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Nel dibattito politico italiano, le forze politiche di destra vengono spesso accusate di vincere cavalcando la paura dilagante, etichettata come “paura del diverso” o “xenofobia”; una trappola linguistica, in cui i partiti che si definiscono o sono identificati come “di sinistra” cadono da decenni
Dopo il crollo dell'Unione sovietica una delle principali preoccupazioni della sinistra italiana era dimostrare di non aver nulla a che fare con il “vecchio regime” e di essere pienamente in grado di “gestire la transizione”, ossia la globalizzazione e l'imposizione del neoliberismo in un ordine mondiale guidato dalla superpotenza statunitense.
Un atteggiamento inutilmente remissivo e suicida, che ha consentito lo sgretolamento progressivo delle conquiste sociali dei decenni precedenti rinunciando a portare avanti in modo serio la questione dell'equità e della giustizia sociale, e ha spianato la strada all'ascesa di Silvio Berlusconi. In altri termini, respingendo in blocco l'eredità comunista, ha anzitutto offerto il fianco alla propaganda dei partiti liberisti consentendo a questi di imporre all'immaginario collettivo, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, l'infondata identificazione concettuale tra uguaglianza (quindi anche equità e giustizia sociale) e Stato autoritario; di conseguenza, la sinistra ha perso il suo potere rappresentativo in una società in rapida evoluzione, in cui il “mercato del lavoro” disintegrava progressivamente la solidarietà di classe in una miriade di istanze corporative di matrice individualista.
Inoltre, poiché era tale potere concreto a fondare l'efficacia comunicativa dei suoi discorsi, la sinistra ha perso la capacità di attrarre chi dissentiva o era relegato ai margini del sistema di produzione capitalista, mentre la progressiva diffusione delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione gettava le basi di una nuova società di massa, iperconnessa e fluida, nella quale l'imposizione di un pensiero unico passa per il controllo della “rete” e per l'abilità nell'orientarla. Ciò avviene peraltro secondo un meccanismo simile alla tendenza delle grandi imprese multinazionali e degli organismi finanziari più potenti a imporre la propria egemonia sulle piccole realtà economiche e sui piccoli sistemi produttivi, magari di sussistenza. D'altronde, la nuova concezione imposta dalla retorica dominante della “democrazia” come culla del libero mercato ha favorito l'affermazione di un nuovo tipo di figura politica, strettamente legata al mondo dell'economia, adatta a guidare lo “stato-impresa”. Come sosteneva Pier Musso sul mensile francese Le Monde diplomatique, si tratta di un modello inaugurato da Berlusconi e portato avanti oggi da presidenti come quello statunitense Donald Trump o quello francese Emmanuel Macron.
Secondo una tendenza analoga a quella della sinistra italiana degli anni '90 e 2000, da qualche anno si assiste a un'insistenza, da parte di quanto resta delle forze politiche che si riconoscono o vengono classificate come di sinistra, su due temi: il timore per l'ascesa di forze politiche reazionarie e la necessità di opporsi a queste ultime superando i pregiudizi e la “paura del diverso”. Due argomenti, peraltro, non di per sé fuori luogo, ma il cui insistente sbandieramento su tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla tradizionale TV alle reti sociali, induce a fraintendere la radice del deterioramento del tessuto sociale nelle società europee attuali, in particolare in quelle dei paesi con economie più fragili, Italia e Grecia in primis.
In virtù di un tale meccanismo, si afferma paradossalmente la tesi degli avversari politici, quei “reazionari” ai quali si dice di opporsi: la vera paura che induce gli elettori a votare “a destra” (oppure a non votare) è la paura dell'altro e la conseguente chiusura nella paranoia securitaria. Così, se la rinuncia all'utopia dell'uguaglianza e della solidarietà per conquistare l'”elettorato moderato” tra gli anni '90 e gli anni 2000 portò la sinistra ai margini della scena politica italiana, ora la rinuncia a un sano materialismo dialettico che punti il dito sulla vera causa della “paura” rischia di farne sparire i pallidi epigoni. Si tratta di una strategia che con quella adottata negli anni '90 ha in comune, oltre alla vocazione suicida, la perdita di quel senso di responsabilità collettiva che caratterizzava i discorsi degli esponenti del fu Partito comunista italiano (PC). In altri termini, l'unico modo che quanto rimane della sinistra ha di sopravvivere è affermare con convinzione e precisione argomentativa che la cosiddetta “paura dei migranti” di cui si parla tanto sui media e sulle reti sociali, quella strumentalizzata e cavalcata in senso xenofobo dalle destre, non è in realtà che una manifestazione dell'incertezza e delle profonde disfunzioni che caratterizzano le società europee in questa fase storica, prime tra tutte il precariato, lo sfruttamento brutale del lavoro e l'impoverimento.
In particolare, per quel che concerne l'Italia, dove, secondo un'indagine Istat del 2017, oltre cinque milioni di persone vivono in povertà assoluta, ciò che davvero preoccupa non è l'arrivo di rifugiati e migranti economici, ma l'assenza di giustizia sociale.
Infatti, la forma di discriminazione che è alla base di tutte le altre è economica e da questa dipendono le altre forme, da quella di genere a quella etnica, da quella culturale a quella religiosa: parole come straniero o extra-comunitario hanno connotazioni diverse a seconda che riguardino un ambasciatore, un turista o un povero alla disperata ricerca di un “porto sicuro” o di un lavoro, magari di un “posto sicuro”. Basti citare un esempio recente: a nessuno è venuto in mente di classificare i due turisti statunitensi accusati dell'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega come extra-comunitari, né qualcuno ha invocato decreti sicurezza o espulsioni. Più in generale, un ambasciatore o un ricco uomo d'affari, in qualunque paese del mondo, saranno difficilmente oggetto di discriminazioni, insulti o aggressioni motivate da odio razziale. Si verifica quindi un fenomeno analogo a quello osservato in occasione dei dibattiti sull'imposizione di obblighi religiosi (ad esempio nei paesi islamici), che riguardano per lo più le classi dominati mentre nelle classi dominanti si riduce spesso a finzione propagandistica finalizzata alla conquista e al mantenimento del potere. Persino le discriminazioni di genere sono condizionate in varia misura, a seconda dei contesti, dall'appartenenza o meno alle classi dominanti. Conseguentemente, il fatto che il lavoro sia sempre più raramente fonte di dignità, di autonomia e di indipendenza oltre che di sostentamento materiale (eppure, non era forse questa una delle basi per l'affermazione della borghesia come classe dominante?) ha accentuato il feticismo delle merci di cui scriveva Karl Marx. In altri termini, la borghesia, una volta affermatasi come classe dominante, ha fatto proprio il sistema dei privilegi che fondava l'Ancien Régime, mutando il criterio della discriminazione: dalla nobiltà di sangue alla proprietà dei mezzi di produzione. Oggi, al feticismo delle merci si aggiunge quello della rete, dell'apparire, dell'attrarre seguaci (“followers”) e del potere di influenzare opinioni e tendenze: nell'attuale società di massa iperconnessa, l'uomo produce non solo (forse quasi non più) merci, ma soprattutto dati. Un prodotto che si vende e si acquista, quindi ha un suo specifico valore di scambio, che cresce in misura direttamente proporzionale alla sua pertinenza nel controllo delle collettività e degli individui e all'importanza che tale controllo ha nelle singole società. È il capitalismo della sorveglianza, messo in moto dal profitto generato dall'estrazione di dati che riguardano la quotidianità e spesso l'intimità dei singoli.
In un contesto simile, parole come trasparenza, legalità, sicurezza e integrazione hanno subito una risemantizzazione significativa del pensiero unico che si tende ad affermare in questa fase di transizione. Così la trasparenza, con il pretesto del diritto di informarsi su quanto incide sulle condizioni della collettività, diventa l'etichetta che nasconde lo strumento autoritario del controllo della vita privata degli individui sotto il paravento della garanzia di correttezza. Analogamente legalità viene spesso impiegato come carico di impliciti repressivi, come se il rispetto della legge fosse prerogativa di società guidate da poteri forti. Occorre ricordare, a tal proposito, che la mafia, intesa come criminalità organizzata non è solo un fatto culturale, ma è anche essenzialmente un ingranaggio economico funzionale a un sistema produttivo fondato sul profitto e sulla concentrazione progressiva delle ricchezze nelle mani di un'oligarchia finanziaria. Lo stesso si dica della sicurezza, che, malgrado il suo abuso nella retorica dilagante, è anzitutto sicurezza dei mezzi di sussistenza, sicurezza alimentare. Una sorte analoga è toccata alla parola integrazione, che non significa solo inclusione meccanica all'interno di un corpo sociale, ma è capacità di progredire facendo sentire tutte le componenti della società come autrici e partecipi di tale progresso, in misura equa. La giustizia sociale, pertanto, è l'unico strumento in grado di produrre integrazione, sicurezza, legalità e trasparenza, quest'ultima nel senso del diritto fondamentale di accedere al sapere e all'informazione, ma anche di sviluppare un pensiero critico indipendente. Basi essenziali per la costruzione di una responsabilità collettiva, fondata su un nuovo patto sociale.