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Il lato oscuro delle democrazie periferiche

By Carlotta Caldonazzo May 07, 2019 5341

La perdita di rappresentatività delle forze politiche tradizionali rappresenta una delle principali minacce ai sistemi democratici, soprattutto in una fase di transizione nell'assetto geopolitico mondiale

 

Tra gli eventi più evocati come simbolici della fine della guerra fredda, c'è l'abbattimento del muro di Berlino, come se quello fosse l'atto iniziale di un processo di progressiva riunificazione del mondo, garantita dalla globalizzazione del sistema economico e politico “vincitore”. In realtà, il crollo del sistema sovietico, per quanto asfittico fosse diventato, è stato segnato piuttosto dall'esportazione del modello (probabilmente altrettanto asfittico) di Stato-nazione, con tutto il proliferare di nazionalismi che ciò ha comportato. In secondo luogo, il “vecchio” assetto mondiale basato sulla divisione in due blocchi, ciascuno dei quali includeva una potenza e i suoi satelliti (un caso a parte è costituito dal movimento dei paesi non allineati), è stato sostituito da una struttura a gradini, con una superpotenza mondiale, le democrazie imperiali alleate e le democrazie periferiche dipendenti. In tale contesto, il modo in cui gli Stati Uniti hanno riempito il vuoto geopolitico lasciato dall'implosione del sistema rivale ha innescato conflitti le cui conseguenze continuano a causare tensioni. Anche se oggi il ruolo di superpotenza è conteso agli USA da Russia e Cina, a colpi di soft power, attacchi cibernetici, progetti di investimento economici e militari.

 

Negli anni '90, Washington ha continuato a sostenere indirettamente la nascita di movimenti e partiti anti-comunisti, anche quando si ispiravano a ideologie nazionaliste, o come si direbbe oggi “sovraniste” o “suprematiste”. Una strategie simile, in linea con la dottrina Reagan, era stata sperimentata in Afghanistan durante l'invasione sovietica, con la cosiddetta Operazione ciclone, senza considerare che l'intelligence statunitense aveva messo in piedi una rete internazionale stay-behind sin dal secondo dopoguerra. A tale struttura, che aveva come obiettivo quello di impedire un'eventuale espansione dell'Unione Sovietica, apparteneva peraltro l'organizzazione chiamata Gladio. Tuttavia, appena finita la guerra fredda, quando la stessa dottrina Reagan (e forse persino la NATO, in quanto Alleanza atlantica) avrebbe potuto essere superata, Washington ha iniziato a delegare agli alleati considerati più affidabili l'attuazione della sua nuova visione strategica, ovvero di quel processo che prende il nome di globalizzazione. In tal modo ad esempio, negli anni '90, la Germania a livello economico e la Turchia (come, in una certa misura, il Vaticano) sul piano religioso-culturale hanno assicurato l'adesione alla globalizzazione dei Balcani, regione di notevole importanza strategica per la sua apertura a Oriente. Senza contare che la longa manus di Ankara si è spinta (e si spinge tuttora) anche in Asia centrale e nel Caucaso, fino a raggiungere le minoranze musulmane che vivono in territorio russo e cinese, per lo più tramite popolazioni di ceppo e lingua turchi, come gli azeri e i turkmeni. Da un discorso simile, dipende la cruciale posizione che ha sempre caratterizzato il Giappone nel Mar cinese meridionale, così come Israele e l'Arabia saudita in Medio Oriente.

Eppure, già negli anni '20-30 del secolo scorso, movimenti nazionalisti, militaristi e autoritari si erano affermati nel Vecchio continente, come il fascismo italiano, il nazismo tedesco o il franchismo spagnolo, rimasto in vita fino alla metà degli anni '70. Negli anni '60, peraltro, a parte il colpo di Stato sfociato nel regime dei colonnelli in Grecia (dove dal 1946 al 1949, un tentativo di insurrezione comunista era stato stroncato dall'esercito, con il sostegno britannico e statunitense), l'Europa occidentale è stata teatro di due sanguinosi conflitti, entrambi combattuti tra un esercito (con il quale si schierano talvolta gruppi paramilitari) e un movimento separatista: quello in Irlanda del Nord e quello nei Paesi Baschi. Il primo si è concluso con l'accordo di Belfast del 1998, mentre il secondo si è protratto fino al 2011, quando l'ETA ha proclamato un cessate il fuoco permanente e, successivamente, la rinuncia definitiva alla lotta armata. Queste due guerre si sono pertanto sovrapposte cronologicamente ai conflitti “etnici” degli anni '90, che hanno in qualche misura accompagnato gli albori della globalizzazione. Ne sono un esempio le guerre civili nei Balcani occidentali circa un ventennio più tardi, dopo la crisi finanziaria iniziata nel 2007, quando le forze politiche “di sinistra” avevano iniziato a perdere a ritmo crescente la loro capacità di rappresentare le istanze delle classi più deboli, l'inasprimento dell'ingiustizia sociale e l'aggravamento delle disparità hanno avuto effetti devastanti sul tessuto sociale dei singoli Stati, a partire dalle aree deboli dell'Unione Europea. Al punto che tutte le forze politiche tradizionali hanno registrato una significativa perdita di rappresentatività, anche in paesi “forti” come Francia, Germania e paesi scandinavi.

È in un simile contesto che sono emersi movimenti politici di stampo nazionalista e xenofobo, che tuttavia sapevano coniugare alla retorica “identitaria” un discorso affine al concetto di giustizia sociale, magari dalla prospettiva del ceto medio impoverito e insofferente. D'altro canto, si è assistito, soprattutto nei paesi “poveri” dell'area Schengen, al radicamento sempre più preponderante del crimine organizzato, soprattutto con l'esplodere della “crisi migratoria”. L'aumento del peso politico di questi due tipi di forze, entrambe tendenzialmente anti-democratiche, appare contrario al concetto di globalizzazione, ma in realtà, tutto sommato, rende meno difficile imporne i costi umani, monopolizzando o bloccando la dialettica politica (talvolta persino imponendo determinate decisioni), a scapito di movimenti che propongono alternative compatibili con il carattere multietnico e pluriculturale delle società contemporanee. Eppure, nei primi anni 2000, quando il mondo era ormai diventato un “villaggio globale” e il progresso tecnologico aumentava rapidamente le possibilità di comunicazione a distanza, questi movimenti stavano assumendo carattere trans-nazionale, mentre sul piano interno raccoglievano il consenso dei delusi dalla “sinistra tradizionale”. Tuttavia, con l'inasprirsi delle conseguenze della crisi e l'aumento della portata dei fenomeni migratori, essi hanno progressivamente perso terreno, il che ha comportato il senso di esclusione dalla partecipazione politica di fasce sempre più ampie delle diverse società.

 

In tal modo, i principali oppositori alla globalizzazione sono diventate formazioni politiche definite “sovraniste”, che anziché proporre come soluzione alla crisi un programma ispirato alla giustizia sociale e alla lotta alla corruzione e alla diseguaglianza, focalizzano l'attenzione su questioni di “identità”, adottando la linea del particolarismo nazionalista. Un obiettivo probabilmente di minori pretese, ma soprattutto privo di efficacia. Due esempi si possono citare a riguardo. In Grecia, già dal 2014, il movimento di estrema destra Alba dorata ha accresciuto i suoi consensi in modo esponenziale, giungendo a essere la terza forza politica del paese, mentre sono aumentate le manifestazioni di intolleranza nei confronti delle comunità migranti. Similmente, in Italia l'ascesa dei movimenti di estrema destra e l'aumento degli episodi di xenofobia non solo sono spesso oggetto del dibattito politico in televisione e sulle pagine dei principali quotidiani, ma imperversano costantemente sulle reti sociali e, in generale, nello spazio della dialettica virtuale, spesso riduttiva e semplicista. Contestualmente, i numerosi scandali di corruzione che hanno interessato tutte le principali forze politiche, tanto di governo quanto di opposizione, hanno approfondito il divario tra elettori ed eletti e aumentato il livello di disinteresse per la vita politica. Ciò significa una brusca riduzione della partecipazione politica, che invece è essenziale per la tenuta delle istituzioni democratiche.

Considerando un'immaginaria classificazione dei paesi del mondo in democrazie imperiali, che aspirano al rango di potenza mondiale o regionale, e democrazie periferiche, spesso teatro dei conflitti per procura tra le potenze, l'Italia apparterrebbe probabilmente al secondo gruppo. Una posizione che l'ha sempre caratterizzata, sin dal secondo dopoguerra, quando le potenze che avevano sconfitto il nazifascismo ne condizionarono le vicende politiche, come ha scritto Giovanni Fasanella nel Puzzle Moro. Una simile riflessione potrebbe suscitare interrogativi su quanto le forze politiche italiane rappresentino in realtà interessi esterni, compresi i movimenti e i partiti “sovranisti”. Recentemente, parte della stampa internazionale ha ipotizzato che la Russia potesse finanziare forze politiche “di destra”, “isolazioniste” e “sovraniste”, persino lo stesso presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nondimeno, lo scorso lunedì, la trasmissione italiana Report, in onda su Rai Tre, ha dimostrato l'esistenza di una scuola sovranista impiantata nella Certosa di Trisulti, ottenuta in concessione attraverso un bando, con modalità ancora da chiarire. Si tratta dell'associazione cattolica ultra-conservatrice Dignitatis Humanae Institute, alla cui guida, con varie cariche, spiccano, oltre ad alcuni firmatari del documento che mette in discussione l'enciclica Amoris Laetitia di papa Bergoglio, anche l'ex consigliere di Trump Steve Bannon e il cristiano-sionista britannico Benjamin Harnwell. Una nuova strategia della tensione?

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Last modified on Monday, 13 May 2019 14:47
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