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CONVERSAZIONE FILOSOFICA CON GABRIELLA GAGLIARDI: SUL DOLORE, LA MORTE, LA SPERANZA E LA GIOIA DI VIVERE
Gabriella Gagliardi |
Lo scoprirsi ammalati, improvvisamente traditi e abbandonati da quella cosa preziosissima (e spesso ignorata) che chiamiamo salute, ci getta, in modo del tutto imprevisto e incommensurabilmente doloroso, in una condizione in cui il senso di fragilità e di vulnerabilità arriva ad opprimerci l’anima e a toglierci il respiro. Tutto, all’improvviso, cambia colore, cambia sapore, cambia di valore e di significato. Nulla è e nulla potrà restare come prima. E, soprattutto, ci invade con prepotenza la consapevolezza che, mai e poi mai, riusciremo a ritornare, noi, come prima eravamo … ciò che prima eravamo.
Ma, proprio quando un sentimento di vertigine paralizzante ci stringe la coscienza, qualcosa può accadere. Qualcosa può accendersi in noi. Un varco, uno spiraglio può aprirsi. Può cominciare a respirare, dentro di noi, un nuovo soffio vitale e rivitalizzante. Può cominciare a percepirsi, lentamente (o anche travolgentemente) un nuovo respiro del mondo e un nuovo sorriso del mondo. Un nuovo modo, anzi, di sorridere nel mondo e al mondo.
Gabriella Gagliardi* ha vissuto e sta continuando a vivere un’esperienza difficile, un’esperienza che l’ha condotta a fare scoperte nuove e a riscoprire tesori antichi. E ce ne ha parlato in un piccolo ma densissimo libro**, in cui, pur partendo dal suo incontro con il dolore, riesce a regalarci echi di una saggezza lontana, capace di avvicinarci alla vita, di prenderci per mano per continuare, con nuova fiducia, nuovi cammini ricchi di infinite frontiere da oltrepassare e di nuovi territori da esplorare.
Con lei, per cercare di comprendere meglio la complessità e la ricchezza dei percorsi interiori che sta affrontando, è nata la seguente conversazione.
- Tu sostieni che il superamento di grandi difficoltà possa produrre una vera e propria trasfigurazione esistenziale.
In che senso, “superato l’ampio spettro di frastornanti sensazioni umane” (p.64), si finirebbe per approdare a “un mondo nuovo”?
La dolorosa consapevolezza della nostra fragile condizione di precarietà non potrebbe, assai più facilmente e prevedibilmente, farci apparire la terra e l’intero universo come un luogo tutt’altro che accogliente ed ospitale? In cui forse non varrebbe tanto la pena di vivere?
Propendo per una visione di segno fortemente positivo e intendo dire che c’è un “Mondo Nuovo” dopo la malattia, perché si guarda al mondo con occhi diversi. Quando un bene si sta per perdere, lo si apprezza e considera molto di più. C’è più consapevolezza del valore della vita. Si assapora ogni momento di essa. La vita non si arrende. Ha una forza sovversiva. E ci induce a godere anche del semplice ma grandioso incanto del quotidiano. Altro che non vale la pena di vivere!
In un certo senso, il dolore insegna, come ci hanno già detto gli antichi, in particolare i tragici greci.
Eschilo fa dire ad Agamennone: “Zeus a saggezza avvia i mortali, valida legge avendo fissato, conoscenza attraverso dolore.” (Agamennone, vv176 e ss). Cito anche la Karen Blixen: “La cura per qualsiasi cosa è l’acqua salata: il sudore, le lacrime o il mare”.
La malattia, dunque, ha una sua etica. L’etica della malattia è portare un bene all’anima.
Circa la seconda parte della tua domanda sono d’accordo con te a proposito della fragilità della condizione umana, ma questa, più che un vizio, potrebbe diventare un valore. In verità, siamo tutti dei “Sisifo”, ma Sisifo è un uomo che si sa fragile e impara a volersi tale. Sisifo non è un eroe, non è Eracle. Sisifo è uomo perché quella pietra è destinata a ricadere e il suo cammino a riprendere senza sosta. Certo, non è felice la sua costrizione, ma c’è da considerare il percorso, il viaggio, gli incontri, la condivisione della fatica. Stessa strada, stessa salita, stessa fatica. Egli lo sa. Eppure sale. E risale. Perché è come una “canna pensante” (Pascal) e soprattutto perché “la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo: bisogna immaginare un Sisifo felice”. Così ci dice questa bellissima frase di Camus. Io la condivido, e vedo in questo mito la metafora dell’esistenza umana: la vita è fatica e la fatica è vita. Ma anche con la fatica si può amare la vita.
- In che senso “la paura della morte” andrebbe distinta dalla “percezione della morte”?
Sì, “la paura della morte” è altro dalla “percezione della morte”. Nel senso, come dice Epitteto, che una cosa sono le cose, un’altra l’opinione che noi ci creiamo di esse. Quindi, una cosa è la “cosa-paura”, altra cosa la sua percezione. La prima è una realtà oggettiva, e reale appunto, la seconda è una espressione soggettiva e personale, l’idea che noi ci formiamo in quanto sensazione individuale. Potremmo sartrianamente parlare di puro cinestetico, di puro sentire. In particolare, poi, nel caso del paziente oncologico, la morte non è più qualcosa di generico e vago, come per tutti i mortali, ma si presenta in costante agguato: è percepita come una sorta di vero e proprio “avviso di scadenza”, addirittura forse come un pre-sentimento. La si tocca quasi con mano. Anche per questo, poi, una volta superato il rischio della morte reale, si vive meglio e di più! L’esperienza dello scampato pericolo ci fa rivivere. Diventa la nostra resurrezione. Si cerca sempre un di più, di tempo, di qualità, di desiderio,* di attività.
“Non muore il desiderio”, appunto!
- Tu fai riferimento, con grande delicatezza e con un velo di toccante poesia, alla serena saggezza di tua madre che amava ripetere : “Quando il Signore mi chiama sono qua.”
E dichiari anche che conquistare una analoga condizione di serenità rappresenta per te l’aspirazione più grande.
Ora, però, credo che sia impossibile sganciare la saldezza interiore di una persona come tua madre dalla sua visione della vita intrinsecamente religiosa, imperniata su incrollabili certezze relative alla sopravvivenza dell’anima e all’esistenza di una dimensione trascendente. Per cui, mi chiedo e ti chiedo:
tu che non abbracci (e non intendi abbracciare) una simile visione della realtà, restando ancorata ad una concezione di carattere ateistico, come pensi di poter mai riuscire a condividere con tua madre lo stesso atteggiamento di fronte all’evento della morte?
Prima di rispondere, devo fare due precisazioni, una su mia madre e una su di me.
Non credo che mia madre traesse la sua forza solamente dalla fede. Lei aveva una sua “saldezza interiore” - uso le tue parole - insita nel suo carattere: una spontanea saggezza, una dolcezza, una serenità e una gentilezza d’animo innate, con cui aveva affrontato sempre ogni esperienza della sua vita: cinque figlie, una guerra, il lavoro, la casa. Quindi, il suo essere così non era solo frutto della sua fede (e, fra l’altro, non era certo una bigotta, ma amava la vita e il piacere della vita).
A riprova di quanto affermo, basterebbe notare quante persone, convintamente cattoliche e credenti, non siano poi così miti, ma, all’opposto, inquiete, pessimiste, chiuse e, sovente, anche egoiste.
Per quanto riguarda me, poi, io non mi sento di potermi definire perentoriamente atea. Sono forse agnostica, più che altro incredula, dubbiosa, ma ho, a modo mio, sviluppato, nel corso degli anni, una particolare forma di religiosità, tutta mia e personale.
Talvolta, ho pregato e, dal pregare, ho potuto trarre sollievo. Strano? Contraddittorio? Può darsi, ma è così.
E, quindi, vengo a rispondere alla tua domanda, che potrebbe sembrare quasi retorica, su come io pensi di riuscire, da non credente, a condividere con mia madre lo stesso atteggiamento di fronte alla morte, dicendo che … questa è la mia scommessa.
La mia speranza è di poter raggiungere la stessa serenità ereditando il suo modello fatto di impegno, altruismo, solidarietà e fiducia. Spero, cioè, che la mia cultura, assieme a questi valori che costituiscono il mio bagaglio etico, possano, alla fine, premiarmi!
- Trovo molto bella l’esortazione di tua madre (“Vogliatevi bene!”) di fronte alla tragedia di una figlia morta: una sorta di pragmatica risposta di sapore leopardiano-schopenhaueriano all’ineffabilità e all’inaccettabilità del Male?
Sì, è proprio così. L’esortazione “vogliatevi bene” era una sorta di pragmatica risposta alla ineffabilità del Male. Con quella frase, era quasi come se mia madre avesse voluto dire: affrettatevi ad amarvi, non indugiate, non perdete tempo, non restate inerti. Perché si muore, e si muore anche giovani. E, così dicendo, affermava, senza rendersene conto, una profonda verità: il dolore trova la sua unica cura nell’amore.
- Da quello che hai scritto e dalle cose che mi stai dicendo adesso, emerge in maniera evidente il peso che la tua formazione filosofica ha esercitato sul tuo cammino interiore e sulle tue scelte di vita.
Ma quanto ti ha potuto aiutare l’esperienza della scrittura?
Passione filosofica e scrittura sono state la mia linfa vitale. La seconda ha avuto un valore non solo liberatorio, ma anche ludico e sublimante. L’io creativo che risponde all’io biologico. La libertà alla necessità!
Così è nato questo piccolo libro, che non è affatto uno scritto sul malessere, ma, anzi, sulla vita e sulla sua bellezza. Un elogio di essa.
Ho cercato di esprimermi in forma gradevole, e, finora, ho ricevuto lusinghieri apprezzamenti.
Una cosa a cui tengo molto è sottolineare che il ricavato delle vendite sarà devoluto alla Ricerca per la lotta contro il cancro. Per cui, mi auguro che, oltre al consenso della critica, ci potrà essere anche un generoso consenso di pubblico!
*Gabriella Gagliardi, nata a Salerno, laureata a Napoli in Filosofia Morale, vive da molti anni a Roma dove ha insegnato Filosofia, Pedagogia e Psicologia nell’indirizzo sperimentale pedagogico di un Istituto Magistrale.
**Gabriella Gagliardi
Psicologia del malato oncologico. Non muore il desiderio
Pag. 80
Euro 10
Armando Editore,
Roma 2019
N.B. Con la speranza di poter essere di aiuto a qualcuno, Gabriella Gagliardi sarà ben felice di ricevere commenti e opinioni di qualsiasi tipo:
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