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La situazione in Ukraina ai confini con la Russia diventa sempre più incandescente. Per il dottor Tiberio Graziani, presidente del think tank italiano Vision & Global Trends siamo in una situazione di stallo. Le posizioni del campo occidentale cioè USA, UE e NATO, e della Federazione Russa sono, al momento, molto lontane e inconciliabili. Gli approcci sono troppo diversi. In alcuni casi anche molto ambigui, permeati da una retorica che non facilita il dialogo. La Nato, ad esempio, attraverso le parole del suo massimo rappresentante, il Segretario generale Stoltenberg, ritiene che la stagione delle sfere di influenza tra le Grandi Potenze sia finita. La tesi per il dottor Graziani è un atteggiamento antistorico e fuorviante ed è smentito dai fatti e dallo stesso modus operandi della Nato che, dopo lo scioglimento dell'URSS, non ha mai smesso di espandersi ad Est creando seri problemi non solo per la stabilità regionale ma anche mondiale. Non dobbiamo dimenticare che esiste - storicamente - una strategia a lungo termine che l'Occidente, nelle sue diverse espressioni storiche, ha cercato di attuare contro lo spazio che oggi in gran parte appartiene alla Federazione Russa. Ricordiamo, ad esempio, i tentativi di Napoleone e Hitler. Questi tentativi, specifica Graziani, facevano però parte di una dinamica storica intraeuropea, cioè di un confronto militare e politico tra le nazioni dell'Europa continentale: la Francia rivoluzionaria di Napoleone contro la Russia degli zar e la Germania nazionalsocialista di Hitler contro quella di Stalin, l’Unione Sovietica. Nel caso dell'aggressione tedesca, solo l'intervento della Gran Bretagna e poi degli Stati Uniti (cioè di due potenze globaliste) ha reso lo scontro tra Berlino e Mosca uno scontro mondiale.
Il "nuovo" cosiddetto Occidente, quello emerso dalla seconda guerra mondiale - con a capo gli USA - dal punto di vista dell'analisi geopolitica utilizza lo spazio dell'Unione Europea come una vera testa di ponte lanciata contro la Federazione Russa per egemonizzare - militarmente (con la scusa di un'interpretazione unilaterale e particolare della sicurezza collettiva regionale e globale), politicamente (con la diffusione e l'"esportazione" di valori democratici, ma interpretati esclusivamente in versione liberaldemocratica), economicamente (secondo i dettami iperliberali del mercato globale) - l'intera massa eurasiatica. Nell'ambito di tale prospettiva geostrategica, il cosiddetto Occidente (principalmente USA e Gran Bretagna) assegna all'Ucraina un ruolo di utile pedina per stimolare e testare la resistenza di Mosca. Appare evidente, data la posta in gioco - ovvero il controllo della massa eurasiatica da parte del cosiddetto Occidente - che a Washington come a Londra non importi molto delle conseguenze che ricadrebbero sulla popolazione ucraina in particolare e sulle popolazioni dell'Europa continentale nel suo insieme. Nonostante ciò il dottor Graziani nonostante i fallimenti delle ultime settimane, crede che le strade diplomatiche debbano essere ancora perseguite.
La campagna antirussa da parte occidentale fa parte di quella serie di misure di accompagnamento che sostengono l'attuale pratica geopolitica volta a contenere e limitare la Federazione Russa. L'obiettivo è quello di creare un vasto clima psicologico in campo occidentale in grado di giustificare azioni contro la Russia, siano esse di natura giuridico-legale (come, ad esempio, le varie proposte di legge recentemente avanzate da alcuni senatori statunitensi contro Putin - Putin Accountability Act), sia militare (finanziamento degli armamenti per l'Ucraina) che politico. Ovviamente più cresce un clima generalizzato antirusso in Occidente, più è probabile un isolamento della Federazione Russa, più è probabile per Graziani uno scontro.
La crisi politica kazaka è un tipico esempio di come una crisi sociale e politica nazionale, sorta principalmente per cause interne, possa trasformarsi in una crisi regionale e persino globale, a causa della posizione geografica del paese. Per quanto riguarda le cause interne, prosegue il presidente del think tank italiano, queste sono di tre ordini diversi: sociale, economica e politica. Il Kazakistan, negli ultimi trent'anni, ha subito una trasformazione economica e sociale rapida e molto profonda che, se da un lato ha favorito lo sviluppo dell'intera nazione e creato le condizioni per la crescita di una classe media, ha tuttavia, come accade nel caso di trasformazioni di tale portata, ha impoverito ed emarginato alcuni ceti sociali creando un persistente malessere in alcuni strati della popolazione. Parallelamente alla trasformazione economica, c'è stata anche una trasformazione di natura politica, incentrata sulla costruzione dello Stato nazionale. Ciò ha portato a una redistribuzione del potere che ha ovviamente generato anche speranze di una maggiore partecipazione alle decisioni politiche delle classi emergenti, non sempre soddisfatte. Infine, negli ultimi anni l'avvio di riforme, in particolare di quelle volte a contrastare la corruzione, ha contribuito a marginalizzare alcuni gruppi di potere, peraltro costituiti secondo logiche tribali, se non proprio mafiose. L'insieme di questi problemi è stato il terreno su cui negli anni si sono sviluppate alcune reazioni, sfociate anche in manifestazioni violente. Questa fragilità del Kazakistan, resa ancora maggiore dalla presenza delle diverse etnie e confessioni religiose presenti nel Paese, è stata tuttavia tenuta sotto controllo grazie a un fermo indirizzo politico messo in atto negli anni dal presidente Nazarbayev e dal suo successore Tokayev e dal perseguimento di un atteggiamento multidirezionale in politica estera. La recente crisi, però, oltre a mettere in luce i problemi legati alla modernizzazione, ha anche messo in luce il fallimento di alcune aperture liberal-democratiche avviate da Nur-Sultan. L’ultima crisi di gennaio, contrariamente a quelle avvenute in passato, ha subito presentato caratteristiche particolari che hanno fatto pensare a una direzione esterna della rivolta. E qui entrano in gioco le cause e gli interessi esterni. Il crollo dell'Asia centrale è stato ipotizzato dallo stratega e politologo statunitense Zbigniew Brzezinski, il teorico degli archi dell'instabilità. Ma il crollo auspicato non è finora avvenuto e ciò grazie alla politica di equilibrio che Kazakistan e Uzbekistan hanno stabilito negli ultimi trent'anni con Russia e Cina. Il pericolo di un prolungamento del conflitto interno originato dai moti di gennaio finalizzato al cambio di regime e all'ingovernabilità del Paese con la conseguenza di generare una grave e catastrofica crisi regionale, vista la delicata posizione geografica del Kazakistan, ha spinto il presidente Tokayev a chiedere l'intervento del CSTO (Organizzazione del Trattato di sicurezza Collettivo di cui fanno parte Armenia, Azerbaigian, Biellorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Russia, Tagikistan e Uzbekistan).
Tutti gli elementi fin qui emersi in merito a potenziali accordi tra le parti coinvolte non descrivono oggettivamente un quadro ottimistico, né inducono a pensare a una soluzione a breve termine. Per Graziani siamo entrati in una nuova stagione di relazioni tra il cosiddetto Occidente e la Federazione Russa a cui dovremo abituarci. Molto probabilmente i colloqui diplomatici, se dureranno, daranno più tempo a chi in Europa vede più vantaggi che svantaggi nelle relazioni con la Russia.