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(Dis)ordini mondiali

By Carlotta Caldonazzo October 19, 2020 3188

La ripresa del conflitto armato in Nagorno Karabakh, da un lato come scontro etnico-religioso, dall’altro come guerra per procura, è uno dei numerosi segnali dello scricchiolamento dell’ordine mondiale affermatosi dopo il crollo sovietico, a sua volta erede, quanto alle sue radici profonde, degli assetti geopolitici risultanti dall’affermazione dello Stato nazione e dall’intraprendenza coloniale delle grandi potenze; imperialismo e colonialismo, cui le potenze emergenti extraeuropee del XIX-XX secolo, prima gli Stati Uniti, poi il Giappone, hanno finito per adattarsi, e che attualmente la Cina sembra voler rielaborare.

 

 

Gli scontri che dallo scorso 26 settembre infiammano il Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena in territorio azero, si inscrivono nel quadro delle guerre per procura in cui dalla fine del secolo scorso sono impegnate le potenze regionali e mondiali, in uno scacchiere geopolitico sempre più complicato dall’emergere di nuovi attori e dai mutamenti di strategia dei vecchi. A nulla sono serviti né il cessate il fuoco a scopo umanitario negoziato lo scorso 10 ottobre dalla Russia, che ha sempre cercato di mantenere una posizione equidistante dalle parti belligeranti, né la tregua umanitaria concordata una settimana dopo dai due diretti interessati, ovvero l’Armenia, che sostiene gli indipendentisti del Nagorno Karabakh pur non reclamandone l’annessione, e l’Azerbaigian, il cui territorio è occupato per circa il 14% da Erevan e che gode del supporto con ogni mezzo di Ankara. Di contro, alle reciproche accuse di violazioni, si è aggiunta, infatti, dagli inizi di ottobre, la notizia della presenza di mercenari reclutati in Siria e inviati a sostegno dell’esercito azero dalla Turchia. A tal proposito, vale la pena osservare che, a differenza dei conflitti siriano e libico, nei quali Ankara recluta mercenari ausiliari per gruppi e organizzazioni inquadrabili all’interno della galassia dell’islam politico e del radicalismo sunniti, dai Fratelli musulmani a formazioni vicine ad al-Qaeda e ai cartelli del jihad dell’autoproclamatosi Stato islamico (Daech), dunque in varia misura vicini alla linea del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, sul fronte caucasico, invece, vengono assoldati mercenari puri, che nulla hanno a che vedere con la galassia dell’islam sunnita, essendo la popolazione azera in maggioranza sciita duodecimana, la stessa religione ufficiale dell’attuale Iran. Un elemento interessante, considerando che molti di questi miliziani provengono dall’Afghanistan e dalla Cecenia, che assieme al Daghestan figurano tra i principali paesi di partenza dei combattenti stranieri (foreign fighters) di Daech. In altri termini, se mai fossero necessarie altre prove di come le religioni e i nazionalismi siano, in pace e in guerra, strumenti di dominio e di controllo sociale, il reclutamento di miliziani stranieri al soldo di compagnie pubblico-private (come la Wagner russa o la turca SADAT) illustra la complessità e il pericolo di questi conflitti (pertanto poco riducibili alla categoria mistificante di conflitti etnico-religiosi), sia nella destabilizzazione delle regioni teatro di scontri, sia nel dissesto del tessuto sociale dei paesi di provenienza dei mercenari. Infatti, dalla parte della cristiana Armenia, si trova anche la Repubblica islamica sciita dell'Iran, non solo in nome di importanti legami storico-culturali, ma anche a causa della diffidenza di Tehran verso i miti panturanici, che minacciano di risvegliare la numerosa e irrequieta minoranza azera che vive entro i suoi confini (su un totale di circa 83 milioni di abitanti, gli azeri iraniani sono 15 milioni).

Tra le fila avversarie, tra i principali partner di Baku nel settore della difesa, spicca, naturalmente, la Turchia (armi, droni, esperti militari per la formazione delle forze armate, inclusi i reparti speciali), che in virtù dell’accordo di Mosca, siglato nel 1921 dall’Unione sovietica e dai kemalisti turchi (quando il governo ancora formalmente in carica era quello del sultano Mehmet IV, che l’anno precedente aveva firmato l’umiliante trattato di Sèvres con le potenze vincitrici della prima guerra mondiale), è anche in qualche modo garante dell’integrità territoriale azera, soprattutto dell’exclave del Naxçıvan. Inoltre, Turchia e Azerbaigian si considerano, come dichiarato a più riprese dai rispettivi rappresentanti istituzionali, un popolo, due Stati (bir millet, iki devlet), sentimento rafforzato dalla linea al contempo panturanica e neo-ottomana di Erdoğan, benché questi due volti possano apparire contraddittori. Strumentalizzazioni ideologiche a parte, per Ankara l’Azerbaigian, oltre a essere un partner economico di rilievo (basti citare il gasdotto transanatolico TANAP, annunciato nel 2011 e inaugurato nel 2018, con una cerimonia cui hanno preso parte i presidenti di Turchia, Azerbaigian, Repubblica turca di Cipro Nord, Serbia e Ucraina), rappresenta un importante cuneo di proiezione strategica nel Caucaso e in l’Asia centrale, regioni considerate tradizionalmente come appartenenti alla sfera di influenza zarista, sovietica e in seguito russa. Per giunta, a differenza dell’Armenia, che ha nei confronti della Russia un rapporto di dipendenza economica e difensiva, l’Azerbaigian può trattare con Mosca da una posizione quasi paritetica, essendo i due paesi partner di rilievo nel settore energetico. La stessa integrazione del Nagorno Karabakh nei confini azeri, nel 1921, su iniziativa dell’allora Commissario del popolo per le nazionalità Josif Stalin, intendeva essere un messaggio di amicizia rivolto a Baku. Peraltro, la soluzione di riunire Armenia, Azerbaigian e Georgia nella Repubblica socialista sovietica di Transcaucasia mirava a creare un unico paese cuscinetto, esteso dal Mar Nero al Mar Caspio, entrambi mari strategici, fornendo contestualmente una soluzione di compromesso ai conflitti caucasici. Di qui i ripetuti tentativi di Mosca, sin dal primo esplodere del conflitto armato nel Nagorno Karabakh, nel 1991, di imporre il suo ruolo di mediatore, per indirizzare le rivalità verso la sfera diplomatica. In tal modo, la Russia gioca la carta del proprio sistema di alleanze, imperniato sull’Unione Economica Euro-asiatica (UEEA, istituita nel 2014 dopo la dissoluzione formale della Comunità Economica Euro-asiatica del 2000) e sull’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (OTSC, creata nel 2002 e che succede al Trattato di sicurezza collettiva del 1992, una sorta di NATO a guida russa). Tuttavia quest’ultima prevede che i paesi membri, che oltre alla Russia sono Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan, si impegnino ad assistersi in caso di minacce alla sovranità e all’integrità territoriale. Di conseguenza, se l’Armenia fosse attaccata direttamente, la Russia sarebbe obbligata all’intervento militare. Un’eventualità che Mosca intende escludere, preferendo, per ora, dimostrazioni muscolari, come le esercitazioni belliche congiunte con altri alleati dell’OTSC, oppure a solo, come nel caso delle manovre attorno al monte Elbrus, un chiaro messaggio a Georgia e Ucraina di poco precedente l’esplosione degli scontri armati nel Nagorno Karabakh. Anche perché, la Russia non ha interesse ad alimentare le tensioni con la Turchia, con la quale da un lato tenta un accordo geopolitico nel conflitto siriano, e dall’altro ha in ballo importanti progetti di cooperazione energetica, come il gasdotto TurkStream, annunciato nel 2014 e inaugurato lo scorso gennaio dai presidenti dei due paesi con un duplice obiettivo: anzitutto suddividere definitivamente le rispettive aree di influenza, il Mar Nero controllato essenzialmente dalla Russia (in particolare dopo l’occupazione della Crimea, nel 2014, e la successiva apertura del ponte sullo stretto di Kerch, che collega la penisola di Crimea alla Russia), gli stretti strategici del Bosforo e dei Dardanelli sotto la giurisdizione della Turchia, come già prevedeva la convenzione di Montreux, del 1936; in secondo luogo, garantire ai mercati occidentali forniture adeguate di gas senza passare per l’Ucraina, le cui crisi del gas con la Russia, nell’ultimo quindicennio, hanno messo a repentaglio a più riprese gli approvvigionamenti europei. 

 

Dunque, il rischio principale implicato dalla ripresa delle ostilità nel Nagorno Karabakh non è rappresentato solo dalla maggior disposizione alla proiezione militare delle due principali potenze regionali coinvolte, Russia e Turchia, ma anche (anzi, soprattutto) dall’intreccio tra questo conflitto e quelli mediorientali e nord-africani, che hanno come teatro Siria e Libia. Qui, infatti, gli interessi strategici di Mosca e di Ankara sono in conflitto, ma mentre nel caso della Siria le divergenze sono state appianate (almeno in parte e temporaneamente) dai negoziati per il processo di pace, in Libia i due paesi sembrano tuttora schierati su fronti avversari, ciascuno con le sue truppe mercenarie. Un intreccio simile a quello osservabile in un’altra regione ad alto potenziale conflittuale, i Balcani, dove, ad esempio, Ankara e Mosca sono rispettivamente il primo partner economico e il primo partner nella difesa della Serbia. In questo scenario, a differenza di quanto avviene in Libia, le divergenze strategiche appaiono poste in secondo piano dalla presenza di altri attori, in primis Germania e Stati Uniti, che negli anni '90 del secolo scorso avevano assunto il ruolo di potenze egemoni nella regione. L'eventualità che gli equilibri in gioco stiano mutando (o che siano già mutati) potrebbe essere letta in almeno due fatti. Primo, la recente parziale revisione dell'immagine della Serbia, a seguito degli arresti ordinati dalla Corte penale internazionale dell’Aja di alcuni ex dirigenti dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK), con l'accusa di crimini di guerra. Secondo, l'inclusione dell'area balcanica nel progetto cinese della Belt and Road Initiative (BRI), noto come le nuove vie della seta, che ai tre attori storici (Russia e Turchia dal XVIII secolo, USA dalla fine del XX), ne aggiunge un altro, la Cina. Le complesse convergenze tra Libia, Siria, Caucaso e Balcani sono peraltro favorite dal coinvolgimento di un’altra potenza regionale, silente ma determinata: Israele. Tel Aviv ha da tempo avviato con l’Azerbaigian una significativa alleanza nel settore della difesa, sia per vendere a Baku armi, droni e dispositivi elettronici, sia perché considera il territorio azero un punto di osservazione ideale per le operazioni di intelligence a danno dell’Iran. Un altro elemento comune rilevante a questa serie di conflitti, come a tutti quelli a sfondo etnico-confessionale scoppiati nel corso del XX secolo è il loro inquadramento in ordini mondiali che, pur cambiando quanto agli equilibri di forze, hanno sempre rivelato la loro matrice comune: le loro radici affondano nella commistione tra economia capitalista e culto del profitto da un lato, Stato-nazione e imperialismo colonialista dall’altro. Dalla fine del XIX secolo, infatti, gli ordini mondiali che si sono succeduti hanno sempre innescato disordini geopolitici forieri di guerre e instabilità, modellati sulla necessità di sacrificare sull’altare del profitto le regioni strategicamente più significative e le popolazioni che vi abitano. Gravi sono quindi le responsabilità delle grandi potenze nella fitta e intricata catena di guerre e devastazioni che hanno afflitto e tuttora affliggono vaste aree del pianeta, almeno a partire dal Congresso di Berlino (1878) e dalla Conferenza di Berlino (1885), nei quali, con la mediazione del cancelliere tedesco Otto von Bismarck, si definì la spartizione, rispettivamente, della regione balcanica e del continente africano. L'ordine mondiale che si strutturò in quegli anni fu caratterizzato infatti da un crescente militarismo e dalla corsa agli imperi coloniali, in un crescendo di rivalità culminato nella prima guerra mondiale. In realtà, risalendo ancora indietro nella storia, è possibile individuare una matrice analoga nell’assetto geopolitico stabilito al Congresso di Vienna, i cui principi erano volti essenzialmente a impedire che sul Vecchio continente emergesse una nuova potenza in grado di concepire e compiere le imprese della Francia napoleonica. Diverso, invece è il caso dell’assetto geopolitico planetario che nel XVIII secolo risultò da tre conflitti: la guerra dei sette anni (1756-1763, considerata il primo conflitto mondiale), la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. In quest'ultimo caso, infatti, il colonialismo e un sistema economico di tipo capitalista non si accompagnavano all'idolatria dello Stato-nazione, benché vi fosse la sempreverde pretesa di giustificare l'imperialismo e l'oppressione con teorie più o meno esplicitamente razziste.

Negli anni Dieci del secolo corrente, l'emergere della Cina come potenza anzitutto economica, può lasciare intendere che gli scricchiolii geopolitici dei numerosi conflitti in corso (tra guerre ed esplosioni violente delle tensioni sociali) preludano alla graduale strutturazione di un nuovo ordine mondiale, maggiormente ispirato ai princìpi della non ingerenza, del multilateralismo e della coesistenza pacifica. A titolo di esempio, si potrebbe citare il differente approccio all’inestricabile groviglio etnico, culturale e religioso che caratterizza l’Eurasia. Gli Stati Uniti, nel 1997, per contrastare la percezione crescente di una non meglio precisata minaccia russa, hanno promosso la fondazione di un’organizzazione nota con la sigla GUAM, acronimo dei paesi membri, Georgia, Ucraina, Azerbaigian, Moldavia. Dal 1999 al 2005 ne fece parte anche l’Uzbekistan, che con la Georgia si era ritirato dal Trattato di sicurezza collettiva (TSC) nel 1999, e che dal 2006 al 2012 tornò nell’OTSC, erede del TSC. Obiettivo di GUAM, ribattezzata nel 2006 Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo, è essenzialmente quello di ridurre la dipendenza economica dei paesi membri dalla Russia e facilitare un loro avvicinamento all’Unione europea e all’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Inoltre, la Rumsfeld Foundation, di proprietà dell'ex segretario di Stato alla Difesa USA, nel 2008 ha istituito il Central Asia-Caucasus Fellowship Program, ancora in funzione antirussa, e nel 2014, quando la Cina già si affacciava sullo scacchiere mondiale, il forum annuale CAMCA (Central Asia-Mongolia-Caucasus-Afghanistan). Di contro, Pechino ha posto le basi della sua vertiginosa ascesa economica negli anni ‘90 del secolo scorso, epoca della supremazia indiscussa della superpotenza USA, ossia del capitalismo globalizzato. In Asia, in particolare, Pechino ha assistito da spettatrice ai conflitti e al caos in cui sono sprofondate le ex repubbliche sovietiche centro-asiatiche, e al successivo tentativo di reazione della Russia (con l’istituzione dell’OTSC), creandosi un proprio embrionale sistema di alleanze: l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), istituita nel 2001, immediatamente prima degli attentati dell’11 settembre, dai presidenti di Cina, Russia, Kazakhstan, Tagikistan e Uzbekistan. Questo organismo intergovernativo, che ha sostituito il Gruppo di Shanghai (1996), ha avuto sin dall’inizio come obiettivo primario quello di garantire una qualche forma di sicurezza collettiva: in primo luogo, stabilizzando le frontiere dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica; in seguito, estendendo i campi di cooperazione alla lotta ai traffici illeciti, al separatismo e al terrorismo di matrice islamica. Pechino, negli anni, ha tentato peraltro di coinvolgere altri attori regionali e mondiali: mentre Giappone e Stati Uniti hanno declinato l’invito all’adesione, India e Pakistan vi sono stati ufficialmente ammessi nel 2017. L’organizzazione conta inoltre quattro paesi osservatori (Mongolia, Iran, Afghanistan e Bielorussia) e sei partner (Sri Lanka, Turchia, Cambogia, Nepal, Armenia e Azerbaigian). 

 

Malgrado le recenti collisioni indo-pakistane e indo-cinesi, l’OCS fornisce probabilmente un’immagine della visione cinese dell’ordine mondiale, in parte realizzata nell’aumento esponenziale del peso di Pechino nelle agenzie dell’Organizzazione delle nazioni unite (ONU). A livello economico, la Cina ha già saputo affermarsi, nonostante le rimostranze dell’attuale amministrazione statunitense, adattandosi alle regole dell’economia di mercato globalizzata, accettandone i sacrifici e persino la componente (ecologicamente e umanamente) distruttiva. Dovremo quindi attenderci che in conflitti come quello che attualmente insanguina il Nagorno Karabakh, laddove il Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e l’OTSC hanno fallito, riusciranno le nuove vie della seta?

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Last modified on Monday, 19 October 2020 23:20
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