violenti. Basti pensare, a titolo di esempio, all'atteggiamento dell'Unione Europea di fronte alla crisi economica in Grecia, culla della civiltà, e, a breve distanza, la facilità con cui Bruxelles ha sborsato sei miliardi di euro a una Turchia in piena deriva autoritaria, o al peso dell'Azerbaigian nel Consiglio d'Europa (http://www.corriere.it/cronache/17_gennaio_30/consiglio-d-europa-caso-azerbaijan-regali-milioni-2cbc0b5e-e66b-11e6-84c1-08780d9999f1.shtml). In questo panorama, la scuola offre un modello che contrasta con quelli presentati come vincenti dai media e dal tipo di relazioni sociali che si è venuto affermando negli ultimi decenni, in particolare dagli anni '80. Un motivo in più per bambini e adolescenti (le cui famiglie sono spesso troppo occupate a sopravvivere al tritacarne del “mercato del lavoro”) per considerare lo studio, persino quello della lingua italiana, come un dovere imposto, anziché come un diritto. A scuola si deve insegnare la legalità, l'importanza della democrazia, del diritto e della costituzione, la responsabilità nei confronti della collettività, ma nello stesso tempo si chiede alle istituzioni scolastiche di “preparare” al “mondo del lavoro” (sarebbe lecito chiedersi quale lavoro si intenda, perché ogni lavoro ha i suoi meccanismi di funzionamento). Terminate le lezioni, si accende il televisore e si assiste con troppa frequenza al trionfo della violenza, del pensiero unico e dell'interesse particolare. Cosa può essere dunque la scuola nel capitalismo globalizzato che, dopo aver rinunciato alla servitù delle colonie, ha imposto nuove forme di schiavitù interna? Questione di scelta.

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Last modified on Tuesday, 07 February 2017 12:39
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