L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Oltre l'ondata di sentimenti e risentimento, l'omicidio del giovane ricercatore italiano riporta in superficie vecchie perplessità sulla leggerezza con cui gran parte dei paesi occidentali, potenti o meno, stabilisce rapporti economici, quindi anche diplomatici, con paesi i cui governi vengono costantemente richiamati dalle organizzazioni umanitarie per le sistematiche violazioni dei diritti umani. Basti citare le recenti visite ufficiali della cancelliera tedesca Angela Merkel in Turchia, o l'accordo tra Washington e Ankara dello scorso anno. Trattative in entrambi i casi motivate dall'esigenza di cooperare con la Turchia sia sulla questione migranti e rifugiati, che nella lotta ai cartelli del jihad dell'autoproclamatosi “Stato islamico” (conosciuti come Daech, ISIS o IS). Ovvie le considerazioni sul ruolo strategico della Turchia, dove, peraltro, lo scorso novembre si è tenuta l'ultima riunione del G20, nella città di Antalya, ma è alquanto discutibile l'atteggiamento del governo turco e del suo presidente Recep Tayyip Erdoğan in materia di libertà di stampa e di espressione e sulla questione curda: giornalisti in carcere, testate chiuse, interruzione unilaterale dei colloqui di pace con la guida del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan, mesi di militarizzazione e devastazione delle regioni sud-orientali della Turchia.
Come se non bastasse, il Segretario di Stato statunitense John Kerry ha avanzato l'ipotesi di un intervento di terra in Siria, nel caso in cui il presidente siriano Bashar al-Assad “non terrà fede agli impegni presi e l'Iran e la Russia non lo obbligheranno a fare quanto promesso”. Un'ulteriore legittimazione, per quanto implicita, della linea politica (interna e internazionale) di Ankara. Nessuna obiezione ufficiale finora sui bombardamenti dell'artiglieria turca nel Nord della Siria, contro postazioni delle Unità di difesa popolare (YPG, che fanno riferimento al Partito di unione democratica – PYD –, vicino al PKK turco). Nessun dubbio della comunità internazionale sulle motivazioni ufficiali fornite dalle autorità di Ankara, che hanno presentato queste operazioni come “rappresaglia”. Nei giorni scorsi, infatti, secondo fonti militari turche, unità dell'esercito governativo siriano avrebbero sparato mortai nella provincia turca di Hatay, vicino a Çalıboğazı, mentre dalla città siriana di Maranas, controllata dalle PYD, sono stati sparati colpi contro la regione turca di Akçağbağlar. Una versione che sembra essere stata accettata senza battere ciglio dalla comunità internazionale. Similmente, Nazioni unite, Alleanza atlantica (NATO), Unione europea non hanno neppure tentato di mettere in discussione le intenzioni di Ankara di inviare truppe di terra in Siria (annunciata in un momento in cui le PYG stanno guadagnando terreno a scapito di Daech), né hanno tentato di dissuadere l'Arabia Saudita, che ha inviato jet nella base turca di İncirlik e con Ankara è pronta a un intervento di terra.
Proprio l'Arabia Saudita, un altro paese che si può a buon diritto annoverare tra gli interlocutori discutibili dei governi occidentali. Basti ricordare lo scandalo che ha destato per l'arresto, la detenzione e la condanna del blogger Raif Badawi a dieci anni di carcere e mille frustate (per aver fondato il forum Free Saudi Liberals e aver criticato alcuni capi religiosi), o per l'uccisione di 47 condannati a morte, tra i quali l'imam sciita Nimr al-Nimr. Alla luce dei repentini cambiamenti di rotta diplomatici attuati dalle grandi potenze (e dai loro satelliti), ci si potrebbe dunque domandare se la dinastia saudita o il Partito giustizia e sviluppo (AKP) turco di Erdoğan faranno un giorno la fine di altri ex-alleati dell'Occidente, come il fu colonnello libico Muammar Gheddafi (ucciso anche grazie all'intervento internazionale in Libia) o il fu presidente iracheno Saddam Hussein (condannato a morte dal “nuovo” Iraq nato dopo l'invasione iniziata nel 2003, ma un tempo sostenuto da Stati Uniti e Nato, durante la guerra con l'Iran). Ma soprattutto, ci si potrebbe interrogare su quante guerre e quanti disastri politici e umanitari continuerà a produrre questo atteggiamento, opportunista ma anche miope, prima che ci si decida a cambiare definitivamente sistema. O almeno a chiedere alla cittadinanza se preferisca “donare” 3 miliardi di euro alla Turchia perché fermi i profughi diretti in Europa, oppure concedere respiro all'economia della Grecia, dissestata da decenni di governi corrotti, peraltro legittimati dalla stessa Unione Europea.