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Turchia: (sur)Realpolitik

By Carlotta Caldonazzo May 08, 2016 10551

Le dimissioni di Ahmet Davutoğlu dalla dirigenza del partito e dalla carica di primo ministro aprono scenari preoccupanti sull'eccessivo accentramento dei poteri nelle mani del presidente Recep Tayyip Erdoğan

Dopo quattordici anni di vita politica e due da primo ministro e presidente del partito Giustizia e Sviluppo (AKP, attualmente al governo), Ahmet Davutoğlu si è dimesso. Una decisione presa, secondo il quotidiano turco Hürriyet Daily News, a causa di contrasti sorti con Erdoğan su diverse questioni, tra le quali il giro di vite sulla libertà di stampa e il sistema presidenziale. Sta di fatto che per le due principali forze di opposizione, il Partito repubblicano del popolo (CHP) e il Partito democratico dei popoli (HDP), le dimissioni di Davutoğlu sono in realtà un “colpo di stato” di Erdoğan. Di fronte a questo nuovo sviluppo, che riduce al minimo la dialettica interna al governo di Ankara, l'Unione Europea è apparsa preoccupata, soprattutto in merito al recente accordo sulla gestione della questione dei migranti e rifugiati. Se Bruxelles, priva di strategie per affrontarla, conta sulla Turchia è proprio per l'immagine di stabilità che Erdoğan ne aveva dato, a partire dalla vittoria alle elezioni parlamentari dello scorso novembre. Si tratta dunque di una preoccupazione proporzionale alla fiducia nell'ennesimo “uomo forte”, che rischia ora di fare la fine degli altri “uomini forti” cui le grandi potenze si sono affidate nei momenti di crisi geopolitica.

Davutoğlu si era distinto nell'ambiente accademico per la sua interessante visione di profondità strategica. La Turchia, secondo lui, avrebbe dovuto approfittare della sua posizione strategica e della sua identità di democrazia musulmana ma laica per affermarsi come ponte tra Europa, Caucaso e Medio Oriente. Tre regioni che a livello geopolitico, sia pure su diversi livelli e per ragioni differenti, vivono una fase di profonda crisi. Una prospettiva coraggiosa, che, in teoria, avrebbe permesso alla Turchia di riaffermarsi come grande potenza regionale, ricomponendo contraddizioni interne (come la questione curda) e conflitti esterni (come la questione armena) in un delicato equilibrio di forze. Per questo, nel 2010 la rivista statunitense Foreign Policy lo aveva classificato al settimo posto tra i pensatori politici mondiali. E per la stessa ragione, Davutoğlu avrebbe potuto essere un personaggio chiave per una soluzione diplomatica del conflitto siriano, tanto più urgente oggi, se è vero quanto affermato dalla stessa Foreign Policy qualche giorno fa, a proposito delle intenzioni del Fronte al-Nusra (ramo siriano di al-Qaeda, sostenuto da Ankara per abbattere il regime del presidente Bashar al-Asad) di fondare un emirato nel Nord della Siria, “alternativo” al califfato dei cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico.

La prima divergenza tra Erdoğan e Davutoğlu è emersa lo scorso anno, quando l'allora primo ministro ha sostenuto la decisione di Hakan Fidan, capo dell'intelligence turca (MİT), di dimettersi dalla sua carica per candidarsi alle elezioni parlamentari che si sarebbero tenute il 7 giugno: le stesse che hanno segnato la perdita della maggioranza assoluta dell'AKP e che, per il fallimento non proprio casuale delle trattative per un governo di coalizione, sono state ripetute il 1 novembre. In quell'occasione, Erdoğan ha praticamente costretto Fidan a mantenere il suo incarico nel MİT, come uomo chiave per la sicurezza interna e per combattere il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), con il quale il processo di pace è stato interrotto. A proposito di queste controverse elezioni, Davutoğlu si è mostrato più aperto al confronto con le altre forze politiche, preferendo, al contrario di Erdoğan, un governo di coalizione a nuove elezioni. Inoltre, secondo indiscrezioni, le sue posizioni sul sistema presidenziale voluto da Erdoğan erano più moderate, come dimostrerebbe la sua intenzione di portare il dibattito in parlamento. Similmente, l'ex primo ministro turco era apparso più flessibile di Erdoğan sui colloqui di pace con il PKK, mentre il presidente ha colto tutte le opportunità per risolvere il conflitto manu militari. Davutoğlu ha mostrato inoltre una certa freddezza sulla proposta di Erdoğan di ampliare la definizione di terrorismo nel codice penale turco, che peraltro già prevede “reati” come insulto al presidente o denigrazione dell'identità turca.

Per questo le opposizioni temono ora che le restrizioni alla libertà di stampa aumentino sensibilmente, in una situazione già difficile per i giornalisti turchi. Ne è un esempio il caso di Erdem Gül e Can Dündar, rispettivamente direttore del quotidiano turco di opposizione Cumhuriyet e caporedattore della sede di Ankara. Entrambi sono stati condannati lo scorso sei maggio a cinque anni di prigione per aver rivelato segreti di Stato e fatto propaganda per un'organizzazione terroristica, per la pubblicazione di un reportage su un traffico di armi dalla Turchia alla Siria attraverso automezzi dell'intelligence turca. In occasione del loro arresto, mentre Davutoğlu aveva detto di attendere il verdetto del tribunale, Erdoğan è stato sempre sicuro della loro colpevolezza, arrivando a minacciare Dündar di fargliela pagare cara. Lo stesso giorno della sentenza, di fronte al tribunale di Istanbul, Dündar è scampato illeso a un attentato, nel quale un uomo, in seguito arrestato, ha tentato invano di sparargli a una gamba. I primi a intervenire sono stati la moglie e il legale del giornalista (membro del partito CHP). Dündar ha poi dichiarato in aula di aver subito due tentativi di assassinio, uno davanti al tribunale, il secondo al processo, per aver fatto giornalismo. Il suo assalitore, intanto, afferma di aver agito individualmente, “per dargli una lezione”: “se avessi voluto ucciderlo lo avrei fatto, gli ho sparato a una gamba per spaventarlo”. Chissà se ora l'Unione Europea rivedrà la sua definizione della Turchia come “paese sicuro”, indispensabile per portare avanti l'accordo sui rifugiati...

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Last modified on Monday, 09 May 2016 11:14
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