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Giustizia sociale o barbarie

By Carlotta Caldonazzo July 05, 2016 10433

Le affermazioni del pentito Nuredin Atta Wehabrebi a proposito della rete di trafficanti di uomini e organi umani sono l'ennesimo sintomo delle difficoltà nella gestione dei fenomeni migratori causati dai conflitti e, in generale, del disagio sociale

L'inchiesta che ha portato al fermo di 38 persone in diverse città italiane è partita dalle dichiarazioni di un pentito. Si tratta di Nuredin Atta Wehabrebi, di nazionalità eritrea, primo ex-trafficante collaboratore di giustizia, arrestato nel 2014 e condannato lo scorso febbraio a 5 anni di carcere. Avrebbe deciso di uscire dall'organizzazione e rivelarne struttura e movimenti “perché ci sono stati troppi morti in mare”. Le sue affermazioni, considerate attendibili, hanno consentito di ricostruire dettagliatamente le attività di una rete criminale, con “cellule” in Africa Settentrionale e in Italia e la “base finanziaria” a Roma, in una profumeria di via Volturno, il cui gestore, Solomon, consegnava ogni sabato tra i 280mila e i 300mila euro a un complice, Gebremeskel Mikiele. Solomon avrebbe avuto un ruolo importante nei trasferimenti di denaro dai parenti dei migranti (attraverso il sistema Hawala) alla rete criminale, aiutato da un fratello in Israele, da un conoscente a Dubai, e, sempre secondo Wehabrebi, da italiani in viaggio a Dubai e in Israele. La polizia italiana sta ora cercando di identificare gli imprenditori italiani coinvolti nel traffico, mentre i fogli su cui venivano appuntate le “transazioni finanziarie”, sequestrati il 13 giugno, sono ancora oggetto di analisi. Diversi dunque i paesi in cui questa rete operava, compresa la Libia, base degli scafisti che dovevano portare i migranti in Italia, ed Egitto. Qui, ha dichiarato Wehabrebi, la “cellula egiziana” della rete di trafficanti portava i migranti che non potevano pagare il viaggio, ai quali venivano espiantati gli organi che in seguito venivano rivenduti per 15mila dollari circa.

Commerci illegali come quello di organi umani, di migranti, spesso minori non accompagnati, o di donne trovano terreno fertile in zone e tempi di crisi e conflitti, ossia quando l'emergenza economica pone in secondo piano la considerazione di sé come soggetto di diritti. Come di recente ha osservato Viviana Valastro di Save the Children molti ragazzi, in particolare egiziani, che tentano di approdare in Europa via mare, appena arrivano hanno l'urgenza di ripagare i debiti contratti con i trafficanti e per loro “è difficile capire il concetto di sfruttamento”: “a casa loro lavorano e sono pagati anche meno, per loro non è un problema lavorare per pochi soldi... è molto difficile far loro accettare che l'istruzione e la formazione potrebbero offrire una vita migliore”. Anche perché, nell'Europa colpita dalla crisi finanziaria, ciò non è sempre vero. Si aggiungono così alle sacche di disagio sociale, facile preda della criminalità organizzata. Nel giugno 2015, ad esempio, le autorità italiane hanno scoperto un giro di prostituzione minorile e traffico di stupefacenti nei pressi della stazione Termini di Roma. Uno dei ragazzi coinvolti, molti dei quali egiziani (migliaia sono i bambini egiziani dichiarati scomparsi all'arrivo in Italia), intervistato dal quotidiano italiano La Repubblica, ha spiegato: “i nostri genitori hanno speso tanto per mandarci qui e dobbiamo ripagarli”. Secondo le stime dell'Europol, i minori non accompagnati scomparsi in Europa nel 2015 sono circa diecimila. Ma non sono i soli a finire nelle maglie dello sfruttamento.

Nel 2012, il quotidiano statunitense New York Times (http://www.nytimes.com/2012/06/01/world/europe/european-crisis-bolsters-illegal-sales-of-body-parts.html?_r=0) ha pubblicato un'inchiesta in cui si rilevava un aumento del mercato illegale di organi umani nell'Europa colpita dalla crisi finanziaria. Persone in difficoltà economica e senza molte speranze di uscirne, soprattutto nei paesi balcanici usciti da conflitti (Serbia, Kosovo) e in Europa orientale (come la Russia e, in generale, i paesi dell'ex blocco sovietico), ma anche in Grecia, Spagna e Italia (si veda in proposito http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/cronaca/traffico-organi/traffico-organi/traffico-organi.html), cercano di vendere reni, polmoni, midollo osseo o cornee attraverso internet, alcuni ingaggiando addirittura investigatori privati alla ricerca di “acquirenti”. Simili “episodi”, in precedenza, erano stati documentati in molti paesi asiatici, come India, Nepal, Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, Cambogia, Vietnam, Laos, Filippine e Cina, ma anche in Brasile: tutti paesi in cui il mercato della prostituzione, in particolare minorile, fa prosperare le finanze delle reti criminali. Secondo il New York Times, in Europa dell'Est il mercato di esseri umani e organi si sarebbe sviluppato nel periodo successivo alla dissoluzione dell'Unione Sovietica.

Lo sfruttamento di esseri umani ai fini del profitto non riguarda solo gli ultimi difficili decenni di riorganizzazione dell'assetto geopolitico (quindi anche economico) mondiale. Si pensi alle attestazioni letterarie, tra gli ultimi decenni dell'800 e l'inizio del '900, della dura vita dei carusi (Rosso Malpelo di Giovani Verga; Ciaula scopre la luna di Luigi Pirandello), o alle poesie di William Blake sulle sofferenze dei bambini spazzacamini nella Londra di fine '700. Periodi di transizione, di “rivoluzioni industriali”, durante i quali cambiamenti nei meccanismi di produzione hanno avuto drammatici impatti sociali. A proposito di crisi legate a fenomeni migratori, si può citare Ammiano Marcellino, storico romano del IV secolo d.C., che ha dedicato un celebre passo dei suoi Rerum gestarum libri al “turpe commercio” organizzato dai due generali romani Lupicino e Massimo, ai danni dei rifugiati goti che, a seguito delle scorrerie degli Unni, avevano ottenuto asilo dall'imperatore Valente. Anche i profughi di allora, stremati dalla fame, vendevano schiavi (spesso bambini) in cambio di carne di cane. Come oggi, corruzione e crimine proliferavano in contesti di crisi sociale ed economica. Come allora, per debellarle, o almeno ridurne la portata, si potrebbe uscire dall'ottica dei “provvedimenti di emergenza” e affrontare il problema del disagio sociale (che non ha nazionalità) in una prospettiva di giustizia ed equilibrio.

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