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Di fronte alla politica della massima pressione attuata da Washington nei confronti di Tehran, l'Unione europea non si sbilancia, restando ancorata a un approccio di tamponamento piuttosto che di contestazione in nome della giustizia internazionale; vale tuttavia su scala globale una tendenza simile a quella interna ai singoli paesi: le istituzioni tengono finché sono rappresentative di un determinato stato di cose
Il paradosso creato dalla condotta adottata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei confronti dell'Iran e in particolare dalla sua decisione, a maggio 2018, di uscire dal cosiddetto “accordo sul nucleare iraniano” (il Piano d'azione congiunto globale – JCPOA), rappresenta la sintesi di un percorso che i paesi del vecchio continente hanno scelto di imboccare a seguito del crollo dell'Unione sovietica. Il paradosso di un agglomerato di stati concepito in piena guerra fredda, con l'obiettivo (uno dei principali) di bloccare un'eventuale espansione a Ovest della sfera di influenza di Mosca. Una Comunità di difesa, poi Comunità economica, poi Unione, che né durante né alla fine della contrapposizione tra Mosca e Washington ha saputo produrre molto altro se non una gabbia economico-finanziaria, incapace peraltro di proteggere gli stati membri dalla crisi del 2008, e ha imposto ai paesi dalle economie più fragili misure che hanno aggravato le diseguaglianze e inasprito l'ingiustizia sociale senza promuovere la crescita. Ma soprattutto, un'Unione che finora non è stata in grado di elaborare una strategia geopolitica autonoma, né un approccio alle relazioni internazionali alternativo all'intraprendenza aggressiva degli USA. Dai Balcani all'Afghanistan, dall'Asia centrale alle attuali tensioni tra India e Pakistan, dalla Libia al Vicino e Medio Oriente, le disastrose conseguenze degli interventi umanitari e delle guerre preventive lascerebbero presupporre che, nell'attuale fase di transizione negli equilibri mondiali di potenza, più voci promuovono il dialogo e la cooperazione, più è possibile allontanare il rischio di conflitti armati e altre dinamiche destabilizzanti. Per recuperare il dialogo tra Tehran e la comunità internazionale, Bruxelles potrebbe fare molto, ma opta per un profilo basso. Anziché intensificare i tentativi di riportare Washington sulla via della distensione e del dialogo con l'Iran, l'Unione europea, attraverso la sua Alta rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, manifesta a settembre 2018 l'intenzione di mettere in piedi un meccanismo per preservare le sue relazioni commerciali con Tehran, aggirando le sanzioni statunitensi. Lo scorso gennaio, arriva quindi INSTEX, società per azioni semplificata fondata da Francia, Germania e Regno Unito.
A questo fondo comune di credito si è successivamente ispirato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che, durante un colloquio con il suo omologo iraniano Hassan Rouhani a febbraio 2019 a Sochi (Russia), ha dichiarato di voler creare un sistema simile, una società di progetto. Nelle intenzioni velleitariamente ottomanizzanti di Erdoğan, si tratterebbe di un meccanismo bilaterale di cooperazione commerciale, concepito come parte di un più ampio progetto di espansione economica e culturale (attraverso l'influenza sulle varie comunità islamiche) in Medio Oriente e in Asia Centrale. In realtà Ankara, che con Tehran e Mosca porta avanti il processo di pace in Siria, ha cambiato politica nei confronti della Repubblica islamica dal 2002, anno dell'ascesa al potere del partito Giustizia e sviluppo, cui appartiene Erdoğan. In un editoriale apparso di recente sul quotidiano turco filogovernativo Daily Sabah, si legge che già nell'agosto 2017 il capo di Stato maggiore iraniano, il generale maggiore Mohammed Bagheri, si è recato in visita ufficiale ad Ankara (la prima di un funzionario del suo rango in Turchia dal 1979) per discutere di una linea comune sulle aspirazioni autonomiste delle minoranze curde della regione, a partire dal rifiuto di riconoscere il risultato del referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno. Inoltre, sia la Turchia, sia l'Iran sono in contrasto con i vicini paesi arabi, Arabia Saudita in testa, e temono una riconfigurazione sfavorevole degli equilibri regionali a seguito delle cosiddette primavere arabe. Le forme di islam politico sostenute da Ankara e Tehran (nel primo caso l'islam politico sunnita dei Fratelli musulmani, nel secondo l'islam politico sciita elaborato dall'ayatollah Ruhollah Khomeini) sono fortemente osteggiate da quello che talvolta è stato definito l'asse saudita-egiziano-emiratino, che gode del sostegno di Israele e Stati Uniti: uno schieramento, che a partire dall'ascesa di Trump alla Casa bianca ha adottato una linea sempre più apertamente anti-iraniana, suscitando al contempo la diffidenza della Turchia, storico membro dell'Alleanza atlantica. Il presidente USA, infatti, è giunto a inserire i Pasdaran (organizzazione militare comandata direttamente dalla Guida della rivoluzione, che in Iran è anche capo di Stato) nella lista delle formazioni terroristiche. Dal sostegno alla causa palestinese, ai sospetti che l'Arabia Saudita e i suoi alleati stiano tentando di imporre la propria egemonia sulla regione, Ankara e Tehran si sono dunque spesso trovate ad avere punti in comune, anche se più di natura tattica che strategica.
Contestualmente, il cosiddetto asse saudita-egiziano-emiratino mostra qualche incrinatura. Anzitutto, da Riyadh giungono voci critiche riguardo la linea intransigente del principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS), al quale Ahmed bin Abdelaziz, fratello del re, ha apertamente dichiarato di opporsi nel caso in cui dovesse unirsi a un'alleanza militare con Gran Bretagna e Stati Uniti in funzione anti-iraniana. In secondo luogo, gli Emirati Arabi Uniti, guidati dal principe ereditario e ministro della Difesa Mohammed bin Zayed (MBZ), hanno dato di recente segnali di parziale allontanamento dall'alleanza d'acciaio con MBS. D'altronde, essendo il principale partner commerciale della Repubblica islamica nella regione, temono le ripercussioni economiche delle tensioni nell'area dello stretto di Hormuz. Eppure erano stati tra i principali fautori della decisione di Trump di uscire dal JCPOA, nonché il più stretto alleato di MBS nella strategia di contrasto a presunte mire espansionistiche di Tehran nella regione. Dopo aver preso parte alla coalizione militare a guida saudita che in Yemen combatte una guerra contro i ribelli sciiti Houthi, gli Emirati hanno annunciato lo scorso maggio di voler ritirare parte delle loro truppe da un conflitto che per MBZ è anche una sorta di “vetrina” per mostrare alla comunità internazionale un ciclopico arsenale militare. Una misura che ha seguito di poco le dichiarazioni del ministro degli Esteri emiratino Abdallah bin Zayed al-Nahyan a commento delle accuse di Trump all'Iran di essere responsabile degli attacchi alle petroliere nei pressi dello stretto di Hormuz. Al-Nahyan aveva infatti espresso cautela nel condividere tali accuse, sottolineando la necessità di prove “chiare, precise e scientifiche” in grado di convincere la comunità internazionale. Inoltre, aveva aggiunto che nessuno ha interesse a provocare un nuovo conflitto, poiché ciò di cui c'è bisogno nella regione è avere più stabilità e sviluppo.
A parte simili dissidi “interni” all'alleanza che fa riferimento all'amministrazione Trump, Washington si trova attualmente in una posizione diversa dallo status di superpotenza del tempo delle guerre umanitarie degli anni '90. Attualmente, infatti, sullo scacchiere mondiale, paesi come Russia e Cina insidiano il primato statunitense in diversi settori, dall'industria aerospaziale alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Ad esempio, Mosca, che ultimamente ha intensificato le sue relazioni economico-militari con la Turchia, ha invitato Washington e Tehran a evitare strategie pericolose per la stabilità della regione e a dirimere i loro conflitti attraverso “un dialogo civile”, come ha detto il ministro degli esteri russo Serghej Lavrov durante un incontro, a Mosca, con il suo omologo emiratino al-Nahyan (la stessa occasione in cui quest'ultimo ha manifestato diffidenza nei confronti delle accuse rivolte da Washington a Tehran), esortando a respingere politiche fatte di ultimatum, sanzioni e intimidazioni. Dal canto suo, la Cina, che ha espresso a più riprese il suo sostegno al JCPOA, starebbe mettendo in atto sistemi per aggirare le sanzioni USA contro l'Iran, continuando a importare petrolio iraniano. Intanto, l'Unione Europea ha perso un'importante occasione per promuovere una seria mediazione, un ruolo che ora sta tentando di assumere il Giappone del primo ministro Shinzo Abe.