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Nuova conversazione con Maria Gemma Grillotti Di Giacomo
In seguito all’interesse suscitato dalla conversazione avviata* con la prof.ssa Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, curatrice (insieme a Pierluigi De Felice) di un pregevole volume relativo ai fenomeni di land grabbing e land concentration**, e in considerazione dell’estrema gravità delle questioni con essa affrontate, ho ritenuto opportuno renderne possibile un accurato approfondimento.
Noi della Free Lance International Press, d’altronde, da sempre dalla parte delle vittime delle ingiustizie, non possiamo fare a meno (in piena sintonia con i responsabili di questa encomiabile iniziativa editoriale) di auspicare e di favorire, in vista di un’ equa giustizia sociale, una progressiva crescita del livello di conoscenza e di consapevolezza in merito a fenomeni tanto inquietanti e devastanti come quello in atto, di esproprio e concentrazione di immense risorse naturali nelle mani di pochi predatori. Di un esproprio, cioè, vergognoso quanto destabilizzante, consistente in un vero e proprio saccheggio neocoloniale di terre fertili ai danni delle comunità rurali più deboli del pianeta.
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Nella nostra conversazione di qualche mese fa, ci eravamo lasciati con alcune amare considerazioni in merito agli effetti disastrosi dell’accaparramento delle terre ai danni dei poveri del mondo, parlando, in particolar modo, di “fame e forzato, definitivo abbandono di quelle terre che assicuravano la magra economia di sussistenza”.
Ora, un aspetto della questione meritevole di essere sviluppato maggiormente è quello relativo al fatto che, nonostante le dichiarazioni rassicuranti delle società finanziarie, dei gruppi multinazionali, dei fondi di investimento, delle banche e dei governi che investono nell’accaparramento di terre fertili, l’82% delle terre in questione non venga neppure messo a coltura.
Come spiegare una simile scelta?
La forte concentrazione della ricchezza nel mondo occidentale (USA, Europa dell’Ovest, Giappone, Australia e Medioriente) impone di cercare, se non ulteriore crescita, almeno garanzie di "immobilità" per i capitali accumulati. I popoli più ricchi, meglio dovremmo dire le classi e i gruppi sociali più agiati, sono perciò spinti all'accaparramento delle risorse naturali, ovunque esse siano disponibili. Nella generalità dei casi le transazioni hanno carattere di mero investimento fondiario, esercitato con enormi vantaggi speculativi, anche come “rendita di attesa” dal momento che ad essere realmente messo a coltura è meno di un quinto del totale delle superfici complessivamente cedute agli acquirenti stranieri dai Paesi in via di sviluppo ai quali, insieme agli ampi spazi territoriali, vengono sottratte risorse vitali come l’acqua e/o preziose come quelle minerarie, di idrocarburi e turistico-naturalistiche.
In questi casi alcune fonti di informazione parlano di global land grab, di land grab hype e di commercial pressures on land, accomunando nella corsa all’accaparramento della terra le differenti destinazioni d’uso delle superfici acquistate (industrie estrattive, turistico-alberghiere, coltivazioni agricole); in questa più ampia accezione del fenomeno di concentrazione fondiaria l’uso del termine land grabbing resta perciò riservato all’esclusivo significato di accaparramento delle terre coltivabili. Pur circoscrivendo la nostra attenzione a quest'ultimo caso, accade tuttavia che intere regioni, messe a coltura per ottenere biomasse, siano abbandonate prima ancora che vengano raccolte le produzioni, perché ci si accorge che i costi del trasporto e della trasformazione delle colture in biocombustibili superano il ricavo atteso (caso Tanzania). Dobbiamo perciò chiederci come sia possibile definire “sostenibile e salutare” la destinazione delle terre - sottratte all’autoconsumo - all’agricoltura di piantagione, alle piantagioni di colture diverse da quelle alimentari o addirittura al solo scandaloso investimento finanziario (l’82% dei terreni acquistati viene lasciato incolto).
Ma come è possibile che si possa realizzare un simile abnorme fenomeno di accaparramento, vero e proprio processo di saccheggio fondiario ai danni dei lavoratori più poveri, nel silenzio e nell’indifferenza generali?
L'accaparramento è attuato con espropri e confische ovunque e sempre accompagnati da ribellioni cruente: rivolte sociali, lotte contadine e migrazioni di massa. Fenomeni che agitano la società contemporanea e che si ripresentano dopo ogni periodo storico involutivo, caratterizzato cioè prima da una crisi economica globale e poi dalla riscoperta del “bene rifugio terra”; un processo cui stiamo di nuovo assistendo a partire dagli anni 2000. Per questa ragione nei Paesi in cui più si esercita l’accaparramento delle risorse autoctone non sono mancate rivolte e denunce, “sedate” con repressioni reazionarie, mentre quanti hanno provato ad esplorare e contrastare il fenomeno sono stati minacciati e persino uccisi; si pensi all’assassinio nel marzo 2018 di Marielle Franco in Brasile e alla morte nel 2015 di circa 200 persone che, secondo quanto denunciato da The Rights and Resources Initiative (2017), cercavano di difendere la proprietà delle loro terre e l’ambiente.
Quali effetti tende a produrre la creazione di grandi proprietà dovuta agli investimenti stranieri che attuano l’agricoltura di piantagione monoculturale estensiva? In particolar modo, per quanto concerne i cambiamenti climatici, la produttività dei suoli e i flussi migratori?
Tutti i processi di esagerata concentrazione fondiaria, per la gravità degli esiti che li accompagnano, sia sul piano sociale che ambientale, sono stati contrastati fin dall’epoca classica, basti pensare alla Lex agraria di Tiberio e Caio Gracco – che stabiliva il limite massimo della proprietà terriera in 500 iugeri (250 ha) – e alle lucide raccomandazioni di carattere agronomico di Columella e Plinio il Vecchio, che denunciavano la scarsa produttività dei latifondi («già rovina d’Italia e ora anche delle province») e raccomandavano di curare i campi in modo da garantirne sempre la produttività futura (“seminare meno e arare meglio”). I capitali fondiari investiti nel land grabbing non hanno più come nel secolo passato lo scopo di produrre alimenti, esotici o primaticci, pregiati sui mercati dei paesi investitori, quanto piuttosto quello di allargare gli spazi per le colture no food e, soprattutto, quello di "trovare rifugio" in beni immobili capaci di conservarne e accrescerne il valore, salvaguardandoli nell’attuale crisi delle economie più avanzate. D'altra parte l’agricoltura di piantagione incide, accelerandolo, sul cambiamento climatico globale perché espone centinaia di migliaia di ettari all’inquinamento e alla desertificazione; sradicare la policoltura famigliare di sussistenza per introdurre il modello produttivo dell'agricoltura di speculazione che adotta monocolture industriali su centinaia di migliaia di ettari significa quindi desertificare i suoli, favorire i cambiamenti climatici in atto e, in ultima analisi, alimentare i flussi migratori eufemisticamente definiti economici e ambientali. Diversa è la strada da intraprendere per rendere sostenibili le pratiche agricole e, come già ammonivano gli autori classici, non passa mai attraverso latifondi e monocolture annuali (minus serere et melius arare); è ormai improrogabile accogliere alcuni cambiamenti di rotta non soltanto nell’agricoltura di sussistenza, ancorata a tecniche colturali che ripristinano la fertilità naturale dei suoli solo con il debbio e la policoltura promiscua, ma anche e soprattutto nell’agricoltura di speculazione ancorata all'industrializzazione spinta.
I prodotti dell'agricoltura famigliare offrono infatti derrate alimentari capillarmente e direttamente distribuite in tutti i Paesi e le regioni del mondo e sono perciò i soli in grado di far fronte alle esigenze alimentari di tutte e di ciascuna delle diverse comunità umane del nostro pianeta, e quelli ottenuti con metodi più sostenibili, perché ingegnosamente messi a punto dai coltivatori in funzione dei molteplici, peculiari ambienti naturali. Per contro l’esasperata concentrazione fondiaria, in qualsiasi forma e a qualsiasi scopo essa venga favorita e realizzata (abbattimento dei costi di esercizio, colture no food per energia rinnovabile), si accompagna sempre e ovunque all’allentamento delle capacità produttive dei suoli (seminativi annuali a basso costo di esercizio versus colture di pregio ad elevato utilizzo di manodopera) e, ciò che è peggio, ad inique sperequazioni e disparità non soltanto economiche, ma soprattutto sociali e di genere.
Come ritieni sia possibile spiegare il fatto denunciato dall’ex relatore speciale dell’ONU per il diritto al cibo, Olivier De Schutter, relativo alla accesa concorrenche ci sarebbe tra gli Stati africani “venditori” nel cercare di attrarre gli acquirenti stranieri?
Il problema land grabbing non può essere compreso se ci si limita ad una analisi che fa ricorso alla sola scala planetaria e/o nazionale. Il fenomeno va analizzato a scala internazionale e nazionale, ma va anche denunciato svelandone le forme perpetrate alla scala regionale, dove si consuma come sopraffazione esercitata da governi locali e dai maggiorenti locali sulle comunità rurali. Sul fronte dei Paesi “venditori” di terre fertili troviamo in genere Stati caratterizzati da istituzioni deboli, governi antidemocratici e/o totalitari con elevati livelli di corruzione politica ed economica. L’assurda cessione dei terreni, già coltivati dai piccoli conduttori agricoli, avviene infatti attraverso espropri forzati ed è oggetto di accordi tra governatori locali, che intascano il prezzo dei fondi, e investitori stranieri, “interessati” a salvaguardare l’ambiente con il potenziamento delle colture energetiche (no food per biomasse), ritenute più “sostenibili” di quelle alimentari.
Ecco perché Olivier De Schutter, ex relatore speciale dell’ONU per il diritto al cibo, ha denunciato che lo scandalo fondiario è aggravato dalla concorrenza tra gli Stati africani nell’offrire terre a prezzi sempre più bassi per attrarre gli investitori (in Sudan e in Etiopia l’affitto pluriennale oscilla dai 2 ai 10 dollari per ettaro e in altri casi la vendita unitaria per ettaro è pari a qualche decina di centesimi di euro). Anche per evitare rifiuti e ribellioni delle comunità rurali, alcuni contratti di cessione dei suoli prevedono, come compensazione, la costruzione di scuole o di infrastrutture per le popolazioni locali, in genere strade asfaltate utili soprattutto agli stessi investitori. Nonostante il “vantaggio sociale” che secondo alcuni osservatori deriverebbe ai Paesi in via di sviluppo dalla vendita delle loro terre, non c’è dubbio che la sottrazione dei campi per i contadini locali significa sempre povertà, insicurezza alimentare e perdita di identità e tradizioni colturali e culturali. I vantaggi economici e sociali delle transazioni sono infatti di breve durata, anche perché i proprietari terrieri stranieri praticano forme di agricoltura industriale che impoveriscono piuttosto che valorizzare i terreni.
Fino a che punto ritieni sia possibile cogliere un rapporto di causa-effetto tra land grabbing e flussi migratori forzati? Non è certo né eticamente accettabile, né razionale credere o sperare di poter continuare ad affamare le popolazioni che vivono nel “Sud del mondo” e al tempo stesso pretendere di impedire che fuggano dai loro territori derubati.
Pur non riconoscendo valido, perché riduttivo, l’automatismo che lega le ondate migratorie al fenomeno dell’accaparramento delle risorse naturali nei Paesi in via di sviluppo - troppe e tutte altrettanto gravi (guerre, disastri naturali, cambiamenti climatici, rivolte tribali e sociali, speculazioni finanziarie sui prezzi degli alimenti, fame cronica) sono infatti le ragioni che spingono ad affrontare viaggi senza speranza - c’è dunque un dovere che ci impone di non sottovalutare l’incidenza che land e water grabbing hanno nell’aggravare le condizioni di vita già assai precarie dei Paesi in via di sviluppo e nel far esplodere contrasti economico-sociali, locali e internazionali che certamente concorrono ad alimentare le ondate migratorie.
Non è affatto difficile infatti riconoscere che là dove il land grabbing ha agito con maggiore incidenza (Africa, America Latina, Asia Sud-orientale), ha avuto come immediate conseguenze fame, suicidi, ribellioni e trasferimenti di interi gruppi umani; né è perciò troppo complicato prevedere dove produrrà i maggiori danni non soltanto sul piano economico al settore primario ma, e soprattutto, sul piano sociale alle comunità umane, costrette ad allontanarsi dalle loro terre per l’impossibilità di produrre anche l’indispensabile all’autoconsumo.
D'altra parte le rotte dei migranti, che muovono dal continente africano verso i Paesi europei, seguono tracciati che ricalcano, nel verso opposto, le stesse direzioni dei capitali; quelli che dal vecchio continente vengono spostati nei Paesi africani per essere investiti nel land grabbing. Non è dunque difficile indagare su eventuali, possibili relazioni tra i due fenomeni: il risultato di tante transazioni fondiarie è l’allontanamento coatto dai territori d’origine di interi gruppi umani costretti ad emigrare.
Le tue ricerche e quelle dei tuoi colleghi approdano chiaramente alla richiesta di sostenere e incentivare l’agricoltura di tipo familiare, riscoprendo, tra l’altro, lndispensabile centralità della donna nell’ambito del settore primario. Perché? Quali conseguenze positive dovrebbero derivarne?
Secondo la FAO, che ha dedicato l’anno 2014 alla celebrazione dell’“agricoltura famigliare”, nel mondo le microaziende con superficie inferiore ai 2 ettari sono ben 500 milioni e garantiscono la sopravvivenza a circa 2 miliardi di persone; va da sé che queste ultime, se vengono private della terra da coltivare, saranno obbligate a cercare di sopravvivere altrove.
E' evidente che l’espropriazione delle terre dei villaggi, in nome di una presunta efficienza produttiva, reddituale e in taluni casi ipocritamente definita persino ecologica, affama le famiglie contadine spingendo i componenti più forti a cercare “fortuna” nei Paesi più ricchi e inducendo persino al suicidio molti agricoltori che hanno perduto i loro campi. Nella sola India dal 1995 al 2012 sono stati registrati ben 284.673 suicidi di agricoltori pari al 14% dei suicidi totali.
Esiste però una strada maestra per contrastare il land grabbing e per avviare il processo di valorizzazione delle potenzialità autoctone: è la riscoperta dell’indispensabile, capillare apporto dell’agricoltura famigliare e della donna al settore primario. Autorevoli studi della Banca Mondiale attestano che in molti paesi dell’Africa sub-Sahariana, la produzione alimentare potrebbe aumentare dal 10 al 20%, se le donne avessero meno ostacoli da superare e godessero degli stessi diritti fondiari degli uomini, in troppi casi, infatti, non possono né comprare, né vendere né ereditare la terra. Il prezioso contributo della donna al settore primario si impone tanto nelle economie di sussistenza agropastorali - dove spesso le donne assicurano più del 90% della produzione di cibo - quanto nei paesi a economia più evoluta, dove emerge nelle nicchie elitarie del mercato alimentare di qualità che ha riscoperto in loro le gelose custodi dei valori della tradizione, delle produzioni tipiche locali e della bellezza dei paesaggi rurali.
Le produzioni dell'agricoltura famigliare - in cui peraltro è più coinvolta la donna - cioè quelle autoctone, tradizionali e tipiche di qualità, proprio perché circoscritte nel tempo e nello spazio sono sì ottenute in quantità limitate, ma allo stesso tempo e per gli stessi motivi sono anche le più presenti e le più diffuse in ogni angolo del pianeta terra. Sostenere e incentivare l’agricoltura famigliare e l'apporto della donna al settore primario significa allora intervenire direttamente sulle capacità di autosostentamento delle comunità rurali, “radicandole” al bene terra e ai loro luoghi di origine e aiutandole:
1) a salvaguardare le risorse ambientali di cui dispongono;
2) a potenziare le capacità produttive locali;
3) a eliminare i rischi di carestie, fame e malnutrizione;
4) a permettere che ogni scelta migratoria sia libera e volontaria.
Ripartire dal rispetto e dal potenziamento di quell'agricoltura famigliare che capillarmente organizza e tutela gli spazi coltivati, assicurando sostenibilità all'ambiente e alle singole comunità umane autonomia e sopravvivenza, è la strada obbligata lungo la quale siamo tutti chiamati a incamminarci anche se, nelle azioni da mettere in atto, un ruolo di primo piano spetta e dovrà essere svolto dai governi nazionali e, soprattutto, dagli Organismi sovranazionali e dalla Cooperazione internazionale.
**Land grabbing e land concentration. I predatori della terra tra neocolonialismo e crisi migratorie
Autori e curatori
Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, Pierluigi De Felice
Contributi
Francesco Bruno, Francesca Krasna, Mario Lettieri, Paolo Raimondi, Vittoradolfo Tambone
Dati: pp. 166, 1a ristampa 2019, 1a edizione 2018
Edizioni Franco Angeli, Milano.