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Sudan del Sud: divide et...

By Carlotta Caldonazzo July 14, 2016 10570

Nonostante i violenti scontri che si sono verificati nei giorni scorsi nella capitale Juba, il Sudan del Sud festeggia il suo quinto anniversario dall'indipendenza; cinque anni che il più giovane stato del mondo ha trascorso tra conflitti pressoché continui, interni e con il vicino Sudan


Alla vigilia del quinto anniversario dell'indipendenza del Sudan del Sud, l'esercito governativo fedele al presidente Salva Kiir e le truppe che fanno capo al vicepresidente Riek Machar si sono scontrati nella capitale Juba e nelle zone limitrofe. Assaltate a colpi di arma da fuoco e di artiglieria anche le basi della missione delle Nazioni Unite, la MINUSS, a Juba e Malakal. Secondo le stime ufficiali, i morti sono almeno trecento, tra i quali due caschi blu cinesi, e gli sfollati oltre 42mila, molti rifugiati nei campi allestiti all'interno delle basi ONU. È fallito dunque l'accordo siglato ad aprile, che aveva consentito a Machar di tornare a Juba e reinsediarsi a tutti gli effetti nella sua carica di vicepresidente, dopo tre anni di esilio forzato, con l'obiettivo di creare un esecutivo di unità nazionale che ponesse fine ai conflitti tra i due principali gruppi etnici del paese, i Dinka (cui appartiene Kiir) e i Nuer (cui appartiene Machar e che sono meno ostili al governo di Khartoum). Una guerra civile su base etnica e tribale, strumentalizzata dalle due parti in lotta per il potere al vertice del governo e del Movimento di liberazione del popolo sudanese (SPLM, partito di governo). La posta in gioco è il controllo di un paese ricco di petrolio e di terre rese fertili dai corsi d'acqua del sistema del Nilo.

Le tensioni tra Kiir e Machar erano emerse poco dopo l'indipendenza, esplodendo poi nel 2013, quando il vicepresidente mise in dubbio il suo sostegno alla guida di Kiir del partito e del governo alle elezioni presidenziali previste nel 2015 (poi rinviate). Kiir aveva dapprima ridotto i poteri del vicepresidente, poi aveva sospeso dal loro incarico Machar, accusato di preparare un golpe, e tutti i ministri del governo (tra i quali Pagan Amum, uno dei principali negoziatori dell'indipendenza, rimosso contestualmente dal suo incarico di segretario generale del SPLM). Anche allora la lotta per il potere era sfociata in violenti scontri tra Dinka e Nuer, durati dal 2013 al 2015, mentre la situazione era resa ancor più grave dalle dispute territoriali con Khartoum, dalle cui raffinerie Juba dipende ancora. Pur essendo un territorio ricco di petrolio, in Sudan del Sud non ci sono raffinerie, quindi l'oro nero deve essere inviato in Sudan prima di essere commercializzato (anche per questo motivo gli accordi di pace del 2005 prevedevano una spartizione equa dei proventi del petrolio). Inoltre, le casse sud-sudanesi sono state prosciugate dalla decisione di Kiir di pagare l'intervento delle truppe ugandesi in suo sostegno durante la guerra civile del 2013-2015. L'accordo di agosto del 2015, che a quella guerra avrebbe dovuto porre fine, ha portato intanto alla formazione di un governo di transizione, restituendo la carica di vicepresidente a Machar, anche se il suo effettivo ritorno a Juba è avvenuto solo ad aprile di quest'anno. Il trattato prevedeva inoltre che nella capitale venissero schierati sia l'esercito governativo che le truppe fedeli a Machar (ex ufficiali e soldati governativi), una clausola che anziché favorire la distensione ha imposto una convivenza forzata e problematica, in presenza di gravi fattori di rischio, come lo squilibrio numerico e di equipaggiamento tra i “due eserciti”.

Il ruolo dell'interposizione, in realtà, spetterebbe alla MINUSS, la missione ONU istituita lo stesso giorno della proclamazione dell'indipendenza del Sudan del Sud appunto per sostenere il governo di Juba “nel consolidamento della pace” e “nella prevenzione dei conflitti”. Con un organico iniziale di 7mila caschi blu, nel dicembre 2013 la risoluzione 2132 del Consiglio di Sicurezza ha deciso di inviarne altri 5.500, ma la missione finora non ha ottenuto successi di rilievo. Persino i campi allestiti per i rifugiati sono stati spesso oggetto di attacchi da parte delle fazioni armate, senza che il personale fosse in grado né di reagire, né di imporre sanzioni (gli estremi ci sarebbero, visto che si tratta di campi che ospitano civili). A gennaio di quest'anno, una squadra di osservatori ONU coordinata da Payton Knopf aveva espresso timori per il deterioramento della situazione, in particolare per i 2.3 milioni di profughi e i 3.9 milioni di persone a rischio di carenza di generi alimentari. Per questo, aveva invitato il Consiglio di Sicurezza ONU a votare per un embargo sulla vendita di armi a Juba, decisione finora ostacolata dal veto della Russia. L'accordo di pace del 2015, spiegava Knopf, è stato ripetutamente violato da entrambe le parti, rendendo il conflitto in Sudan del Sud paragonabile a quelli in Siria, Iraq e Yemen. Un blocco delle vendite di armi contribuirebbe dunque a ridurre la diffusione e l'intensità degli scontri, ma rischierebbe di essere inefficace se applicato al solo Sudan del Sud e non ai paesi vicini. Ad esempio, l'Uganda, che importa elicotteri da combattimento dall'Ucraina, ne ha a sua volta esportata una buona parte a Juba durante la guerra civile del 2013-2015.

Dopo gli ultimi scontri, l'11 luglio scorso il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon ha chiesto nuovamente al Consiglio di Sicurezza di imporre un embargo sulla vendita di armi a Juba. Ma, come conferma un rapporto pubblicato dalla Human Security Baseline Assessment (HSBA, che segue da vicino lo sviluppo dei conflitti in Sudan e Sudan del Sud), decretare un embargo non basta se non si può garantire che venga rispettato, una situazione già vista nella regione del Darfur, nel vicino Sudan. In questo caso, si legge nel documento, gli stessi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU non erano concordi sulla sua “legittimità e utilità”. Inoltre, all'eventualità di un embargo sulla vendita di armi a Juba gli Stati Uniti si sono opposti fino al 2015, motivando la loro contrarietà con la “preoccupazione” delle capacità di autodifesa del giovane stato africano. Per Washington, tuttavia, la minaccia dell'embargo si sarebbe potuta utilizzare per spingere le parti in conflitto alla trattativa. Cina e Russia, dal canto loro, potrebbero porre il loro veto, anche perché, secondo un rapporto diffuso dall'International Peace Research Institute (IPRI) di Stoccolma, sono tra i principali esportatori di armi in Sudan del Sud. In particolare, nel 2011 il primato spettava alla Russia, nel 2013 al Canada e nel 2014 alla Cina, che ultimamente ha “manifestato perplessità” sulla vendita di armi a Juba. Così, secondo l'IPRI, lo scorso anno il Sudan del Sud ha aumentato vertiginosamente l'acquisto di armi da “paesi sconosciuti”, ovvero da paesi che non dichiarano le loro attività di compravendita delle armi.

Questo giovane stato, che ha festeggiato lo scorso 9 luglio il suo quinto anniversario dall'indipendenza, ha trascorso la maggior parte della sua esistenza tra conflitti e contraddizioni: a partire dal fatto che il governo, pur guidando uno dei paesi più poveri al mondo e con un tasso di alfabetizzazione del 27%, nel 2014 ha acquistato da una compagnia privata ucraina una fornitura di elicotteri da combattimento MI-24 per 43 milioni di dollari. Un paese “balcanizzato”, dunque, che ha percorso lo stesso cammino che accomuna da un lato i paesi ex coloniali africani e mediorientali (i cui confini furono disegnati dalle potenze coloniali, il cui obiettivo era lo sfruttamento delle risorse, non la creazione di entità politiche equilibrate), dall'altro paesi come quelli balcanici, un tempo uniti dal comune riferimento della sfera di influenza politico-economica dell'Unione Sovietica. Un cammino segnato da profondi contrasti ideologici, confessionali, etnici o tribali, alimentati o istigati da gruppi di potere interni, a loro volta variamente sostenuti da potenze esterne. Una spirale etichettata come “balcanizzazione”, solo perché quella negli stati che componevano l'ex Repubblica federale jugoslava è la prima guerra sul continente europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Persino i nomi sono frutto di un assetto politico internazionale che continua ciecamente a rispondere agli interessi delle potenze mondiali. O meglio, delle oligarchie che li guidano.

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Last modified on Friday, 15 July 2016 09:35
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